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Autore Discussione: MAX BOOT. Stati porcospino per arginare l'orso russo  (Letto 2937 volte)
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« inserito:: Settembre 02, 2008, 03:37:58 pm »

2/9/2008
 
Stati porcospino per arginare l'orso russo
 
 
 
 
 
MAX BOOT*
 
Nell’Europa dell’Est cresce un giustificato timore per la rapidità e il successo immediato della «guerra lampo» russa in Georgia. Per le popolazioni che vivono nel cono d’ombra del gigante russo si sono riaffacciati alla memoria ricordi traumatici: dal 1968 di Praga al ‘56 ungherese, al 1920 per i polacchi. Non aiutano a calmare gli animi le minacce di annichilimento nucleare dirette a Polonia e Ucraina dai generali di Mosca, nel caso non si pieghino alla linea del Cremlino.

Anche i Paesi che al contrario di Georgia o Ucraina fanno già parte della Nato ne traggono poco sollievo. Nelle parole del ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski: «Trattati e promesse d'aiuto vanno benissimo, ma in Polonia siamo storicamente abituati a combattere da soli e ad essere lasciati dai nostri alleati a cavarcela coi nostri limitati mezzi». La risposta di Varsavia agli ultimi avvenimenti è consistita in un avvicinamento più stretto nella relazione con gli Stati Uniti, con la conclusione in tempi brevi d'un accordo i cui negoziati s’erano trascinati a lungo: il dispiegamento su suolo polacco dei missili intercettori Usa. Un buon inizio, per quanto sia solo una mossa di valore simbolico. Questi pochi intercettori sono adatti ad abbattere un numero ugualmente esiguo di missili in caso d'attacco iraniano; non potrebbero ovviamente reggere l’impatto smisurato della batteria di testate dispiegate dai russi poco lontano dal loro confine. La Polonia e altri stati dell’Est non dovrebbero poter contare solo sulla semplice illusione di un appoggio americano in caso di crisi con la Russia: in passato noi americani abbiamo lasciato nei guai Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. Di recente, non abbiamo fatto granché per aiutare i georgiani.

L’unica cosa sulla quale dovrebbero davvero contare questi Stati in prima linea dovrebbe essere la loro volontà di combattere per la propria indipendenza. Ma questa volontà da sola non basta. Avrebbero anche bisogno dei mezzi per combattere, cosa di cui al momento non dispongono. Abbiamo da poco assistito alla disfatta del piccolo esercito georgiano - appena 30 mila uomini - contro le divisioni di Mosca. Ma è un dato di fatto ignorato dai più che la Georgia, pur essendo un piccolo Stato di appena 4,6 milioni d’abitanti, avrebbe i mezzi per migliorare di parecchio il proprio apparato difensivo. Secondo il World Factbook della Cia, in Georgia ci sono oltre 900 mila uomini in età di leva tra i 16 e i 49 anni. Tbilisi potrebbe facilmente rendere più numerose le sue forze armate, ma avrebbe bisogno di spendere molto di più per la Difesa. Secondo le stime Cia, Tbilisi ha destinato appena lo 0,59 percento del proprio Pil alle spese militari nel 2005.

Le spese militari georgiane sono comunque aumentate negli ultimi anni: non è stato invece così per l’Europa dell’Est. Secondo i dati dell’International Institute on Strategic Studies c’è solo una nazione in quell’area geografica che spende più del 2 per cento del proprio Pil in difesa. Si tratta della Bulgaria col 2,2 per cento; al secondo posto la Romania coll'1,9 per cento, seguita dalla Polonia all'1,8. Nessuna di queste nazioni mantiene apparati militari numerosi. Varsavia potrebbe disporre di quasi 8 milioni di maschi in età di leva, ma conta su soltanto 127 mila effettivi per le proprie forze armate. L’Ungheria potrebbe mobilitare un milione 900 mila uomini, ma ne mantiene solo 32 mila 300 in uniforme. In Bulgaria avrebbero un milione 300 mila soldati potenziali ma ne hanno a disposizione solo 40 mila al momento. E così via.

L’unica eccezione a questa tendenza alla smilitarizzazione è la Russia, che con un milione e passa di soldati in servizio effettivo, ha costantemente incrementato il budget della Difesa rispetto agli anni di magra dell’era immediatamente post sovietica. Secondo i dati ufficiali Mosca spende almeno il 2,5 percento del proprio Pil nell’esercito. Ma se a questi dati aggiungiamo le spese sulle forze paramilitari e simili, la somma totale arriva al 4 percento del Pil russo annuale. Pressappoco quanto spendono gli Stati uniti per la Difesa.

In passato i piccoli stati hanno spesso dimostrato di potere umiliare le grandi potenze, come quella Russa. Nel 1920 i polacchi, sotto l’abile guida del Maresciallo Josef Pilsudski, misero in campo un eccezionale contrattacco in difesa di Varsavia, che portò ad allontanare l’Armata Rossa dal proprio suolo. Nell’inverno del 1940 i coraggiosi finlandesi sbatterono fuori i sovietici dalla propria terra, costringendo il Cremino ad accontentarsi di avere una piccola porzione dei loro territori, invece di annettersi l’intera nazione. Negli ultimi anni, i mujaheddin afgani hanno costretto al ritiro dal loro Paese l’intera Armata Rossa, con una sconfitta che segnò l’inizio del crollo per l'impero sovietico.

Ma se al giorno d’oggi gli europei orientali volessero imitare delle imprese simili (o, per essere più precisi, se volessero impedire ai Russi di tenerli sotto scacco, mettendo da subito in chiaro che sarebbero capaci di emulare imprese simili) dovrebbero impegnarsi parecchio di più per irrobustire i loro apparati di Difesa. Dovrebbero raddoppiare le spese militari per trasformarsi in Stati-porcospino che toglierebbero all’Orso russo ogni voglia di inghiottirli in un sol boccone.

Gli Usa li possono aiutare in questo intento, come già aiutarono gli afgani negli Anni 80 e così come i francesi aiutarono i polacchi negli Anni 20 dall’invasione sovietica. Questo obiettivo richiederebbe un riallineamento della strategia di assistenza americana, che finora si è impegnata nel ricostruire in Europa orientale delle copie in miniatura delle forze armate statunitensi. La speranza, che in buona parte si è avverata, era che questi Stati avrebbero un domani sostenuto gli Usa negli impegni militari di altri quadranti mondiali, fossero essi l’Afghanistan o l’Iraq. Ma oltre a sviluppare eserciti in stile Nato in grado di organizzare delle missioni estere, questi Stati dovrebbero essere sostenuti nella struttura della loro stessa autodifesa.

Ciò comporta la possibilità di disporre di ampie forze di riservisti, pronti alla chiamata alle armi, e con a disposizione arsenali ben riforniti: nella fattispecie, dovrebbero essere riforniti di sistemi missilistici mobili come gli Stinger, o Javelin, capaci di infliggere grandi danni alle ingombranti divisioni di carri russi.

*Editorialista e storico militare
Membro del Council on Foreign Relations Copyright The New York Times Syndacate

 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 03, 2008, 06:16:03 pm »

Se il problema è la Nato

Paolo Soldini


«Il problema sta a monte», si sarebbe detto una volta. I capi di Stato e di governo dell’Unione europea, lunedì a Bruxelles, hanno trovato una non scontata unanimità sull’atteggiamento da assumere verso la Russia di Putin. Benissimo. Ma quanti mostrano entusiasmo per questa (inconsueta) manifestazione d’esistenza in vita di una politica estera comune dei 27 dovrebbero guardare, oltre che a quel che è stato detto, anche a quello che non è stato neppure accennato: al silenzio che i responsabili politici europei continuano ad opporre al vero Problema (quello che “sta a monte”, per l’appunto) della collocazione sullo scenario mondiale e delle prospettive - geopolitiche, energetiche, commerciali, economiche - dell’Unione.

E dire che il Problema abita a pochi chilometri dal palazzo del Consiglio europeo, sul boulevard Léopold III, verso l’aeroporto di Zaventem, nelle basse costruzioni che ospitano il cervello politico della Nato, l’alleanza guidata, per tradizione, da un Secretary General europeo, attualmente l’olandese Jaap de Hoop Scheffer, ma governata, per la dura sostanza dei rapporti di forza, dagli americani. Se si mettono per un momento tra parentesi le questioni di immagine e le autocratiche esigenze di politica interna di Vladimir Putin (per carità: importantissime e terribilmente nocive), non ci vuol molto a rendersi conto del fatto che la complicata trama delle relazioni tra l’Europa e la Russia sconta drammaticamente da almeno un quindicennio l’incapacità delle cancellerie del Vecchio Continente ad affrontare la “questione Nato”. La questione, cioè, di un’alleanza difensiva atlantica che all’indomani del disfacimento dell’Unione sovietica non avrebbe avuto, in teoria, altra scelta che sciogliersi. La Nato, invece, guidata da una sorta di “come se” kantiano non solo ha continuato ad esistere ma anche a condurre la sua “guerra” (contenimento e roll-back) contro un nemico che ufficialmente i leader dell’Occidente non considerava più tale, al punto da offrirgli ogni genere di partenariato.

Vediamo solo per cenni come. All’epoca dei negoziati “due più quattro” per l’unificazione tedesca, fu assicurato a Mosca che non solo la Nato non si sarebbe allargata ad est, ma che la stesso territorio della ex Rdt sarebbe stato libero da armi offensive. Pochi anni dopo tutti gli stati sui confini occidentali dell’ex Urss più le tre repubbliche baltiche che ne facevano parte erano stati cooptati nell’alleanza. La distinzione tra “Europa vecchia” (e cattiva) ed “Europa giovane” (e buona) declamata a Washington prima della guerra in Iraq mise in luce l’esistenza di una “special relationship” americana con gli Stati est-europei che sarebbe poi culminata nel piano di scudo spaziale esteso alla Polonia e alla Repubblica cèca. Il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, frutto di una guerra voluta solo dalla Nato fuori e contro l’Onu, è stato uno schiaffo inferto sul presupposto (sbagliato) che le minacce russe di rendere il pan per focaccia in Ossezia e in Abkhazia (e manca ancora la Transnistria...) fossero un bluff. Al supervertice di Bucarest dell’aprile scorso, infine, solo un soprassalto di senso di responsabilità di alcuni governi europei ha impedito un’accelerazione dell’assunzione nella Nato dell’Ucraina e della Georgia. Se questa seconda fosse avvenuta, in base all’art. 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord che dispone l’intervento automatico a fianco di un partner aggredito, ci troveremmo, oggi, in guerra con la Russia.

Ci sono infine, colpevolmente ignorate da osservatori e media, le spinte americane perché il concetto di aggressione nello stesso art. 5 venga esteso all’interruzione delle forniture energetiche. È assai probabile che l’inquietudine russa per questo possibile sviluppo si aggiunga a quella per i programmi, già in fase di attuazione, di gasdotti che dall’Asia centrale in cui si rafforzano peso e influenza di Washington by-passino la Russia, sfociando in un Mar Nero che sta già entrando nella “sfera d’interesse” occidentale con gli stati rivieraschi membri dell’alleanza (Turchia, Bulgaria, Romania) o, almeno al momento, “amici” (Ucraina e Georgia) e una linea costiera russa ridotta dall’est della Crimea fino all’Abkhazia.

Certo, il fatto che Mosca si senta sempre più accerchiata e insidiata nella straordinaria fonte di reddito derivata da gas e petrolio non giustifica in alcun modo i riflessi “imperiali” di Putin e della sua corte, né rende meno pericolosa l’ubriacatura nazionalista che dilaga in larghi strati di opinione pubblica. Gli errori occidentali nel Kosovo non giustificano il riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia e Abkhazia, che rischia di avere, esattamente come quella del Kosovo, effetti dirompenti in ogni area dove esistono conflitti etnici o problemi di minoranze (come dire: non solo nell’area caucasica ma in tutta Europa). La strategia Usa, calata nell’ormai politicamente informe contenitore della Nato, pone però un problema molto serio agli europei. Bisogna essere ciechi per non vedere che in fatto di relazioni con la Russia e con tutta l’area dell’ex Unione sovietica gli interessi del Vecchio Continente non coincidono affatto con quelli del Nuovo. E non solo per ragioni economiche. L’atteggiamento verso Mosca è il paradigma di quel “decoupling” degli interessi che fu lo spauracchio delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico nei decenni in cui esisteva la dura minaccia militare dall’est ma che, scomparso il pericolo, avrebbe dovuto fisiologicamente manifestarsi. Senza drammi e in spirito di amicizia: noi siamo europei, voi siete americani; noi abbiamo la nostra storia e la nostra geografia, voi le vostre. Se c’è bisogno, nel mondo insidiato dal terrorismo e dalla instabilità, di un’organizzazione di sicurezza, anche militare, non c’è motivo che non sia l’Onu, adeguatamente riformata, che è universale. La Nato non lo è. Quando si comincerà a discutere di questo?

Pubblicato il: 03.09.08
Modificato il: 03.09.08 alle ore 13.03   
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