25/8/2008
Se il paese non attira capitali
GIUSEPPE BERTOLA
Gli acquisti di quote rilevanti di imprese da parte di Stati asiatici suscitano speranze e sospetti in Occidente. Le speranze sono legate all’inaridimento del credito. Finanziare imprese in difficoltà può essere un buon investimento: le pur gravi insolvenze dei mutui immobiliari di per sé non giustificano che, ad esempio, molte banche abbiano perso due terzi del loro valore nel giro di un anno. Le azioni si possono comprare a prezzi tanto bassi perché il rallentamento dell’attività economica fa scarseggiare risparmio e liquidità nei Paesi industrializzati, e rischia d’innescare una spirale di fallimenti e insolvenze.
Per limitare i ribassi e uscire dalla crisi occorre trovare fondi freschi, da investire adesso. Di questi tempi se ne trovano dove ci sono risorse naturali, come in Medio Oriente e in Russia, e nelle vaste zone dell’Asia che, avendo solo di recente cominciato a industrializzarsi e a commerciare, stanno ancora accumulando ricchezza.
E’ saggio per chi ha petrolio risparmiare e investire altrove, perché il prezzo del petrolio può oscillare moltissimo. Anche chi è cresciuto velocemente fa bene a risparmiare, perché la crescita può non essere duratura. Chi possiede imprese in temporanea difficoltà può, vendendone una parte al giusto prezzo, venire incontro a queste disponibilità a investire.
Può capitare che l’acquirente sia un «fondo sovrano», controllato da uno Stato, perché spesso sono i governi a gestire le risorse naturali o le riserve valutarie accumulate da surplus di bilancia di pagamenti. Non è sempre un problema. Nessuno al di fuori della Norvegia si curava del fatto che quello Stato destinasse molti dei proventi del suo petrolio a fondi governativi per le generazioni future. Qualche preoccupazione poteva esserci per gli investimenti dei Paesi arabi. Ma, nei fatti, alla Fiat fece piacere che entità statali libiche comprassero nel 1976 più del 10% delle sue azioni (rivendendole con profitto dieci anni dopo). E i libici si sono anche a lungo occupati di distribuzione di carburanti in Italia, rafforzando la concorrenza a beneficio degli automobilisti italiani.
Se nel mondo del 2008 i fondi sovrani suscitano sospetti, è perché la Cina e la Russia sono diverse dai piccoli Paesi che si ponevano il problema d’investire i proventi del petrolio. Sono Stati poco democratici e seriamente intenzionati a giocare un ruolo importante nel quadro geopolitico mondiale. Potrebbero investire non per tutelare la vecchiaia dei loro cittadini e il benessere dei loro discendenti, ma per orientare a fini strategici in conflitto con i nostri la gestione delle imprese che controllano. È questo sospetto a indurre la Germania a sottoporre ad autorizzazione gli acquisti stranieri di quote oltre il 25% delle sue imprese, senza distinguere tra fondi governativi e imprenditori che, seppur privati, possono come in Russia essere legati ai giochi politici dei loro Paesi.
L’Italia degli Anni 2000, pur tanto riluttante a consentire che linee aeree e autostrade siano gestite da imprese francesi o spagnole, non ha urgenza di porre limiti agli investimenti dei Paesi emergenti. Non è un buon segno se vuol dire che le nostre imprese non attirano compratori. Potremmo anche noi nutrire la speranza che qualche ricco Stato estero, ingolosito dalla prospettiva di ricchi dividendi futuri, volesse rilevare l’Alitalia: ma non è una speranza fondata, perché i problemi dell’Alitalia non sono temporanei. E non è un buon segno nemmeno se vuol dire che i più o meno giustificati sospetti dei tedeschi sulle mire degli stranieri sono irrilevanti in un Paese che si sente tagliato fuori dai giochi strategici globali, e non si scandalizza di commistioni tra potere politico e potere economico. All’inizio della seconda guerra mondiale, Roosevelt raccomandò agli americani di non temere altro che la paura. A noi italiani, se le nostre imprese non interessassero ai fondi sovrani, dovrebbe semmai far paura l’assenza di speranze e di sospetti.
giuseppe.bertola@unito.it da lastampa.it