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Autore Discussione: Vincenzo Consolo - Migrazione, la civiltà come arte della fuga  (Letto 5257 volte)
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« inserito:: Luglio 16, 2007, 07:23:55 pm »

Quando in via D’Amelio cadde il ramo dell’olivo

Vincenzo Consolo


L’omerica immagine dell’olivo e dell’olivastro, del ceppo che nutre due rami diversi, è simbolo della civiltà che s’innesta, con gesto di coltura e cultura, di volontà e di sapienza, sul tronco dove insieme è cresciuto, spontaneo, selvatico, il ramo dell’olivastro; della civiltà che, se non è curata, difesa, può regredire e perdersi nel caos, nel disordine da cui proviene. È simbolo più che mai, quel ceppo dai due rami fittamente intrecciati, di questa «nostra terra bellissima e disgraziata», come l’ha definita Paolo Borsellino, della Sicilia della più antica, più ricca civiltà e insieme della barbarie più feroce e rovinosa.

La figura dell’inciviltà più buia, della regressione più umiliante; di quest’Isola che fu dimora ideale dell’albero mediterraneo, dell’argenteo olivo del nutrimento e della luce che i Greci consacrarono all’Atena della ragione e della sapienza. È l’albero che immaginò, che vide sul palcoscenico d’un palcoscenico Pirandello, la notte della sua agonia, a risolvere l’ultimo atto di un dramma, di un mito che non avrebbe potuto più scrivere, è l’olivo della cultura e della poesia contro l’irrompere a valle dei barbarici Giganti della montagna.

Fuori dal simbolo, dentro la realtà, dentro la storia, sappiamo che il duplice atroce destino della Sicilia, l’intreccio suo inestricabile di civiltà e di barbarie, non è dovuto a un evento della natura, a una legge dell’esistenza, a un destino, a una condanna genetica, come spesso neo-lombrosiani d’accatto hanno voluto far credere, ma a precise responsabilità, a colpe della storia. Chi ha uso di ragione, possesso di cognizione sa che la mafia, questa mala pianta, questo olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo storico in cui l’Isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa costantemente perpetrata da dominazioni, governi, da ottuse, cieche caste di privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia s’è sviluppata con l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto di regimi politici, di poteri statali insipienti o corrotti. Un Medioevo di illiberalità, di ingiustizia, di violenza ha gravato su questa regione, una lunga storia di oppressione e sfruttamento dei deboli, di ribellioni popolari, di feroci repressioni, un’assenza dei grandi principi liberali instauratisi in Europa con la Rivoluzione francese.

C’è, nel museo Pepoli di Trapani, una terribile macchina; c’è, alta sui due montanti tenuti dall’architrave del potere, una ghigliottina, questa truce scenografia per la rappresentazione della giustizia. Priva qui del terrifico, disumano, ma grandioso sfondo storico contro cui si ergeva la francese consorella, dialettale com’è nel lessico e nella sintassi dei suoi congegni, diventa ancora più incompresibile, più crudele. Si sa che la ghigliottina di Trapani veniva anche montata sulle piazze dei vari paesi del Circolo giudiziario; si sa che essa funzionò fin dopo l’Unità, sotto i Savoia; si sa che non tagliò teste di re, di nobili, di Amici del popolo o di Incorruttibili, ma solamente teste di ribelli o banditi. Proviamo orrore per ogni tipo di pena di morte, diciamo con Voltaire che quella pena offre vantaggi solo per il boia, ma è vero che la tremenda macchina di Trapani non tagliò mai teste di mafiosi. Chè allora della mafia, da parte di magistrati, di funzionari statali, di politici, di intellettuali, si negava l’esistenza o se ne dava una spiegazione di ordine psicologico o folclorico. Qualche magistrato, qualche politico avvertì della mafia la vera natura, la sua forza invasiva e distruttiva: il procuratore generale di Trapani don Pietro Ulloa, il giudice agrigentino Alessandro Mirabile, il socialista corleonese Bernardino Verro, il repubblicano ennese Napoleone Colajanni. La negazione della mafia come associazione, come ferrea, gerarchica struttura criminale, da parte del potere politico, degli organi dello Stato è durata, si sa, fino a ieri. Dura, ahi noi, fino ad oggi.

Tanto più negata la mafia, si direbbe, quanto più le sue azioni criminose si facevano frequenti e clamorose, la sua azione antisociale, antistatale sempre più distruttiva e arrogante, quanto più la pubblicistica, l’informazione su di essa si arricchiva e diffondeva. Negazione della mafia, nei migliore dei casi, per quella regressiva, falsa difesa dell’«onor di Sicilia», per insipienza, per malafede: per privato, meschino tornaconto, per colpevole connivenza con gruppi di potere. Sicché i morti, tutti i morti di mafia pesano, oltre che sui diretti assassini, su quei responsabili, su quegli uomini che meritano di giacere nel “tristo buco”, nel “pozzo scuro” della dantesca Caina. Pesano su quei responsabili i braccianti, i capilega, i sindacalisti uccisi sopra le terre dei feudi nel 1894, negli anni Venti e nel Secondo Dopoguerra; pesano i contadini, le donne, i bambini uccisi a Portella della Ginestra. Pesa su quei responsabili la morte di tutti quelli - magistrati, militari, politici, burocrati, imprenditori, sacerdoti, comuni cittadini - che nella tremenda, lunga guerra contro la mafia sono caduti. Pesa su di loro la morte di due uomini eroici, di due simboli alti: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

C’è, nella storia di Borsellino, uno sfondo storico siciliano, una dimensione umana spesso ignorata. C’è una parca, dignitosa misura della vita, un pudore, una ritrazione di gesto e di parola, un rigoroso, inflessibile senso morale e civile, una disillusa, lucida conoscenza e accettazione della realtà e un modo aspro, diretto e schietto di affrontarla; c’è un senso privo di limiti del sacrificio, una generosità di sé senza risparmio; c’è infine in quest’uomo orgoglio e candore: tutto che gli viene da una matrice agrigentina, dell’Agrigento di Pirandello. L’eredità culturale paterna, del rigoroso, severo farmacista di via Vetriera, è temperata dalla dolcezza della madre, di Maria Lepanto, cresciuta in quel Belmonte Mezzagno che s’affacciava sulla meraviglia della Conca D’Oro.

L’adolescente Borsellino si muove in quello spazio ricco di segni, di echi, di memorie, di immagini e di suoni ormai perduti che era il cuore antico della Palermo tra la Cala, la Kalsa, Piazza Marina e la Magione, la chiesa di San Francesco e la Gancia. È lo stesso spazio, quello di Borsellino, la stessa geometria, la stessa scenografia entro cui si muove negli stessi anni Giovanni Falcone, si muovono tantissimi altri ragazzi che prenderanno altre strade, avranno altro destino. Si trasformeranno, sbucando da quella couche, da quella cultura, in spinosi, selvatici olivastri. «La rilevanza di una tale “promiscuità” tra mafia e società siciliana non è sempre chiara. Palermo è al riguardo un tipico esempio. Io vi ho convissuto fino all’età di venticinque anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in Piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero» ricorda Giovanni Falcone.

Vinto il concorso in magistratura, Borsellino compie il suo apprendistato a Palermo presso il collega anziano Cesare Terranova. Nessuno ancora sapeva, ma si stava formando a Palermo, in Sicilia, e naturalmente anche nel resto del Paese, verso la fine degli anni Sessanta, una nuova leva di magistrati, di giovani di nuova cultura, di nuova etica, di nuovo impegno.

La famiglia di Borsellino, quella d’origine, la madre e i fratelli, la nuova che aveva appena formato, il lavoro di magistrato unito alla scelta, alla passione per il diritto civile ci fanno pensare che il magistrato immaginasse - com’era normale, com’era giusto immaginare - di vivere in uno stato di diritto, in una società civile in cui la sfera privata, l’umano regno degli affetti, trovasse rispetto e difesa; dove anche l’avere, il frutto dell’onesto lavoro, trovasse legittimità e protezione.

Abbiamo tutti, tutti creduto, noi cittadini, forse hanno creduto anche alcuni magistrati, per molto tempo, che la vecchia, parassita velenosa malapianta della mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati: magistratura e forze dell’ordine. Borsellino e altri magistrati hanno visto a un punto che la mafia tutto invadeva e distruggeva, in Sicilia, nel Paese, che era un mostro osceno, un bestiale Polifemo che stritola e divora uomini, che minacciava ogni giorno di più, nonché l’avere, il primo dei beni, la vita, minacciava la sfera privata della famiglia, la pubblica sfera, distruggeva i valori della civiltà. Uccideva e uccideva la mafia, spargeva morte per le strade di Palermo e di ogni città di Sicilia, la morte - lo diciamo qui con Savinio - «che insudicia quello che era pulito. Intorbida quello che era limpido. Inlaidisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso. Istupidisce quello che era intelligente. Immiserisce quello che era ricco...»

La mafia umiliava e infamava nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della filosofia, del diritto.

Dopo l’uccisione dei magistrati Terranova, Costa, del capitano Basile, del commissario Boris Giuliano, Chinnici e gli altri magistrati capirono che in Sicilia era la guerra: la guerra contro la civiltà, contro la democrazia. Decisero di combattere, quei magistrati, e si fecero, per la Sicilia, per noi tutti, soldati in prima linea. Non vogliamo qui raccontare ancora la vita di sacrifici a cui si sottoposero i magistrati del pool antimafia, l’altissimo prezzo che hanno dovuto pagare in quella guerra le loro famiglie. Uno dopo l’altro caddero quei magistrati. Caddero Chinnici, Saetta, Livatino, Falcone, Borsellino...

Noi, non più giovani o vecchi, riusciamo solo a dire, parafrasando il poeta de La terra desolata: con il ricordo di Borsellino, con la lezione del sacrificio di tutte le vittime della mafia, riusciamo a puntellare le nostre macerie. Le macerie della nostra vita civile.

Pubblicato il: 16.07.07
Modificato il: 16.07.07 alle ore 7.49   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 19, 2007, 12:22:58 am »

Migrazione, la civiltà come arte della fuga

Vincenzo Consolo




Addio città

un tempo fortunata, tu di belle

rocche superbe; se del tutto Pallade

non ti avesse annientata, certo ancora

oggi ti leveresti alta da terra.

(Euripide: «Le Troiane»)



Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,

io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.

Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo

una sola salvezza avrem l’uno e l’altro. Il piccolo

Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa


(Virgilio: «Eneide»)




Questi versi di Euripide e di Virgilio vogliamo dedicare ai fuggiaschi di ogni luogo, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, il proprio paese e a emigrare altrove. Sono dedicati, i versi, agli infelici che oggi approdano, quando non annegano in mare, sulle coste dell’Europa mediterranea, approdano, attraverso lo stretto di Gibilterra, a Punta Carmorimal, Tarifa, Algesiras; approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo...

La storia del mondo è storia di emigrazione di popoli - per necessità, per costrizione - da una regione a un’altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso. Con questi greci cominciò, nel XXII secolo a.C. la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo - in Cirenaica, nell’Italia meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia, Spagna. La colonizzazione greca in Sicilia, dove vi erano già i Siculi, i Sicani e gli Elimi, avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrie, comunità di varie città - Megara, Corinto, Messane... - che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l’avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. In Sicilia fondarono grandi città come Siracusa, Gela, Selinunte, Agrigento, convissero con le popolazioni già esistenti, assunsero spesso i loro miti e riti, stabilirono pacifici rapporti, per molto tempo, con la fenicia Mozia e con l’elima Erice.

Ma non vogliamo qui certo fare - non sapremmo farla - la storia dell’emigrazione nell’antichità. Vogliamo soltanto dire che l’emigrazione è fra i segni più forti - oltre quelli delle guerre, delle invasioni - della storia.


Segno forte l’emigrazione, della storia italiana moderna.

«Dall’Unità d’Italia (1860) non meno di 26 milioni di italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro Paese. È un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Questo scrive Enriquez Spagnoletti, in un numero speciale dedicato all’emigrazione, nella rivista Il Ponte, rivista fondata da Piero Calamandrei.

Sull’emigrazione nel Nuovo Mondo esiste, sappiamo, una vasta letteratura storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto Dagli Appennini alle Ande, del libro Cuore di Edmondo De Amicis, è il più famoso. E anche, dello stesso autore, Sull’Oceano. Meno famoso è invece il poemetto Italy di Giovanni Pascoli; Sacro all’Italia raminga ne è l’epigrafe.


A Caprona, una sera di febbraio,

gente veniva, ed era già per l’erta,

veniva su da Cincinnati, Ohio.

Vi si narra, nel poemetto, di una famigliola toscana, della Garfagnana, che ritorna dall’America per la malattia della piccola Molly. Nella poesia compare - ed è la prima volta nella letteratura italiana - il plurilinguismo: il garfagnino dei nomi, lo slang della coppia e l’inglese della bambina.

Non era allora solo nelle Americhe l’emigrazione, essa avveniva anche, e soprattutto dal Meridione d’Italia, dalla Sicilia, nel Magreb, in Tunisia particolarmente. Questa emigrazione comincia nei primi anni dell’Ottocento, ed è di fuoriusciti politici. Liberali, giacobini e carbonari, perseguitati dalla polizia borbonica, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: «Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti». In Tunisia si fa esule anche Garibaldi.

La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la crisi economica che colpì le regioni meridionali. Si stabilirono, questi emigranti sfuggiti alla miseria, alla Goletta, a Biserta, Susa, Monastir, Mahdia, nelle campagne di Kelibia di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri chiamati «Piccola Sicilia» o «Piccola Calabria». Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria per giungere nel 1881 al trattato del Bardo e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti, la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani Mario Scalesi divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d’un maudit, fu così il primo poeta francofono del Magreb.

Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna (vediamo come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vice presidente della Camera dei deputati. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: «Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte».

La fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’Italia dell’industrializzazione, del cosiddetto miracolo economico, della crisi del mondo agricolo e insieme della nuova emigrazione di braccianti dal Sud verso il Nord industriale, del Paese e dell’Europa, quella fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia. Segna l’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.

Di siberie, di campi di lavoro, di mondi concentrazionari, di oppressione di popoli a causa di regimi totalitari o coloniali sono stati i tempi da poco trascorsi. Tempi vale a dire in cui l’umanità, per tre quarti, è stata prigioniera, incatenata all’infelicità. E le siberie hanno fatto sì che il restante quarto dell’umanità, al di qua di mura o fili spinati, vivesse felicemente, nello scialo dell’opulenza e dei consumi si alienasse. Ma dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di mala sorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente - un presente cominciato già da parecchi anni - un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro «primo» mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati.

Da ogni Est e da ogni Sud del mondo, da afriche dal cuore sempre più di tenebra, da sudameriche di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico, di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi. Non vogliamo andare lontano, non vogliamo dire del muro di acciaio eretto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, ma dire di qua, del confine d’acqua che separa l’Europa da ogni Sud del mondo, dire del Mediterraneo e della bella Italia, del suo Adriatico e del suo Canale di Sicilia.

Tante e tante volto le carrette di mare provenienti dall’Albania, dalla Tunisia o dalla Libia, carrette stracariche di disperati, si sono trasformate in bare di ferro nei fondali del mare, bare di centinaia di uomini, di donne, di bambini, a cui, come all’eliotiano Phlebas il Fenicio, «una corrente sottomarina / spolpò l’ossa in dolci sussurri». E finiscono anche i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani... E si potrebbe continuare con le cronache di tragedie quotidiane, di una tragedia epocale che riguarda i migranti, le non-persone che cercano di entrare nella vecchia Italia, nella vecchia Europa della moneta unica, delle banche e degli affari. Vecchia soprattutto l’Italia per una popolazione di vecchi. «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma» ha detto icasticamente il poeta Andrea Zanzotto. E la frase-metafora vuole dire di quanto ciechi noi siamo a voler continuare a sguazzare nel nostro mare di catarro e a voler scansare quel mare di vitalità che è arricchimento: fisiologico economico, culturale, umano... Scansare o eludere quell’incontro o incrocio di etnie, di lingue, di religioni, di memorie, di culture, incrocio che è stato da sempre il segno del cammino della civiltà. Respingiamo l’emigrazione dal terzo o quarto mondo erigendo confini d’acciaio con leggi e decreti, come la vergognosa legge italiana sull’emigrazione che porta il nome dei deputati di estrema destra Bossi e Fini, insorgendo con nuovi e nefasti nazionalismi, con stupidi e volgari localismi, con la xenofobia e il razzismo, con la cieca criminalizzazione del diseredato, del diverso, del clandestino.

A partire dal 1968, sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle coste italiane. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.

In una notte di giugno dell’827 d.C., una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Magrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara. Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta l’isola, da occidente fino a oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. I Musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le espoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. Rifiorisce l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il grande storico dell’800 Michele Amari ci ha lasciato La storia dei Musulmani di Sicilia, scritta, dice Vittorini, «con la seduzione del cuore».


Il ritorno infelice è il titolo del saggio del sociologo Antonino Cusumano, in cui tratta dell’emigrazione magrebina in Sicilia, a partire dal 1968, come sopra dicevamo.

Sono passati quarant’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.

Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di detenzione nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea, che sono dei veri e propri lager, di fronte a ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: «In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari».

Pubblicato il: 18.09.07
Modificato il: 18.09.07 alle ore 8.37   
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