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« inserito:: Settembre 05, 2008, 10:47:18 am » |
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SPETTACOLI & CULTURA
PASSAPAROLA / In libreria "Un buon sapore di morte" di Gabriele Damiani
Una Mani Pulite abruzzese ispirata a vicende realmente accadute
Drammi, segreti e mediocrità il noir che racconta l'Italia
L'autore: "E' il Paese che conosco: deludente e vittima del consumismo"
di SILVANA MAZZOCCHI
UNA cittadina di provincia, un pezzo d'Italia uguale a tanti altri, dove ipocrisie e interessi personali hanno preso il sopravvento su etica e valori. E dove anche i buoni sentimenti finiscono per infrangersi nell'amarezza. Un racconto che intreccia realtà e fantasia, ma che, proprio grazie agli innesti da fiction, si rivela perfino più attendibile della cronaca vera. Un buon sapore di morte di Gabriele Damiani, da oggi in libreria per Aliberti editore, è un buon esempio di quel filone fortunato che sta invadendo cinema e letteratura: prodotti che, pur essendo farciti di episodi e personaggi inventati, sono più documento che romanzo, più testimonianza che fantasia, più immagine del reale che evasione.
A Civita, fantomatico capoluogo abruzzese, viene massacrata nel suo letto la moglie del procuratore capo. Il delitto manda in subbuglio l'ambiente bene della città sollevando, insieme allo scandalo, i segreti e le sordide passioni della fauna borghese locale, mentre il commissario Mauro Alesi, ruvido quanto onesto, si ostina a voler scavare fino alla verità, fra farsa e tragedia. Una trama che fotografa con efficacia la faccia dura dell'Italia contemporanea, i cui contorni riescono a emergere anche grazie a una scrittura diretta, vivace e non priva di ironia. Gabriele Damiani, 52anni, è stato cronista da ragazzo. In seguito ha fatto l'imprenditore, il consulente aziendale, il professore di Metodologia della scienza economica e, infine, è stato ufficiale del corpo militare della Croce rossa. Diversi suoi racconti sono usciti su varie riviste, ma Un buon sapore di morte è il suo primo romanzo pubblicato.
Un noir basato su episodi veramente accaduti; definirebbe il suo libro un docuromanzo? "Sì, la definizione è esatta. Le vicende del romanzo si innescano su un fatto avvenuto a L'Aquila nel 1993-94, al quale la stampa locale diede ampio risalto. Si trattò di una ridicola scopiazzatura provinciale di Mani pulite e finì in burletta. Mi sono limitato a cambiare i nomi ai protagonisti, che io conosco di persona e, poiché un noir non può finire in burletta ma deve raccontare drammi autentici, ho aggiunto il sangue alla farsa, il dramma alla mediocrità. Ritengo che lo scrittore sia soprattutto un testimone e, in realtà, non è lui scegliere le sue storie: sono le storie che scelgono lui. L'autore è solo un tramite tra i personaggi e i lettori. Perciò, avendo assistito al collasso psichico ed esistenziale di individui privi di spina dorsale e di moralità, ho ritenuto interessante raccontare le loro squallide avventure. E non l'ho certo fatto per sadismo, perché condivido in pieno l'insegnamento di Simenon: comprendere prima di giudicare. Certo, qui e là qualche fragorosa risata Un buon sapore di morte la suscita; ma ciò è colpa dei protagonisti, non mia".
Quale Italia ha voluto raccontare? "L'Italia che conosco, l'Italia di cui ho avuto esperienza diretta. Un'esperienza diretta che ha lasciato segni nella mia carne viva, alla quale si è aggiunta un'esperienza indiretta, culturale, potremmo dire, che deriva dai miei studi e dai miei viaggi. Il nostro è un Paese deludente, apparentemente tutto preso da un consumismo diffuso sì, per fortuna, che dà però magre consolazioni, e blandito di continuo da chimere televisive che drogano le coscienze dei più deboli, soprattutto giovani e ceti medio-bassi. L'ambiente sociale, poi, subisce l'offesa arrogante di poteri pubblici sovranamente inefficienti. Si pensi alla vergogna di Napoli, alla giustizia troppo lenta, allo strapotere delle organizzazioni criminali. A tal proposito sarà forse utile riferire un piccolo episodio familiare. Nel '51 mio padre fece la scuola ufficiali a Lecce e, mi raccontava, la città era allora piena di ragazzini biondi e con gli occhi azzurri, mentre le leccesi erano morette e con la faccetta tonda. Durante la guerra era transitata nel Salento l'VIII armata di Montgomery e aveva evidentemente lasciato il segno. Eppure mio padre non tralasciava di sottolineare come il Salento, a suo parere, fosse una delle zone più civili del Paese. C'erano sì i ragazzini biondi, ma la Sacra corona unita non era ancora nata. Oggi, invece, ce l'abbiamo. Ecco, io racconto questa Italia".
Lei è stato, tra l'altro, imprenditore e dirigente d'azienda. Quanto c'è della sua esperienza di vita nel suo romanzo? "Moltissimo. Se non avessi diretto aziende non avrei mai potuto conoscere le persone descritte in Un buon sapore di morte. D'altronde, è questo un presupposto essenziale per chiunque desideri scrivere narrativa. I racconti e i romanzi si scrivono con il sangue e con l'anima. Non basta difatti scrivere una bella storia e non basta neanche scriverla bene, bisogna pure metterci qualcosa dentro. Non solo, ma l'essenza intima, profonda, della narrativa non è puramente tecnica o estetica. È etica, morale. Non ci si può dunque accontentare d'essere dei sapienti manipolatori di parole, né è tanto meno vantaggioso mettersi a scimmiottare i "letterati". Se si vuole catturare il cervello e il cuore del lettore va perciò aggiunto un quid che emozioni e che faccia riflettere. E l'emozione, profonda, vera, possiamo trasmetterla soltanto se l'abbiamo provata. Sì, nelle pagine di Un buon sapore di morte le mie esperienze di vita ce le ho trasfuse eccome".
Gabriele Damiani Un buon sapore di morte Aliberti Editore pag. 214, euro 15
(4 settembre 2008)
da repubblica.it
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