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Autore Discussione: GIUSEPPE BERTOLA -  (Letto 3187 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Agosto 25, 2008, 12:39:38 pm »

25/8/2008
 
Se il paese non attira capitali
 
 
 
GIUSEPPE BERTOLA
 
Gli acquisti di quote rilevanti di imprese da parte di Stati asiatici suscitano speranze e sospetti in Occidente. Le speranze sono legate all’inaridimento del credito. Finanziare imprese in difficoltà può essere un buon investimento: le pur gravi insolvenze dei mutui immobiliari di per sé non giustificano che, ad esempio, molte banche abbiano perso due terzi del loro valore nel giro di un anno. Le azioni si possono comprare a prezzi tanto bassi perché il rallentamento dell’attività economica fa scarseggiare risparmio e liquidità nei Paesi industrializzati, e rischia d’innescare una spirale di fallimenti e insolvenze.

Per limitare i ribassi e uscire dalla crisi occorre trovare fondi freschi, da investire adesso. Di questi tempi se ne trovano dove ci sono risorse naturali, come in Medio Oriente e in Russia, e nelle vaste zone dell’Asia che, avendo solo di recente cominciato a industrializzarsi e a commerciare, stanno ancora accumulando ricchezza.

E’ saggio per chi ha petrolio risparmiare e investire altrove, perché il prezzo del petrolio può oscillare moltissimo. Anche chi è cresciuto velocemente fa bene a risparmiare, perché la crescita può non essere duratura. Chi possiede imprese in temporanea difficoltà può, vendendone una parte al giusto prezzo, venire incontro a queste disponibilità a investire.

Può capitare che l’acquirente sia un «fondo sovrano», controllato da uno Stato, perché spesso sono i governi a gestire le risorse naturali o le riserve valutarie accumulate da surplus di bilancia di pagamenti. Non è sempre un problema. Nessuno al di fuori della Norvegia si curava del fatto che quello Stato destinasse molti dei proventi del suo petrolio a fondi governativi per le generazioni future. Qualche preoccupazione poteva esserci per gli investimenti dei Paesi arabi. Ma, nei fatti, alla Fiat fece piacere che entità statali libiche comprassero nel 1976 più del 10% delle sue azioni (rivendendole con profitto dieci anni dopo). E i libici si sono anche a lungo occupati di distribuzione di carburanti in Italia, rafforzando la concorrenza a beneficio degli automobilisti italiani.

Se nel mondo del 2008 i fondi sovrani suscitano sospetti, è perché la Cina e la Russia sono diverse dai piccoli Paesi che si ponevano il problema d’investire i proventi del petrolio. Sono Stati poco democratici e seriamente intenzionati a giocare un ruolo importante nel quadro geopolitico mondiale. Potrebbero investire non per tutelare la vecchiaia dei loro cittadini e il benessere dei loro discendenti, ma per orientare a fini strategici in conflitto con i nostri la gestione delle imprese che controllano. È questo sospetto a indurre la Germania a sottoporre ad autorizzazione gli acquisti stranieri di quote oltre il 25% delle sue imprese, senza distinguere tra fondi governativi e imprenditori che, seppur privati, possono come in Russia essere legati ai giochi politici dei loro Paesi.

L’Italia degli Anni 2000, pur tanto riluttante a consentire che linee aeree e autostrade siano gestite da imprese francesi o spagnole, non ha urgenza di porre limiti agli investimenti dei Paesi emergenti. Non è un buon segno se vuol dire che le nostre imprese non attirano compratori. Potremmo anche noi nutrire la speranza che qualche ricco Stato estero, ingolosito dalla prospettiva di ricchi dividendi futuri, volesse rilevare l’Alitalia: ma non è una speranza fondata, perché i problemi dell’Alitalia non sono temporanei. E non è un buon segno nemmeno se vuol dire che i più o meno giustificati sospetti dei tedeschi sulle mire degli stranieri sono irrilevanti in un Paese che si sente tagliato fuori dai giochi strategici globali, e non si scandalizza di commistioni tra potere politico e potere economico. All’inizio della seconda guerra mondiale, Roosevelt raccomandò agli americani di non temere altro che la paura. A noi italiani, se le nostre imprese non interessassero ai fondi sovrani, dovrebbe semmai far paura l’assenza di speranze e di sospetti.

giuseppe.bertola@unito.it
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:21:19 pm da Admin » Registrato
Admin
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 05, 2008, 12:27:16 am »

4/10/2008
 
La fuga dal rischio
 
 
GIUSEPPE BERTOLA
 
La crisi in atto ha un’origine chiara, e due volti. L’origine è nell’andamento dei prezzi delle case che negli ultimi anni erano saliti molto, specialmente negli Stati Uniti dove erano spinti dai bassi tassi d’interesse e da mutui generosi, e nel 2007 hanno cominciato a scendere. Questo volto della crisi non è tanto brutto. Qualcuno ha pagato o ha promesso di pagare le case a prezzi che si sono rivelati eccessivi, ma qualcun altro a quei prezzi è riuscito a venderle. Un trasferimento di ricchezza non è un disastro, come un uragano che distrugge una grande città. Le case ci sono ancora: anzi, le nuove costruzioni e ristrutturazioni degli anni scorsi fanno sì che le case siano un po’ troppe e troppo belle. Anche nel 2001 tra le macerie del crollo dei titoli tecnologici c’era chi aveva perso molto e chi aveva guadagnato molto, e c’erano molti gigabyte di banda larga in eccesso in cavi a fibra ottica che sono poi tornati utili negli anni successivi.

Le telefonate transatlantiche adesso possono costare pochissimo anche perché una parte del loro costo è pagata da chi ha comprato azioni tecnologiche nel 2000 ed è rimasto preso nel loro crollo. Il volto brutto della crisi è quello finanziario. I mercati finanziari stabiliscono il prezzo di pezzi di carta in relazione tra loro ed è normale che i prezzi di quei pezzi di carta oscillino, perché è normale che si commettano errori, come quello di chiedere e concedere un mutuo che poi non si riesce a pagare. Anche se può fare impressione che si parli di 700 miliardi di dollari come possibile ammontare complessivo di quegli errori, quella cifra corrisponde a un calo di due o tre punti percentuali del mercato azionario americano, cosa che si è spesso verificata nell’arco di pochi giorni senza sconvolgere nessuno. Ma i mercati finanziari hanno avuto un ruolo nell’origine di questa crisi e la loro incapacità di gestirla la sta amplificando. Il rischio di mancato pagamento dei mutui non è stato valutato correttamente al momento di erogarli, e operazioni di cartolarizzazione hanno trasferito ad ancor più ignari investitori le conseguenze del fatto che, mentre di solito solo una piccola parte dei mutui va in sofferenza, questa volta i prezzi delle case erano tutti troppo alti, proprio perché i mutui erano così facili da ottenere, e sono scesi tutti insieme. L’aver subito perdite ingenti su investimenti che sembravano promettenti fa perdere fiducia nella propria capacità di valutare i rischi, e fa sì che adesso nel mercato finanziario manchi la voglia di rischiare. Per questo chi è disposto a rischiare adesso è ben pagato nel mercato azionario, dove si comprano a prezzi bassi imprese solide, e nel mercato monetario interbancario, dove chi presta soldi può spuntare 2 o 3 punti percentuali oltre il rendimento dei titoli di Stato. Ed è proprio perché si rifugge da ogni rischio che le banche sono in difficoltà. Se cercassero adesso di cedere i loro crediti su un mercato finanziario senza compratori, non ricaverebbero quel che occorre a ripagare le loro obbligazioni, dalle quali quindi rifuggono gli investitori. Questa spirale negativa non solo fa inceppare la finanza, impedendo al risparmio di incanalarsi verso gli investimenti più produttivi e inevitabilmente un po’ più rischiosi, ma incupisce il volto reale della crisi perché l’incertezza riduce spese e investimenti, e redditi e occupazione. Per ovviare a tutto ciò i governi possono far fronte alla mancanza di fiducia e voglia di rischiare se sfruttano bene i vantaggi che hanno rispetto ai privati cittadini. Possono imporre regole che, almeno d’ora in poi, facciano chiarezza sulla rischiosità degli strumenti finanziari. Certo non è facile far rispettare le regole se l’industria finanziaria ha interesse a mantenere opaca la struttura dei suoi bilanci, anche trasferendo oltre confine le parti più oscure dei suoi affari. Ma un secondo importante vantaggio dei governi è che, osservando il problema da una prospettiva di sistema, possono cercare di evitare che i comportamenti dei singoli si avvitino tra loro in modo da portare il sistema a una situazione senza sbocchi, in cui nessuno può vendere perché nessuno vuole comprare. Per fornire un po’ di quella voglia di rischiare che adesso manca, per evitare che il valore delle attività finanziarie rischiose crolli come succede se tutti nel settore privato vogliono disfarsene, i governi possono offrire una rete di sicurezza o un’ancora di salvezza. In America si punta ad assorbire nel settore pubblico una parte delle attività bancarie rischiose, a un prezzo che dovrebbe essere inferiore a quello a cui è ora possibile collocarne piccole quantità sul mercato ma superiore a quello irrisorio che si realizzerebbe se tutti nel settore privato provassero a disfarsene. Con questo sistema, il governo si comporta da acquirente di ultima istanza, ma non diventa azionista delle banche. In Europa, invece, i governi hanno nazionalizzato in tutto o in parte le banche in difficoltà. Lo strumento è diverso, ma lo spirito è simile: nell’uno e nell’altro caso, se il prezzo di acquisto di mutui o azioni è quello giusto, l’intervento statale può scongiurare la spirale negativa e far sì che la collettività non solo riacquisti un sistema finanziario funzionante ma riesca anche (incassando quel che sarà ripagato dei mutui, o rivendendo al mercato le quote azionarie) a guadagnare qualcosa dal punto di vista finanziario. È bene che i governi seguano queste strade, perché il mercato non sembra in grado di tirarsi fuori da solo dalle secche in cui si è incagliato. Ma bisogna aver ben presenti gli ostacoli che su quella strada si possono frapporre al pieno successo di governi che non sono né onnipotenti, né onniscienti. Se alla fin fine i mutui rilevati dal settore pubblico si rivelassero di ben poco valore, l’intervento può trasformarsi in un regalo a chi ha sbagliato. E può rivelarsi una pessima idea nazionalizzare le banche se chi le gestisce privilegiasse poi gli interessi dei loro impiegati e debitori, e non quelli dello Stato azionista e della società nel suo complesso. In questo momento difficile, l’ostacolo più importante a un efficace intervento pubblico è la mancanza di coesione. Negli Stati Uniti manca la coesione tra politici sotto elezione. E i governi europei, anche loro alle prese con questioni di minor respiro, si ritrovano a gestire un problema di dimensioni più che continentali con risorse e strumenti nazionali. Se al potere politico manca la comunità di intenti, rischia di mancare proprio quella chiarezza di visione di insieme che consentirebbe agli interventi pubblici di risolvere la crisi dei mercati.

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