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« inserito:: Agosto 20, 2008, 10:23:39 pm » |
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Quel giorno che Mosca mi costrinse a mentire
Alexander Dubcek
Riportiamo un brano del volume di Alexander Dubcek "Il socialismo dal volto umano" a cura di Jiri Hochman e Luciano Antonetti, ri-pubblicato da l'Unità nel luglio 2008
Entrammo nella sala delle riunioni quando l’ufficio politico del Pcus aveva già preso posto da un lato del tavolo rettangolare. Sedemmo al lato opposto: Cernik alla mia sinistra e Smrkovký alla mia destra. Mi attendevo un dibattito concreto, capoverso per capoverso, invece Breznev aprì con un discorso infarcito dei soliti stereotipi. Guardavo il tavolo, mentre le sue parole mi entravano da un orecchio per uscire dall’altro. Ma quando parlò della pena con la quale lui e gli altri avevano deciso di inviarci contro i carri armati provai un senso di nausea e fui di nuovo assalito dalla collera. Ancora una volta riuscii a padroneggiarmi, come potevo.
Avevamo concordato che fosse Cernik a parlare per primo, per noi. In tono calmo e attendendosi ai fatti, difese la nostra politica di riforme e sottolineò le conseguenze negative dell’invasione per la causa del socialismo. Se ricordo bene, Selest, primo segretario del partito in Ucraina, lo interruppe a un certo momento con una notazione offensiva, e quando il nostro premier finì di parlare, riprese la parola Breznev per obiettare a proposito della caratterizzazione negativa dell’invasione. A quel punto sentii il dovere di esprimere il mio punto di vista.
Non mi aspettavo davvero di riuscire a cambiare le idee di coloro che ci sedevano di fronte, mi consideravo però obbligato a parlare del nostro caso apertamente, direttamente, lealmente. Di lì a poco avremmo dovuto firmare un atto pieno di menzogne e di simulazioni, che ci era imposto con le minacce e con la forza bruta. Se non altro per il verbale avevo il dovere di chiamare le cose con il loro nome, prima dell’umiliazione finale. Non avevo appunti e parlai con il cuore in mano. A differenza di Cernik, parlavo in russo e notai che, sia pure con le facce scure, i membri dell’ufficio politico del Pcus mi ascoltavano con attenzione. Nessuno tentò d’interrompermi.
Misi in risalto che le nostre riforme erano tardive, da lungo tempo erano assolutamente necessarie. Il socialismo e il partito comunista erano stati screditati dal precedente corso politico, non avremmo potuto avanzare di un passo senza cambiamenti di fondo in ogni campo, politico, economico, culturale. Il Programma d’azione costituiva la base di tali riforme e godeva del sostegno maggioritario del partito e dell’opinione pubblica. Le nostre riforme non mettevano a rischio, anzi rafforzavano la nostra fedeltà al socialismo, il che significava la nostra fedeltà agli impegni verso l’estero e alle nostre alleanze. La critica sovietica derivava, fin dall’inizio, dall’ignoranza della nostra situazione interna. Per questo motivo l’avevamo respinta. L’invasione era una tragedia, dalle conseguenze forse indelebili nelle menti e nei cuori della nostra gente. Il documento proposto, conclusi, amplia le dimensioni della tragedia. Se anche saremo costretti a firmarlo bisogna capire che non risolverà nessuno dei problemi sul tappeto. Nel lungo periodo li aggraverà.
Il silenzio seguì le mie parole. Poi tornò a parlare Breznev, che stavolta lasciò da parte le infiocchettature sulla solidarietà fraterna, sull’amicizia eterna, per la Realpolitik. Lasciò chiaramente intendere che idee e ideali sono cose del tutto secondarie. Ci puntò contro la proverbiale «canna del fucile» di Mao Tsedong. Smascherò se stesso e l’intero ufficio politico del Pcus come una collezione di burocrati cinici e arroganti, con idee feudali, i quali da tempo avevano cessato di servire ad alcunché, salvo che a se stessi. Disse che dalla fine dell’ultima guerra la Cecoslovacchia era parte della zona di sicurezza sovietica e l’Urss non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi. La maggiore preoccupazione del suo ufficio politico, a proposito della Primavera di Praga, era data dalla nostra tendenza a renderci indipendenti: non gli avevo sottoposto in anticipo, per averne l’approvazione, i miei discorsi; non avevo chiesto il suo permesso per decidere i mutamenti di quadri. Era una cosa che non potevano tollerare, e visto che non avevamo ceduto alle altre forme di pressione, ci avevano invaso. Come in altre occasioni, si dimostrò abile a commuoversi, fino alle lacrime.
Mi resi conto che in quel manicomio niente aveva senso: né gli ideali che avevo nutrito e onorato, né gli accordi stipulati, né le organizzazioni internazionali alle quali appartenevamo. Non condividevo nulla di quanto aveva detto, e glielo dissi, prima di tentare di motivare il mio punto di vista. Si alzò di colpo, la faccia congestionata, le folte sopracciglia aggrottate e cominciò a gridarmi contro che tutti i discorsi non erano serviti a nulla. Si girò e si avviò a uscire dalla sala, seguito, quasi a passo marziale, dai suoi compagni.
Mentre marciavano, ripensai alla situazione e al mio posto in essa. Intanto, al punto fondamentale del discorso del capo moscovita: eravamo una colonia dei sovietici, spettava a loro, non a noi, gestire le nostre faccende. Come vedevamo noi le cose non aveva importanza. Era del tutto irrilevante discutere se agivamo bene o male, decisivo era che loro approvassero le nostre azioni. Che senso aveva, in tale situazione, firmare un altro «accordo» privo di valore? Appena si chiuse la porta alle spalle dell’ultimo componente dell’ufficio politico sovietico, dissi: «Non credo che i negoziati abbiano un qualche senso. Avete sentito quello che ho sentito io. Come possiamo avere fiducia?». Non vi fu risposta alla mia domanda, e quindi aggiunsi: «Non ha importanza che noi si firmi o meno. Faranno comunque ciò che vogliono. Io non firmerò».
Ci fu un po’ di confusione e, uno dopo l’altro, ci alzammo anche noi e parlavamo tutti insieme. Svoboda venne verso di me, per dirmi che ormai era tardi, che dovevo firmare. Cernik prese in esame l’altra faccia della medaglia: se non avessimo firmato in quel momento, più tardi ci avrebbero costretti a sottoscrivere qualcosa di peggiore. Smrkovský era incerto, ma affermò che tutto considerato non ci restava altra possibilità, e dopo una breve pausa fece un parallelo con il 1939, quando il presidente Hácha era tornato da Berlino: «Riuscì a rallentare il corso degli avvenimenti e a salvare molte vite». Pronunciata da lui, quella frase era la fine della fede nel socialismo che lo aveva sorretto per tutta la vita: non vedeva più grandi differenze tra i nazisti e la dirigenza sovietica. Dopo molte discussioni e discorsi fatti per persuadermi, tornai alla decisione che avevo preso alcune ore prima. Intanto era scesa la notte ed era stato preparato un nuovo incontro. In quell’ultima riunione non ci furono dibattiti. Forse allo scopo di prevenire altre esplosioni di dissenso. Passammo subito a esaminare il Protocollo, punto per punto. I moscoviti accettarono alcuni cambiamenti da noi proposti. La mia preoccupazione maggiore riguardava il ritiro delle truppe, a proposito del quale ottenemmo una parziale soddisfazione, con la riscrittura del punto 5 della bozza, ma non nei termini che io mi sarei augurato.
In cambio dell’impegno, per quanto non ben definito, alla partenza degli eserciti e alla sollecita evacuazione dei grandi centri, purtroppo dovemmo fare noi due concessioni: sulla questione dei quadri e sulla richiesta presentata al consiglio di sicurezza dell’Onu dopo l’invasione. Breznev e i suoi avevano insistito in ogni occasione su questi due punti. Con il testo del documento in mano, che pure secondo loro doveva restare segreto, non vollero che la prima rivendicazione venisse esplicitata. Verbalmente, il capo del Pcus pretese che fossero lasciati in carica quelli che erano i loro agenti, mentre dovevamo far dimettere alcuni riformatori. Lasciò intendere chiaramente che concessioni circa un possibile ritiro delle truppe dipendevano da come avremmo soddisfatto quelle due richieste. Furono poi esaminate alcune altre questioni che esorbitavano da quelle affrontate nel Protocollo, la più rilevante delle quali - a mio parere - concerneva il principio della cooptazione nel comitato centrale di un certo numero di eletti dal «non riconosciuto» XIV Congresso. Dissi a Breznev che dichiarare non valida quell’assise non era una faccenda tanto semplice, visto che a essa aveva partecipato la grande maggioranza dei delegati, e che in qualche modo bisognava rispettarne la volontà. Il mio interlocutore non si oppose apertamente alla richiesta, sicché conquistammo una «zona grigia» nel documento e nella sua interpretazione, che ci offriva spazio di manovra.
Non ero certo in grado di prevedere quale importanza pratica avrebbero avuto gli ultimi cambiamenti che avevamo ottenuto. Mi sentivo triste, stanco, umiliato, tutti sentimenti che si fecero più intensi quando ci fu messo davanti il documento per la firma e fecero entrare gli operatori televisivi e i fotografi. Breznev non aveva dimenticato la pubblicità, ma aveva trascurato un dettaglio scabroso: fummo ripresi mentre firmavamo un documento che doveva restare assolutamente segreto! Era quasi mezzanotte e alle 3 del mattino del 27 agosto dovevamo imbarcarci sull’aereo che ci avrebbe riportati a casa. Ci fu servito uno spuntino e in quel momento mi guardai attorno per vedere se Kriegel fosse con noi. Non lo vidi e ad alta voce chiesi dov’era e perché non era insieme a noi. Apprendemmo così che i sovietici non volevano che tornasse con noi a Praga. Il capo del Pcus osservò che la presenza dell’unico uomo che non aveva sottoscritto il Protocollo avrebbe potuto creare difficoltà politiche. Rifiutai di lasciare il presidente del Fronte nazionale a Mosca ed ebbi il sostegno energico di Svoboda, Smrkovský, Simon e altri. Breznev dovette cedere e promise che Kriegel sarebbe stato all’aeroporto. Qui giunti, non accettammo di salire a bordo prima di esserci accertati della sua presenza: era già sull’aereo. La nuova era non cominciava con una manifestazione di fiducia.
Una volta imbarcati, tutti i nostri pensieri riguardarono casa. Avevamo chiaro che non si trattava di un ritorno glorioso. Pochissimi sarebbero stati lieti di sentire le notizie che portavamo. A dirla in maniera figurata: avevamo perso la guerra. E sei di noi tornavano dalla prigionia, non da una gita. Il messaggio di cui eravamo latori a stento poteva considerarsi inatteso. Inoltre era fortemente limitato quello che potevamo pubblicamente dire del Protocollo. Mentre l’aereo scendeva lentamente di quota, mi rendevo conto che quella era la parte più dura da sostenere: come non dire tutta la verità e, insieme, non mentire?
Pubblicato il: 18.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 17.50 © l'Unità.
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:24:50 pm » |
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Milan Kundera, quella macchia sulla bellezza della storia
Massimo Franchi
«Gli avvenimenti storici, nella maggioranza dei casi, si assomigliano l'un l'altro senza alcuna originalità, ma a me sembra che in Boemia la storia abbia messo in scena una situazione mai sperimentata. Lì è insorto, secondo la vecchia ricetta, un gruppo di persone (una classe, un popolo) contro un altro, lì le persone (una generazione di persone) si sono rivoltate contro la loro stessa giovinezza. Hanno tentato di recuperare e domare la loro stessa azione, e per poco non ci sono riuscite. Negli anni Sessanta sono diventati sempre più influenti e all'inizio del 1968 la loro influenza era quasi incontrastata. Quest'ultimo periodo viene generalmente chiamato primavera di Praga: i guardiani dell'idillio dovettero smontare i microfoni delle abitazioni private, le frontiere furono aperte e le note fuggivano dalla grande partitura di Bach per suonare ognuna per conto suo. Che festa fu, che carnevale! La Russia, che va scrivendo una grande fuga per tutto il globo terrestre, non poteva tollerare che le note si disperdessero. Il 21 agosto 1968 mandò in Boemia un esercito di mezzo milione di uomini. Poco dopo lasciarono il paese quasi 120.000 cechi, e di quelli che restarono almeno 500.000 dovettero lasciare l'impiego per andare in officine sperdute nelle campagne, alle catene di montaggio di fabbriche di paese, al volante di camion, cioè in luoghi dove nessuno potesse più sentire la loro voce. E perché neanche l'ombra di un brutto ricordo disturbasse il paese nel suo rinnovato idillio, bisognava anche annullare definitivamente la primavera di Praga e l'arrivo dei carri armati sovietici, questa macchia sulla bellezza della storia. Per questo oggi in Boemia nessuno commemora più l'anniversario del 21 agosto e i nomi dei di coloro che sono insorti contro la loro stessa giovinezza sono stati accuratamente cancellati dalla memoria del paese come un errore in un compito scolastico».
Questo è uno dei pochi riferimenti diretti alla Primavera di Praga e alla sua fine in un libro di Milan Kundera. Si tratta de "Il libro del riso e dell'oblio" del 1978, scritto a dieci anni da quei tristi avvenimenti che costrinsero lo scrittore cecoslovacco ad espatriare in Francia nel 1975. Tutta la produzione di Kundera è avvolta nel fumo dei carri armati sovietici e delle macerie del socialismo dal volto umano e dalla conseguenze di quegli eventi. Quasi tutti i personaggi dei suoi libri, primo fra tutti "L'insostenibile leggerezza dell'essere", affrontano la rivoluzione e ne subiscono le conseguenze che cambieranno per sempre le loro vite. La disillusione che scaturiva dalla lezione della storia, dall'impossibilità di riformare il sistema del comunismo reale, porta Kundera e la sua penna ad un relativismo che contagia ogni pensiero ed emozione dei suoi personaggi. La visione in qualche modo messianica del socialismo è stata sconfitta, la vita va vissuta giorno per giorno, con leggerezza, senza porsi obiettivi e limiti.
Kundera in prima persona appoggiò e contribuì la svolta di Dubcek e proprio un anno prima della primavera, nel 1967, pubblicò il suo primo libro, "Lo scherzo", che si rivelerà come una parabola di ciò che sarebbe accaduto allo scrittore praghese e alla sua patria. Ludvik, il protagonista, scrive ad una sua spasimante molto eterodossa: "L'ottimismo è l'oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij!". I compagni di università non hanno il senso dell'umorismo: lo denunciano e Ludvik viene processato. Espulso dal Partito comunista e dall'università è costretto a due anni di lavori forzati nelle miniere. Uscito proprio durante la Primavera di Praga, il libro vince il premio dell'Unione scrittori cechi, proiettando Kundera nell'elite intellettuale del paese che cerca "un socialismo dal volto umano". Il regime instaurato dopo l'invasione sovietica lo individua come un pericoloso sovversivo. Inizia a pedinarlo costantemente: notte e giorno, annotando ogni insignificante particolare della sua vita da disoccupato (perse anche il suo lavoro da insegnante). Kundera fu poi convocato in commissariato il 12 agosto del 1974, dove scoprì quello che già immaginava. Si convinse dunque ad espatriare, decidendo di non fare più ritorno nella sua amata Praga. Nel 1978 è sufficiente la stesura in francese proprio de "Il libro del riso e dell'oblìo" per togliergli la cittadinanza cecoslovacca.
Da Parigi comunque è tra i fondatori del movimento di intellettuali "Charta 77", che chiede il rispetto dei diritti umani nei paesi del Patto di Varsavia. La Primavera, sua e del suo paese, non tornerà mai più. E anche alla caduta del Muro e davanti alla rivoluzione di velluto di Havel che riportò la democrazia in Cecoslovacchia, Kundera non farà ritorno a Praga, decidendo anzi di scrivere i suoi libri sempre in francese evitando perfino che i suoi libri siano distribuiti nel suo ormai ex paese. Un paese che per questo gli ha di fatto voltato in gran parte le spalle, considerandolo talvolta allo stesso modo del regime comunista quasi come un traditore.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 18.33 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:25:37 pm » |
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Tutto cominciò d'inverno
t.f.
La primavera ha inizio durante l’inverno. Cominciò infatti il 5 gennaio del 1968, con l’elezione di Alexander Dubcek a primo segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia, il periodo storico di riforme e liberalizzazione destinato a costruire un “socialismo dal volto umano”. E a cambiare la rotta imposta dal modello sovietico. Ma il sogno finì con l’estate, il 21 agosto, e con la spietata invasione dei carri armati russi (link al pezzo sull’invasione).
L'elezione di Dubcek fu una sorpresa per la maggior parte degli osservatori politici occidentali. Molti, convinti dell'immobilità del regime, vedevano nel neo-eletto il solito rappresentante dell'apparato, e pensavano alla sua leadership come a una soluzione di compromesso, destinata a cambiare presto. Altri videro invece un segnale, benché minimo, di evoluzione: dai dibattiti sulla riforma economica alle manifestazioni studentesche. Giornali, radio e tv non sono più solo megafoni del potere, e strumenti di propaganda. Inoltre nascono nuove pubblicazioni.
Il presidente sovietico Leonid Brežnev probabilmente sperava di avere in Dubcek – il piú giovane leader comunista del blocco sovietico – un elemento “più malleabile”. In realtà Dubcek cambia molti dirigenti senza consultare il governo di Mosca. E cerca alleati per il suo nuovo corso. Intanto si comincia a delineare quello che sarà il contenuto del Programma d'azione. Il 20 febbraio Brežnev è a Praga, per celebrare il XX anniversario dell'ascesa al potere dei comunisti, e censura passi del discorso che deve pronunciare Dubcek. Questi prima cede alla sua richiesta, ma poi divulgherà il contenuto dei passi censurati in successivi discorsi.
Così a poche settimane dal 5 gennaio 1968 è ormai chiaro il cambiamento in corso. Il segretario cecoslovacco cerca un rapporto di fiducia e collaborazione tra potere politico e intellettuali; vengono annullate le sanzioni disciplinari e amministrative decise dal partito e dal governo e viene abolita di fatto la censura. Politologi e specialisti dei vari campi della scienza vengono chiamati a scrivere il programma del PcC, che viene pubblicato 1l 10 aprile 1968. Cuore del documento lo sviluppo e la democratizzazione della società: la separazione dei poteri e l'istituzione di garanzie, grazie alle quali il governo risponde del suo operato al parlamento. Il potere giudiziario deve essere autonomo da quello esecutivo e da quello legislativo
Pur mantenendo un profilo aderente al dogmatismo sovietico, per cui si ribadisce «la cooperazione con l'Unione sovietica e gli altri Stati socialisti», viene meno la concezione ideologica dello Stato. E si lavora al riconoscimento del pluralismo delle idee, che interessa anche la sfera religiosa, fino a quel momento completamente negata e repressa. La Chiesa di rito greco ortodosso vede riaprirsi perciò la possibilità di partecipazione alla vita sociale e culturale del Paese. Ma sarà una conquista di breve durata: come altri provvedimenti infatti anche tale apertura sarà poi annullata dai successori di Dubcek. L'unica conquista che riuscirà a resistere dopo l'invasione è la riorganizzazione dello Stato su base federale.
In ogni caso, anche se solamente il tempo di una “primavera”, la politica avviata nel gennaio 1968 ebbe un effetto dirompente sulla società cecoslovacca. Dalla partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica (cresce il numero degli iscritti al partito comunista, ma anche agli altri partiti del Fronte nazionale), al ritorno sulla scena delle organizzazioni sindacali. I lavoratori partecipano con entusiasmo al nuovo corso e la produzione industriale, così come la produttività del lavoro, registrano aumentano, fino al giorno dell'invasione. Quando di colpo e violentemente la “bella stagione” svanisce.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 17.55
© l'Unità.
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:26:27 pm » |
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Praga e il Pci
t.f.
Praga, mattina del 22 agosto 1968: in un salone della fabbrica CKD di Vysocany si riuniscono in assemblea i delegati del partito comunista eletti nelle settimane precedenti nei congressi distrettuali e regionali. La città è in mano agli invasori, ma la fabbrica è protetta dalla milizia operaia. Sono presenti 1193 delegati su un totale di 1543. È una maggioranza abilitata a decidere, in base allo statuto del partito. Rieleggono Dubcek primo segretario e un nuovo Comitato centrale, senza i collaborazionisti.
Tra gli altri documenti viene approvato un “Appello ai partiti comunisti di tutto il mondo”, affinché esigano la liberazione dei dirigenti deportati a Mosca e il ritiro delle truppe d'occupazione. Inizialmente, il governo italiano e quelli degli altri paesi occidentali non si pronunciano su quanto accade a Praga.
Il Partito comunista italiano, come quelli francese e spagnolo, si rende conto rapidamente della forza di attrazione che il socialismo riacquista con il “nuovo corso cecoslovacco” e sostiene la politica dei riformatori capeggiati da Dubcek. “L'Unità” pubblica il 31 marzo 1968, la prima intervista concessa dal nuovo leader cecoslovacco a un giornale straniero. Il 5 maggio Luigi Longo, segretario generale del Pci, si reca a Praga e il 6 incontra Dubcek, al quale porta la solidarietà dei comunisti e dei democratici italiani.
Ma sono in pochi a condannare l’invasione: il partito italiano e quello francese: chiedono il rilascio dei dirigenti di Praga arrestati e il ritiro delle truppe. La maggioranza, economicamente dipendente dal PcUs, è invece d'accordo con gli invasori. Con il passare del tempo, in alcuni partiti (spagnolo e greco innanzitutto) si verificano scissioni, in altri (l'austriaco, per esempio) vengono espulsi coloro che si sono schierati con i riformatori cecoslovacchi. In Italia non succede, ma la rottura con c’è lo stesso. E dopo Praga sembra non poter tornare più indietro e molto difficile andare avanti. Le domande sono molte: quale può essere il futuro del socialismo? E il comunismo può essere declinato e attuato solo attraverso il modello sovietico (totalitario)? Come resistere alla repressione?
A Roma Il Pci, il più grande partito comunista dell'Europa Occidentale, mostra il proprio sostegno al corso riformista di Dubcek Il segretario Luigi Longo e Giorgio Napolitano scrivono un comunicato in cui veniva espresso un «grave dissenso» rispetto all'intervento, definito «ingiustificato», e dichiarano la propria solidarietà con la politica di rinnovamento intrapresa dal Pcc, sottolineando però «profondo, fraterno e schietto rapporto» con il Pcus.
Il 23 agosto tutti i membri della dirigenza del Pci che si trovavano a Mosca tornano a Roma. Comincia una fase molto critica e intensa di dibattito interno al partito: nella riunione della Direzione alcuni membri esprimono un giudizio critico senza precedenti verso le azioni del Pcus. Per esempio, Terracini dichiarò che la parte sovietica aveva compiuto un errore colossale e che si rifiutava di identificare il socialismo con il Pcus. Giancarlo Pajetta propose di rivedere il rapporto del Pci verso i finanziamenti sovietici, per avere la possibilità di svolgere una politica autonoma e perché «ci sono dei prezzi che non possiamo pagare». Longo cerca di mediare le tensioni e afferma la necessità di «differenziarci fortemente dalla canea imperialistica e reazionaria, tendendo a strappare alla reazione le forze socialiste e democratiche».
Torna in auge la formula pronunciata da Togliatti dell'«unità nella diversità» come principio dei rapporti tra i partiti comunisti. Ma lo scontro tra le correnti social-democratiche e quelle filo-sovietiche è profondo. La posizione del Pci sugli avvenimenti in Cecoslovacchia è sottoposta a dura critica da parte di varie anime del partito, in particolare, di comunisti con elevata e di cariche inferiori, soprattutto nelle organizzazioni operaie e contadine; mentre gli attivisti delle federazioni e la gioventù studentesca sostanzialmente appoggiano la posizione della dirigenza sulla questione cecoslovacca; dirigenti come Amendola, Terracini e Paletta sono favorevoli all'indebolimento dei legami con i partiti comunisti dei cinque Paesi socialisti che hanno mandato le truppe in Cecoslovacchia. Ma il nodo dei finanziamenti e del filo diretto con l’Urss è tutto da sciogliere.
Per il Pci comincia perciò una fase di violento scontro interno, tra gli amendoliani, fautori dell'unità delle sinistre socialista e comunista in un partito unico dei lavoratori nell'ottica dell'esaurimento del significato storico dell'esperienza comunista, e la sinistra ingraiana. A sancire la crisi è la scissione del gruppo de Il Manifesto, legato ad Pietro Ingrao. Anche se, a detta di Ingrao, alla base della scissione non c'era la posizione sui fatti di Praga ma una più radicale ed ampia critica alla linea politica del partito e la richiesta di un’accentuazione dei contenuti di classe nella sua piattaforma programmatica.; In ogni caso quel 21 agosto 1968 sarà anche il comunismo in Italia un punto di non ritorno.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 17.59 © l'Unità.
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:27:11 pm » |
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Josef Koudelka, gli occhi della rivolta
Oreste Pivetta
Josef Koudelka tra le sue fotografie, quelle di Praga 1968. Adesso, trent’anni dopo, sono in mostra anche in Italia, a Milano, la storia d’allora alla prova del presente e della distanza. Di mezzo il «muro di Berlino», che è crollato, e il crollo sembra aver moltiplicato gli anni.
Josef Koudelka di anni ne ha settanta, ne aveva diciotto all’epoca di Budapest, trentenne fotografò i carri armati del Patto di Varsavia e del socialismo reale nelle strade di Praga. Koudelka, la camicia verde militare, le maniche rimboccate, i capelli biondi un po’ lunghi un po’ sparsi, sembra molto più giovane, forse per l’allegria e per l’ironia o per le maniere disincantate con le quali parla del suo passato, ad esempio di quella notte d’agosto quando tre volte un’amica lo avvertì che qualcosa di eccezionale stava avvenendo a Praga, che stavano arrivando i russi, e tre volte si girò dall’altra parte e si rimise a dormire. Finalmente si decise a dar retta alla sua informatrice. scese in strada e cominciò a fotografare. Fotografò per giorni e giorni, consumò metri e metri di pellicola, nascose dove poteva il risultato del suo lavoro e alla fine si ritrovò con uno straordinario reportage, come mai si sarebbe sognato: la cronaca in diretta della rivolta di Praga, della passione di un popolo che aveva creduto in Dubcek e nella sua strada.
Parla sorridendo, tra inglese francese spagnolo italiano. Le sue foto di Praga arrivarono negli Stati Uniti nel 1969. Senza mai citare il nome dell’autore, le distribuì Magnum (che era allora presieduta da Elliott Erwitt). Così “un fotografo ceco anonimo” vinse il premio Robert Capa. Perché quel reportage ritrovasse il suo autore, sarebbe dovuto passare un quarto di secolo: nel 1984, in una grande mostra organizzata dall’Ars Council of Great Britain all’Hayward Gallery di Londra e in un libro, intitolato semplicemente “Josef Koudelka”, pubblicato dal Centre National de la Photographie di Parigi. Koudelka, dal 1970 ormai esule, diviso tra Londra e Parigi, non aveva mai voluto firmare quelle foto per proteggere i suoi familiari rimasti in Cecoslovacchia. La morte del padre lo liberò dalla paura. Il padre conta molto nella sua vita. Gli chiedo di Budapest e Praga. Come visse il Cinquantasei ungherese e come rivisse il Sessantotto praghese. Cominciano, per me, le sorprese, perchè di Budapest non gli era arrivato nulla e la politica non la sentiva proprio... «Sono nato in Moravia, sono cresciuto in un paese tra i monti, Valchov, qualche centinaio di abitanti, e non mi importava niente di quello che poteva succedere altrove. Mio padre non era iscritto al partito e mi diceva, indicandomi i compaesani, tutti comunisti con la tessera: non dicono la verità, non hanno voglia di lavorare, vorrebbero poter comandare. Accadeva a Valchov quel che poteva capitare in qualsiasi paese fascista, ad esempio nella Spagna di quei tempi. A quattordici anni partii per Praga e mio padre mi raccomandò di guardare con i miei occhi e di pensare con la mia testa. Fu così che incominciai a capire che la scuola non mi aiutava a crescere libero. Per casa condividevo una stanza con altri tredici ragazzi: dopo una settimana la pensavano tutti come, che a scuola non si poteva dire quanto avevamo in testa e che la scuola era lontana dall’insegnarci la verità. Questa storia si trascinava anche fuori dalla scuola: leggevi un giornale, senza fidarti, e cercavi di farti un’opinione opposta a quanto stava scritto, così alla fine ti convincevi, giusto per pensare il contrario, che gli americani facessero bene a bombardare il Vietnam. Non sono arrivato a tanto, ma il rischio c’era. La politica, come era capitato a mio padre, continuò a essermi estranea. D’altra parte per fare politica mi sarei dovuto iscrivere al partito, all’unico partito...». La curiosità della fotografia la conquistò da piccolo e dopo gli amici e i familiari cominciò a fotografare gli zingari. A Praga nel ‘68 era appunto appena rientrato dalla Romania, dove si era interessato ai rom.
Perchè questa attenzione? «Ero entrato in un complesso folkloristico e mi appassionava tutta la musica popolare della mia terra e i rom ne sono straordinari interpreti. Devo molto alla musica, anche un viaggio in Italia nel 1961. Feci il giro delle feste dell’Unità e mi accorsi che i comunisti italiani erano diversi dai nostri. A Siena il capo del partito ci accompagnò in una grande gelateria. Era il proprietario. Come era possibile?».
Però Praga viveva una certa vivacità culturale. Si capisce anche dalla sua biografia, ad esempio dalle sue collaborazioni con il teatro (fotografo di scena), con le riviste... «Mi chiamavano, fotografavo, finiva lì. Non avevo rapporti. Ero un isolato. Ero ormai un ingegnere aereonautico».
Va bene. Torniamo al 1968. Era partito per la Romania con Milena Hubschmannova per conoscere gli zingari. Torna e il giorno dopo, al risveglio, trova i carri armati. «Quando la mia amica mi telefonò, le dissi che si stava sbagliando. All’ultimo mi convinsi e uscii e cominciai... Perché lo feci? Perché ero un cecoslovacco: la passione civile mi spingeva in strada con la macchina fotografica, perchè fotografare era la cosa che sapevo fare meglio. Sono arrivato per primo e ne ho approfittato. Ma non pensavo alla pubblicazione. Ero ceko e lì dovevo stare...».
Nelle sue foto di Praga c’è la gente, ci sono i soldati, ci sono i carri armati. La gente protesta per difendere la propria libertà e la propria dignità. Nei confronti dei soldati non si avverte odio. I manifestanti cercano di parlare e molto spesso parlano con i soldati del Patto di Varsavia. Lei stesso guarda i soldati senza ostilità, quasi con compassione. Poveracci tutti, lontani da casa. Mi vengono i mente i poliziotti proletari di Pasolini. L’odio sembra tutto indirizzato verso gli strumenti della repressione: i carri armati, i tanks. Anche in quella foto del militare sul carro in fiamme che punta il fucile contro un manifestante, che scopre il petto invitandolo a sparare, l’attenzione è per gli occhi spauriti, smarriti, inconsapevoli del soldato... «Certo. Poveracci. Erano poveracci. C’era gente normale nelle strade e i soldati erano persone normali che non sapevano quasi dove fossero, perchè fossero lì. In comune avevano un sistema politico, che aveva condizionato, ordinato, guidato la loro esistenza. I miei concittadini volevano discutere, neppure loro capivano, s’interrogavano e interrogavano i soldati. Valeva anche per me. Un giorno passò un carro armato e alcuni mani s’agitarono in segno di saluto. Vidi le facce. Giorni prima avevo conosciuto quei ragazzi. Avevo chiacchierato con loro. Ricordo che un settimanale italiano, Epoca, pubblico a più riprese alcune mie foto di Praga: una volta le presentò come lo sguardo di una soldato russo sull’invasione. Da qualunque parte fossi, ero sempre in mezzo».
Per noi i soldati sono i nazisti e i nazisti ci appaiono sempre orrendi. Lei ricorda la guerra mondiale? «Ricordo la guerra e ricordo la liberazione. I tedeschi li ho visti, quando attraversarono il mio paese per andare in Russia. Una mattina, davanti a casa, vidi i cadaveri dei partigiani».
Ha avuto paura quei giorni a Praga? «Le pallottole in certi casi non si sa da dove arrivino. Le senti alle spalle, di lato, di fronte. In certe situazioni non si ragiona più. Una volta fotografai un corteo funebre. I soldati volevano prendermi. Mi rifugiai tra i parenti, che mi coprirono, mi nascosero, mi fecero fuggire su un camion, coperto da un telo. Correvo sempre. Anche per nascondere i rullini delle foto».
Dove li nascondeva? «Anche sopra lo sciacquone di una toilette. Passavo a recuperarli, quando l’aria era calma». C’è una sua bellissima foto: tante mani che si protendono per raggiungere una copia del Rude Pravo. I giornali e la radio soprattutto segnarono quella “rivoluzione” come poche altre... «Infatti gli invasori scelsero come bersaglio privilegiato la sede di Radio Praga, che i praghesi difesero strenuamente».
<!--[if !supportEmptyParas]--> Nel 1970 lei lasciò Praga con un visto di tre mesi. Sarebbe tornato nel 1990. Dopo vent’anni d’esilio. «L’esilio ti fa due regali. Il primo sta nella possibilità di ricominciare una vita, tutto daccapo, di nuovo, con la mente aperta, senza pregiudizi nei confronti degli altri e, all’inizio, almeno, ti senti libero. Il secondo sta nell’emozione del ritorno. Vidi la mia città come non l’avevo mai conosciuta».
Tornando, ha fotografato i luoghi della rivolta. «No, proprio no. Me lo hanno chiesto, proprio ora. No, non mi interessa. La ritengo solo una idea giornalistica».
Nel 1990 le sue foto dell’invasione di Praga vennero presentate e pubblicate nel suo paese. Come furono accolte? «La gente voleva dimenticare. Dal Sessantotto erano passati vent’anni ed erano stati vent’anni disastrosi nella vita della gente, come se la storia di ciascuno si fosse interrotta e qualcosa, tanto, troppo, fosse andato distrutto. Ci sono voluti anni, perchè la gente riaprisse quella parentesi e ricominciasse a riflettere sul suo destino tra il ‘68 e l’89».
Dopo gli zingari e Praga, ha fotografato il paesaggio, ad esempio quello devastato dalle miniere di lignite a cielo aperto della Sassia e prima le cave nei monti metalliferi della Boemia. Perchè quest’altro tema? «Un critico messicano mi ha definito il fotografo della “fine”: la fine degli zingari, che devono terminare il loro nomadismo; la fine del socialismo; la fine del paesaggio. Potrei aggiungere che la morte è anche l’unica cosa che ti aiuta a capire la vita: lo scriveva quel critico messicano».
L’esilio per lei è stato anche sinonimo di viaggio... «Sono quarant’anni che viaggio. Fa parte del mio lavoro. Mi fa sempre un grande piacere arrivare. Mi fa ancora più piacere partire».
Non ha mai pensato di partire per l’Irak o per l’Afghanistan per fotografare quelle guerre? «No. Non mi attrae la violenza. Mi interessa la parte migliore della gente».
Ripete in inglese: the best of the people. Quante fotografie aveva scattato nel Sessantotto di Praga? «Duecento rullini. Ho scelto le migliori. Ci sono sequenze di sedici o di quattro fotografie che dovrebbero rappresentare una scena che si evolve, da più punti di vista».
E sfoglia il grande volume, pubblicato in Italia da Contrasto di Roberto Koch, “Invasione Praga 68”, e sfogliandolo insieme rapidamente colpiscono i volti e la intensità degli sguardi. Una pagina è la bellissima immagine di Emil Zatopek, il grande maratoneta, olimpionico, la camicia a quadrettoni, la giacca di lana, beve un caffè, la faccia stanca, in pena. Su Rude Pravo, Zatopek invitava il comitato olimpico internazionale a escludere l’Unione sovietica dai Giochi di Città del Messico. «Ho scelto le foto migliori. Un buona fotografia mi entra in testa e non la posso dimenticare. Questa è una buona fotografia».
Dove andrà adesso? «Mi hanno invitato in Israele. Ma non sono sicuro...».
Pubblicato il: 19.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 17.25
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:27:52 pm » |
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Praga sulle pagine de l'Unità
Tullia Fabiani
Comincia con «un grave annuncio da Praga» la cronaca delle giornate dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia. È il 21 agosto 1968 e su le pagine de l’Unità si raccontano l’«emozione e la profonda preoccupazione nel movimento operaio internazionale». Ma è solo l’inizio. Il giorno successivo, 22 agosto il giornale riporta la drammatica successione degli avvenimenti, le reazioni dei partiti comunisti europei, in particolare quello francese, della Cgil e di altre associazioni che deplorano l’invasione; ma c’è soprattutto il comunicato dell’ufficio politico del Pci, che esprime il suo «grave dissenso» e la «propria solidarietà con l’azione di rinnovamento condotta dal Partito comunista cecoslovacco». La rottura e la presa di distanza dall’intervento sovietico sono nette e storiche.
E si consolidano giorno dopo giorno. Il 23 agosto, in prima pagina, si legge la dichiarazione del segretario Luigi Longo, che parla a nome del Comitato centrale sugli ultimi sviluppi degli avvenimenti cecoslovacchi: «L’ufficio politico del nostro partito ha manifestato la propria riprovazione dell’intervento militare ritenendolo ingiustificato e considerando che compete ai comunisti e al governo di Cecoslovacchia di garantire la difesa del sistema socialista e il rinnovamento democratico del loro paese». Poi nelle pagine interne l’inviato a Vienna, Giuseppe Boffa, racconta il congresso straordinario, riunito in una fabbrica a Praga, del Partito cecoslovacco. Mentre vengono raccolte reazioni dai vari partiti europei e adesioni alla posizione del Pci da parte di intellettuali e artisti. «Considero la occupazione della Cecoslovacchia non solo come un fatto gravissimo e inammissibile, ma come un colpo portato al cuore dell’internazionalismo proletario. Il partito comunista e il popolo cecoslovacco hanno bisogno della nostra solidarietà attiva e consapevole», scrive lo storico Paolo Spriano. E di «sclerotizzazione dell’apparato dirigente sovietico» parla l’archeologo Bianchi Bandinelli. Da parte loro l’associazione degli autori cinematografici e il sindacato degli artisti lanciano un appello perché tutti i «cineasti e intellettuali italiani manifestino la loro solidarietà al socialismo cecoslovacco» e ricordano come la Cecoslovacchia sia un paese dove «è in corso un processo di sviluppo del socialismo basato sulla libertà e sul consenso, un movimento che non può essere arrestato con la violenza».
Nelle settimane seguenti le cronache continueranno ad essere drammatiche e fortemente critiche. A testimoniare che qualcosa nella storia del comunismo occidentale si era spezzato definitivamente. Quelle giornate negli anni successivi saranno ricordate da l’Unità in più circostanze; in modo particolare in occasione degli anniversari, come il ventennale, nel 1988. A gennaio Renzo Foa intervista il protagonista della “primavera cecoslovacca”, Alexander Dubcek: l’ex leader comunista parla per di quello che fu «il nuovo corso» della crisi vissuta dal suo paese e chiede che gli venga «restituito l’onore politico». Già nel 1985 Dubcek aveva affrontato la questione, rompendo per la prima volta un silenzio durato sedici anni e scrivendo una replica al dirigente comunista cecoslovacco Vassilli Bilak, che l’Unità pubblicò in esclusiva mondiale.
Il 20 agosto 1988 proprio sul ruolo di Dubcek Giorgio Napolitano scrive un editoriale in cui sottolinea e ribadisce il ruolo del leader comunista e chiede la sua «riabilitazione» politica. Mentre il 21 il giornale ripropone un’analisi sul ruolo e le reazioni del Pci sui fatti di Praga. Lo farà anche nel 1993 in occasione dei 25 anni dall’invasione, dopo che anche il protagonista Dubcek è scomparso, salutato su l’Unità da un intenso ricordo di Bohumil Hrabal (nel 1992). E ancora negli anni successivi di Praga, della Primavera cecoslovacca, del Pci segnato da quella vicenda si continuerà a parlare: a dimostrazione che la storia non finisce di essere compresa.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 18.07 © l'Unità.
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:28:53 pm » |
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21 agosto 1968 Cronaca di un'invasione
Tullia Fabiani
È mercoledì 21 agosto il giorno in cui la storia del comunismo europeo volta pagina, in modo tragico. E inappellabile. Le truppe sovietiche invadono la “vicina” Cecoslovacchia. Una risposta totalitaria alla politica che oggi si direbbe “riformista” dell’allora leader del Partito comunista Alexander Dubcek. Tutto ha inizio nel gennaio del 1968, quando Dubcek, principale esponente dell'ala innovatrice, diventa Segretario del Partito. E dà avvio a una serie di provvedimenti destinati a rinnovare profondamente, attraverso piccole ma significative riforme democratiche, il sistema politico ed economico del paese: ad aprile viene avviato "il programma d'azione" attraverso il quale, a fronte del modello sovietico pianificato, si apre uno spiraglio al pluralismo economico e a quello politico. Dopo decenni infatti viene introdotta la libertà di stampa e di opinione e viene consentita la nascita di nuovi partiti. Comincia quella che alla storia passerà come “la primavera di Praga”, e che avrà durata breve.
Qualche mese infatti e i sovietici, fino a quel momento attenti controllori dell'apparato politico cecoslovacco, decidono che il limite è stato superato: la politica del rinnovamento è una sponda pericolosa per il regime, soprattutto se il principio libertario rischia di propagarsi a tutti i paesi del Patto di Varsavia. Alcuni esponenti comunisti cominciano a organizzarsi e a ordire un complotto. Fra il 4 e il 6 luglio Mosca, Varsavia, Berlino est, Budapest e Sofia scrivono a Praga, si dicono allarmate per l'offensiva della destra antisocialista e invitano i dirigenti cecoslovacchi a una riunione comune. Il 3 agosto 1968 a Bratislava viene segretamente consegnata a Brežnev una lettera con la quale i dirigenti “ortodossi” chiedono aiuto, anche militare, per fermare la “controrivoluzione”. La riunione a Varsavia dei capi dei cinque paesi e in particolare la missiva che indirizzano ai cecoslovacchi per chiedere in sostanza la fine del "nuovo corso", confermano i timori di Dubcek e degli altri riformatori: si sentono sotto processo. Ma respingono l'ultimatum e insistono per incontri bilaterali.
Dal 27 luglio al primo agosto, a Cierna sulla Tisa, alla frontiera tra Cecoslovacchia e Urss, si incontrano, le presidenze comuniste di Praga e di Mosca. E concordano un incontro a sei nella capitale slovacca il 3 agosto, che si conclude con l'approvazione di un documento comune.
Apparentemente i protagonisti si dicono soddisfatti del documento sottoscritto. I cecoslovacchi sono riusciti a far inserire un passaggio nel quale si parla di rispetto dei principi di eguaglianza, sovranità, indipendenza nazionale, intangibilità territoriale. Però c’è un passaggio che ribadisce il dovere dei paesi socialisti a sostenere, difendere e rafforzare le conquiste, marxiste, di questi stessi paesi. Conquiste che vengono prese a pretesto per giustificare l'aggressione nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968. E l’ingresso dei carri armati a Praga.
Es sind Soviets. Die Russen rollen (Sono i sovietici. I russi stanno marciando). Il primo allarme viene lanciato alle 23,30 del 20 agosto 1968 dalla stazione dello spionaggio tedesco occidentale di Pullach, vicino Monaco.
Qualche ora prima dell'inizio dell'operazione, viene informato anche il governo americano, affinché l’invasione non fosse considerata un’aggressione all’Europa, ma un “regolamento di conti interno”. E la giustificazione ufficiale dinanzi ai governi europei, diffusa poi dall'agenzia TASS, sarebbe stata la richiesta di aiuto da parte delle autorità cecoslovacche.
All'aeroporto di Praga-Ruzyne i primi aerei Antonov scaricano carri armati, paracadutisti, fanteria. In poche ore l’ esercito dilaga oltre i confini cecoslovacchi da nord, est e sud. Lo comanda il generale sovietico Kiril Mazurov. Ne fanno parte armate tedesco orientali, polacche, sovietiche, bulgare e ungheresi. È formato da circa 600 aerei da combattimento e da trasporto, 4.600 carri armati, 2.000 pezzi d'artiglieria e un gran numero di divisioni, di fanteria e di paracadutisti.
La notizia dell'aggressione arriva alla Presidenza del partito cecoslovacco poco prima della mezzanotte del 20 agosto: alcuni dirigenti “ortodossi” tentano di far approvare un documento che di fatto legalizza l'aggressione, trasformandola in “aiuto fraterno”. Come avevano concordato con Brežnev, sperando di inaugurare a un «governo rivoluzionario di operai e contadini».
Invece al termine di un duro confronto, con 7 voti contro 4 viene approvato un documento che denuncia l'accaduto come un tradimento, e invita tutti i rappresentanti del paese a restare ai loro posti. E viene chiesto che nessuno opponga resistenza armata. Il comunicato fa il giro del mondo.
All'alba, Dubcek e altri cinque riformatori vengono arrestati e trasferiti prima a Legnica, in Polonia, e successivamente a Mosca. E la Cecoslovacchia si trova ancora una volta nella storia sola: tradita dagli alleati (socialisti, questa volta) e impotente a fronteggiare l'aggressore.
Tra la popolazione, soprattutto quella giovanile, protagonista della stagione di rinnovamento, si diffonde un'ondata di smarrimento e delusione. Un ragazzo, lo studente universitario Jan Palach, il 16 gennaio 1969 si dà fuoco ai piedi della statua di Venceslao, nella piazza omonima al centro di Praga. Quel suicidio solleva una profonda emozione in tutto il mondo. Nel corso dei mesi successivi si susseguono manifestazioni di protesta: durante una di queste vengono colpite e frantumate le vetrine dell'agenzia delle linee aeree sovietiche nella capitale. Mosca protesta, generali ed esponenti politici si precipitano a Praga e svolgono una frenetica attività di intimidazioni e pressioni, che si conclude il 19 aprile: Dubcek è costretto alle dimissioni e viene sostituito da Husák alla testa del partito.
Ha inizio il ventennio della “normalizzazione” contrassegnato dalla revoca o dallo svuotamento delle riforme attuate. Un terzo degli iscritti al partito, circa 500.000, non rinnova la tessera o viene espulso. A decine e decine di migliaia scienziati, ufficiali superiori e inferiori, scrittori, giornalisti, direttori e quadri d'azienda, insegnanti, operai perdono il posto e il diritto al lavoro. Poco tempo dopo ricominciano i processi politici che si concludono con dure condanne.
Il 20 agosto, ad un anno dall'occupazione sovietica, a Praga la popolazione si riversa nelle strade al grido di “via i russi”. La polizia risponde lanciando bombe lacrimogene mentre le autoblindo percorrono le vie della capitale schiacciando le barricate erette dai praghesi. Nei giorni successivi i tumulti si estendono anche alle città di Brno e di Bratislava.
Gli ultimi sprazzi di “Primavera” si spengono con la "normalizzazione" dei sindacati nel 1970. Da quel momento la voce dei dissidenti diventa udibile solo attraverso opere pubblicate all'estero, e nelle attività intellettuali e sociali alternative ed estranee a quelle delle organizzazioni ufficialmente riconosciute.
Dall'agosto 1968 al dicembre 1969 persero la vita 94 cecoslovacchi, più dei due terzi dei quali nelle prime due settimane. Centinaia di persone rimasero ferite. Una lacerazione profonda nella storia del Paese, mai dimenticata.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 16.27 © l'Unità.
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:29:48 pm » |
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Quella Primavera finita troppo presto
Luciano Antonetti
L’elezione di Alexander Dubcek a primo segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia al posto di Antonin Novotny, il 5 gennaio 1968, chiudeva una fase per molti aspetti critica nell’evoluzione di quel paese. E ciò in un mondo nel quale ogni accenno al superamento degli equilibri esistenti era guardato dalle due superpotenze – Stati uniti e Unione sovietica – con sospetto, quando non come atto di aperta ostilità.
Subito dopo l’inizio degli anni 60 in Cecoslovacchia si fecero evidenti i segni di una stagnazione economica. Si era esaurita la possibilità dello sviluppo estensivo che fino allora aveva permesso la crescita del prodotto interno lordo. La pianificazione centralizzata aveva privilegiato la crescita dell’industria pesante e aveva finito per dimostrarsi incapace di reagire con elasticità alla domanda crescente di beni di consumo. I tentativi esperiti per trovare una soluzione si rivelarono inadeguati, perché non modificavano la struttura del sistema politico, causa prima della crisi.
Nel 1963 una serie di segnali permise agli osservatori più attenti di capire che il sommovimento investiva l’intera società cecoslovacca, in conseguenza di una destalinizzazione avviata in ritardo. Si tenne un convegno internazionale su Franz Kafka, che si concluse con due acquisizioni dirompenti: l’alienazione dell’uomo, fino allora ritenuta caratteristica delle società capitalistiche, esisteva anche in quelle cosiddette socialiste; bisognava ampliare il concetto di realismo socialista, affinché potesse comprendere anche l’opera kafkiana. Il miglioramento degli scambi culturali e turistici tra Est e Ovest influenzarono il cinema, il teatro, la musica.
Sempre nel 1963 vi furono l’abbattimento della gigantesca statua di Stalin e l’uscita di un romanzo dello slovacco Ladislav Mnacko, violenta accusa contro un ceto politico responsabile tra l’altro di una lunga stagione di processi a comunisti e non comunisti innocenti, con un gran numero di vittime. Il problema della revisione di quei processi e delle riabilitazioni impose in quell’anno alcuni mutamenti nella nomenclatura del partito. Dubcek, eletto alla testa del Partito comunista di Slovacchia, avviò una politica di apertura che lo portò presto a scontrarsi con il più potente Novotny. A nulla valsero gli sforzi di quest’ultimo per cercare di frenare il movimento, che presto si trasformò in una valanga che lo travolse.
Alla fine del 1967, dopo che il IV congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi, svoltosi a fine giugno, aveva rivelato l’ampiezza e la portata del fronte che esigeva profondi mutamenti, dopo aver chiesto invano aiuto al capo del Cremlino e perfino abbozzato un colpo di mano militare, Novotny dovette rassegnarsi a dimettersi prima da capo del partito e poi da Presidente della Repubblica.
I primi mesi dell’anno furono segnati da profondi cambiamenti in tutte le organizzazioni e le istituzioni politiche, economiche, sociali e culturali, ma soprattutto dall’avvio di quello che fu definito “nuovo corso” dai cecoslovacchi e “socialismo dal volto umano” dai giornali occidentali. La censura smise di funzionare, prima di essere abolita per legge; stampa, radio, televisione, la gente tutta discuteva apertamente nelle strade e nelle piazze. I comunisti approvarono un Programma d’azione che prevedeva la democratizzazione della sua vita interna e del sistema politico, una politica estera di alleanza e solidarietà con gli altri paesi socialisti e insieme più autonoma rispetto al passato, profonde riforme in campo economico e la federalizzazione dello Stato con il riconoscimento di rapporti paritari tra cechi e slovacchi.
Il partito dei comunisti sovietici e i suoi più fedeli alleati – tedesco orientali, polacchi, bulgari e ungheresi – dapprima si mostrarono cauti, poi cominciarono a premere con forza crescente, per impedire che il “contagio” si propagasse ai loro paesi. La loro stampa cominciò a parlare di abbandono del marxismo-leninismo, di controrivoluzione strisciante, di volontà di stravolgere i risultati della Seconda guerra mondiale. Si preoccupavano anche del sostegno che alla “Primavera” non tardò a venire da influenti partiti comunisti occidentali, come l’italiano e il francese, proprio mentre Mosca cercava di ricompattare il movimento comunista internazionale con la condanna dello scisma cinese. I futuri aggressori miravano a un preciso obiettivo: far rientrare quel partito e quel paese nei ranghi, imporre il ritorno al passato. Non esitarono a fare ricorso a pressioni di ogni genere: furono fatti ritrovare sacchi di armi che i loro giornali scrissero erano state nascoste per venire utilizzate al momento opportuno.
Il 27 giugno 1968, mentre nel paese erano in corso manovre militari del Patto di Varsavia che si rivelarono poi essere la prova generale dell’invasione, il settimanale Literarni listy e alcuni quotidiani pubblicarono il Manifesto delle 2000 parole, steso dallo scrittore Ludvik Vaculik: un appello ai cecoslovacchi affinché vigilassero per impedire un ritorno al passato, firmato in pochi giorni da migliaia di persone di ogni ceto sociale. Due settimane dopo, a metà luglio, i capi di Urss, Polonia, Germania est, Bulgaria e Ungheria si riunirono a Varsavia, da dove lanciarono un sorta di ultimatum a Praga. I dirigenti cecoslovacchi reagirono proponendo incontri bilaterali tra i diversi paesi. Era cominciata la corsa contro il tempo. Dubcek e altri dirigenti intendevano arrivare a celebrare il XIV congresso straordinario del partito, senza inasprire ulteriormente la situazione, per dare sanzione definitiva alla politica del “nuovo corso”; Mosca e suo alleati volevano l‘esatto contrario. Negli ultimi giorni di luglio vi furono gli incontri tra le due direzioni: sovietica e cecoslovacca. In quell’occasione si palesarono divisioni tra i dirigenti di Praga, alcuni dei quali si schierarono a fianco dei sovietici.
Il 3 agosto, a Bratislava, si riunirono i massimi dirigenti di Cecoslovacchia, Urss, Polonia, Germania est, Bulgaria e Ungheria. Ne uscì un comunicato che venne accolto con un sospiro di sollievo nei paesi interessati e in genere da molti altri, ma in realtà conteneva una contraddizione: vi si affermava che sovranità e integrità territoriale dei singoli paesi dovevano essere rispettate da tutti e che ogni partito era responsabile di fronte al proprio popolo della sua politica, ma anche che “la difesa delle conquiste dei diversi paesi socialisti erano dovere internazionalista di tutti”. Proprio questa affermazione venne presa a pretesto per giustificare l’invasione.
All’alba del 21 agosto Dubcek e altri dirigenti cecoslovacchi vennero arrestati e internati, dapprima in Polonia, e poi trasportati nella capitale sovietica. Qui giunsero il 23 il presidente Svoboda e altri esponenti di Praga. Per tre giorni le personalità più in vista della “Primavera” furono sottoposte a pressioni e intimidazioni inaudite, finché capitolarono, per evitare il perdurare dell’occupazione. Accettarono tra l’altro di rinviare a data a destinarsi il congresso straordinario, di ristabilire il controllo del partito sui mass media, di mantenere ai loro posti i dirigenti schieratisi con i sovietici, di far dimettere il ministro degli esteri, il direttore generale della televisione, di accettare la presenza “temporanea” (che poi diventò ventennale) di truppe e armamenti sovietici.
Ancora dopo il ritorno della “delegazione” da Mosca si poteva pensare che, sebbene non con la stessa impetuosità, il processo di rinnovamento sarebbe proseguito. Non ci volle però molto per rendersi conto che si trattava di un pio desiderio. Il 1° gennaio 1969 entrò in vigore la legge sulla federalizzazione; il 9 si aprì il congresso dei delegati dei consigli operai già eletti e funzionanti nelle maggiori imprese industriali; il 16 si dava fuoco, in piazza Venceslao a Praga, lo studente di filosofia Jan Palach, in segno di protesta per la perdurante occupazione. I sovietici non mancarono di sfruttare tali avvenimenti per accrescere le pressioni sulla dirigenza cecoslovacca. A fine marzo, le manifestazioni di gioia per la vittoria della squadra cecoslovacca di hockey su ghiaccio su quella sovietica furono l’ultimo pretesto addotto per imporre il cambiamento alla testa del partito e della sua politica: Gustav Husak prese il posto di Dubcek. Cominciarono i vent’anni della “normalizzazione”, che significarono per la Cecoslovacchia la trasformazione in “Biafra dello spirito” secondo una calzante definizione del poeta francese Louis Aragon: circa mezzo milione di comunisti, un terzo del totale, non rinnovarono la tessera o furono espulsi; decine di migliaia di cecoslovacchi emigrarono, moltissimi furono costretti a vivere come esiliati in patria.
Quanto era accaduto negli anni 60, e soprattutto dal gennaio all’agosto 1968, lasciò tuttavia un segno indelebile. Lo si vide, per esempio, con la nascita di “Charta 77”, nata due anni dopo la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, i cui primi tre portavoce furono il drammaturgo Vaclav Havel, l’ex ministro degli esteri comunista del ’68 Jiri Hajek e il filosofo Jan Patocka. Anni dopo, con l’avvento al potere di Michail S. Gorbaciov a Mosca e l’avvio della sua politica di glasnost e perestrojka, sembrò che anche la Cecoslovacchia potesse riprendere il cammino delle riforme interrotto dall’invasione del ’68. La speranza si rivelò illusoria e ci vollero ancora quattro anni perché, finalmente, alla fine del 1989, il paese potesse tornare libero e indipendente. Il 24 novembre di quell’anno, da un balcone di un palazzo di piazza Venceslao, Havel e Dubcek si affacciarono insieme, davanti a una folla di 300.000 persone. L’indomani un milione di praghesi inneggiava al ritorno del simbolo della Primavera cecoslovacca del 1968. A fine anno il drammaturgo venne eletto Presidente della repubblica e il comunista Presidente del rinnovato Parlamento federale.
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 18.02
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:30:34 pm » |
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Una storia aperta, da leggere e rileggere
Intervista a Adriano Guerra
«Bisogna capire che si è trattato del tentativo di coniugare le regole economiche del socialismo con quelle proprie della democrazia. È stata una battaglia fondamentale. Un tentativo che pure se fallito ha cambiato il corso della Storia». Più che un buon motivo per ricordare e ripensare quanto accaduto a Praga nel 1968, secondo Adriano Guerra, giornalista e storico del comunismo. Perché il presente e il futuro della sinistra non hanno senso se l’idea è quella di «ripartire da zero», ignorando completamente il passato.
Adriano Guerra, lei ha vissuto quella stagione: la Primavera di Praga, l’invasione sovietica, le reazioni nel mondo e nel Partito Comunista italiano. Cosa ricordare e perché? «Oggi è di moda pensare che il futuro abbia un presente ma non un passato. Si dice ripartiamo da zero per risolvere i problemi e dare al Paese una nuova forza di sinistra. Ma io credo che il futuro sia sempre continuazione del passato. Anche quando ne è la negazione. Per questo si deve ricordare quella stagione. Serve una visione unitaria: nel ’68 ci sono stati i movimenti di liberazione ed emancipazione, le occupazione delle università, ma anche il tentativo di liberare il socialismo sovietico dallo stalinismo. Un tentativo importante benché fallito. E questa è una storia aperta, da leggere e rileggere».
Ma quali sarebbero gli aspetti ancora controversi? «Quello che pesa ancora è la sconfitta inferta dalla Storia e il fatto, ad esempio, che i dissidenti in Cecoslovacchia hanno dovuto difendersi dall’accusa di essere stati comunisti e di aver avviato un processo all’interno di un partito comunista. Questo ha contribuito a spaccare il movimento del ’68 e anche a creare aree di ambiguità. Lo stesso Dubcek è stato trattato come l’illuso che aveva pensato di risolvere il problema della democrazia all’interno di un orizzonte socialista. Solo con il tempo e la giusta distanza critica si potrà arrivare a una visione complessiva, capace di riconoscere e valutare le difficoltà e la complessità con cui si è svolta la battaglia per la democrazia nei paesi sovietici».
Lei crede che i giudizi storiografici e politici dati finora siano insufficienti? «Credo sia necessario capire meglio in che modo e perché in Cecoslovacchia la battaglia è partita proprio da un gruppo di comunisti. Insomma, si è trattato della nascita di un comunismo democratico che partiva proprio dal presupposto di far convivere le regole economiche del socialismo con quelle della democrazia e della pluralità di forze. Un’idea che ha una sua storia, parte da Rosa Luxemburg, dalla rivoluzione d’ottobre. Trova un primo momento di vita nel 1956 in Ungheria. E arriva fino a Praga».
La Primavera… «Si. Quella esperienza si è presentata sul filo della continuità con la rivoluzione d’ottobre, ma con la netta rivendicazione di unire al socialismo economico la democrazia. Per questo alla definizione di comunismo democratico legherei anche l’esperienza particolare del Pci. Con Berlinguer il partito ha vissuto una fase di piena autonomia dal sistema sovietico ed è entrato anche nell’area di governo. I suoi successori appena si è presentato Gorbaciov hanno pensato che l’Urss fosse riformabile, e invece non era possibile. Significava modificare il ruolo del partito-Stato, il sistema di potere, punti essenziali a quel sistema. E di fronte al fatto il tentativo di costruire una società socialista fosse fallito, anche il comunismo democratico si è arrestato. Non è riuscito a recuperare e assumere altra immagine da quella sovietica».
Perché non è stato possibile il recupero? Il riconoscimento di una strada alternativa a quella sovietica, una esperienza comunista e democratica come quella intrapresa da Dubcek? «Di fatto tutti i comunismi sono crollati e finiti perché l’Urss ha fagocitato e compromesso tutte le esperienze. E ciò che è rimasto oggi a Cuba, come in Cina, non aiuta a dare un’idea di vera trasformazione. C’è chi ha cercato di interpretare le nuove esigenze e le nuove spinte presenti nella società, muovendosi verso il pacifismo. Ma è mancata una critica radicale al vecchio comunismo. La tendenza principale è stata quella di azzerare tutto, liberarsi del passato, ma senza cercare un collegamento con elementi che avevano connotato positivamente la storia del Pci. E la discussione spesso si è limitata a questioni lessicali: se usare o meno il termine “comunismo”. Il risultato è stato la scomparsa della sinistra».
Insomma Praga fu uno spartiacque per il Pci? «È stato un fatto per cui si può parlare sicuramente di un prima e un dopo. Per la prima volta il gruppo dirigente e il partito nel suo complesso hanno detto un ‘no’ all’Urss e solidarizzato in pieno con la Cecoslovacchia. È vcro che lo hanno fatto senza rompere con lo Stato sovietico, ma questo in fondo è un falso problema perché nessun altro Paese o stato ruppe con quella che era la seconda potenza del mondo. Il punto è che da quel momento, in modo netto e limpido, il Pci ha cessato di far parte del Movimento comunista internazionale. E si è posto come forza alternativa, arrivando a proclamre a Mosca, con Berlinguer, che la democrazia era una valore universale».
E ora, a distanza di quaranta anni, fallimenti, congressi, fusioni e rifondazioni, quale orizzonte per la sinistra? «Ora il compito è pensare che anche se sulla carta ci sono tante alternative possibili, in realtà una solo è vincente. Quelle perdenti sono quelle che dimenticano che il socialismo sovietico era costruito su elementi che non si potevano riformare senza far crollare tutto il sistema».
È l’insegnamento dei fatti di Praga? «È stata una battaglia di libertà e democrazia. Il tentativo di costruire una società nuova. Partendo da lì il problema per la sinistra è studiare, approfondire le ragioni della sconfitta storica e affrontare, anche alla luce di tale riflessione, i problemi del presente. Perché la storia del comunismo non è la storia di un movimento monolitico, cristallizzato nel tempo. Ma la storia di un pensiero declinato in varie forme, di sfide, contrasti, delusioni e speranze per gli uomini. Anche questo insegna Praga».
(intervista a cura di Tullia Fabiani)
Pubblicato il: 20.08.08 Modificato il: 20.08.08 alle ore 17.27 © l'Unità.
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