29/9/2008 - LA CRISI AMERICANA
I ricatti del piano Bush
FRANCO BRUNI
Il ministro del Tesoro americano tenta di trovare un accordo col Congresso sull’enorme fondo con cui vuole acquistare dalle banche i loro titoli «malati e tossici». E’ anche un tentativo di rimediare all’arroganza con cui Paulson ha inizialmente presentato un piano sul quale, oltretutto, si è mostrato impreparato e impreciso, non solo nei dettagli.
Speriamo che questa crisi finanziaria accresca la consapevolezza che occorre predisporre e concordare per tempo le procedure politiche e tecniche per gestire le crisi finanziarie, quando capitano. Concordare queste procedure è ancora più difficile e importante per l’Europa, priva di unità politica, dove il mercato dei capitali è molto integrato ma manca un governo federale dotato di risorse per intervenire.
Il fondo Paulson presenta molti problemi. Non è detto che l’accordo col Congresso vada al cuore di quelli principali. Usare 700 miliardi di dollari pubblici per togliere attività malate dal bilancio delle banche implica l’individuazione di tali attività e la fissazione del loro prezzo di acquisto. Il Tesoro chiede una forte discrezionalità nel prendere queste decisioni, che si prestano ad arbitrii e ingiustizie gravissime. L’idea è che «non si può aspettare un’altra settimana», lasciando i mercati nell’incertezza. La fretta e la prefigurazione di un irresistibile, enorme disastro, in mancanza del provvedimento proposto, diventano le armi di un ricatto, esercitato dal governo insieme alle banche.
E’ paradossale che le autorità finanziarie Usa, che dovrebbero cercare di sdrammatizzare la situazione e infondere fiducia nei mercati, siano indotte a fare esattamente l’opposto, per ottenere più facilmente l’approvazione dei provvedimenti di emergenza che propongono.
Vittime del ricatto sono i contribuenti, che dovranno pagare il conto, e coloro che soffriranno dell’inflazione derivante dall’aumento della liquidità che seguirà al salvataggio. C’è anche un’altra categoria di vittime: le componenti sociali più deboli, che rimangono ferite dalla crisi finanziaria ed economica e che potrebbero beneficiare di un diverso uso del pubblico denaro, più vicino al concetto di ammortizzatori sociali. Fra costoro molte famiglie, che sono state indotte in modi scorretti a fare debiti che non avrebbero potuto ripagare. E i disoccupati, che saranno generati dall’inevitabile rallentamento dell’economia. Negli Usa il Welfare e, in generale, le reti di protezione per i più deboli, hanno profonde e diffuse lacune: usare la finanza pubblica per aiutare i banchieri, perché «altrimenti salta tutto», potrebbe prima o poi rivelarsi un boomerang politico ed economico.
Il Congresso ha chiesto uno scaglionamento del finanziamento del fondo: in modo da aver tempo di controllarne l’utilizzazione. Se ci fosse meno fretta si potrebbe mettere a punto un misto di almeno due diversi tipi di provvedimenti straordinari per la crisi. Il primo è l’acquisto, da parte del governo, di azioni appositamente emesse dagli istituti di credito in difficoltà. Azioni ordinarie, non semplici diritti di opzione su azioni privilegiate, come prevede la bozza di accordo in via di definizione. Una forma parziale di nazionalizzazione, che responsabilizzerebbe il governo, sotto il controllo del Congresso, nel risanamento, ristrutturazione e ri-privatizzazione delle banche. Così sarebbe anche più facile regolarizzare le remunerazioni del management delle banche: cosa che i parlamentari stanno invece cercando di ottenere come condizione per approvare il piano Paulson.
Il secondo tipo di provvedimento straordinario sarebbe invece a costo zero per i contribuenti: la trasformazione in azioni di alcune categorie di debiti delle banche che hanno attivi malati. A rimetterci, almeno temporaneamente, fino a quando la ristrutturazione non avrà rilanciato la redditività delle banche, sarebbero allora i loro creditori. Spaventa il fatto che fra questi vi siano autorevoli creditori esteri, comprese importanti banche europee e autorità cinesi? Creditori che diverrebbero in parte proprietari. Spiace per lo spavento, ma c’è chi ha ancor più paura delle conseguenze del salvataggio proposto da Paulson.
I provvedimenti straordinari non risolvono il problema alla radice, né impediscono il suo ripetersi futuro. Per una vera, duratura soluzione ci vorrebbe, innanzitutto, una riforma profonda della regolamentazione e della vigilanza finanziarie. Paulson ne è consapevole, ma l’altro giorno ha scongiurato: «Per favore, non questa settimana». Anche su questo fronte c’è impreparazione e il rischio dell’improvvisazione. Servirebbe inoltre il ritorno della fiducia nella strategia delle banche, che induca in tutto il mondo un nuovo flusso di investimenti nel loro capitale. Senza il quale il credito non riprenderà mai a fluire normalmente. Perché torni la fiducia deve cessare al più presto la demonizzazione della finanza, che è di gran moda e che i «regali» alla Paulson potrebbero invece prolungare.
franco.bruni@unibocconi.it da lastampa.it