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Autore Discussione: MARCO BELPOLITI. Televisione misura del mondo  (Letto 4479 volte)
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« inserito:: Agosto 27, 2008, 10:19:18 am »

27/8/2008
 
La società del contatto
 
 
MARCO BELPOLITI
 
Opinione pubblica? No, grazie. Così lo «Stato seduttore», come l’ha definito Régis Debray, effetto della rivoluzione massmediologica del potere - tv prima, Internet poi -, risponde a chi s’appella a un’istituzione sorta meno di due secoli fa ed estintasi negli ultimi vent’anni. All’articolo di giornale, al libro e al pamphlet, succede il sondaggio. Dalla galassia Gutenberg alla galassia Gallup. L’opinione pubblica si è trasformata in numero, dato statistico.

Si è trasformata in un flusso, che coi metodi messi a punto dall’americano Gallup, l’inventore dei sondaggi, si cerca di orientare e dirigere. L’opinione pubblica è in effetti una creazione dei Lumi, di un ceto intellettuale - giornalisti, avvocati, scienziati - che ha preparato, e poi realizzato, la Rivoluzione francese. E ora non c’è più. La neotelevisione ha trasformato una massa di cittadini, modellati dalla chiesa e quindi dalla scuola, in consumatori: dalla pedagogia alla pubblicità. La politica la fanno le star, un tempo i divi di Hollywood ora quelli dei serial televisivi e dei talk show, comparse effimere, ma avvincenti, di un sistema in cui il libro è un oggetto obsoleto, mentre lo schermo appare il vero luogo di socializzazione, apprendimento e comunicazione. Come il caso italiano dimostra ogni giorno di più, siamo immersi in una postmodernità che però possiede anche i tratti di una premodernità: futuro e passato insieme. Al discorso, tipico dell’intellettuale tradizionale, è succeduta la trasmissione, dal convincimento mediante argomentazioni si è passati alla seduzione tout court. Non a caso Berlusconi, versione casalinga del sistema americano, appare come un divo, il cui eterno sorriso ricorda quello delle star cinematografiche: seduce come se fosse una donna.

Ma c’è qualcosa di più e di nuovo: alla «società dello spettacolo», formula inventata dal situazionista Guy Debord, cui ci si appella per spiegare il fenomeno italiano, si sostituisce la «società del contatto» per cui ciascuno è interpellato in modo diretto e indiretto ogni giorno attraverso le solerti telefoniste dei call center o i sondaggisti, usando i dati raccolti con le fidelity card e le credit card, o ricorrendo alle statistiche generate dalle telefonate al cellulare o dalla navigazione Internet. Più che spiati siamo contattati. Questa è la nuova opinione pubblica, che continua a far politica, se la parola ha ancora un senso, ma in modo molecolare, senza ideologia e senza progetto, attraverso flussi tra cui il fondamentale feedback: Siete d’accordo? Votate nel sito! È lo stop and go.

Così è iniziata la transizione dalla neotv alla videosfera informatica, mentre ancora i commentatori guardano a un passato scomparso. Come si può parlare di opinione pubblica dopo che Drayton Bird, geniale specialista di marketing, negli Anni 80 ha impostato il rivoluzionario passaggio dal «marketing diretto» al «marketing relazionale»? Da un mercato di venditori a un mercato di acquirenti: là dove «la pubblicità parla del prodotto, il marketing diretto parla del cliente». E c’è chi ha brillantemente applicato alla politica questi sistemi di comunicazione, aggiungendovi la capacità seduttiva propria del piccolo schermo. Il punteggio dell’audience è la nuova opinione pubblica. Il «governo dei sondaggi» è il nome polemico che viene dato, scrive Debray, all’inversione della logica dell’offerta in logica della domanda.

Non deve stupire troppo che un pubblicitario o un esperto di marketing sia pagato cento volte di più di un insegnante o un professore universitario. Chi in questo contesto auspica il ritorno alla scuola della tradizione, come fa Galli della Loggia sul Corriere, non ha capito, o fa finta di non capire, il cambio di stagione: la scuola non ha più allievi bensì utenti, e tra poco solo clienti. È «un servizio sociale come altri», scriveva oltre dieci anni fa Debray. La diminuzione del peso della scuola nella videosfera si accompagna alla dilatazione degli spazi dell’apprendimento extrascolastici. Non si può continuare a pensare alla politica del futuro senza misurarsi con tutto questo. La sinistra, liberale, alternativa o radicale che sia, se ancora esiste, non può ignorare questa realtà e come l’io narrante del Poeta pensare che passata la tempesta ritorni il sereno. Illusione pericolosa.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:24:47 am »

21/4/2009
 
Televisione misura del mondo
 
MARCO BELPOLITI
 
Uno degli aspetti che più colpiscono nell’attuale processo d’omologazione in corso è l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Certo c’è stata «la casalinga di Voghera», assurta al rango d’intellettuale di riferimento dopo il patronage d’Alberto Arbasino, ma adesso tocca agli intellettuali di X Factor. Secondo Walter Siti, che ne ha scritto sulla Stampa sabato scorso, si tratta di un programma seguito da nutriti gruppi d’ascolto di cui farebbero parte scrittori e intellettuali di grido, che dibattono tra loro, non più di Marx e Nietzsche, di Adorno e Horkheimer, bensì di Morgan e Mara Maionchi.

Colpisce il fatto che le persone esposte allo sguardo ammirato di molti, se non di tutti, non siano più modelli alti, personaggi di rilievo intellettuale o morale, quanto piuttosto uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Realtà e spettacolo si avvicinano sempre più, così che il secondo ha inglobato la prima. Del resto, lo spettacolo non assolve più alla sua naturale funzione di rappresentare, drammatizzare, far riflettere, appassionare, svolgendo il ruolo catartico per cui era nato, ma s’identifica sempre più con la realtà stessa, così che non esiste più alcuna differenza tra le due cose: tutto è spettacolo, anche la vita, soprattutto quella intima.

Gli psicoanalisti, interessati a quello che accade fuori dalle loro stanze, da tempo ci stanno indicando un aspetto della trasformazione in corso, di cui il voyeurismo e l’esibizionismo televisivo, tipico dei nuovi programmi, ne è la spia più diffusa: una progressiva carenza di identità prima ancora che di valori. Anna Maria Pandolfi, in un preveggente studio di qualche anno fa, postulava per la società attuale un assetto narcisistico estremamente fragile e povero, per il quale «essere visti e conosciuti o solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericoloso vissuto di non valore o addirittura di non esistenza». L’audience come misura del mondo. La televisione, meglio la neotelevisione berlusconiana - modello straordinario di un ordinario «pensiero unico» -, ha realizzato proprio questo, secondo una tendenza omologante e appiattente a cui anche gli intellettuali raffinati - o presunti tali - si sono equiparati e genuflessi: tutti osservano la stessa cosa. Chi dice, o mostra, cose diverse, chi esce dal coro, con provocazioni oppure con un persistente silenzio, viene immediatamente eliminato. Non è più solo un’invenzione da intellettuali francesi, bensì un dato inconfutabile: la realtà mediatica ha sostituito nella testa di menti illuminate e di scrittori, che si vorrebbero trasgressivi, la realtà fattuale.

Jean Baudrillard, ci ricorda Anna Maria Pandolfi, in alcune pagine illuminanti e terribili, peraltro inascoltate, ci aveva avvisato diversi anni fa: quando tutto è esposto alla vista, non c’è più nulla da vedere. Il nulla sotto forma di rumore di fondo, schiamazzo, pseudo-discussione, è diventato la forma stessa della società italiana dell'inizio del XXI secolo attraverso il suo strumento mediatico più efficace: la televisione. Qualche giorno fa un’importante personalità istituzionale ha sostenuto con una boutade che non era il caso d’insistere sulle responsabilità nei crolli delle case, degli ospedali, degli edifici pubblici dell’Aquila. Il senso di colpa o la vergogna, sottintendeva l’intervento autorevole dell’uomo politico, non hanno più alcun senso perché rivolti verso il passato. Il futuro è quello che conta. Ma quale futuro? Chi è capace di reggere la presenza del proprio o altrui errore, di ammetterlo o combatterlo, possiede, ricorda la psicoanalista Pandolfi, un Sé sufficientemente saldo e un’identità abbastanza definita per poter entrare nell’area della conflittualità, tollerare la colpa e sopportare la depressione che ne consegue. Al contrario, chi rigetta tutto questo, dimostra il bisogno «di essere visto e parlato, per garantirsi della sua propria esistenza e negare il vuoto e la futilità del suo mondo interno e, ora, anche di quello esterno, tra i quali peraltro la distinzione non è più così netta». C’è solo da augurarsi che intellettuali intelligenti e acuti, scrittori bravi e di successo, si risveglino dal sonno della ragione che, non partorisce solo mostri, come ci avvisava Goya, ma anche e soprattutto il vuoto di una pseudo-vita omologante e banale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:27:25 pm »

3/9/2009


Lasciateci il nostro diritto al segreto
   
MARCO BELPOLITI


Il segreto sta nel nucleo più interno del potere», scrive Elias Canetti in Massa e potere. I detentori del potere cercano sempre di vedere a fondo, di scandagliare le intenzioni altrui, senza tuttavia mai lasciare intravedere le proprie. Il segreto è la fonte stessa del potere: c’è chi sa e chi invece ignora. Il potente cerca di conoscere i segreti degli altri, li persegue, li ascolta, li registra, li scheda. Questo è il «segreto offensivo», contrapposto al «segreto difensivo», che consiste nel semplice atto di non far conoscere i propri segreti agli altri. Il potente esercita entrambi, mentre gli uomini comuni hanno a disposizione solo quello difensivo o passivo.

Oggi nella società della comunicazione i segreti non sembrano esistere più: tutto è esposto, tutto è visibile, tutto è ascoltabile. Da Facebook a YouTube ogni cosa - sentimenti, antipatie, simpatie, amicizie, frequentazioni, immagini di sé e dei propri cari, viaggi, preferenze, passioni, trasgressioni - è messa continuamente in mostra in una società fondata sulla trasparenza. Non c’è privacy che non possa essere violata, dal conto bancario all’e-mail, dalla scheda sanitaria alla bolletta elettrica. Una società di guardoni e superguardoni, in cui noi tutti finiamo inevitabilmente per essere gli scrutatori degli altri, in cui tutti guardano tutti, e subito registrano. L’unica cosa che sembra far paura è l’anonimato: essere «qualcuno» è una necessità sociale primaria. Il potere mediatico, informatico, economico, statale, spionistico è sempre alla caccia dei segreti dei singoli, trattati, di volta in volta, come «dati sensibili» della massa, oppure trascelti caso per caso secondo le necessità pratiche del potere medesimo. Nessuno sembra più poter custodire un segreto.

Eppure il potere moderno cela gelosamente il proprio segreto: trae la propria legittimità solo da se stesso. Come mostra lo studiolo del Duca di Urbino, posto all’interno del palazzo dei Montefeltro, in un luogo appartato, lontano dallo sguardo dei sudditi, che espone le forme del potere, i suoi strumenti: oggetti raffigurati in trompe l’oeil, intarsi lignei su muri senza finestre, pura virtualità. Questo segreto, che potrebbe erodere la forza stessa del potere, non può essere urlato sopra i tetti, mentre oggetto quotidiano del suo esercizio sono invece i nostri minuti segreti. Georg Simmel ha scritto che il segreto è una delle grandi conquiste dell’umanità, poiché «tramite il segreto si ottiene un infinito ampliamento della vita». E questo, ovviamente, vale solo per i singoli.

In un bel libro dedicato al pudore, il filosofo Andrea Tagliapietra ha proposto come eroe del segreto di noi individui Bartleby lo scrivano, il personaggio del racconto di Melville, che risponde alle richieste a lui rivolte con la frase «preferirei di no». Lui, impiegato che trascrive sentenze per un avvocato di New York, è il silente e umile profeta che si sottrae alla glasnost dei moderni apparati ispettivi e conoscitivi. Oltre al dovere di rispondere, Bartleby propone il diritto alla non risposta, il diritto al segreto dell’individuo singolo, inerme e indifeso - e non certo il diritto di non risposta del Potere, che di per sé non risponde ma solo interroga.

Di fronte a un sistema planetario dell’informazione che vuole sapere sempre di più, ognuno di noi ha dunque il diritto al segreto, al proprio segreto, quello che il potere non tollera e vorrebbe invece estorcerci. Solo se è segreto a se stesso, se resiste alle lusinghe della trasparenza - ideale utopico e insieme strumento del potere -, l’individuo può sperare di salvarsi da questa inesausta e terribile volontà di sapere.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 19, 2009, 11:35:11 am »

19/12/2009

La crudeltà del lager
   
MARCO BELPOLITI


Tra i vari modi con cui i nazisti intendevano dileggiare i prigionieri dei Lager, racconta Primo Levi, c'era l'orchestrina che suonava le marce all'entrata e all'uscita dei deportati dal campo, per recarsi al lavoro forzato e le scritte che campeggiavano sui cancelli, spesso ricavate da proverbi o frasi della Bibbia.

La più sarcastica e provocatoria è quella issata, o almeno lo era fino a poco fa, all'ingresso di Auschwitz: Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi. Due parole, ricordava ancora l'autore di Se questo è un uomo - lavoro e libertà -, che per lui sono sempre state collegate, e che lì, nel campo, diventavano invece un'irrisione terribile della condizione di migliaia e migliaia di uomini e donne costretti a una attività fisica, il lavoro coatto, che li avrebbe ben presto portati alla morte. Tutto questo fa parte di quella che Levi ha definito la «violenza inutile», quella forma d'ulteriore degradazione, avvilimento, che si perpetuava non solo attraverso punizioni fisiche, sofferenze protratte, ma mediante una sottile strategia fatta di regolamenti assurdi, leggi paradossali, espressioni linguistiche rovesciate. Il Lager è il ribaltamento della logica normale, quella che vige nel mondo là fuori, per cui agli intellettuali, a tutti coloro che praticavano mestieri di concetto, era data una pala per scavare, e ai lavoratori manuali affidato invece il compito di comandare il gruppo dei professori, avvocati, notai. Un rovesciamento che fa parte della logica ferrea del Campo: niente somiglia a ciò che usuale nella vita civile.

Eppure nel suo ribaltamento, nella sua irragionevolezza, il Lager possedeva una sua razionalità, folle e assurda, ma pur sempre una logica. La scritta rubata ad Auschwitz appartiene a questa. E pensare che anche nel Lager, lo ha notato molte volte Levi, dove il lavoro forzato somiglia a quello delle bestie, c'era chi amava il lavoro ben fatto, come Lorenzo il muratore, che tirava su muri a regola d'arte. Per Levi il lavoro è una delle approssimazioni possibili alla felicità in terra. Il suo ideale è quello dell'homo faber, che riesce a rovesciare la condanna biblica del lavoro come fatica, e ne fa una possibilità di riscatto; anche lo sbaglio, come spiega Faussone nella Chiave a stella, è parte del mestiere. La libertà è questa: il lavoro come sfida, avventura, prova. Ogni tipo di lavoro, anche quello più umile, compiuto con cura e attenzione, è per il piemontese Primo Levi, una via per costruire se stessi e il mondo, per essere, nonostante tutto, davvero liberi.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 01, 2010, 12:07:34 pm »

31/10/2010

Pasolini in salsa piccante

MARCO BELPOLITI

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere». Con questi versi si apre la quarta parte de Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel 1957 da Pier Paolo Pasolini. Versi che esprimono in forma efficace il suo atteggiamento, non solo di poeta, ma anche di uomo.

Parole nette: lo scandalo, la contraddizione, l’essere con te e contro di te, il cuore e le viscere, la luce e il buio. Parole che commuovono e che chiedono, com’è stato detto, una fraterna e totale complicità. La complicità con chi ti sta dicendo che è con te e contro di te nel medesimo tempo. Una contraddizione, ma anche un’identificazione. Questo è Pasolini.

Alfonso Berardinelli in un suo saggio ha perfettamente individuato la «sublime autocommiserazione» e l’«orgoglio irremovibile della vittima» grazie al quale Pasolini ha potuto esprimere al meglio il suo messaggio. L’effetto è quello dell’emozione e della repulsa insieme: «I conflitti morali in cui Pasolini trascina il lettore sono conflitti che riguardano anzitutto lui: amarlo o respingerlo. Ma è lui stesso che sembra costretto, nello stesso tempo, ad accettarsi o a respingersi». Che è quello che ci chiede con i suoi versi - sulla mia generazione, ma anche su quella dei miei fratelli maggiori, e anche dei padri, l’intellettuale corsaro e luterano ha avuto un’influenza decisiva, sino al ricatto, o all’auto-ricatto morale -: essere con lui e contro di lui.

Un esercizio difficile, ma necessario quasi non fosse possibile che l’aut aut, e non già l’et et. Tuttavia ora è venuto il momento dell’et et: possiamo accettarlo e respingerlo nel contempo. Per fare questo occorre penetrare nelle motivazioni con cui Pasolini, a partire dal 1968-69, ha acuito la sua analisi della società italiana, della omologazione in corso, dell’inarrestabile «mutazione antropologica». Ragioni che risiedevano, e risiedono, nella sua estetica, che è poi la fonte della sua etica. Pasolini è stato osteggiato, escluso e perseguitato in vita, non solo dalla destra, dai giudici, dai giornali benpensanti e reazionari, ma anche dalla sinistra. Che non apprezzava la sua contraddizione, che respingeva la sua scandalosa omosessualità, mai nascosta ma sempre esibita, fonte e ragione della sua ispirazione poetica. E soprattutto politica. L’etica di Pasolini infatti si fonda sull’estetica omosessuale, come è evidente sin dal primo articolo comparso sul Corriere della Sera nel gennaio 1973 e dedicato ai «capelli lunghi», ai corpi dei ragazzi, scritto che ora apre Scritti corsari (1975).

Certo c’è chi l’ha amato incondizionatamente anche a sinistra, in particolare tra i giovani aderenti al Partito comunista, cui Pasolini ha dedicato dopo il 1970 una forte attenzione e un’incrollabile speranza; ma anche questi ammiratori con ogni probabilità non hanno mai davvero preso atto della sua omosessualità, l’hanno ideologicamente sublimata, come accade sovente nell’entusiasmo dell’essere giovani, cogliendone gli esiti politici polemici ma non certo le premesse estetiche. Poi l’atteggiamento si è rovesciato: il mondo intellettuale, la società letteraria e quella giornalistica, e perfino la politica, sia di destra sia di sinistra hanno vissuto la morte di Pasolini alla stregua di un’accusa, come un ricatto cui era impossibile sottrarsi. Come in una nemesi divina, l’ammirazione verso il poeta ha finito per nascondere una sorta di rancore, di risentimento, prodotto dalla sua «diversità», e tramutato nel suo opposto.

Oggi, a 35 anni di distanza, c’è chi ne fa la vittima, se non proprio il martire, delle trame occulte che dal 1969, e anche prima, hanno intorbidato e manipolato la storia del nostro paese: Pasolini assassinato dai servizi segreti deviati; Pasolini che scopre le piste nere, gli autori degli attentati neofascisti e per questo viene eliminato. Una fantasia? Con ogni probabilità sì, ma anche il sintomo, in senso psicoanalitico, della propensione alla paranoia che attanaglia la sinistra italiana, o almeno alcuni intellettuali, scrittori, e persino giudici. Il Grande complotto, quello che Umberto Eco e Carlo Ginzburg hanno raccontato con efficacia in due opere diversissime ma illuminanti, Il pendolo di Foucault e Storia notturna, alla fine degli anni Ottanta, nella convinzione che occorresse liberarsene in modo definitivo. In questo modo l’attesa messianica di una Giustizia finale sul delitto Pasolini, come su tanti altri attentati, omicidi, atti eversivi degli anni Settanta - visti come un’unica catena -, finisce per diventare paralizzante e per sostituirsi a una più terrena e contingente giustizia. Come se rivelando il Complotto al paese, per questo solo fatto, lo si potesse davvero, e di colpo, dissolvere.

Senza rinunciare a ricercare gli autori dell’omicidio del poeta - molte cose restano oscure - è però venuto il momento di fare i conti con Pasolini seguendo le sue stesse indicazioni, ovvero perseguendo quella contraddizione che ci addita nei versi de Le ceneri di Gramsci, quella contraddizione che spesso costituisce una sorta di scacco per chi legge le sue opere, per chi vuole comprenderne le ragioni e farle sue: andare oltre Pasolini con Pasolini. Le accogli o le respingi. Tutto nel poeta e nel corsaro e luterano è così: innocenza e colpevolezza, onestà disarmata e mistificazione ingegnosa. Pasolini lo si accetta in toto o lo si rifiuta. È il suo ricatto, condotto sino alle forme estreme, di cui la stessa morte, al di là delle molte cose oscure, appare in definitiva come il ricatto dei ricatti. Una morte di cui non sembriamo più in grado di liberarci; per farlo, come accade e ancora accadrà, ci s’inventa un complotto e ci si fa detective e accusatori per stornare da sé quella estorsione, più interiore che esteriore, che Pasolini compie in ognuno di noi.

Per andare oltre Pasolini con Pasolini bisogna seguire il consiglio che il Corvo dà ai due suoi compagni di strada, Totò e Ninetto, in Uccellacci e uccellini: i maestri si mangiano in salsa piccante. Piccante, se possibile, per digerirli meglio. Attuare il procedimento di cui il poeta è stato un maestro: divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età, ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza. Restando a livello del solo amore o, al contrario, della sola repulsa, non c’è scampo. Amarlo fino al punto di divorarlo, e ingerirlo per digerirlo.

Se negli anni Settanta la sinistra intellettuale e politica disdegnò gli articoli del poeta comparsi su giornali e riviste, spesso pensando, o dicendo ad alta voce, che si trattava di cose già dette e ridette, da Marcuse, da Adorno, da Horkheimer, una sorta di divulgazione di ben maggiori pensieri espressi decenni prima, oggi invece Pasolini diventa l’unico sociologo, o pensatore, o moralista, in grado di interpretare la grande trasformazione italiana dagli anni Sessanta in poi, mutando l’indifferenza o l’ostilità di un tempo in ammirazione sconsiderata; e non solo la sinistra, ma anche la destra non fa che manifestare questa devozione senza riserve ora, dopo averlo crocifisso con calunnie e campagne di stampa. Dell’autore di Salò, ora ci viene sovente offerto un santino quasi fosse - e per tanti magari lo è - il Padre Pio della sinistra, bisognosa, come i fedeli dello stigmatizzato di San Giovanni Rotondo, di uno sciamano che decifri in modo rabdomantico il presente, un sant’uomo cui rivolgersi con religioso stupore e abbandonata fiducia per conoscere il nostro futuro anteriore.

Mangiare Pasolini per capirlo meglio, per trarre forza da lui, dalla sua contraddizione, per non subirla, ma per declinarla. Per non restare vittime del complesso-Pasolini che attanaglia ancora chi attende la palingenesi generale della nostra società, tutta da salvare o tutta da perdere, inclinazione moralistica che il poeta per primo avrebbe, ne sono certo, colpito e sferzato con la sua urticante vis polemica

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