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Autore Discussione: PIETRO MODIANO Il banchiere e il '68  (Letto 2450 volte)
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« inserito:: Agosto 26, 2008, 11:14:41 am »

26/8/2008
 
Il banchiere e il '68
 
 
PIETRO MODIANO
 
Avevo 16 anni nel ’68 e 16 anni erano pochi anche allora. Non mi sono accorto di niente: né delle tendenze culturali, né delle divisioni che stavano sotto quel movimento. Non avevo letto libri, ma appena i giornaletti. La storia di allora per me non è una storia di divisioni. Il movimento, per definizione, è una cosa che unisce. La bellezza e la forza dei movimenti non è nel fare la storia. Sono onde che nella storia si formano, a volte fanno disastri, a volte finiscono nella risacca. La storia siamo abituati a identificarla in numeri: ogni 10 anni si parla del ’68. Ma i movimenti non fanno la storia. Non credo che la storia dell’Italia di oggi abbia a che fare con la storia di quel movimento. È diversa la storia del movimento vista da un diciassettenne o diciottenne o ventenne di allora, che non aveva letto i «quaderni rossi», non sapeva di Mao Ze-Dong, andava in chiesa. Era una storia di unione: la cosa bella del ’68 è che ci siamo uniti, che si è unita una generazione, altrimenti non si spiega perché ancora ci si emoziona a parlarne. Ci siamo uniti su qualcosa d’importante.

Il mio ’68 non è cominciato con l’occupazione di Palazzo Campana nel ’67 a Torino, quando tutti gli storici di quel periodo fissano l’inizio del ’68 italiano. Il mio ’68 comincia il 23 agosto ’63 quando ci fu la grande manifestazione a Washington per i diritti civili, quella di «I have a dream».

Il ’68 europeo nasce da una situazione mondiale in cui una generazione ha cominciato a pensare che i grandi conflitti lasciati irrisolti dalla guerra non potevano che essere risolti pacificamente perché ce n’erano le culture e le risorse materiali. Era nata così: il dopoguerra, il senso dell’ingiustizia, la ferocia dell’ingiustizia, l’inaccettabilità dell’ingiustizia in un mondo che cominciava a creare benessere. Questo nasce dai cuori, non nasce dai libri. Ognuno di noi ha le sue icone: per me è quella lì. Vedevamo i telegiornali e poi andavamo a letto dopo Carosello. Ai telegiornali ci colpivano i reduci del Vietnam, i ghetti neri che esplodevano, gli studenti e «I have a dream»: non una rivoluzione, ma un sogno, il sogno americano, più giustizia: questi eravamo noi. Una cosa nata tutta dal cuore e poco dall’intelligenza. Ci siamo uniti e abbiamo fatto un sacco di scemenze. Perché ognuno faceva per conto suo. A Milano quel che facevamo al Manzoni, al Parini, nell’Università era diverso. Ognuno s’inventava qualcosa. Poi c’era lo slogan inventato Che Guevara: dovevamo fare cento, mille Vietnam e io ricordo un corteo interno contro una sventurata professoressa di chimica, che insegnava male, si chiamava Basso, e il corteo gridava: «La Basso sarà il nostro Vietnam». Eravamo in seconda liceo di un istituto di Milano. Mi ricordo un’assemblea del Manzoni, feroce, divertentissima: c’era una vacanza per l’anniversario della vittoria del ’15-’18, e noi volevamo abolirla perché eravamo pacifisti. Abbiamo occupato la scuola, non abbiamo voluto fare la vacanza con i professori costretti a insegnare, facendo seminari più o meno assurdi - perché ce li gestivamo per conto nostro - sull’orrore della guerra.

A scuola ci si fermava coi programmi di letteratura a Giovanni Verga, con la storia prima del ’15-’18, con l’arte prima degli Impressionisti: avevamo occupato la scuola alle 7,30 di mattina per studiare gli impressionisti. L’aula magna del Manzoni piena alle 7,30 di mattina. Questa era una forma creativa di lotta del ’68, e quaderni e guardie rosse non c’entravano ancora niente. Era uno straordinario senso di unione, ha ragione Alberoni, era come l’innamoramento, tutto di cuore, e ci si divertiva pure. Non perché c’era il libero amore, non me ne sono accorto. Né ho mai visto uno spinello. Quello è venuto dopo. Picchiavamo quelli che partecipavano alle assemblee, che facevano le occupazioni con la canna. Eravamo bravi ragazzi, di buona famiglia alcuni, alcuni menati dai genitori. Ho fatto l’occupazione del Manzoni, sono tornato, mi ha portato via un poliziotto enorme, avevo appunto 16 anni. Il poliziotto mi ha trattato bene, mio padre me ne ha date un sacco e una sporta. E però poi, tornato in classe, ero un eroe. Avevo un amico sionista. Diceva: «Io sono Davide contro Golia, e noi siamo Davide contro Golia». È dopo che i giovani hanno scelto di schierarsi. Io mi schieravo ogni giorno, sceglievo. Decidere se alzare una mano in assemblea o intervenire in un modo o nell’altro era una scelta personale. Poi litigavi con i tuoi compagni di classe. Questo è il movimento del ’68 che ci ricordiamo.

I movimenti finiscono, normalmente finiscono male, perché è tale la carica di aspettativa, di speranza, di energia, che la storia non la contiene. E lì comincia il problema vero. In Italia il movimento si è fratturato troppo presto e troppo male. Sì, quel movimento è finito con piazza Fontana. In Francia il movimento era più solido: hanno occupato la Sorbona, gli studenti hanno circondato la polizia che circondava la Sorbona. De Gaulle dice: «Per uscire dall’assedio sparate pure». Il prefetto di Parigi dice: «Io non sparo, anzi li ritiro». È stata una grande festa a Parigi, questo ha rilanciato un po’ il ’68, ma ha disinnescato una bomba spaventosa. Noi in quegli anni non abbiamo avuto il nemico. Il 12 dicembre abbiamo visto che il nemico c’era. Era un nemico brutto, era quello che aveva ammazzato Kennedy, allora sono gli stessi. Son quelli che vogliono male agli uomini, che hanno ammazzato Martin Luther King ecc. E si è manifestata la cattiveria. Lo scontro. E li ci siamo fratturati. Fra comunisti, estremisti ecc.

E lì abbiam perso la verginità e abbiamo perso il movimento. Siamo diventati cattivi. Mario Capanna racconta «Formidabili quegli anni». Quelli di prima erano stati formidabili, dopo non lo sono stati più. Io credo che il potenziale per renderli un po’ meglio ci fosse se non ci fossimo scontrati con un nemico strano, oscuro, cattivo. Quel movimento poteva crescere meglio. Dopo le bombe di piazza Fontana, l’Italia era sotto choc, lo choc collettivo più grosso: era tutto grigio, buio, avevamo paura tutti. La polizia mise in galera uno studentello del Manzoni anarchico, e capite che cosa succede in una scuola. Bravissimo figliolo, in galera, 16 anni 16 o 17 anni. Proibite tutte le manifestazioni. Avevi visto «Zeta» di Costa Gavras, la Grecia dei colonnelli. E noi abbiamo detto: «Siamo lì». E di fronte a quel siamo lì, per la verità il movimento degli studenti, quello con la minuscola ha reagito molto bene. I funerali di piazza Fontana sono stati la prova che l’Italia ce la poteva fare. Il potenziale di unità collettiva intorno alla democrazia italiana, alle sue istituzioni, ai valori buoni che era ereditato da quel bel movimento, già forte e maturo. E però ci siamo divisi. Ci siamo incattiviti. Poi ognuno ha preso la sua strada. Me ne sono andato soldato perché non ne potevo più, non riuscivo a rimettere insieme i cocci del paradiso perduto e di un itinerario che non ti portava da nessuna parte. Scegliendo tra movimento studentesco, avanguardia operaia, lotta continua o... Ho alzato le mani, come tanti di noi.

Resta nella vita anche dei cinquantenni quel sogno di prima. È buono o cattivo? È buono. E guai a pensare che fosse cattivo. Perché vorrebbe dire che non c’è speranza che si possa creare qualche cosa tutti insieme, al di là delle sigle e delle appartenenze, in nome di un progetto collettivo in cui riconoscersi. Il fatto che per un certo tempo sia stato o almeno si sia creduto possibile in tutto il mondo è un valore in sé, ingenuo, ma che fa bene, che migliora, più di quanto non faccia l’alimentazione di rimorsi che non hanno giustificazioni. Io credo che quella sia la parte migliore di noi.

*dall’intervento del direttore generale Intesa San Paolo alla tavola rotonda su «’68: un’occasione perduta?» al Meeting di Rimini
 
da lastampa.it
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