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Autore Discussione: Giovanni Bachelet. I tormenti del giovane Pd  (Letto 2718 volte)
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« inserito:: Settembre 04, 2008, 07:00:08 pm »

I tormenti del giovane Pd

Giovanni Bachelet


Alla tavola rotonda conclusiva della scuola estiva della Rosa Bianca (quella vera, fondata da Paolo Giuntella quasi trent’anni fa) un improbabile neodeputato del Pd, di fronte all’improbabile titolo «la politica come opera d’arte: fascino ed autenticità di una sinistra credibile», pensa fra sé: Prodi ha partecipato alla scuola ma si è limitato ad una (bella) lezione sull’Europa e sul mondo. Sul futuro del centrosinistra si sono rivolti a me (dalle stelle alle stalle). Siamo messi male.

Conferma l’impressione il moderatore Damilano, quando, dopo aver citato Moro, Ruffilli, Scoppola e Giuntella (dei quali si sente orfano come la quasi totalità dei presenti), spara la sua raffica di domande: la paura ha sostituito la fiducia in un mondo globale; l’opposizione non c’è e lascia a Famiglia Cristiana e a qualche prefetto o questore il compito di segnalare la fuoriuscita dai binari costituzionali; l’opinione pubblica non c’è più, come dice Moretti, oppure c’è ma è di destra. Come si recupera un rapporto con il sentimento degli elettori? Brutte domande, a un anno dalle primarie.

Le altre due interlocutrici della tavola rotonda - Maria Prodi, assessore dell’Umbria e Giovanna Capelli, preside e fino a qualche mese fa senatrice di Rifondazione - parlano di primarie taroccate, candidature sbagliate, impegni sull’equilibrio di genere ed altri aspetti del codice etico disattesi; di campagna elettorale suicida nella quale i meriti storici dei nostri governi vengono taciuti come vergogne; di catastrofe della sinistra, che, di fronte agli sputi leghisti sul pulmino dei bambini rom che vanno a scuola nell’hinterland milanese, risponde con sorridenti aperture sul federalismo.

Gli interventi del pubblico rincarano la dose e segnalano delusione per le promesse tradite e la rapidissima dissipazione del patrimonio di credibilità del Pd e della sinistra, dal welfare all’Alitalia, dall’obbligatorietà dell’azione penale alle intercettazioni, dove perfino un Maroni pare a volte più intransigente dei nostri. Gli interventi esprimono anche costernazione per l’impotente autoreferenzialità della sinistra cosiddetta radicale, maionese impazzita di mondi piccolissimi che appaiono ciascuno, come peraltro anche il grande Pd, di sé felice, immemore della colossale tranvata appena presa e/o inconsciente della valanga di danni che la somma di molte scelte suicide sta quotidianamente riversando sul Paese.

Già, danni immensi: mancano solo la guerra e lo stravolgimento della Costituzione di qualche anno fa. L’aveva ricordato Pedrazzi (con Gorrieri fondatore di un mitico quotidiano negli anni settanta) ai relatori della giornata economica: va bene la democrazia dal basso realizzata con la pressione democratica dei consumatori, il commercio equo e solidale, il microcredito, la banca etica; ma guai a sottovalutare l’azione governativa e parlamentare. Certo la politica ha effetti limitati (il non-appagamento di Moro, il rapporto possibile/impossibile di Scoppola citati in apertura da Marco Damilano) e la base di ogni progresso è educativa culturale sociale (molti partecipanti, Prodi in testa, si sono impegnati in politica abbastanza tardi, dopo una vita di ricerca industria educazione informazione amministrazione); ma disinteressarsi della politica resta una grave imprudenza.

Il neodeputato Pd guarda l’orologio e, vedendo che il suo intervento si avvicina, si chiede che cosa sottolineare nel tempo che gli è concesso. Forse, visto che molti organizzatori sono vecchi amici e nel pubblico la stragrande maggioranza è di elettori o fondatori del Pd (molti dei quali, alle primarie, hanno con ogni probabilità votato Rosy Bindi), potrà finalmente parlare senza peli sulla lingua del partito che ancora non c’è, né sul territorio né nelle istituzioni; dei circoli che, benché lasciati a se stessi dopo le primarie di ottobre, lavorano sodo sul territorio, ma rischiano, alla vigilia del primo tesseramento Pd di metà settembre, di restare senza sede, perché il partito non contribuisce più all’affitto, in barba al cospicuo rimborso elettorale; della cui destinazione, peraltro, nessuno sa nulla, in barba alla trasparenza finanziaria prevista dal codice etico approvato dal Pd. Potrebbe passare poi allo spappolamento del partito nelle istituzioni: a lui che è deputato, ad esempio, notizie e anticipazioni sui decreti di scuola e ricerca sono giunte nel corso dell’estate da amici o dai giornali, ma non dal Pd; in precedenza, sia sulla tattica parlamentare (quando fare ostruzionismo e quando no, per esempio), sia sulla formazione del nuovo governo ombra, nessuna consultazione o dibattito sono stati promossi, né nel gruppo parlamentare, né in qualche sottogruppo tematico, che sarebbe invece utile nel caso di provvedimenti specifici, dalla riforma del Csm all’energia nucleare, dalla maestra unica al voto di condotta. L’assenza di pubblico dibattito è un guaio anche per la comunicazione esterna: nel caso di Eluana, senza una pubblica elaborazione o rielaborazione della linea comune, la scelta del Pd di uscire dall’aula per non votare un’imbecillità propagandistica (verrà comunque respinta dalla Corte Costituzionale) è parsa invece, anche a molti dei nostri, un’esitazione dovuta a deficit di laicità. Clamoroso, infine, il voto per il bilancio della Camera a fine luglio: in mancanza di preventiva discussione, o almeno di un’indicazione da parte del capogruppo, su varie proposte di trasparenza negli stipendi dei parlamentari (suggerite dall’improbabile neodeputato nella prima riunione del gruppo parlamentare, e poi promosse in aula dai radicali, che ne fanno parte), il Pd ha votato in ordine sparso, mentre il centrodestra votava senza defezioni in favore del mantenimento dei privilegi, anche piccoli, dei deputati: è stata sprecata, cioè, un’occasione d’oro per mostrare che a favore della casta e di Roma ladrona sono compattamente schierati Lega e Pdl, ma non noi.

Alla fine, però, il neodeputato decide: resisterà alla tentazione e rinuncerà a questi ed altri motivati mugugni e sfoghi. Si è infatti accorto che in questa scuola estiva, quando si parla di Pd, tira un’aria peggiore del previsto: non un’aria battagliera degna dei gruppi “Puma” (i democratici che non volevano rassegnarsi alla sconfitta di Hillary, la sigla sta per Party Unity? My Ass!), ma semmai un’aria moscia moscia: le critiche e proposte di Parisi, per esempio, non le ha riprese nessuno; e non perché troppo radicali, bensì, purtroppo, perché il Pd è dato in blocco per perso; e del Pd, di qualunque sua componente, non frega più niente a nessuno. Non è astio o attrazione verso altri poli, no. Lo dice bene uno degli ultimi interventi: di fronte ad enormità come il lodo Alfano e il decreto fiscale avete rimandato all’autunno la battaglia, e nel frattempo non siete riusciti né a valorizzare l’opposizione con Di Pietro (sopravvissuto grazie al vostro apparentamento elettorale, che in Parlamento vota quasi sempre come voi), né a incantare Casini (che continua ad astenersi votando quasi sempre in modo diverso dal vostro), né a istituire qualche tavolo di consultazione con i pezzi della sinistra rimasti fuori dal Parlamento. Capiamo che siete in buona fede e avreste bisogno di noi, ma siamo stanchi, disillusi, sfiduciati: non ce la facciamo più a sperare, a combattere, ad aiutarvi.

Poiché questo è il clima perfino fra i nipotini di Scoppola e Giuntella, il neodeputato avverte: per cinque anni il Pd sarà il più grande partito di opposizione del Parlamento e, se non vogliamo tenerci Berlusconi per altri dieci, è vitale identificarne le potenzialità buone e farle crescere; è inutile lamentarsi come vecchie zitelle per le cose che non vanno, occorre lavorare alacremente per correggerne qualcuna, per rilanciare qualche idea portante e organizzarsi sul territorio. Chi poi, come molti partecipanti alla scuola, si è fregiato del nome di Democratici Davvero, deve anzitutto democraticamente ammettere che le primarie non sono state taroccate, ma semplicemente perse. Chi ha vinto ha il diritto e il dovere di guidare il partito; ed è abbastanza ovvio che strategie, tattiche e scelte di persone siano diverse, a volte antitetiche a quelle che opererebbe chi non l’ha votato.

È inoltre cosa buona giusta e laica riconoscere che molte scelte per il bene comune sono opinabili. Benché abbiano guidato il partito fino al punto in cui si trova ora, quelli che hanno impostato la campagna elettorale di Veltroni sono persone oneste e in gamba; alcune le conosciamo bene perché hanno fatto un lungo tratto di strada con noi: Ceccanti, Tonini, Vassallo per un verso, Roberto Della Seta per un altro. Occorre continuare a parlare forte e chiaro, anche se siamo minoranza e per ora nessuno ci dà retta; occorre persuadere loro e tutti gli altri che stanno sbagliando strada, e con loro scoprire e imboccare la strada giusta, quella di un partito democratico davvero, capace di suscitare nuova fiducia e partecipazione perché capace di distinguere credibilmente fra i molti punti sui quali è possibile e sensato trattare con gli avversari, e i pochi “principi non negoziabili” sui quali non si scherza: capace cioè di essere ed apparire un credibile partito di opposizione. Insomma ci vuole un congresso; per partecipare occorre iscriversi e prepararlo, discutere, ascoltare, proporre, votare. Un lavoro duro. Generosi tentativi di rinnovamento e non poche alchimie politiche del recente passato sono fallite perché è mancata la capacità - o la pazienza, o l’umiltà - di persuadere, raccogliere il consenso, attaccare manifesti, arrostire salsicce. Proviamoci.

Alla fine saremo, forse, ancora minoranza. Ma è il nostro partito. Per molti di noi è il primo ed unico partito al quale si potrebbero iscrivere: prima di darlo per perso, facciamo un ultimo sforzo.

Fine dell’intervento, e, incredibile a dirsi, nemmeno un fischio! anzi molti applausi. Forse per il Pd c’è ancora qualche speranza.


Pubblicato il: 04.09.08
Modificato il: 04.09.08 alle ore 8.07   
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