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Autore Discussione: Marco SIMONI -  (Letto 3735 volte)
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« inserito:: Settembre 09, 2008, 05:50:21 pm »

Mercato addio torna lo Stato


Marco Simoni*


«Le passività di queste istituzioni sono vicine al 40% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Se queste passività figurassero nel bilancio pubblico, d’improvviso gli Stati Uniti apparirebbero essere come l’Italia». Con queste parole amare Martin Wolf, chief economic commentator del Financial Times e guru della globalizzazione finanziaria, ha commentato il potenziale peso della mossa operata dal ministro del Tesoro americano.

Fannie Mae e Freddie Mac non sono due banche, ma due società sui generis create rispettivamente nel 1938 e 1970 dal governo americano e poi lasciate ad un regime privatistico, che fungono da garanzia per il mercato interno dei mutui per l’acquisto di abitazioni. Circa metà dei mutui concessi dalle banche americane, siano esse grandi conglomerati multinazionali o istituti locali, viene garantita dalle due società, che poi vendono a loro volta obbligazioni sul mercato internazionale.

Per questa ragione il salvataggio operato dal governo per evitare il fallimento di queste due società, duramente colpite dalla crisi del mercato immobiliare americano e gravate da un management dalla scarsa credibilità, ora rinnovato, ha avuto un impatto in tutto mondo. Fannie Mae e Freddie Mac sono l’anello di congiunzione tra la singola famiglia americana, che non riesce più a pagare il mutuo, e il sistema finanziario internazionale che ieri ha reagito alla quasi-nazionalizzazione con una forte crescita degli indici dei mercati in America, Europa, Asia. Per capire le implicazioni di questa manovra proviamo a fare un passo indietro.

I dati più recenti dicono che negli Stati Uniti 6,4 debitori su cento sono in arretrato con almeno una rata del mutuo, il numero più alto mai registrato, a cui si deve aggiungere un altro 2,75 per cento che, non potendo più pagare il mutuo, sta per perdere la proprietà della casa. Secondo l’associazione amercana di banche specializzate in mutui, questi numeri sono destinati a crescere. I crediti facili e a buon mercato sono stati la norma degli scorsi anni. Negli Stati Uniti si accendeva un mutuo per la casa, uno per la macchina, uno per il frigo nuovo, spesso con una semplice auto-dichiarazione sul reddito percepito. Non era necessario perdere il lavoro per non poter permettersi di pagare le rate, ma era sufficiente l’aumento dei tassi di interesse, o aver sottoscritto un mutuo a rata flessibile senza riflettere sul fatto che la rata ad un certo punto sarebbe cresciuta enormemente. Il sistema del “vivere a credito”, contando su guadagni futuri più che su proprietà e redditi presenti, ha funzionato fino a quando il rallentamento dell’economia ha combaciato col crollo dei prezzi delle case. Il meccanismo di fondo è semplice. Se Mr Smith ha preso in prestito 200.000 dollari per comprare la sua casa che ora, essendosi deprezzata, ne vale 100.000, ha un debito più alto del valore della proprietà. Quindi, quando la banca rientra in possesso dell’immobile, la differenza di valore rimane una perdita secca in carico alla banca, e, a catena, in carico a Fannie Mae o Freddie Mac. In alcuni Stati, come la California, le leggi tendono a proteggere chi contrae mutui, quindi i singoli individui non sono responsabili per la differenza tra il valore del mutuo e quello della casa. In altri Stati invece lo sono, e quindi la perdita della casa non sarebbe sufficiente a ripianare il debito. Per questa ragione si narrano casi di persone che lasciano la propria casa nel cuore della notte, cambiando città e stato, contando sul fatto che alle banche costa troppo inseguirli per riscuotere un credito. Il caso di Fannie Mae e Freddie Mac, sia per le dimensioni enormi dell’intervento del governo, che per il settore così delicato in cui operano, non è catalogabile semplicemente come l’ennesimo caso di cattiva gestione, in cui la società tutta finisce per accollarsi le perdite di aziende gestite in maniera poco oculata o in cattiva fede. La cattiva reputazione del managment ha certamente avuto un ruolo pesante quando, al crescere delle perdite, Fannie Mae e Freddie Mac hanno inziato ad aver problemi di liquidità. Tuttavia, vista la dimensione del pubblico statunitense legato - tramite il mutuo sulla propria casa - a queste aziende, e al peso sul mercato finanziario globale delle obbligazioni di questi due giganti del credito, questo episodio ha risvolti più complessi che avranno un impatto sui prossimi sviluppi della governance globale dell’economia. Vi sono due ragioni che spiegano l’intervento del governo americano, descritto come il più più grande salvataggio economico mai operato nella storia. Una riguarda il mercato interno: un fallimento di Fannie Mae e Freddie Mac avrebbe causato conseguenze nefaste per l’intero mercato immobiliare americano, già in grande sofferenza. Al contrario, si spera che un aumento della fiducia nel sistema, ora garantito direttamente dal governo, potrebbe far ripartire il mercato immobiliare, che è considerata una condizione per la ripartenza dell’intera economia. La seconda ragione, tuttavia, è più profonda e lontana da Washington e riguarda la fiducia che i mercati finanziari internazionali hanno nei confronti del sistema americano. Al momento gli Usa hanno un altissimo debito pubblico estero e dunque la necessità di continuare a essere considerati debitori credibili, ossia solventi, da parte delle banche centrali di mezzo mondo (soprattutto quella cinese). Per come è stato concepito, il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac graverà economicamente soprattutto sugli azionisti delle due aziende, che dopo la ricapitalizzazione vedranno la loro proprietà fortemente diluita, ma proteggerà gli investitori internazionali, banche centrali, e fondi sovrani. La audacia di questa manovra non si spiega solo in riferimento alle conseguenze sul piano della fiducia interna, ma anche e sopratutto sulla fiducia che resto del mondo ripone sul sistema americano. È un paradosso il fatto che in questa epoca dominata dalla globalizzazione, ossia dalla liberalizzazione di tutti i mercati, per affermare la fiducia in un sistema-paese sia necessario un intervento pubblico dalle dimensioni così massicce. Questo paradosso tuttavia mostra come i processi di globalizzazione in corso non siano in grado di governarsi da soli senza un intervento politico che ne orienti la direzione. La tensione verso le privatizzazioni e la fiducia nel mercato auto-regolato che ha dominato gli anni ‘80 e ‘90 si sta forse sciogliendo, in modo alquanto spettacolare, con i fatti di questi giorni. Il pendolo sembra muoversi nuovamente nella direzione di un maggior ruolo dello Stato nell’economia. I contorni di questo ruolo tuttavia continuano ad apparire poco chiari. Pur tradendo una certa irritazione, anche Martin Wolf ora sottolinea la necessità di una regolamentazione severa e stringente che possa riaprire un corretto funzionamento del mercato privato dei mutui. Difficilmente regolamentazioni stringenti in un solo paese possono essere efficaci in un mondo nel quale la crisi di una famiglia in Arizona si ripercuote sulla borsa di Tokio. Appare chiaro ormai a tutti, anche ai falchi dell’economia globale, che dopo vent’anni dominati dall’ottimismo tecnocratico, il governo politico della globalizzazione necessiti di un nuovo capitolo, o meglio, necessiti del primo capitolo.

*London school of Economics

Pubblicato il: 09.09.08
Modificato il: 09.09.08 alle ore 13.10  
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« Ultima modifica: Gennaio 08, 2012, 04:38:48 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 13, 2008, 05:59:14 pm »

Il fallimento di Tremonti


Marco Simoni


Nell’affrontare la vicenda Alitalia, il ministro Tremonti ha commesso un grave errore, concettuale e politico, emerso chiaramente ieri con la rottura delle trattative e il sostanziale ritiro della Cai, motivato dal rifiuto dei sindacati di accettare un piano “prendere o lasciare” dai pesantissimi costi occupazionali. Tuttavia, il disastro che si sta consumando ci racconta molto più degli episodi di una singola vicenda, sia pur costellata di responsabilità individuali e collettive che è giusto analizzare.

Ci racconta il frutto dell’Italia descritta dal nostro direttore nel suo editoriale d’esordio, un’Italia in cui il senso di un destino comune, condiviso da tutti indipendentemente dalla propria condizione sociale, economica, familiare, è assente. La vicenda Alitalia ha il merito perlomeno di mostrare quale sia la conseguenza del costante prevalere di interessi settoriali e di corporazione, in una società dove i difetti degli altri sono sempre la causa ultima del problema specifico, dove le piccole e grandi rendite sono rimaste l’unica cosa per la quale val la pena battersi. La conseguenza è il fallimento.

A mio parere, il miglior simbolo della giornata di ieri è la foto che ha campeggiato a lungo sul sito de l’Unità, una elegante hostess con un cartello: «precaria da otto anni, scado il 31 ottobre, esubero non conteggiato». Molti dettagli attorno al piano Alitalia sono rimasti non chiariti, ma tra i tanti quello del numero dei lavoratori con contratto a termine che non fanno parte di alcun piano occupazionale, e che spesso non accedono ad alcun ammortizzatore sociale, è il più significativo perché individua chi, in questa Italia, sta pagando il prezzo più alto. Chi ha un contratto a termine non ha una voce, non ha un sindacato, non ha forza contrattuale né sul mercato né nell’arena politica. È un escluso, una esclusa. L’Italia dei monopoli e delle rendite, che chiaramente il governo di centrodestra non vuole e non può cambiare dato che ha a capo il loro rappresentante più clamoroso, genera questo. Genera l’aumento continuo di esclusi. Esclusi dalla rappresentanza, da un reddito ragionevolmente sicuro, esclusi dal futuro. In assenza di un progetto complessivo che miri a ridurre i monopoli di fatto e favorire un modello di sviluppo aperto ed inclusivo, diviene logico e razionale aggrapparsi con quanta forza possibile alla propria rendita.

Non si leggano queste parole come una semplice difesa dei sindacati. Purtroppo, i difetti del Paese non sono appannaggio di una sola parte politica, o di una sola categoria. Solo un sindacato che troppo spesso ha abdicato ad un ruolo nazionale, facendo prevalere le singole sigle settoriali sulla politica confederale, può pensare di sfruttare all’infinito la propria forza contrattuale scommettendo (tra l’altro erroneamente) sul fatto che una soluzione - antieconomica per la società - prima o dopo arriverà. Tuttavia, davanti ad una situazione dalla gravità inaudita, e interpretando in maniera completamente fuorviante il ruolo che lo Stato deve svolgere in complesse congiunture come questa, il ministro dell’Economia ha posto le basi per il disastro di oggi.

Esiste solo un modo per risollevarsi da una situazione collettiva disastrata: compiere uno sforzo comune, chiedere ad ognuno di rinunciare ad una fetta del proprio patrimonio, per mettersi insieme in gioco in vista di un futuro possibile. Invece, trattando il caso Alitalia come isolato, come eccezionale - mentre tutte le sue caratteristiche lo rendono un tipico caso dell’Italia di oggi - il ministro ha promosso una soluzione “straordinaria”, in deroga a praticamente ogni normativa, per cucire la costituzione della nuova azienda sul profilo della cordata di imprenditori che la sostiene. Ma come si possono chiedere sacrifici enormi ai lavoratori mentre la nuova azienda si è formata sulla base della garanzia pubblica di condizioni monopolistiche, una su tutte, quella della tratta Milano-Roma? Come si può chiedere di accettare riduzioni di stipendio - che probabilmente sono necessarie date le disastrate condizioni finanziarie di Alitalia - mentre la nuova società sarà sostanzialmente libera da debiti, compresi gli ultimi 300milioni di euro “prestati”" dal governo che, con ogni probabilità, non saranno mai restituiti ai contribuenti? Il senso di un compito comune e condiviso, governato da regole trasparenti e prevedibili, è una condizione necessaria alla sopravvivenza di qualsiasi istituzione. Un governo democratico ha un ruolo importantissimo per trasmettere questo senso e queste regole ai cittadini e alle loro organizzazioni economiche. Affrontando la vicenda di Alitalia, invece, il ministro dell’Economia ha fatto esattamente l’opposto. Ha creato una regola ad hoc, impostando la privatizzazione in deroga ad importanti principi di governo pubblico del mercato. Logico corollario è stata la richiesta di sforzi diseguali dove, a fronte di una grande aspettativa di profitti si sono chiesti sacrifici significativi ai lavoratori sulla base della minaccia del fallimento, e non nella prospettiva di una nuova missione comune. A queste condizioni era da ingenui pensare che una trattativa potesse concludersi positivamente.

Pubblicato il: 13.09.08
Modificato il: 13.09.08 alle ore 7.52   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 14, 2008, 06:10:39 pm »

Crisi dei mercati

Infrastrutture ed energia: primo sì Ue al piano Tremonti

L'Ecofin: gruppo di studio con la Bei sulla proposta italiana

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


NIZZA – L'Unione europea avvia la valutazione dell'idea del ministro dell'Economia Giulio Tremonti di utilizzare la Banca europea degli investimenti di Lussemburgo (Bei) per stimolare la crescita economica finanziando grandi lavori infrastrutturali. A Nizza, Il presidente di turno del consiglio informale dei ministri finanziari dell'Unione Europea (Ecofin), la francese Christine Lagarde, ha annunciato la specifica richiesta alla Commissione europea e alla stessa Bei di organizzare un gruppo di studio sulla proposta di Tremonti, allargando il campo d'azione all'energia e coinvolgendo gli investitori istituzionali europei. L'iniziativa rientra nella volontà di affrontare «con interventi coordinati a livello Ue» il pesante rallentamento dell'economia europea, che in prospettiva appare ancora condizionata dalle imprevedibili conseguenze della crisi dei mercati finanziari, dal cambio euro-dollaro e dall'andamento del prezzo del petrolio. Il ministro italiano dell'Economia ha parlato di «avvio di una politica di investimenti pubblici più forti per reagire alla crisi economica». Si è detto soddisfatto di aver visto la sua idea sulla Bei accolta «all'unanimità». L'ha considerato il «secondo contributo all'Ue» dopo la discussione critica aperta prima dell'estate contro la speculazione finanziaria e sulle materie prime. L'Ecofin ha anche dato il via libera alla proposta della Lagarde di utilizzare la Bei sempre in funzione anti-crisi per sviluppare i finanziamenti a basso costo alle piccole e medie imprese. La banca di Lussemburgo, che è controllata dai 27 Paesi Ue, è chiamata ad aumentare questi prestiti del 50% passando dai 5,2 miliardi di euro raggiunti nel 2007 fino a 7,5 miliardi annui nel 2008 e nel 2009. Tremonti ha spiegato che la sua idea sulla Bei ha superato le riserve iniziali del ministro delle Finanze tedesco Peer Steinbruek. «Con Steinbruek c'è stato un chiarimento», ha precisato Tremonti, aggiungendo di averlo rassicurato di non voler dirottare fondi Ue sulle infrastrutture italiane e di non voler aggirare i limiti di spesa e di indebitamento nazionali imposti dal Patto di stabilità comunitario. Il ministro dell'Economia ha affermato di aver «approvato» la proposta francese a sostegno delle piccole imprese perché condivide la convinzione di ottenere effetti positivi per la crescita nel breve termine. Utilizzando la Bei per sviluppare le infrastrutture e le attività energetiche, in collaborazione con la Cassa depositi e prestiti italiana e gli istituti analoghi degli altri Paesi membri, ribadisce invece l'importanza e la rilevanza degli «investimenti sul lungo termine» per generare sviluppo in Europa.

La settimana scorsa la Lagarde aveva espresso riserve sulla proposta di Tremonti definendola «keynesiana» in riferimento all'economista britannico John Maynard Keynes, che teorizzava l'importanza dell'intervento pubblico nell'economia e rifiutava di considerare l'operare del mercato come un meccanismo di aggiustamento automatico. Tremonti ha apprezzato e confermato il riferimento della collega francese valutando positivamente «l'interventismo vecchio stile di tipo keynesiano». Ha definito l'accoglienza dell'Ecofin alla sua proposta una «svolta culturale e politica in una Unione europea dove i principi keynesiani sono stati annullati dall'idolatria per il dio mercato». Non ha limitato però la sua proposta sul ruolo anti-crisi della Bei all'utilizzo di capitali pubblici. «Il riferimento è l'Autostrada del Sole in Italia, che fu costruita dallo Stato finanziandosi con le obbligazioni Iri sottoscritte con capitali privati», ha affermato Tremonti, aggiungendo l'interesse a investire nel nucleare. L'Ecofin di Nizza, a cui hanno partecipato Mario Draghi della Banca d'Italia e i governatori delle altre banche centrali, non considera però necessari esborsi enormi di denaro pubblico, tipo le centinaia di miliardi di dollari stanziati dal governo degli Stati Uniti come misura anti-crisi. Sono stati ridimensionati i rischi di recessione, che sarebbero limitati a due trimestri in Germania, Spagna e Regno Unito, senza poi estendersi su base annua nei singoli Paesi o nell'intera Ue. Nel 2008 i 15 Paesi della zona euro dovrebbero conseguire una crescita dell'1,3% e l'Italia dovrebbe fermarsi allo 0,1%. Tremonti ha espresso ottimismo per l'economia italiana e si è detto sicuro che «se partono gli investimenti pubblici la crisi è finita».

Ivo Caizzi
14 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 01, 2008, 04:49:01 pm »

Sulla rotta del Titanic

Marco Simoni


Come ogni attività umana collettiva, il mercato è un fenomeno profondamente politico. Lo svolgimento della crisi finanziaria che, a partire dalla singola famiglia americana troppo indebitata, sta ormai contagiando le borse europee e asiatiche, ce lo mostra chiaramente. La crisi ha raggiunto l’apice nel momento peggiore: a un mese dalle elezioni americane, con i dibattiti presidenziali in corso, e la corrente amministrazione nella tipica situazione di «anatra zoppa».

A gennaio George W. Bush non sarà più presidente e dunque, come è noto, la sua capacità di leadership e la sua influenza politica sono già fortemente ridotte. Ieri Bush si è appellato al senso di responsabilità del Congresso, sostenendo che le conseguenze sull’economia americna saranno “dolorose e durature” se la camera dei rappresentanti continuasse a non approvare la manovra di emergenza proposta dalla amministrazione e sostanzialmente appoggiata anche dai due candidati presidenti.

La misura, dal valore complessivo di 700 miliardi di dollari (490 miliardi di euro, il doppio del prodotto interno lordo del Belgio) viene considerata da tutti gli analisti come necessaria, anche se non risolutiva, ed è congegnata per sgravare gli istituti finanziari dalla massa enorme di crediti dal dubbio valore in loro possesso. Il fine principale è quello di consentire un recupero di fiducia reciproca tra le banche che al momento sono paralizzate, appunto, da una reciproca sfiducia e tengono chiuse le linee di credito. Si tratta di una manovra dalle dimensioni stratosferiche, che richiede una forte leadership che se ne assuma la responsabilità. Infatti, non soltanto una retorica libertaria esasperata ha spinto lunedì metà dei Repubblicani a votare contro la manovra, ma anche ragioni elettorali. Infatti a novembre si vota anche per il Congresso e molti elettori conservatori potrebbero considerare il piano di Washington come un mero salvataggio con soldi pubblici (mentre è qualcosa di più complesso) di banche che farebbero bene a fallire. Con una logica speculare, se metà dei deputati Repubblicani non vota la manovra per ragioni elettorali, i Democratci a loro volta non vogliono prendere sulle loro spalle la responsabilità della gestione Bush che, dopo oltre un anno di crisi latente, ha certamente aspettato troppo per intervenire, vittima di un eccesso di fiducia nel sistema. In questi ultimi giorni stiamo dunque assistendo ad una situazione veramente particolare, caratterizzata dall’assenza di leadership politica nel momento in cui essa è maggiormente necessaria. I mercati temono soprattutto l’incertezza, causa principale del panico che si registrava ieri nelle borse asiatiche ed europee, con perdite da record, che si sono ridotte dopo il richiamo di Bush, nella speranza che il piano verrà alla fine approvato.

Anche da questa parte dell’Atlantico le decisioni poltiche stanno assumendo una importanza decisiva. Questa è la prima crisi finanziaria da quando è stato introdotto l’Euro, e in molti sono preoccupati dall’assenza di un organismo di supervisione bancaria che corrisponda ai Paesi della moneta unica. In altre parole, mentre il controllo della moneta, i tassi di sconto, la gestione della liquidità nel sistema interbancario sono prerogativa della Banca Centrale Europea (Bce), la supervisione degli istituti di credito è rimasta competenza delle banche centrali nazionali. Tuttavia, questa crisi ha dimensioni globali.

Fortunatamente, l’assenza di una struttura sovranazionale non ha impedito, lunedì, un evento che potrebbe entrare nei futuri libri di storia: uno stretto coordinamento politico-economico tra i governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo, per evitare il fallimento della Fortis, una banca a forte connotazione multinazionale, con sedi legali sia in Belgio che in Olanda. I ministri delle finanze, le rispettive banche centrali, il coordinatore dei ministri delle finanze dell’area Euro, il presidente della Bce, hanno tutti cooperato a questo salvataggio, primo nel suo genere.

Tra i Paesi dell’area Euro sarà inevitabile un coordinamento sempre più stretto nella gestione economico-finanziaria della crisi tra governi, banche centrali, e Bce, inaugurando obtorto collo una stagione di maggiore coesione nelle scelte economiche continentali. Similmente inedito, per quantità e peso degli interventi, il coordinamento tra le banche centrali nelle misure a sostegno dei mercati, in particolare tra la Fed (americana) e la Bce. Val la pena ricordare che in maniera altrettanto episodica ed emergenziale era iniziato quello che poi diventò il massiccio intervento pubblico nell’economia che risollevò l’occidente dalla crisi del ‘29.

Questo per dire che prevedere o auspicare sic et simpliciter un pesante ritorno dello Stato nella gestione economica e finanziaria manca di gran lunga il bersaglio confondendo la sostanza dei problemi che vengono fronteggiati, con la forma e il luogo in cui questi problemi possono essere affrontati e risolti. Non c’è dubbio che la crisi dei mercati finanziari ha messo in luce alcuni problemi strutturali del capitalismo finanziario americano. Tuttavia, gli effetti sistemici, globali, della crisi, in un mondo caratterizzato dalla crescente interdipendenza economica, culturale, esistenziale, suggeriscono che non solo dallo Stato può arrivare la soluzione. Questa crisi mostra in maniera drammatica, e stavolta sotto gli occhi diretti dell’Occidente, come la globalizzazione non governata da poteri pubblici, sostanzialmente svincolata dal controllo democratico, lasci irrisolte questioni fondamentali per la vita delle persone. Ora siamo davanti ad una crisi di sfiducia che ci sta portando sull’orlo di una crisi economica epocale. Ma ragionamenti simili su problemi noti che non vengono risolti possono svolgersi sul tema del riscaldamento globale, della povertà, delle migrazioni.

Non si tratta dunque di chiedere un ritorno dell’antico Stato del dopoguerra, o di reintrodurre barriere protezionistiche (è utile ricordarsi che il protezionismo storicamente ha condotto alla guerra). Anche nell’epoca globale il ruolo dell’attore pubblico è indispensabile, le forme, i modi e anche gli obiettivi che questo attore assumerà saranno terreno di discussione e negoziazione. Un terreno che riapre alla sinistra un grande spazio di azione politica.

Pubblicato il: 01.10.08
Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.10   
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