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Autore Discussione: News dal PAESE che il PD deve fare MIGLIORE.  (Letto 29585 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 09, 2009, 05:06:17 pm »

La parabola dei sardisti da Lussu ai berluscones

di Giorgio Melis


Sardisti, chi erano costoro?
Nella memoria che sbiadisce, è sfuggito ai più il significato del termine, il senso della lunga storia connessa. Il richiamo alla Sardegna è oscuramente orecchiato in salsa leghista. Per la verità, c’è entrato anche Bossi, con i sardisti. Li ha corteggiati ma ne è stato respinto. Voleva per la sua Lega secessionista l’avallo di una nobile ascendenza: il Partito sardo d’azione (Psd’az), formazione federalista nata 88 anni fa. Battezzata col sangue dei fantaccini della Brigata Sassari, in cui transitò la meglio e intera gioventù sarda nella prima guerra mondiale. Lasciando nelle trincee il più alto numero (in proporzione) di caduti tra le regioni italiane. Tragico alone guerresco ed eroico simbolizzati nella leggenda di Emilio Lussu: nel 1945 tra i padri fondatori della Repubblica. Il partito è ridotto a poca cosa elettorale: meno del 2%. Non è per un pugno di voti che ora Silvio Berlusconi lo vuole alleato nella sfida elettorale, ormai diretta e personale tra lui e Renato Soru, per la Regione. Infatti il punto di partenza della notizia oscura - i sardisti chi? - è la scelta del Psd’az di allearsi col Cavaliere contro Soru. Sorpresa solo per chi non viva nell’Isola dei Mori, come la chiamava Luigi Pintor.

Il Partito sardo d’azione
Il Psd’az non ha quasi più niente delle origini. Era nato nel 1921 come movimento di liberazione. Il primo dopo un sonno millenario della Sardegna. L’isola senza marinai e pescatori era fuori dalla storia e dalla geografia. Anche più isolata al suo interno: gli abitanti separati perché quasi senza collegamenti, ostili e conflittuali. Terra da colonia: spagnola, piemontese, infine italiana. La scoperta di sé avviene nelle trincee della Grande Guerra, dove la sua gioventù è in massa alle armi. Combattendo e morendo fianco a fianco, prende coscienza che esiste un popolo di varie sardità, anche linguistiche, che si scopre e si riconosce per la prima volta. La sarditudine ritrovata sfocia nel dopoguerra in un movimento di reduci, autonomista, federalista, con tratti socialisti: organizza pastori, contadini e minatori sfruttati. Il Psd’az desta l’attenzione di Gobetti ma anche di Lenin. Gramsci, in Parlamento con Lussu, lo segue con occhio lungo. Croce dirà che è «il pre-partito di tutti i sardi». È antifascista: inaccettabile per Mussolini, che vuole con sé «gli intrepidi sardi» della «Sassari». Spaccherà il partito poi sciolto, Lussu è imprigionato, evade e sarà un protagonista nel ‘45. Ma il lungo sonno del fascismo ha fiaccato i grandi fermenti. Il partito del dopoguerra è imborghesito, Lussu l’abbandona. Restano grandi dirigenti pencolanti e logorati nel governo con la Dc prima, poi col Pci. Negli anni ottanta, l’ultimo ruggito. C’è un Re Leone: Mario Melis, presidente della Regione. È lui a dire no a Bossi: il sardismo è federalista ma europeista, non etnico, mai xenofobo. Poi il declino, fino al tracollo. Il segretario si candida (quasi clandestinamente ma non è cacciato) con la Lega: trombato con doppio disonore. Si chiama Giacomo Sanna. Con un neofita ex Cl-Dc, Paolo Maninchedda, eletto e transfuga da Soru, firmerà l’accordo con Berlusconi.

Il Cavaliere
Berlusconi vuole il marchio, sempre ambito: in passato dai leader nazionali, Enrico Berlinguer in testa. Si è riparlato di Fasciomori, quelli confluiti con Mussolini nel 1924. Contrapposti ai Rossomori di Lussu: così si chiamerà una lista fuoruscita dal Psd’az «berlusconizzato».

Si ironizza sull’intesa. Berlusconi col fard, idealmente nella storica bandiera, trasforma i Quattro Mori nei Cinque Abbronzati.

Stravagante, governando Soru, il Moro del duemila. Ha proiettato i valori del sardismo nella modernità ma ha urtato interessi a largo spettro. È il primo presidente eletto dal popolo: svolta non metabolizzata. Il rifiuto del capo è nei tratti genetici dei sardi.

Con Soru è stata consentita un’eccezione contestata: alle urne si vedrà se transitoria. Il rinnegamento del Psd’az («mai a destra»: era il patto fondante) peserà niente. È solo il segnale di una memoria non sbiadita, solo tradita.

09 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 20, 2009, 03:04:23 pm »

«Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione»

di Andrea Carugati


Angelo Guglielmi, 79 anni fino al prossimo 2 aprile, risponde al telefono dal suo ufficio di palazzo d’Accursio, la sede del Comune di Bologna. La voce è pimpante, si capisce che, dopo cinque anni a Bologna, da assessore alla Cultura di Cofferati, aveva voglia di tornare a Roma in prima linea. Ci tornerà a giugno, nella Capitale, alla scadenza del mandato. Ma avrebbe voluto e potuto rientrare in anticipo, per approdare alla guida della sua amata Rai.

Fu lui l’inventore e il direttore della Rai Tre degli anni d’oro, tra il 1987 e il 1994, che partorì programmi come Quelli che il calcio, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura. Ma il premier ha messo il veto sul suo nome. «Quando ho ricevuto la telefonata di Franceschini, lo scorso fine settimana, gliel’ho detto subito: “Io presidente della Rai? Sono lusingato, ma vedrai che non si farà...”. Poi ho cominciato a ragionarci sopra, e non sono riuscito a trovare nessun motivo ragionevole per cui il Berlusca avrebbe dovuto dire di no. Proprio nessuna. E allora ho iniziato cautamente a pensarci. Ma dentro di me restava una certezza: diranno di no».
Berlusconi avrebbe detto che lei è troppo avanti con gli anni...
«Franceschini gli ha risposto con prontezza: ha pochi anni in meno di Guglielmi, dunque non ha alcuna legittimità per tirare in ballo questo argomento. Io ne ho ancora 79, lui va per i 74. E poi non capisco: mi ha fatto la corte per anni perché passassi a dirigere una rete Mediaset...».

Racconti tutta la storia.
«Era il ‘92-’93. Mi ricordo una sera a casa di Costanzo, c’erano Confalonieri, Galliani, Dell’Utri. Scoprii che in realtà avrei avuto meno soldi a disposizione rispetto al budget della Rai, circa 50 miliardi contro 100. E allora dissi di no. Ma loro erano stati molto disponibili: avevo chiesto che con me si trasferisse praticamente l’intera Rete 3, e loro non fecero obiezioni. Loro volevano che guidassi Rete 4, che era in difficoltà, e noi rilanciammo con Italia 1. Anche lì non ci furono problemi. Mi ricordo che tra i più accesi sostenitori del mio passaggio a Mediaset c’erano Giorgio Gori e Mentana, che è stato appena cacciato...».

E allora perché non l’hanno voluta alla guida della Rai?
«Sto ancora cercando di capirlo, chissà, forse il no arriva da Tremonti. Ma un’idea ce l’ho: sarei stato l’unico, tra i nuovi vertici, ad avere una certa esperienza di televisione. Compreso il nuovo direttore generale in pectore, Mauro Masi, che finora si è occupato di tv solo come spettatore. Il centrodestra ha comunque una maggioranza bulgara: 5 consiglieri contro 3, di cui uno dell’Udc, che si muove secondo logiche proprie. Ecco, credo che abbiano avuto paura di un mio giudizio di merito, competente, sulle proposte al vaglio del Cda. Con quella maggioranza sono in grado di far passare anche la monnezza, ma io ho un naso in grado di fiutare certi odori...».

Forse l’hanno considerata bravo abbastanza per Mediaset, troppo per la Rai, che in fondo è il principale concorrente...
«Io avrei svolto un ruolo di minoranza, ma avrei potuto tirare fuori qualche argomento difficilmente contestabile. Altre motivazioni non ne trovo: se qualcuno me ne volesse suggerire, ne sarei felice».

Berlusconi ripete sempre di sentirsi 35 anni. Ecco che allora i suoi 79 appaiono tantissimi di più...
«È solo una battuta. Ma se la mettiamo su questo piano, allora io ne ho 40, sempre cinque di più. E poi scusi: si è parlato di spostare Zavoli dalla Vigilanza alla Rai, dunque l’età è una motivazione del tutto pretestuosa...».

Ha visto che il Pd non intende fare nuovi nomi dopo il suo?
«Ho visto. E allora delle due l’una: o il centrodestra si inventa un nuovo Villari, e temo che non sarebbe difficile trovarlo, oppure basta che Tremonti indichi il suo consigliere Petroni. A quel punto il Cda è in grado di funzionare, con la guida del consigliere più anziano. Che è uno di An».

Guglielmo Rositani.
«Esatto. L’altra volta, nel 2005, andò proprio così. Non si trovò l’accordo su nessun nome, e allora il Cda fu guidato per tre mesi da Sandro Curzi, il più anziano. Sandro mi disse che in quei mesi ogni tanto Berlusconi gli telefonava: “Perché sollecitate la nomina? Sei tu il presidente, approfittane...”».

Pensa che abbia pesato il suo essere stato sempre schierato a sinistra?
«Mi pare che la legge preveda che il presidente della Rai sia indicato dall’opposizione. Ma rispondo volentieri a Gasparri che mi ha accusato di essere un lottizzato. Ci fu una riunione tra Craxi, De Mita e Veltroni in cui decisero di includere il Pci nella gestione della Rai. Veltroni scelse me, che pure non ero mai stato iscritto al partito, né mai lo sono stato. Ho sempre votato per il Pci, ma con distanza. Ai tempi del “Gruppo 63” eravamo molto polemici, lontani dai realismi dei Guttuso e dei Pratolini. Pensavamo che il partito non fosse attrezzato per discutere di letteratura e creatività, escludevamo che la politica avesse l’ultima parola».

Veltroni l’ha sentito in questi giorni?
«No, assolutamente. Lui ha davvero passato la mano, ma Franceschini mi ha assicurato che la proposta aveva il consenso di tutto il partito».

Torniamo a quando Veltroni la scelse per la guida di Raitre.
«Lui era il responsabile Stampa e propaganda, quindi della tv. Aveva voglia di nominare un esterno, non pensava che gestire una rete volesse dire assumere segretarie e attrici e fare posto ai produttori amici, come andava di moda allora, soprattutto a Rai2. Non mi ha mai chiesto cose del genere. Ha capito che doveva puntare sulla qualità dell’offerta, perché ne avrebbe ricavato maggiori vantaggi. E infatti il riconoscimento fu unanime. E disturbò molto le altre reti, soprattutto Rai2: ricordo che Craxi pretese che Giuliano Ferrara passasse da Rai3 a Rai2».

Che giudizio dà della Rai di oggi?
«Non spetta a me dirlo, è sotto gli occhi di tutti: totalmente schiacciata su Mediaset, commerciale».

Ma lei cosa avrebbe fatto?
«Avrei cominciato a pensarci solo dopo la nomina. Non mi piace sognare anzitempo. Avrei avuto le carte per dare alla minoranza un ruolo critico, di controllo e di qualità. Le minoranze fanno questo: contenimento, denuncia, e talvolta, qualche correzione».

Come finirà la partita Rai?
«Come nel 2005, con il consigliere anziano».

E un’intesa Pd-Berlusconi su un nuovo nome?
«Mi sembra complicato, a questo punto».

Nel 2005 Petruccioli incontrò Berlusconi prima della nomina. Lei gli avrebbe fatto visita?
«Non avrei avuto problemi. Come capo della maggioranza, sarebbe stato suo diritto e suo dovere parlare con il presidente della Rai e fare le sue raccomandazioni».

Dai primi anni Novanta vi siete più incontrati?
«No, non più».

Lei cosa farà dopo l’esperienza a Bologna?
«Tornerò a Roma, per occuparmi più intensamente del mio secondo mestiere, la letteratura e la critica. E se mai dovesse arrivare una proposta all’improvviso...».
acarugati@unita.it


19 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:58:14 pm »

Se un discorso ti cambia la vita: tutti pazzi nel Pd per Debora Serracchiani


di Francesco Costa


Il suo è stato l'intervento più applaudito all'assemblea dei circoli del Pd. Il video con le sue parole è stato visto migliaia di volte su internet e su Youdem è dopo soli due giorni il video più visto di tutto il mese di marzo. Non parliamo di Dario Franceschini o di un altro dirigente nazionale del partito bensì di Debora Serracchiani, avvocato 38enne, consigliere provinciale del Pd a Udine e dirigente locale del partito. Ha preso la parola poco prima delle conclusioni del segretario e sicuramente nessuno si aspettava che il suo intervento potesse trascinare in questo modo la platea, riuscendo a dare una rappresentazione appassionata e fedele  delll'umore della base del partito dopo le polemiche e la crisi di consensi che hanno portato alle dimissioni di Walter Veltroni.

Un intervento concreto che è riuscito a riscaldare il pubblico senza cedere alle facili tentazioni della demagogia e della retorica anti-dirigenza: un elenco puntuale di critiche e osservazioni che ha toccato in modo semplice ed efficace tutti i tasti dolenti del partito – dalle indecisioni sul testamento biologico alla ricerca sfrenata di visibilità mediatica, dalla linea politica ondivaga al rapporto col partito di Di Pietro – per arrivare poi al passaggio centrale e più applaudito. «La verità è che in questi pochi mesi di vita del Partito Democratico ho avuto la netta impressione che l'appartenenza al nuovo partito fosse sentita molto di più dalla base che dai dirigenti».

Applausi a spellarsi le mani, ampi sorrisi da parte del segretario, urla di incoraggiamento di un pubblico formato esclusivamente da dirigenti locali come lei: coordinatori cittadini e di circolo, membri degli esecutivi regionali, provinciali e comunali. Persone che durante questi mesi hanno faticato per tenere in piedi il partito e che oggi guardano rinfrancate alla gestione del nuovo segretario: «Franceschini ha il compito di dare una credibilità nuova a questo partito e ci sta riuscendo alla grande».

La storia della politica recente ha visto diversi personaggi emergere dall'anonimato e lanciarsi verso brillanti carriere politiche grazie a discorsi particolarmente riusciti.
L'esempio più noto è quello di Barack Obama, poco più che sconosciuto quando nel 2004 prese la parola durante la convention democratica e impressionò i presenti con la sua storia e la sua abilità retorica. Un simile percorso è stato seguito da David Cameron, giovane leader dei conservatori inglesi e probabile prossimo primo ministro britannico, e da Maurizio Martina, 30enne segretario del Pd lombardo e membro dell'esecutivo di Dario Franceschini.

E' troppo presto per dire se il discorso di Debora Serracchiani rappresenterà il suo primo passo verso una carriera politica di livello nazionale. Quello che sappiamo già è che su internet il suo discorso sta girando parecchio, incontrando un gradimento praticamente unanime: decine di link e citazioni da parte di blog e gruppi di discussione, diversi gruppi su Facebook la vogliono segretaria del Pd se non addirittura presidente del consiglio. I più numerosi oggi sono «quelli che avrebbero detto proprio le stesse cose di Debora Serracchiani». Sono tanti, e sabato nelle parole di un dirigente locale del partito si sono uniti rivolgendo alla dirigenza del partito speranze e richieste.

Che si sappia: quando si parla di «radicamento sul territorio», si parla di loro.

23 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:04:08 am »

Civati: «Il Pd si salva ma deve fare autocritica»

di ma.ge.


«Il Pd è come il giocatore che arriva in tempo a toccare la base», commenta a caldo Giuseppe Civati, impegnato, da vero blogger Pd, ad aggiornare minuto per minuto il suo blog durante la lunga maratona elettorale. Usa una metafora sportiva Civati, consigliere regionale del Pd in Lombardia e uno dei più attivi nel gruppo di Piombino, per dire che «questi dati salvano un Pd che era crollato», ma non c'è da stare allegri. Anzi. «Il Pd dovrà fare una autocritica molto seria e riconsiderare il suo lavoro di opposizione», spiega Civati, che invita a il Pd a guardare con molta attenzione tanto al risultato dell'Idv quanto a quello dei radicali e delle due liste di sinistra. «La sinistra torna ad avere un 7% complessivamente, i radicali ottengono comunque un buon risultato», ragiona Civati, invitando il Pd a considerare il terreno perso sui temi laici. E d'altra parte: «Noi dobbiamo dare una risposta agli elettori che votavano il Pd e che ora votano l'Idv», spiega Civati.

È il dato generale di queste elezioni. «I due blocchi restano sostanzialmente invariati ma cambiano molto al loro interno».

L'altro dato – osserva il blogger politico – è che il Pd non va affatto male se confrontato con il quadro dei socialisti europei. «Alla fine – dice Civati con una battuta – sarà il Pse a chiedere al Pd di entrare nel suo gruppo». Una battuta, ovviamente, che fotografa la debacle socialista, in Germania e in Francia soprattutto «dove i socialisti hanno preso una legnata incredibile». Questo – conclude Civati - significa che «una soluzione socialdemocratica alla Bersani dal risultato di queste europee ne esce ridimensionata». E «di certo» i dati europei dicono che «chiudersi nelle rispettive casematte non paga».

Un dato lo entusiasma: il risultato di Cohn Bendit. «Noi abbiamo Pecoraro Scanio, ma se avessimo qualcuno di più “scrocco” chissà che risultati anche da noi».

08 giugno 2009
da unita.it
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:06:00 am »

L'unica corrente che vince è quella del coraggio

di Cristiana Alicata


Non è Berlusconi il problema. Non è lui a vincere. Il problema siamo noi, siamo noi che perdiamo, siamo noi che non “tocchiamo” le viscere del Paese.

L’Italia è come Roma. E’ stato Rutelli a perdere. Non Alemanno a vincere.

Tempo fa, durante una tappa della Carovana Democratica, coniai, nell’ indignazione generale, una definizione per la politica del Pd: una politica con il preservativo. Una politica che in qualche modo mantiene una certa distanza dalla “carne” del problema e finisce per avere una dose, ahimé, di sterilità. Fare politica con il preservativo significa affermare, per esempio, di volere essere laici, ma non avere, poi, il coraggio di firmare, come partito, la piattaforma dell’Ilga (International lesbian and gay association) firmata dai maggiori partiti europei a cui facciamo noi stessi riferimento. Significa vedere le adesioni dei singoli dirigenti di partito alla stagione dei Gay Pride, ma non avere mai sentito, dalla bocca dei candidati più quotati (se si escludono Scalfarotto, Serracchiani e pochi altri le cui firme trovate sul sito dell’Ilga) parole per una minoranza così tanto discriminata nel mese dell’anniversario di Stonewall. Nel mese in cui Obama, di là dall’oceano, dichiara giugno mese dell’orgoglio omosessuale.

Obama nominò la comunità omosessuale più volte durante la sua campagna elettorale. Lui nero. Accusato di essere filo-mussulmano. Se ne è fregato dell’opportunità. Non si è chiesto se fosse opportuno dire o non dire. E ne ha parlato, tra le nostre lacrime di cittadini discriminati in patria, nel suo commovente discorso di insediamento. Lo ha fatto su questo tema e su moltissimi altri. Il successo del discorso di Debora Serracchiani all’assemblea dei circoli, ci aveva cominciato ad insegnare qualcosa. Ci aveva insegnato che la gente vuole che la politica non parli per opportunità. Non pensi al proprio capo-corrente. Alla propria poltrona. La nostra gente vuole che diciamo cose inopportune. Cose coraggiose. Il coraggio è inopportuno. E noi vogliamo un PD inopportuno. Il coraggio coinvolge. E’ virale. Il coraggio porta la gente a votare. Porta la gente nei circoli.
Il coraggio non si chiede quanti voti perde. Si chiede che Paese vuole.

Il coraggio non attacca soltanto. Il coraggio propone. Come fa Mercedes Bresso che promette in 100 giorni una legge per le coppie di fatto in Piemonte. E lo fa sotto elezioni. Se ne frega dell’opportunità perché sa che è una cosa giusta. Il coraggio è Chiamparino che ospita la bandiera rainbow in municipio. Quando il PD si accorgerà del modello Piemonte, per esempio, e lo dico da romana che ha visto sgretolarsi il modello Roma, e ne farà buon uso?

E attenzione a chi dice che occupandosi dei gay non ci si occupa dei problemi del paese. Allora anche quando ci occupiamo di migranti. Di legge 40. Ogni problema può essere considerato NON importante rispetto agli altri. Un partito democratico NON può, non deve, fare la cernita della democrazia. Altrimenti non è davvero democratico. La questione omosessuale è solo la cartina di tornasole più evidente della nostra troppa codardia.
D’ora in poi, in questo partito, sosterrò soltanto la corrente del coraggio e mai più quella dell’opportunità.

07 giugno 2009
da unita.it
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:13:15 am »

8/6/2009 (21:45) - PERSONAGGIO

La Serracchiani batte Berlusconi: "E' la Rete che mi ha dato slancio"
 
La giovane candidata Pd fa il pieno di preferenze nel Nord-Est, meglio del Cavaliere.

"E' un dato esaltante"

ROMA


«Mi sveglio, un occhio ai dati e ... in Friuli Venezia Giulia Debora batte "papi" 73.910 a 64.286». Debora ce l'ha fatta, sfruttando la forza del web: non c’è dubbio, infatti, che nell’elezione di Debora Serracchiani al Parlamento europeo per il Pd nella circoscrizione del Nordest un ruolo fondamentale l’abbia svolto proprio la rete.

Fu infatti un intervento della giovane avvocato udinese - nata a Roma 39 anni fa, ma friulana d’adozione - all’assemblea dei circoli del Pd la primavera scorsa e pubblicato sul web a lanciare la ragazza alla ribalta della politica nazionale. Le sue critiche alla leadership del partito, le sue invettive contro i ’solonì del Pd ebbero una rapidissima diffusione. E sul web scoppiò la ’deboramanià. In pochi giorni il suo clip venne visto e ascoltato da centinaia di migliaia di giovani e meno giovani. Tanto che il segretario del Pd, Dario Franceschini, dovette prenderne atto e candidare Debora alle europee.

Poi, quella che all’inizio era "solamente" una giovane avvocato, piccola e timida, si è via via trasformata in cigno. Un cigno straordinario, capace, in Friuli Venezia Giulia, di battere nelle preferenze addirittura Silvio Berluscioni (73.910 preferenze contro 64.286 del premier) e di volare letteralmente a Strasburgo con oltre centomila preferenze. Politicamente Serracchiani ’nascè nel 2006 quando arriva al consiglio provinciale di Udine, eletta nei Ds. Diventa capogruppo e dall’opposizione si fa notare per interventi precisi e decisi. Poi la ’battaglià con la collega Maria Teresa Burtolo per la guida del Pd a Udine e, infine, la sua partecipazione all’assemblea dei circoli.

«Sono felicissima di aver battuto Berlusconi - ha commentato oggi - e questa giornata valeva la pena di essere vissuta se non altro per questo.
Ma devo ringraziare Franceschini che ha sempre creduto in me, fin dal primo momento. Nonostante le mie dure critiche. E poi il partito. Ha lavorato tanto e bene sul territorio. Ma non c’è dubbio - ha concluso Debora - che è stata la rete a darmi quello slancio necessario a raggiungere questo risultato eclatante».

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:15:49 am »

9/6/2009 (7:34) - IL VOTO. IL CENTROSINISTRA

Pd verso match Franceschini-Bersani
 
Ma ora i giovani puntano su un candidato di rottura

FABIO MARTINI

A mezzogiorno meno cinque Dario il «descamisado» si è rimesso la giacca, ha indossato una cravatta rossa ma non troppo e si è alfine presentato nella sala stampa del Pd per depositare gli slogan e i «sonori» da far diffondere attraverso tg, agenzie, giornali, Televideo. Primo messaggio di Dario Franceschini: «Il voto ha fatto svanire il mito dell’invincibilità di Berlusconi», «la maggioranza nel suo complesso non ha superato il 50% e dunque è minoranza nel Paese». Il Pd? «Ha centrato l’obiettivo di radicarsi e di continuare il rinnovamento della propria forza». E quanto alla parola sconfitta, Franceschini si è guardato bene dal pronunciarla e semmai l’ha declinata come verbo: «Gli avvoltoi che per mesi ci hanno girato attorno nel tentativo di mostrare che questo voto avrebbe rappresentato la fine del Pd, sono stati sconfitti». Franceschini ha esternato due ore prima che iniziasse l’insidioso spoglio delle elezioni provinciali e comunali e ha dunque preferito «surfare» sul controverso risultato ottenuto alle Europee.

Ma dopo l’altalenante nottata domenicale, ieri mattina il Pd si è risvegliato più magro - e questo si era capito subito - ma anche più «bianco». E questa è la vera novità. Un Pd più bianco perché la quota di voto di sinistra si è ulteriormente abbassata dopo che il Pdl è diventato il primo partito in due regioni rosse, come Umbria e Marche. Più bianco perché dei 22 europarlamentari eletti, soltanto la metà sono ex ds, con un recordman delle preferenze, David Sassoli, fortemente voluto da Dario Franceschini. Più bianco, perché per dirla con Pierluigi Castagnetti «le difficoltà dei partiti socialisti europei hanno chiuso la prospettiva socialdemocratica e hanno intrecciato i nostri destini». Ma anche un Pd più magro, molto più magro: secondo quanto rilevato dall’Istituto Cattaneo di Bologna, il Partito democratico ha perso 2 milioni di voti rispetto alle Europee del 2004 e oltre 4 milioni rispetto alle Politiche del 2008.

E così, da ieri si è ufficiosamente aperta la stagione congressuale, in vista della resa dei conti genericamente fissata per ottobre. Per il momento il gioco delle parti ha proposto un auto-candidato, l’ex ds Pierluigi Bersani, che non ha mai ritirato la sua disponibilità; e un segretario in carica, Dario Franceschini, che ha sempre detto che lui avrebbe traghettato il partito sino al congresso e poi si sarebbe messo da parte. Andranno fino in fondo entrambi, l’uno candidandosi e l’altro ritirandosi? Chi lo conosce bene, assicura che Franceschini, accetterà la nomination soltanto se glielo chiederanno, perché non ha intenzione di lanciarsi in un «corpo a corpo» contro Bersani. Vero? Verosimile? Una cosa è certa. A 48 ore dal voto europeo, nessuno dei notabili ha ringraziato Franceschini, anche se il suo sodale Beppe Fioroni spinge per la ricandidatura: «A ottobre Dario termina e poi riparte». E quanto a Bersani conferma che lui sarà in gara, quando dice che «il Pd è al mondo, ma non va bene così», che il partito deve andare «oltre l’esperienza socialdemocratica». E Massimo D’Alema? Sosterrà il suo amico e compagno Pierluigi in una battaglia interna di contrapposizione? «Aspettiamo...», dice un dalemiano doc come Nicola Latorre. Ma se Bersani tenesse duro, nella coalizione che sostiene Franceschini, c’è chi vagheggia altre soluzioni.

Due giorni fa, chi attraversava il «piano nobile» di largo Nazareno, ha carpito una battuta scherzosa di Walter Verini, braccio destro di Veltroni: «A me interessa soltanto il risultato della Serracchiani!». Certo, una battuta, ma intanto Veltroni è salito sino in Friuli per fare un comizio assieme a Debora. E la Serracchiani ha dietro di sé anche un drappello di accaniti innovatori, i «piombini» guidati dal prodiano Sandro Gozi e dalla veltroniana Paola Concia e che si sono già dati appuntamento al Lingotto per fine giugno. Dice la Concia: «Con il Pd competente e chiaro incarnato dalla Serracchiani, Berlusconi si può battere».

Ma non c’è solo Debora. Se davvero Franceschini dovesse gettare la spugna, ma pochi ci credono, dal suo fronte potrebbero uscire diverse ipotesi. A cominciare dal recordman David Sassoli e dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino. «Noi del Pd siamo al bivio: dobbiamo scegliere tra Idv e Udc»: così Marco Follini, senatore del Partito democratico, ha analizzato l’esito del voto. «La difficoltà più grande è quella di Berlusconi - ha affermato Follini, ospite di Red Tv - che aveva indicato il 40% come facile obbiettivo per il Pdl. Solitamente indiceva i referendum e li vinceva. Stavolta l’ha indetto e ha perso». «L’Italia - ha proseguito - non è un paese bipolare: la somma dei due partiti maggiori comincia a scendere. Il centro non è l’ago della bilancia: dev’essere ciò che unisce il paese e non ciò che lo divide. Noi del Pd siamo al bivio che ha spiegato l’Osservatore Romano: dobbiamo scegliere tra Idv e Udc».

da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:24:32 am »

EUROPEE

L'antivelina che ha battuto "Papi" sulle preferenze

Simona Caselli 47 anni, in lista per il Pd alle Europee ha raccolto più "gradimenti" di Berlusconi nella Parma governata dal centro destra e nel Parmense


di Marco Severo

 Ora tutti la cercano. Televisioni, giornali, radio. Il suo telefonino, a un certo punto, cede di schianto e per mezz’ora non dà più segni di vita: “Chiedo scusa – dice lei riaffiorando dal blackout – ma da stamattina il mio cellulare non ha mai smesso di squillare”.

E pensare che fino a ieri quasi nessuno conosceva Simona Caselli - 47enne parmigiana, dirigente del Consorzio cooperativo di Reggio Emilia e candidata Pd per le europee nel nordest - la donna che a Parma ha battuto Papi Berlusconi. Nientedimeno. E adesso invece eccola qua, sulle home dei siti internet, contesa dagli intervistatori che già parlano di “rivincita nostrana sulla politica delle veline”. Di politica fatta per strada, tra la gente. Mica a villa Certosa tra le miss senza veli. L’unico spoglio che interessa, alla Caselli, è infatti quello delle schede per le europee. E da stamattina la sua performance è da urlo: 5635 preferenze in città contro i 5174 voti di Silvio. Allargando lo zoom all’intera provincia, invece, è Papi che ancora conduce 10973 a 10286.

“Ma mancano ancora i risultati di Fidenza – precisa la Caselli – dove mi dicono che posso contare su altri 300 voti”. A questi, alla fine della fiera, andranno aggiunti i circa 2500 già quasi impacchettati a Reggio Emilia, i 2000 del Friuli e altrettante preferenze in arrivo da Forlì. “Non è escluso che, con il conteggio definitivo, riusciamo a toccare quota 20mila”. E però calma, piedi ben piantati a terra. “Figuriamoci – sorride Simona – non sono certo il tipo da farmi prendere la mano. Fino a pochi giorni fa nessun giornale era disposto a darmi spazio. Sono abituata ad essere realista”.

Di sicuro, comunque, si può dire che un risultato del genere era inatteso: “Vero – conferma l’antiPapi - non speravo in tanto, anche se parecchi segnali di apprezzamento mi erano venuti durante la campagna elettorale”. Ecco, la campagna elettorale. “E’ stata una faticaccia, partita appena un mese e mezzo fa e costata un enorme sforzo ai miei collaboratori, tutti volontari”. In pochi giorni s’è dovuto pensare a un ufficio stampa, allestire un comitato elettore, stilare un programma per i comizi. 
“Tuttavia è stata un’esperienza fantastica, costruita giorno dopo giorno con il dialogo con la gente, con l’ascolto, con il contatto più autentico”. La politica del porta a porta contro quella dei salotti e dei maggiordomi televisivi: “Sì – ride la Caselli – credo proprio che la mia vicenda, caratterizzata dall’assoluta povertà di mezzi mediatici, dimostri come ancora sia possibile fare politica in maniera tradizionale”.

E vincere. Grazie anche a un programma semplice e chiarissimo: “ Punto primo, serve più rigore finanziario in Europa. Basta con la deregulation dei mercati. E poi stop ai compensi a brevissimo giro per i manager. D’ora in poi a Strasburgo occorrerà più attenzione ai programmi di lungo respiro, che sappiano cioè guardare al futuro in maniera organica”. Volando un poco più in alto di villa Certosa. Anche senza aerei di Stato.

(08 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:32:40 am »

La sinistra svanita nel profondo Nord

Formigoni ha messo le mani avanti con la sua ricandidatura, ma la Lega ora è al 22,7


Pavia, vinta. Cremona, vinta. Lecco, vinta… Nel primo pomeriggio la Lombardia del voto è tutta da una parte, Popolo della Libertà e Lega si prendono Comuni e nuove Province, nei territori dell'impresa diffusa ritorna il profondo Nord e si ammainano le bandiere del centrosinistra. Si fa prima a contare quel resta del Partito democratico in una Regione trafitta dai simboli del centrodestra, perché cadono in rapida sequenza città e giunte storiche, da Bergamo a Brescia, a Sondrio l'impennata della Lega trascina l'alleanza verso uno storico en plein. Se non ci fosse il caso Milano, con l'insperato ballottaggio in Provincia conquistato dal presidente uscente Filippo Penati, nell’analisi del voto a sinistra ci sarebbe soltanto il bilancio di un disastro annunciato. Al di là delle percentuali bulgare raggiunte dalla Lega nelle enclave da sempre fedeli, c'è l'andamento stabile del Popolo della Libertà che mantiene il suo 33 per cento dei voti e conferma un primato difficile da insidiare. A questo punto la prossima partita si giocherà in casa, nella scelta del futuro presidente della Regione. Roberto Formigoni mette le mani avanti con la sua ricandidatura: l'alleato leghista adesso è un vero competitor, con il 22,7 per cento dei voti il Carroccio diventa secondo partito, davanti anche al Pd: il futuro, per la sinistra in Lombardia, è tutto da ricostruire.

Nemmeno la crisi di Malpensa e le baruffe sull'Expo hanno inciso sull'esito di un voto che non è mai stato in discussione. Non c'è mai stata incertezza: neppure per la nuova provincia di Monza, incamerata al primo turno dal presidente Dario Allevi. Era nell'aria il boom del Carroccio, l’hanno costruito con la battaglia sui clandestini e l’hanno cercato con pazienza centinaia di militanti che non disdegnano di passare la domenica davanti ai banchetti disseminati nelle piazze delle città e dei paesi. Sotto le bandiere biancoverdi dove si raccolgono firme e si annunciano impegni, si chiedono anche i voti per rafforzare la sicurezza e allontanare gli irregolari. Soffia un vento di paura nella Lombardia dove aumentano le rapine, gli anziani si sentono indifesi e la droga alimenta l'esercito delle piccole illegalità. Si vince anche con parole chiare: la Lega, il Pdl, le trovano; la sinistra no. Nel controllo capillare del territorio la nuova generazione di politici leghisti occupa lo spazio lasciato vuoto dall'organizzazione del vecchio Pci. Il voto premia anche la presenza. C'è da riflettere nell'area progressista sull'eccesso di politica virtuale e sulle piazze lasciate agli avversari: ma pesa anche la scomparsa di una classe dirigente. Può aiutare l'analisi della sconfitta il risultato strappato dal presidente uscente della Provincia, Filippo Penati, un ex sindaco che calpesta il marciapiede e in campagna elettorale si è mosso come un militante leghista, svincolandosi dai criteri dell’appartenenza, appoggiando la linea dura sui clandestini e anche le ronde. Per un pugno di voti Guido Podestà, il candidato del Popolo della Libertà, non è passato al primo turno.

Il Partito democratico ha due settimane per l’ultimo appello, ma lo schiaffo del Nord è un avvertimento pesante: avanti così, si perde.

Giangiacono Schiavi
09 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Luglio 08, 2009, 12:45:36 pm »

8/7/2009 (6:15) - IL VERTICE

Hillary Clinton: così batteremo la fame
 
L'ho deciso con Obama: basta con aiuti d'emergenza, è l'ora dell'economia sostenibile


Questa mattina un miliardo di persone nel mondo si sono svegliate affamate. Questa sera andranno a letto senza cena. Oggi, in un villaggio del Niger, una donna dovrà camminare per chilometri in cerca di acqua potabile per la sua famiglia. Oggi, ad Haiti, la frutta prodotta in eccedenza da un agricoltore finirà per marcire perché non ha i mezzi per conservarla e portarla poi al mercato.

Oggi, in Congo, una famiglia scapperà dalla guerra che ha lasciato la sua fattoria e suoi campi devastati. E oggi, in una scuola del Bangladesh, i bambini non riusciranno a seguire le lezioni perché deboli e malnutriti.

La fame non è soltanto una condizione fisica, è un freno alla crescita economica, una minaccia alla sicurezza globale, una barriera per la salute e l'educazione, una trappola per milioni di persone in tutto il mondo, che lavorano dall'alba al tramonto tutti i giorni ma riescono a malapena a produrre abbastanza cibo per se stessi e le loro famiglie.

La domanda non è se potremo eliminare la fame - possiamo -, ma se lo faremo. E' una sfida alla nostra comune umanità e determinazione. Gli Stati Uniti sono determinati a fornire la leadership necessaria allo sviluppo di un nuovo approccio globale per sconfiggere la fame. Per troppo tempo la nostra principale risposta è stata quella di mandare aiuti di emergenza quando una crisi era al suo culmine. Un modo per salvare vite umane, ma che non risolve le cause alla radice. E', tutt'al più, una soluzione a breve termine.

Per questo noi sosteniamo la creazione di una agricoltura efficace, sostenibile, nelle regioni dove i sistemi attuali non funzionano. Aiuteremo i Paesi a portare avanti strategie volte a soddisfare i loro bisogni specifici; per esempio, attraverso il Piano per lo sviluppo dell'agricoltura in Africa, che ha lanciato un processo di sviluppo guidato dalle nazioni africane, in collaborazione con tutti e senza esclusione di nessuno.

Abbiamo poi identificato sette principi sui quali basare una agricoltura sostenibile nelle aree rurali in tutto il mondo.
Primo: l'Amministrazione Obama cercherà di incrementare la produttività agricola allargando l'accesso a semi di alta qualità, a fertilizzanti, sistemi di irrigazione e linee di credito per procurarseli e imparare a usarli.

Secondo: lavoreremo per stimolare il settore privato a migliorare lo stoccaggio e la lavorazione del cibo, migliorare le strade nelle campagne e i mezzi di trasporto, in modo che i piccoli agricoltori possano vendere i loro prodotti sui mercati locali.

Terzo: siamo determinati a preservare le risorse naturali in modo che la terra possa essere coltivata dalla generazioni future. Ciò include anche aiuti per fronteggiare i cambiamenti climatici.

Quarto: espanderemo la conoscenza e l’addestramento appoggiando programmi specifici di ricerca e sviluppo e coltivando la prossima generazione di esperti di piante.

Quinto: cercheremo di aumentare il commercio mondiale in modo che i piccoli agricoltori possano vendere i loro prodotti anche su mercati lontani da loro.

Sesto: daremo il nostro sostegno alle politiche di riforma e corretta gestione. Abbiamo bisogno di politiche responsabili e di regole chiare per far prosperare l'agricoltura.

Settimo: aiuteremo le donne e le famiglie. Il settanta per cento dei contadini del mondo sono donne, ma la maggior parte dei programmi che offrono crediti e corsi di formazione agli agricoltori sono rivolti soprattutto agli uomini. Questo è ingiusto e poco pratico. Una agricoltura efficace deve prevedere incentivi per quelli che davvero lavorano, e deve tener conto dei bisogni particolari dei bambini.

Nessuna nazione, da sola, può fare tutto questo da sola. Lavorando insieme, credo che potremo mostrare la volontà necessaria a mettere fine alla fame nel mondo, ad aprire una nuova era di progresso e prosperità. E' il nostro obbiettivo. E' la nostra sfida.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:31:24 pm »

Chiamparino presenta un documento congressuale: bene Marino ma io non mi schiero.

Il Pd è malato di correntismo

"Apriamo il partito a chi sta fuori ripartiamo dall'esperienza dell'Ulivo"


di PAOLO GRISERI

 

TORINO - Abbandonare il vecchio Pd. Uno slogan provocatorio per un partito nato due anni fa: "Ma un esercizio necessario, soprattutto se quella nascita è stata viziata da una grave malattia genetica". Parla così Sergio Chiamparino, sindaco e candidato mancato alla segreteria nazionale del partito.

Chiamparino, qual è la malattia genetica del Pd?
"Il correntismo esasperato".

Un virus nuovo nella politica italiana?
"Non è nuovo ma ha contagiato anche noi. Si ricorda il comitato dei 45 che avrebbe dovuto dare vita al partito? Ogni correntina aveva il suo uomo. C'erano Agazio Loiero, Luciana Sbarbati. C'era addirittura Lamberto Dini".

Perché ce l'ha con Dini?
"Mah, era così convinto di fondare il nuovo partito che adesso sta con Berlusconi".

Nel comitato dei 45 lei non c'era. È ancora arrabbiato?
"Non mi arrabbiai per me ma per il fatto che quell'organismo fosse frutto di un manuale Cencelli".

Dopo due anni non possiamo considerarla acqua passata?
"Lo farei volentieri. Ma il problema è proprio questo, che continuiamo a galleggiare nella stessa acqua".

Il nuovo congresso figlio del vecchio Pd?
"Vedo questo rischio ed è per questa ragione che ero contrario a tenerlo prima delle regionali dell'anno prossimo".

Fa parte del vecchio Pd anche la polemica D'Alema-Fassino?
"È uno scontro che certamente provoca sofferenze personali a tutti e due. Ma a chi parla quel confronto? Quale parte della società italiana può appassionarsi a quella discussione?".

Come sarebbe, invece, il congresso di un partito nuovo, di un nuovo Pd?
"Proverò a rispondere con un documento congressuale in tre punti. Il primo è la capacità del partito di raccogliere le indicazioni dei territori e della società".

Cioè?
"Se una parte della società è garantita e una parte non lo è, un governo di centrosinistra dovrebbe spostare risorse verso chi è meno garantito per realizzare una maggiore giustizia sociale".

Chi ci perde e chi ci guadagna?
"Beh, forse ci perderebbero i dipendenti pubblici e magari ci guadagnerebbero i lavoratori dell'industria. O vogliamo lasciare questa bandiera a Brunetta?".

Gli altri punti del suo documento?
"La laicità è molto importante. Questo è uno dei motivi per i quali apprezzo la candidatura di Ignazio Marino".

Starà con Marino?
"Non penso che mi schiererò. Però la candidatura di Marino ha il pregio di rompere gli schemi del vecchio Pd".

Come dovrà discutere il nuovo Pd?
"Questo è il terzo punto del documento. Dovrà essere un partito che ha sempre uno spazio vuoto al suo interno per accogliere chi vuole aggregarsi e oggi sta fuori. Un partito permeabile, in grado di attirare".

Dovrà attirare più a destra o a sinistra?
"A destra e a sinistra. L'importante è che arrivino forze nuove dall'esterno. Solo così si superano le incrostazioni e si curano le malattie genetiche".

Tutti insieme da Vendola , ai Verdi, alla Binetti?
"Penso a un partito che raccoglie tutta l'esperienza dell'Ulivo".

Dalla coalizione a un'unica forza politica?
"Penso che sia possibile lavorare in quella direzione".

Altrimenti?
"Altrimenti rischiamo l'asfissia".

(10 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:32:37 pm »

Il segretario alla manifestazione organizzata da Fassino a Roma promette un Pd laico

L'ex presidente del Senato: "La componente della Rosa è una ricchezza"

Franceschini: "Vincerò senza sconfitti"

Marini: sì all'ingresso dei Radicali

di GIOVANNA CASADIO

 
ROMA - "Un po' d'orgoglio, santodio".
Dario Franceschini scalda la platea più eterogenea mai riunita in vista della sfida per la leadership del Pd. Chiamati da Piero Fassino per parlare delle cose da fare, ci sono ex Ds ma anche molti "amici personali di Piero", gente che ancora non si schiera. Umberto Veronesi, lo scienziato e testimonial delle battaglie laiche, è in prima fila ("Sono indipendente, ma sono un estimatore di Fassino"); poco più in là la teodem Paola Binetti ("Inaccettabili molte delle cose che sento"); Furio Colombo ("Non ho scelto, ho visto anche Marino"), Sergio Cofferati ("A disagio con Dario? Assolutamente no") Beppe Fioroni, il leader popolare, che invece non è per niente a suo agio, e rutelliani in ordine sparso.

Ma Franceschini - segretario in carica e ricandidato contro Pierluigi Bersani e Ignazio Marino - punta a svelenire il clima dopo le polemiche delle settimane passate: "Noi vinceremo questo congresso senza sconfiggere nessuno, ma per far vincere un'idea di Pd, Non dobbiamo temere il congresso, da lì uscirà un leader stabile". E questa volta non parla tanto di innovazione, quanto di laicità e alleanze. L'assist sulla laicità glielo dà Fassino: "Dario ha tenuta ferma la barra della laicità", dice l'ultimo segretario ds, e ricorda la lettera dei cattolicidemocratici nel momento più critico del rapporto tra il governo Prodi e il Vaticano sui Dico, la legge sulle unioni civili. E Franceschini: "La laicità è un principio indispensabile e sacro, si ascoltano tutte le voci, anche quella della Chiesa, ma poi si decide secondo il principio sacro della laicità dello Stato. E deve essere uno dei valori costituenti del Pd". Né il partito che deve avere paura "di decidere a maggioranza anche sui temi più difficili come quelli bioetici". Ricordando il caso di Eluana Englaro: "È insopportabile uno Stato e un Parlamento che fa una legge di notte per impedire che una ragazza, una famiglia prenda una decisione in coscienza".

All'insegna del pluralismo e della laicità anche l'apertura di Franco Marini ai Radicali. L'ex presidente del Senato è in prima fila allo Spazio Etoile di San Lorenzo in Lucina nella manifestazione organizzata da Fassino. Poco prima, in una conversazione a Radioradicale con Marco Pannella e Massimo Bordin, rilancia: "Io dentro questo partito, nel Pd, ci vedo a pieno titolo anche la componente radicale. Quando mi attaccano "tu, popolare che vai d'accordo con i radicali", io mi incazzo subito: questi sono una ricchezza".

Quindi, il tema delle alleanze. Bersani, alla festa dei giovani democratici a Sarzana, ribadisce che bisogna creare dei "rapporti di alleanze senza escludere nessuno e che il Pd deve pertanto avere la forza di mettere in moto un'organizzazione di centrosinistra". Dal canto suo Massimo D'Alema, che lo appoggia, insiste: "Quello delle alleanze è l'unico cammino da percorrere, negli ultimi quindici anni quando ci siamo presentati da soli ha vinto Berlusconi". Rispondono Fassino e Franceschini: "Nessuna autosufficienza solitaria", però mai più un'accozzaglia di alleati come fu l'Unione bensì un forte baricentro rappresentato dal Pd e dal suo programma. Le primarie, inoltre. Una scelta salutare che non significa però rinunciare a un partito radicato, di circoli: "Penso al Pd come un partito di militanti aperto agli elettori delle primarie. E i circoli non siano solo uno strumento per conte congressuali". Lodi di Dario a Piero per "l'intelligenza politica e il coraggio". Il 16 kermesse di Franceschini in Toscana.

A raccogliere molti consensi nella società civile è intanto il terzo candidato, Ignazio Marino, chirurgo e senatore, in prima linea nelle battaglie bioetiche: "Vinco io. Alle primarie gli italiani sceglieranno me come candidato più innovativo".

(10 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Luglio 14, 2009, 06:18:25 pm »

LA NEWSLETTER NAZIONALE DEGLI ULIVISTI


A tutti gli Ulivisti


Roma, 13 luglio 2009

La presente é per inviarti un documento contenente alcune riflessioni e proposte avanzate in vista dell'avvio del percorso congressuale che si va in questi giorni aprendo.

Il documento é stato inviato ai Democratici che hanno in questi giorni manifestato, anche se non ancora compiutamente formalizzato, l'intenzione di candidarsi alla guida del Partito Democratico come segretario nazionale.

Come potrai rilevare il documento auspica il rispetto di alcune precondizioni al fine di consentire al partito di trarre la massima utilità dal passaggio che ci attende attraverso il rafforzamento della natura politica del confronto, e il contenimento del rischio che la scelta alla quale siamo chiamati sia troppo segnata da contrasti personalistici.

Il documento é stato da me predisposto con l'aiuto di alcuni amici parlamentari e in particolare di Mario Barbi, Antonio La Forgia, Fausto Recchia, Albertina Soliani e Sandra Zampa, che assieme a me si sono fatti carico di interpretare le attese e le preoccupazioni di un più largo gruppo di democratici che, nel corso degli ultimi quindici anni, hanno condiviso con noi esperienze e scelte.

Ti sono grato per l'attenzione che vorrai dedicare alle questioni sollevate nel documento; e qualora condividessi le proposte in esso avanzate, ti sarò grato se vorrai manifestare pubblicamente la tua opinione al riguardo ed eventualmente la tua disponibilità a partecipare a conseguenti iniziative comuni.

Ti saluto intanto con la più viva amicizia


Arturo Parisi





Un partito aperto per difendere la sovranità dei cittadini
Precondizioni per una scelta
11 Luglio 2009
Il contesto nel quale il percorso congressuale del Partito Democratico prende il via, reso drammatico dalla crisi internazionale, ci ricorda che molte sono le questioni che attendono una risposta. Innanzitutto una proposta che si faccia carico dei problemi di lungo termine che sfidano il nostro Paese.

Di questa proposta noi sappiamo al momento due cose. La prima é che se i problemi a noi di fronte sono di lungo termine, di lungo termine deve essere la risposta: un progetto per il cambiamento della società non un semplice programma di governo di legislatura e meno che mai un insieme di singoli atti di governo. L’Italia è immersa in una notte profonda: le sue strutture sociali, economiche e istituzionali sono logorate. Il Paese è demoralizzato, il senso della sua civiltà è minacciato. Non saranno la speranza di consumare di più, o la maschera grottesca di un premier a trarci da una crisi che ci attraversa e ci supera per dimensione e profondità. La seconda condizione é che questo progetto deve far conto su istituzioni forti perché fortificate dall'esercizio della sovranità dei cittadini attraverso la moltiplicazione e soprattutto la valorizzazione delle occasioni di partecipazione, contrastando l'allontanamento dalla politica e la sfiducia verso le istituzioni che va diffondendosi nella società.

Per questo motivo rispetto ad ogni proposta riteniamo discriminante la difesa dell'assetto bipolare fondato su un sistema maggioritario che dia al cittadino il potere di scegliere il governo del Paese prima delle elezioni sulla base di una proposta programmatica avanzata da una alleanza politica omogenea.

Per questo motivo abbiamo scommesso sulla valorizzazione della forma partito, superando il movimentismo e lo spontaneismo che aveva segnato alcuni passaggi dell'ultimo ventennio, e, tuttavia non su un partito chiuso in sé stesso, ma un partito aperto ai cittadini che rafforzasse la sovranità dei cittadini.

Per questo chiediamo che il Partito democratico sappia rendere vero il suo nome.

Solo un partito può camminare su quel ponte che lega il passato col futuro che é rappresentato dalle istituzioni della Repubblica. Solo un partito può essere canale per la elaborazione di un progetto di lunga durata che vada oltre le legislature e i governanti di turno.

Per questo motivo abbiamo affidato la scelta del nostro futuro agli elettori demandando a loro la più importante delle scelte in un partito: la designazione del segretario politico, e allo stesso tempo una assemblea nazionale che dotata della stessa legittimazione e rappresentatività possa bilanciare il potere del segretario, evitando i rischi di un esercizio del potere isolato.

Questa designazione già anticipata nella esperienza delle primarie che in passato si sono svolte a livello di coalizione e di partito, si prospetta per la prima volta come una scelta vera e non semplicemente come la conferma e la validazione di scelte sostanzialmente già predefinite. Noi sappiamo che le parole e le regole non bastano. La nostra stessa esperienza ci ha insegnato che alle parole e alle regole non onorate dai fatti sarebbe spesso preferibile il silenzio. E tuttavia sappiamo che non ci si mette in viaggio senza una meta definita dalle parole e senza regole che guidino il cammino.

Anche se affidato per ora alle parole riteniamo perciò che la scelta alla quale ci apprestiamo sia un risultato di grande rilievo del quale il partito deve essere orgoglioso. In un tempo in cui il nostro paese patisce un restringimento degli spazi della democrazia fino alla sottrazione ai cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti come ora accade a causa della sciagurata legge lettorale vigente per il parlamento nazionale, affidare direttamente ai cittadini la scelta della guida e del massimo organo nazionale del partito é una scelta che da sola dà testimonianza della radicale diversità della nostra idea di democrazia rispetto a quella che domina il campo a noi avverso. E' una scelta della quale é orgoglioso in particolare chi ha sperimentato direttamente le difficoltà, gli ostacoli, e le legittime incertezze che hanno segnato il percorso per arrivare fin qua.

Come abbiamo detto, nonostante la scelta diretta da parte dei cittadini, di candidati alla guida di amministrazioni locali e regionali e alla stessa guida di organi di partito sia andata moltiplicandosi, e nonostante a livello nazionale già in passato una larga partecipazione abbia dato prova dell'esistenza di una domanda di politica e di democrazia di gran lunga superiore a quella finora raccolta dagli strumenti tradizionali, questa può essere considerata una prima volta.

Questo capita grazie all'avanzamento rappresentato dalla adozione di uno statuto che interpreta e regolamenta l'orientamento verso una democrazia dei cittadini che il partito democratico ha assunto come tratto qualificante fin dalla sua nascita. Questo é tuttavia possibile anche perché, dopo il primo biennio fondativo pur segnato da contraddizioni e ritardi che abbiamo più volte denunciato, anche grazie alla ridefinizione delle appartenenze partitiche precedenti, la scelta é resa ora possibile dalla esistenza di candidature capaci ognuna di rivolgersi all'intero partito e non più solo ad una parte di esso. Anche questo, lungi dall'essere un approdo scontato, é il risultato prezioso di una serie di fattori oggettivi e soggettivi, tra i quali certamente non ultima la generosità, di chi, alzando la mano in risposta alla domanda di rischio e di responsabilità che é all'origine di ogni candidatura, ci chiedono e ci consentono per la prima volta una scelta.

La stessa possibilità di una scelta rappresenta per molti già da solo un risultato e, ripetiamo, certamente lo é. Tuttavia sarebbe un errore, e certamente una occasione perduta se, trattenuti dalla prudenza nell'avanzare o tentati dal ritorno al passato, la scelta si risolvesse in una scelta tra persone.

Noi riteniamo, infatti, che la scelta tra persone per la guida del partito trovi il suo vero significato solo se essa evoca, consente, e sostiene una scelta tra diverse linee di azione politica. Solo questo assicura la pienezza dell'esercizio della cittadinanza, e allo stesso tempo consente di mettere a frutto il percorso che ci attende nei prossimi mesi. Solo questo consente al partito di definire finalmente, nel rispetto della democrazia, un’identità corrispondente al comune progetto di dare vita ad un partito nuovo in modo nuovo.

Ridotto a scelta tra persone, il confronto, pensato per l'utilità del partito e della Repubblica, si potrebbe tradurre all'opposto in uno scontro tra persone e tra gruppi che lascerebbe alle sue spalle ulteriori macerie dando una idea del partito che ognuno di noi rifiuta. Invece di interpretare questo passaggio come un’occasione di avanzamento, ci potremmo trovare alla fine in una posizione ancora più arretrata di quella di partenza.

Per questo motivo, pur riconoscendo gli aspetti comunque positivi presenti in questo passaggio, pensiamo che lungo questo cammino non possiamo stare fermi. Ancora una volta non progredire equivale ad arretrare.

Diciamo questo guidati dalla convinzione che da sempre abbiamo avuto nella necessità del Pd. Lo diciamo sulla base della esperienza di questi anni in gran parte sprecati. Lo diciamo tuttavia anche allarmati dai primi segnali che dentro il cammino che inizia vanno manifestandosi. Se non si interviene tempestivamente e con decisione, la prospettiva sembra nell'immediato quella di una competizione tra aggregati di spezzoni del passato ognuno diviso dall'altro a partire da vicende particolari, e allo stesso tempo privi di una riconoscibile ragione politica comune declinata al futuro.

Il chi, precede di troppo il perché. Comprensibilmente, anche se non correttamente, l’attenzione finisce per concentrarsi sul chi-sta-con-chi piuttosto che sul che-fare. Anche a causa della legge elettorale che, spogliando gli elettori delle proprie prerogative, ha conferito alle segreterie un potere di nomina, il confronto, invece di orientarsi verso una libera scelta espressa a conclusione di una valutazione, sulla base di un giudizio comparativo di natura politica, tende a configurarsi come il posizionamento all'interno di alleanze precostituite, definite in genere sulla base di appartenenze passate, con la preoccupazione di garantire e proteggere chi contribuisce alla vittoria, a prescindere dalla condivisione o meno di una linea politica. Urge mettere al centro del confronto la politica. Non possiamo permetterci di sprecare tre mesi preziosi esaurendoci in un confronto ossessionato dal potere interno che appare estraneo e incomprensibile alle ansie dei cittadini. Ancora più urgente é volgere questo confronto al futuro.

Il riorientamento della nostra attenzione verso il futuro sarà tuttavia possibile solo a partire da un giudizio condiviso sulla nostra passata esperienza di governo attraverso una analisi guidata da uno spirito di verità. La nostra credibilità come partito di governo per il futuro non é infatti compatibile con una superficiale liquidazione della nostra azione passata.

Questo non esclude il riconoscimento del concorso di cause oggettive e di errori soggettivi all'origine del nesso tutt'altro che virtuoso che, con responsabilità di tutti, si stabilì tra costituzione del Pd e esercizio della responsabilità di governo nel quadro di una coalizione già di per sé difficile e complessa.

Per questo motivo, mentre difendiamo nell'interesse degli iscritti e degli elettori, e quindi del partito, il nostro diritto di poter scegliere a ragion veduta, ci permettiamo di rivolgerci a tutti i candidati perché aiutino questa scelta chiedendo se e in che misura condividano alcune convinzioni per noi di fondo, e, nel caso, svolgano dentro lo stesso percorso congressuale la loro azione in coerenza con questa preoccupazione. Queste le condizioni per fare del percorso che ci attende una occasione di crescita:

1. Indirizzare e pensare fin dal primo momento il confronto tra le diverse proposte politiche avanti agli elettori, riconoscendo come protagonisti e primi destinatari della nostra proposta quelli che sono comunque decisori finali: i cittadini, nostri elettori, difendendo e confermando con chiarezza la scelta per il modello di partito aperto attraverso il loro stabile coinvolgimento in elezioni primarie. Solo l’assicurazione che il voto al quale li chiamiamo ad ottobre non sarà l’ultimo può costituire il presupposto di una larga partecipazione. La condizione che la proposta e la candidatura avanzate dispongano tra gli iscritti del sostegno previsto dallo statuto deve essere considerata come la certificazione indispensabile del radicamento della proposta nella esperienza del partito e del sicuro riconoscimento del candidato da parte della comunità dei militanti. Il confronto tra le proposte deve tuttavia rivolgersi e competere per il consenso dei cittadini piuttosto che per l'ultimo tesserato e spesso per l'ultima tessera.

2. Fare di questa occasione un passaggio fondamentale che consenta agli iscritti ed elettori di rimescolarsi a partire dalle diverse idee politiche che legittimamente si contendono il campo, superando così le precedenti provenienze partitiche.

3. Per consentire ai votanti una scelta consapevole, ogni candidato assicuri la riconoscibilità della sua proposta politica, evitando di associare alla sua candidatura una pluralità di proposte, e una pluralità di proponenti, spesso ispirati a linee politiche tra loro disomogenee. Si concentri l'attenzione e il confronto dei cittadini sulla sintesi proposta dal candidato segretario invece di alimentare la competizione e la conta oltre che tra i candidati tra le diverse e contrastanti posizioni dei suoi sostenitori. Si presenti pertanto per ogni candidato una sola lista, e si eviti altresì di riproporre ticket in qualsiasi modalità essi vengano proposti.

4. Rispettare l'autonomia delle regioni. Domande diverse chiedono risposte diverse. I congressi regionali non sono la fase regionale di quello nazionale. Anche se lo statuto prevede la contemporaneità dei congressi regionali con quello nazionale, solo una nitida e coerente contrapposizione di concezioni del partito giustificherebbe la coartazione della autonomia delle singole regioni attraverso il trasferimenti meccanico delle divisioni nazionali in sede regionale.

5. Impegnare il partito attorno all'obiettivo della riforma della legge elettorale assunto come priorità assoluto. Le prossime elezioni politiche non possono avere ancora una volta come risultato un parlamento di nominati.

I punti ora esposti toccano evidentemente solo in parte la gamma di temi che la proposta dei candidati non può non affrontare. La loro natura li propone tuttavia, distintamente e nel loro complesso, come un fondamentale criterio per la valutazione della proposta dei singoli candidati.
 

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« Risposta #28 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:37:25 am »

16/7/2009 (7:52) - LA CORSA VERSO LE PRIMARIE

Parisi: "Il Pd? Invecchiato precocemente"

Arturo Parisi, ulivista della prima ora e inventore delle primarie

«Lo dico con amarezza, è finita una stagione»

FABIO MARTINI
ROMA

L’uomo delle eresie si è stancato. Da 15 anni Arturo Parisi lancia e rilancia provocazioni alla sinistra italiana, finendo per dettarne la linea, ma per lui è arrivato il momento dei consuntivi: «Lo dico con sofferenza: una stagione si è conclusa. Fra poco saranno vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e da quando alla Bolognina Occhetto riconobbe che una fase della storia era finita. Un ventennio, lo stesso termine che usavamo da ragazzi per il periodo fascista. E noi siamo ancora a segnare il passo più o meno sulla stessa mattonella, in attesa che qualcuno ci dia l'avanti marsch! E' per questo che il Pd non è credibile: siamo innanzitutto noi che non crediamo più a noi stessi».

Sono le 10 della sera e nel silenzio del suo studio a piazza Santi Apostoli, la piazza dove nel 1996 si festeggiò la prima vittoria dei progressisti nella storia della Repubblica, Parisi ripesca passaggi dimenticati: «Me lo ricordo ancora Veltroni, quando nel 2000 gli proposi di allungare il passo e scioglierci assieme in quel soggetto nuovo che già allora chiamavamo Pd. Tra gli applausi del congresso ci rispose che se volevamo, non avevamo che da accomodarci nella grande casa dei Ds. Ci costrinse così ad attendere per altri 7 anni il futuro, inventandoci la Margherita. E, così, dopo altri 10 anni sprecati, siamo ancora là...». Dottor Stranamore per i detrattori, profeta disarmato per i fans, da anni Parisi contribuisce a trascinare la politica italiana su lidi inediti. Regista dei referendum che affondarono Dc e proporzionale, inventore dell’Ulivo e delle Primarie, da 2 anni è l’unico oppositore dentro il Pd.

Il congresso Pd è partito tra le beffe di Grillo, un partito ritratto su se stesso, l’assenza di un'idea di Italia...
«Dobbiamo riconoscerlo: per la prima volta sembra profilarsi una scelta vera, e non la celebrazione di una scelta già presa. Peccato che appaia ancora scelta tra persone e non tra diversi progetti per il Paese. Ma lei pensa che la forza di Obama derivi solo dal fatto di sentirsi scelto dai suoi concittadini? E non anche invece dal sapere il perché lo hanno scelto?».

L'unica cosa che conta sembra essere «chi sta con chi»...
«Più che dalle diverse opzioni in campo, molti sembrano essere ossessionati dall’idea di schierarsi con chi vince. Dopo tanto parlare di vocazioni maggioritarie, il congresso del Pd si sta svolgendo secondo le regole del Porcellum: ci sono due coalizioni tipo-Unione. Schierandosi, in qualche modo è possibile “comprarsi” la prenotazione ad un seggio futuro».

Per tutti i notabili, la colpa è sempre dell’altro...
«A Veltroni chiedemmo le ragioni delle sue dimissioni, ma non rispose. Sul piano umano mi costò doverglielo contestare. Per la situazione nella quale si era cacciato mi sembrava di sparare sulla Croce rossa. Tuttavia il mancato riconoscimento delle cause del disastro è uno dei fattori principali di debolezza. Spero sia giunto il momento dell’autocritica. Da parte di Franceschini, ma anche per i troppi che, pur avendo condiviso due anni di gestione unitaria, danno ad intendere di aver vissuto altrove. E’ anche questo che ci costringe a vivere nella reticenza: la paura di vedersi contestata l’accusa di corresponsabilità».

Nell’inno alla «Giovinezza» di Franceschini, le pare più sorprendente l'oblio dei patron o quel giovanilismo che ha echi in culture autoritarie?
«Questo blablare che confonde i giovani del partito col futuro del'Italia è la spia più sicura della nostra crisi, un aspetto nel quale il Pd è purtroppo in totale sintonia con l'invecchiamento del Paese. E' una crisi che accomuna tutti gli schieramenti interni. Ma stia tranquillo: è un blablare che non ha nulla a che fare con "Giovinezza". Qua non sono i giovani ufficiali che vengono dalle trincee a picchiare sulla porta delle istituzioni, ma troppi maschi già sfioriti che giustamente si lamentano dei tempi di avanzamento della loro carriera. L’Italia ci chiede uomini nuovi, un progetto, una speranza, uno sguardo nuovo».

Lo spirito della bocciofila evocato da Bersani?
«Quando l'ho letto è come se l’avessi sentito di persona. Quel bell'accento emiliano che nelle mie orecchie di sardo è da 40 anni la colonna sonora della mia vita. Lo stesso accento che ha addomesticato la ferocia dello stalinismo e ha aiutato a dimenticare il sangue che ha bagnato questa pacifica terra. Io avrei evocato la durezza delle assemblee di condominio ma ognuno è fatto a modo suo».

C'è un logoramento di tutta la classe dirigente?
«Sì e mi ci metto dentro anche io, che sono in Parlamento da meno di 10 anni. E una delle origini della crisi sta in quello che con leggerezza chiamiamo nuovismo. Quel fuggire dal passato, senza farci i conti, l’inseguire qualsiasi novità appaia all'orizzonte, cogliendone solo l’apparenza, inseguendo nomi e parole ogni volta applaudite come salvatrici. E’ così che siamo finiti in America. Con la fantasia».

Lei di parole nuove ne ha immesse tante: si sente in colpa?
«Dica piuttosto beffato. Pensi alle Primarie. Prima il muro. Poi tutti a gareggiare nell’impadronirsene perché percepivano nella parola una illusoria via di salvezza. Ed ora troppo impegnati con tutta la propria energia a disinnescarle nei fatti».

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 17, 2009, 10:04:08 pm »

David Ragazzoni*

Sognare ogni giorno l’Italia del domani


Estratti dalla relazione tenuta per la costituzione del Circolo PD “Giovane Europa” (Scuola Normale di Pisa e Scuola Sant’Anna) – Pisa, 3 luglio 2009



La sfida del Congresso di ottobre può essere davvero l’occasione giusta per riempire il Partito Democratico di progetti, di contenuti, di idee. Non deve essere un’occasione mancata: deve essere il segno che il PD è un partito democratico per davvero, che quanti a vario titolo hanno dato il loro contributo per la sua nascita e il suo cammino fino ad ora credono veramente – e sottolineo veramente – nel soggetto politico consegnato agli italiani. Non bisogna arenarci nello sterile scontro generazionale, invocando una nozione di giovane che è vuota, questa sì, di contenuto. Cosa vuol dire essere giovani per il Partito Democratico ed essere giovani nel Partito Democratico? Come è stato dimostrato dai risultati elettorali ai vari livelli in questi due anni circa di battaglie del PD, è necessario un rinnovamento delle categorie con le quali si legge la politica e la società italiana. Destra e sinistra non definiscono più, come già insegnava Bobbio, un universo onnicomprensivo, né lo definiscono le categorie di vecchio e giovane: la rivendicazione del ‘nuovo ad ogni costo’, il ‘nuovismo’, rischia di diventare nuovamente il facile slogan di una politica ‘contro’ e non di una politica ‘per’ come quella per la quale il Partito Democratico è nato.

Scriveva qualcuno nell’Ottocento che i popoli democratici hanno la caratteristica peculiare di saper guardare più in là e più in alto degli altri, di non fermarsi alla contingenza, di saper pensare il futuro. Io credo che il PD, e i giovani del PD, debbano dimostrare ogni giorno di avere la capacità di sognare l’Italia del domani. L’Italia del domani la si costruisce con le persone, essenziali in qualsiasi progetto politico che pretenda di essere credibile – persone responsabili e responsive, che abbiano scolpita nella mente un’idea fortissima di accountability e una concezione di politica intesa come contributo al nostro paese – e la si costruisce con le idee, con le battaglie su contenuti precisi. È la sfida più bella e più appassionante che la politica possa dare ai giovani di oggi, giovani per davvero: la sfida di trasformare ogni giorno le proprie idee e la propria visione di Italia in mattoncini concreti.
Io credo che su tre temi soprattutto il Partito Democratico, a partire da ottobre, abbia il dovere di elaborare contenuti forti, per poter essere percepito dagli elettori come un’alternativa reale e credibile alle forze di centro-destra: ampliare e riunificare il mondo del lavoro; promuovere una buona immigrazione; iniettare nel mondo della scuola e dell’università la triade di autonomia, merito e responsabilità.

Il Partito Democratico deve recuperare la credibilità su questi temi, sia nei progetti che propone, sia nelle persone che si fanno promotrici di un simile rinnovamento. Oltre alla leadership, infatti, che nella politica contemporanea è certamente un elemento decisivo, c’è il partito dei e nei territori: c’è la presenza fisica del partito là dove le persone vivono.

Le tradizionali cesure che ancora sopravvivono, con grande amarezza lo dico, nel Partito Democratico non appartengono a una generazione come la nostra che si è formata politicamente dopo l’89. Non abbiamo nel sangue, né vogliamo averla, la fissa dualistica che ancora continua a permeare l’azione politica del PD. Come giovani cittadini democratici ed europeisti, dobbiamo provare a restituire al Partito Democratico due elementi: slancio ideale ed elaborazione di programmi, che secondo noi sono due elementi imprescindibili per qualsiasi partito che sia vivo, che abbia una vocazione maggioritaria e che si proponga, nel tempo, di formare una nuova classe dirigente.

Io credo, noi crediamo che la cultura politica di un partito non sia soltanto quella racchiusa in un manifesto, ma sia un’elaborazione quotidiana, fondata sull’interazione tra esperienza, azione, idee condivise con gli elettori, formazione di una classe dirigente, memoria storica e politica. E più di ogni altro includo, tra gli elementi basilari di una cultura politica viva, la capacità di leggere realmente la società, di coglierne le trasformazioni, di saper parlare alla testa della gente, e non soltanto alla loro pancia, come oggi troppe volte una nozione semplicistica e degenere di politica pretende di fare. Il Partito Democratico deve tornare a parlare alla testa delle persone, ed è da questo compito che i giovani democratici devono ripartire.

*coordinatore Circolo PD Giovane Europa

da formazionepolitica.org
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