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Autore Discussione: Dissacrante Houellebecq «Che stupido, quel Prévert»  (Letto 3225 volte)
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« inserito:: Settembre 01, 2008, 11:32:25 am »

«Sono al Salone del video hot, ma in realtà cosa ci faccio qui?»

Dissacrante Houellebecq «Che stupido, quel Prévert»

Alcuni brani tratti da "LA ricerca della felicità", raccolta di testi inediti in italano in uscita da Bompiani


Jacques Prévert è qualcuno di cui si imparano le poesie a scuola. Ne risulta che amava i fiori, gli uccelli, i quartieri della vecchia Parigi ecc. Gli pareva che l’amore sbocciasse in un’atmosfera di libertà; più generalmente, era piuttosto per la libertà. Portava un berretto e fumava delle Gauloises; lo si confonde talvolta con Jean Gabin; del resto è stato lui a scrivere la sceneggiatura di Porto delle nebbie, di Mentre Parigi dorme ecc. Ha scritto anche la sceneggiatura di Amanti perduti, considerato il suo capolavoro. Molte buone ragioni per detestare Jacques Prévert, soprattutto se si leggono le sceneggiature mai girate che Antonin Artaud scriveva alla stessa epoca. È desolante constatare che il ripugnante realismo poetico, di cui Prévert fu l’artefice principale, continua a fare danni e che si pensa di fare un complimento a Léos Carax accostandolo a lui (nello stesso modo, Rohmer sarebbe probabilmente un nuovo Guitry ecc.). Il cinema francese, in realtà, non si è mai ripreso dall’avvento del sonoro; finirà col creparne e non è un gran male. Nel dopoguerra, circa alla stessa epoca di Jean-Paul Sartre, Jacques Prévert ha riscosso un successo enorme; si è colpiti dall’ottimismo di quella generazione. Oggi il pensatore più influente sarebbe piuttosto Cioran. All’epoca si ascoltavano Vian, Brassens... Innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine, baby boom, costruzione massiccia di case popolari per alloggiare tutta quella gente. Molto ottimismo, molta fiducia nel futuro e un po’ di stupidità. Certamente siamo diventati molto più intelligenti. Con gli intellettuali, Prévert ha avuto meno fortuna. È sfuggito dunque essenzialmente alle tesi di dottorato. Oggi, tuttavia, entra nella Pléiade, il che costituisce una seconda morte. La sua opera è lì, completa e fissa. È un’eccellente occasione di interrogarsi: perché la poesia di Jacques Prévert è così mediocre che si prova talvolta una sorta di vergogna a leggerla? La spiegazione classica (perché la sua scrittura «manca di rigore») è completamente sbagliata; attraverso i suoi giochi di parole, il suo ritmo leggero e limpido, Prévert esprime in realtà perfettamente la sua concezione del mondo. La forma è coerente con la sostanza, il che è proprio il massimo che si possa esigere da una forma. Del resto, quando un poeta si immerge a tal punto nella vita, nella vita reale della sua epoca, sarebbe fargli torto giudicarlo secondo criterimeramente stilistici. Se Prévert scrive, significa che ha qualcosa da dire; torna tutto a suo onore. Purtroppo, ciò che ha da dire è di una stupidità senza limiti, talvolta nauseante. Ci sono belle ragazze nude, borghesi che sanguinano come porci quando li sgozzano. Storia vecchia; si può preferire Baudelaire. L’intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie; essa può tuttavia evitare di scriverne di brutte. Se Jacques Prévert è un cattivo poeta è soprattutto perché la sua visione del mondo è piatta, superficiale e falsa. Era già falsa ai suoi tempi; oggi la sua nullità appare lampante, al punto che l’intera opera sembra lo sviluppo di un gigantesco luogo comune. Sul piano filosofico e politico, Jacques Prévert è innanzitutto un libertario; cioè, fondamentalmente, un imbecille.

Cosa vieni a cercare qui?
«Dopo il successo fenomenale della prima edizione», il secondo salone del video hot si tiene al parco delle esposizioni di Porte Champerret. Faccio appena in tempo a sbucare sullo spiazzo che una giovane donna, di cui ho dimenticato tutto, mi consegna un volantino. Cerco di parlarle, ma lei ha già raggiunto un gruppetto di militanti che battono i piedi per riscaldarsi, ciascuno con un pacco di volantini in mano. Una domanda campeggia al centro del foglio che mi ha consegnato: «Cosa vieni a cercare qui?».Mi avvicino all’ingresso; il parco delle esposizioni è sotterraneo. Due scale mobili ronzano debolmente in mezzo a uno spazio immenso. Degli uomini entrano soli o a gruppetti. Piuttosto che a un tempio sotterraneo della lussuria, il posto fa pensare vagamente a un Darty. Scendo alcuni gradini, poi raccolgo un catalogo abbandonato. È della Cargo Vpc, società di vendita per corrispondenza specializzata nel video porno. Sì, cosa ci faccio qui? Tornato nella metropolitana, comincio a leggere il volantino. Sotto il titolo: «La pornografia ti fa marcire il cervello», sviluppa l’argomentazione seguente: nelle abitazioni di tutti i delinquenti sessuali (stupratori, pedofili ecc.) sono state ritrovate numerose cassette pornografiche. La visione ripetuta di cassette porno provocherebbe «secondo tutti gli studi» una confusione delle frontiere fra il fantasma e la realtà, facilitando il passaggio all’atto, e nello stesso tempo toglierebbe ogni attrattiva alle «pratiche sessuali convenzionali». «Che ne pensa?» sento la domanda prima di vedere il mio interlocutore. Giovane, capelli corti, l’aria intelligente e un po’ ansiosa, mi sta davanti. Arriva il metrò, il che mi lascia il tempo di rimettermi dalla mia sorpresa. Per anni ho camminato per le strade chiedendomi se sarebbe venuto il giorno in cui qualcuno mi avrebbe rivolto la parola, non solo per chiedermi dei soldi. Be’, ecco, quel giorno è venuto. Ci è voluto il secondo salone del video hot. Contrariamente a ciò che pensavo, non è un militante antipornografia. In realtà, torna dal salone. Ci è entrato. E ciò che ha visto lo ha messo piuttosto a disagio. «Soltanto uomini... c’era qualcosa di violento nel loro sguardo». Obietto che il desiderio conferisce spesso ai lineamenti una maschera tesa, violenta, sì. Ma no, lo sa, non intende parlare della violenza del desiderio, ma di una violenza realmente violenta. Qualche tempo dopo, a casa, ritrovo il catalogo di Cargo Vpc. Confesso che non mi aspettavo una cosa simile. Per la prima volta in vita mia, comincio a provare una vaga simpatia per le femministe americane. Da qualche anno avevo certo sentito parlare della comparsa di una moda trash, che addebitavo stupidamente allo sfruttamento di una nuova fetta di mercato. Credulità da economista,mi spiega l’indomani la mia amica Angèle, autrice di una tesi di dottorato sul comportamento mimetico nei rettili. Il fenomeno è assai più profondo. «Per riaffermare la sua potenza virile — attacca Angèle con tono vivace — l’uomo non si accontenta più della semplice penetrazione. Si sente infatti di continuo valutato, giudicato, paragonato agli altri maschi. Per scacciare questo malessere, per riuscire a provare piacere, adesso ha bisogno di picchiare, di umiliare, di avvilire la sua partner; di sentirla completamente alla sua mercé. Questo fenomeno — conclude la mia amica con un sorriso — comincia del resto a osservarsi anche nelle donne». «Dunque, siamo fregati» dico dopo un po’. Ebbene sì, secondo lei. Verosimilmente, sì.

Il Tedesco
Ecco come si svolge la vita del Tedesco. Durante la giovinezza, durante la maturità, il Tedesco lavora (di solito in Germania). Talvolta è disoccupato, ma meno spesso del Francese. Con il passare degli anni, comunque sia, il Tedesco raggiunge l’età della pensione; d’ora innanzi ha la scelta del suo luogo di residenza. Si sistema allora in una casa di campagna nel Baden-Württemberg? In una casa della periferia residenziale di Monaco? Talvolta, ma in realtà sempre meno. Una profonda mutazione si opera nel Tedesco tra i cinquantacinque e i sessant’anni. Come la cicogna in inverno, come l’hippy di epoche più antiche, come l’Israeliano adepto del Goa trance, il Tedesco sessantenne parte per il Sud. Lo si ritrova in Spagna, spesso sulla costa fra Cartagena e Valencia. Alcuni esemplari (di un ambiente socio-culturale di solito più agiato) sono stati segnalati alle Canarie o a Madera. Questa mutazione profonda, esistenziale, definitiva sorprende poco chi lo frequenta; è stata preparata da molteplici soggiorni di vacanza, resa quasi inevitabile dall’acquisto di un appartamento. Così il Tedesco vive, approfittando dei suoi ultimi begli anni. Questo fenomeno mi si è rivelato per la prima volta nel novembre del 1992. Circolando in auto un po’ a nord di Alicante, ebbi la strana idea di fermarmi in una minicittà, che si potrebbe definire villaggio; ilmare era vicinissimo. Il villaggio era senza nome; probabilmente non avevano avuto il tempo di battezzarlo (nessuna casa, visibilmente, era anteriore al 1980). Erano circa le cinque del pomeriggio. Camminando per le vie deserte, ho constatato dapprima un curioso fenomeno: le insegne dei negozi e dei caffè, i menù dei ristoranti, tutto era scritto in tedesco. Ho comperato alcune provviste, poi ho notato che il posto cominciava ad animarsi. Una popolazione sempre più fitta si accalcava nelle strade, nelle piazze, sul lungomare; sembrava animata da un vivo appetito di consumi. Delle casalinghe uscivano dalle abitazioni. Dei baffuti si salutavano con calore e sembravano mettere a punto i particolari di una serata. L’omogeneità di questa popolazione, dapprima sorprendente, divenne a poco a poco ossessionante e verso le sette dovetti arrendermi all’evidenza: LA CITTÀ ERA INTERAMENTE POPOLATA DA PENSIONATI TEDESCHI.

Commedia metropolitana
Un creativo di circa ventisette anni venne a sedersi accanto a me. Mi fu subito antipatico (forse la sua coda di cavallo o i suoi baffetti strani; forse anche una vaga somiglianza con Maupassant). Dispiegò una lettera di parecchie pagine e cominciò a leggerla; il convoglio si avvicinava alla stazione Liberté. La lettera era scritta in inglese e gli era verosimilmente indirizzata da una svedese (controllai la sera stessa sul mio Larousse illustrato; infatti Uppsala si trova in Svezia, è una città di centocinquantatremila abitanti, che possiede un’università molto antica; non sembra ci sia molto altro da dire). Il creativo leggeva lentamente, il suo inglese era mediocre, non feci alcuna fatica a ricostruire la faccenda nei particolari (fuggevolmente presi coscienza che la mia moralità non faceva una gran bella figura; ma dopotutto il metrò è uno spazio pubblico, no?). Evidentemente, si erano incontrati l’inverno precedente a Chamrousse (ma che idea per una svedese andare a sciare sulle Alpi!). L’incontro le aveva cambiato la vita. La lettera si concludeva con questa frase: «I love you and I don’t want to loose you». L’ho trovato molto bello; ci sono giorni in cui mi piacerebbe molto scrivere così. Firmava: «Your’s Ann-Katrin» e circondava la firma di piccoli cuori. Il tipo scendeva a Bastille e anch’io. Per un attimo ebbi voglia di seguirlo, ma avevo appuntamento con Bertrand Leclair alla Quinzaine Littéraire. Nel quadro di questa cronaca, avevo intenzione di polemizzare con Bertrand Leclair su Balzac. In primo luogo perché con comprendo bene che cos’abbia di peggiorativo l’aggettivo balzachiano che affibbia ogni tanto a questo o a quel romanziere; poi perché sono un po’ stufo delle polemiche su Céline, autore sopravvalutato. Ripenso a quella povera Ann-Katrin, che immagino sotto i tratti patetici di Eugénie Grandet (impressione di vitalità anormale che si sprigiona da tutti i personaggi di Balzac, siano essi sconvolgenti o odiosi). Ci sono quelli che è impossibile uccidere, che risorgono da un libro all’altro (peccato che non abbia conosciuto Bernard Tapie). Ci sono anche i personaggi sublimi, che si stampano immediatamente nella memoria, proprio perché sono sublimi, e tuttavia reali. Balzac realistico? Si potrebbe dire «romantico», altrettanto bene. A ognimodo, non penso che si sentirebbe spaesato ai giorni nostri. Dopotutto, nella vita, permangono reali elementi di melodramma. Soprattutto nella vita degli altri, del resto.
© Flammarion 1998

Michel Houellebecq
01 settembre 2008

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