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Autore Discussione: ELENA LOEWENTHAL  (Letto 30065 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 29, 2010, 11:01:55 am »

29/12/2010

Ma un bambino è responsabilità

ELENA LOEWENTHAL

Zachary è nato il giorno di Natale. Non è solo un bambino, e non è nemmeno un bambino come gli altri.

E’ il coronamento di un sogno.

E non un sogno qualunque, ma quello di due persone speciali come Elton John e il suo compagno di lunga data, David Furnish, che per il loro sogno si sono affidati a un utero in affitto. La sua è una storia bellissima, come dovrebbe essere sempre quella di un bambino che viene al mondo e noi guardiamo lui e lui ci guarda e c’è tutto da imparare daccapo, ogni volta che un bambino viene al mondo.

Però non può non sollevare alcuni interrogativi cruciali, che in fondo ci riguardano tutti e niente affatto di lontano, anche se i genitori sono due persone famose che vivono in un universo interstellare irraggiungibile ai più. Zachary è il figlio di Elton e David, ma è anche il frutto di un grembo anonimo e di un decisione che non ha avuto come uniche armi l’istinto e l’amore, ma certamente anche la scienza e qualche cosa di altro su cui val la pena riflettere. Per lui, il piccolo Zachary, per tutti noi, per la piccola Ryleigh, la gemellina dai capelli rossi nata con undici anni di ritardo rispetto alle sue due sorelle.

Che cosa ci spinge a mettere al mondo un figlio? Un bisogno irrefrenabile, terribile e bellissimo, cui non sei capace di dare un nome. Il desiderio di perpetuarsi, di lasciare qualcuno su questo mondo quando non ci saremo più. La voglia di specchiarci in qualcuno che non siamo noi, ma che è come se lo fosse. Fare un figlio è un atto d’amore. Viene dall’incoscienza e non dalla ragione, è un groviglio di sentimenti in cui il calcolo non c’è. Fare un figlio è quasi assurdo, se ci pensi: è una fatica e una responsabilità, è un catenaccio per la vita, è la negazione di quella libertà che credevi una conquista ma poi a un certo punto non ti basta più. Fare un figlio è la cosa più umana che ci sia, nel senso di uomini e donne insieme o ciascuno per conto suo.

Ma per fare un figlio ci vuole, oltre all’amore, anche una speciale lungimiranza del sentimento che ti proietta da una dimensione della vita all’altra: è il senso di responsabilità che viene dall’amore. Sapere che dal momento in cui lo concepisci, anzi lo pensi o lo sogni di notte, un figlio ti prende la vita: non nel senso che te la ruba, ma che la moltiplica, la dilata, la trasforma in qualcosa che prima non c’era, questa vita. Bisogna saperlo, quando si fa un figlio con un atto d’amore, o in provetta, o chiedendo un utero in affitto, o compilando l’ennesimo modulo per l’adozione. Fare un figlio non è uno scherzo. E’ la cosa più seria che siamo in grado di fare, se lo vogliamo.

Non è affatto detto che solo un famiglia normale e un travaglio di parto significano responsabilità, amore, cura e lungimiranza del sentimento. Le nuove frontiere del generare non sono affatto una garanzia di fallimento genitoriale. Sono, casomai, un’altra occasione per riflettere su quel che significa mettere al mondo un figlio, e non dimenticarselo mai.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8237&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:13:07 am »

12/2/2011

Compromessa la dignità del premier, non la nostra

ELENA LOEWENTHAL

Non me la sento di scendere in piazza domani per difendere la dignità delle donne. Né la mia né quella altrui. Non vedo perché.
Mi desta persino qualche perplessità la sigla della manifestazione. Non perché la considero una profanazione ­ è il titolo dell’ultimo romanzo di Primo Levi, ma prima ancora un antico adagio rabbinico che invita alla responsabilità. Piuttosto, non colgo il nesso fra questo richiamo all’impegno e l’indignazione che sta alla radice di questa chiamata femminile.

Perché mai le donne si sentono in dovere di difendere la propria dignità, alla luce di quell’oscena realtà che trapela da casa del nostro presidente del Consiglio (o dal suo aereo, o dalle auto della sua scorta, o dal suo telefonino)? Forse che gli uomini ­ nel senso di maschi ­ si sono sentiti in dovere di lanciare una manifestazione per difendere la loro, di dignità? Che a dire il vero mi sembra decisamente più violata della nostra. Loro, hanno per caso sentito l’impulso di prendere le distanze, di chiamarsi fuori da quel modello di maschio lì? Ci hanno forse detto, con rabbia e con dolore e con indignazione, che non sono tutti dei vecchi bavosi incapaci di amare o stabilire una relazione affettiva, e bisognosi invece di palpare parti intime femminili in quantità industriali, per sentire vivo il proprio corpo?

Non mi pare. Eppure, se di dignità parliamo, quella dei maschi ne esce decisamente più malconcia della nostra. Perché in fondo, ma neanche tanto in fondo, in questa storia di festini, nudità, giochi stupidi e prestazioni in cambio di somme niente affatto irrilevanti, il nostro presidente del Consiglio a me pare più preda che cacciatore, più vittima che dominatore. La sua fragilità di maschio mi preoccupa ben più della compulsione sessuale. Quel suo non poter fare a meno di olgettine e palpatine, con l’evidente conseguenza che un folto gruppo di sciacquette più giovani di mia figlia (lui invece potrebbe esser mio padre) dispongono del suo numero di telefono, lo minacciano, lo ricattano e gli fanno pure la morale politica. Se non è caduta di dignità questa, ditemi cos’è.

Quanto a noi donne, perché mai dobbiamo sentirci in dovere di dimostrare che non siamo tutte così, come quelle? A me pare ovvio. Persino bello, pensare che non siamo tutte uguali: vecchie e giovani, brutte e gnocche, intelligenti e oche. Scienziate, commesse, e puttane. Non capisco che cosa ci sia da indignarsi. Se l’emancipazione ci ha regalato una libertà sacrosanta, perché gridare allo scandalo? L’utero è mio e me lo gestisco io, per fortuna. Ma anche la dignità è mia, e me la gestisco io. E non ho intenzione di gestire quella altrui. Certo, sempre che non ci sia puzza di sfruttamento, soprusi, violenze. Ma non mi pare questo il caso, perché qui il coltello dalla parte del manico (e del portafoglio) ce l’hanno le olgettine, mica il presidente del Consiglio. Questo sì che mi preoccupa, ma non per la dignità delle donne. Per l’affidabilità di lui, così facile preda di istinti, ricatti e ingenuità di cui è capace solo chi deve fare i conti con la propria terribile fragilità. Per questo, dunque, non scenderò in piazza per la manifestazione “Se non ora, quando”. Perché non mi sento in dovere né di ribadire né tantomeno di dimostrare che io non sono “come loro” e che non tutte le donne sono “come loro”. Non tutte, ma alcune sì. Con ciò, non mi sento di ingiungere a nessuna, né a quelle che sì, sono così, né alle altre né a me stessa: “ora basta!”. Basta cosa?

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« Risposta #32 inserito:: Marzo 04, 2011, 06:49:16 pm »

Cultura

28/02/2011 -

Bruna, sensuale, rubacuori: la Bela Rosin

Vittorio Emanuele II se ne innamorò quando lei aveva 14 anni.

Gianni Farinetti la mette al centro del suo nuovo romanzo

ELENA LOEWENTHAL

Che donna. Bella? «Bella è bella, molto bella. Gran massa di capelli corvini, occhi scurissimi, carnagione perfetta. Il petto tutt’altro che acerbo»: parola di re. Ma anche di Gianni Farinetti, scrittore braidese prestato a Torino, fine giallista e grande appassionato della sua terra, che nella Regina di cuori, in uscita per Marsilio editore, ci regala un avvincente ritratto della Bela Rosin, alias Rosa Vercellana nonché contessa di Mirafiori (benché figlia di «un tamburo maggiore di Sua Maestà, uomo d’onore, un ottimo soldato fedelissimo alla dinastia»).

A guardarla in foto, però, nella sequenza di ritratti più o meno ufficiali, questa donna è tutt’altro che ossequiosa ai canoni estetici: viso un po’ squadrato, lineamenti decisi, occhi troppo distanti, nasino non certo alla francese. Ma una bocca carnosa, inevitabilmente sensuale. E quella natura corvina che non è solo un colore di capelli ma una profondità fisica di tutto il corpo, stranamente in lei unita a un’infinita dolcezza. Bela? Sì. Ma non certo secondo i modelli di oggi: la Rosina Vercellana, se fosse vissuta un secolo e mezzo più tardi, non sarebbe diventata una modella, né una star e nemmeno una comprimaria da palcoscenico, con le sue abbondanze e i suoi tratti grezzi.

Eppure il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II, se ne innamorò e l’amò per un lungo suo pezzo di vita. Di un amore certamente tumultuoso e passionale nel segreto delle loro stanze da letto, ma che visto da fuori e a distanza di tanto tempo fu soprattutto un amore pacato, domestico e familiare, rasserenante malgrado tutto. Invidiabile, decisamente. «Chi si piglia si assomiglia» (o forse viceversa) sembra fatto apposta per questa coppia dall’aria niente affatto regale: tracagnotti entrambi, però fieri. Sguardo dritto e profondo di chi sa cosa vuole dalla vita. Sotto sotto (ma neanche tanto) un’aria di campagna.

Il giovane e a suo modo aitante Vittorio la vede per la prima volta affacciata a un balcone di Racconigi, alla fine dell’immancabile battuta di caccia (ci andava matto lui, ci andrà matta lei). È il 1847: lui ha 27 anni, quattro figli e uno in arrivo, è l’erede al trono del Regno di Sardegna. Lei di anni ne ha solo 14. Ma questa storia, piaccia o no, non c’entra niente con gli odierni caroselli pseudo-erotici del potere. È una storia di amore nel vero senso della parola, in e con tutti i sensi. Rosina darà a Vittorio due figli e la vita intera. Dopo la morte del re per una polmonite, nel 1878, lei gli «sopravviverà» (parole sue) sette anni. Prima, lo segue in tutte le tappe dell’Italia che si fa, sempre discosta. Ma sempre presente.

Vittorio resta vedovo di Maria Adelaide nel 1855. Sono solo le pedanti, insistenti, tenaci manovre (e minacce) di Cavour a impedirgli di sposare ufficialmente Rosina. Ancora oggi resta il mistero su quelle nozze morganatiche contratte nel 1869 in articulo mortis (quando l’avevano precipitosamente dato per spacciato), ma forse anche prima - e comunque quando ormai Cavour e il suo cipiglio non c’erano più. I figli di Rosina, Vittoria ed Emanuele Alberto, portano «Guerrieri» per cognome. Erediteranno da lei il titolo nobiliare di conti di Mirafiori e Fontanafredda, acquisito nel 1859.

Vittorio Emanuele II non la farà mai regina, la sua Rosina. Avrebbe voluto, ma glielo impedirono tante cose: pressioni politiche, veti dei figli «ufficiali», opportunità di ordine «mediatico». Ma certamente le case dove Rosina abitò - dalla Mandria a Venaria alla Pietraia nei pressi di Firenze, quando la capitale venne spostata lì, con grande cruccio e gravi disordini a Torino, alla Villa Mirafiori fatta costruire sulla Nomentana a Roma, apposta per lei - furono le vere case anche del re. Quelle dove trovava una vera famiglia, e un’aria vera di casa, con lei che lo aspettava per dargli tutto quello che una brava moglie sa dare a un marito. Certo, si vestiva in modo un po’ chiassoso, a un certo punto della vita sembrava un po’ troppo incline agli sfarzi - per quanto sempre relativi... E lui, d’altro canto, non mise mai a freno i propri istinti, incapricciandosi ogni due per tre dell’attrice di turno. Ma Rosina aspettava, paziente e fiduciosa. E lui sempre tornò, fino all’ultimo.

Farinetti racconta e descrive questa storia, mettendo una volta tanto lei, la Rosina, al centro: non il re e nemmeno l’Italia in quegli anni cruciali, travolgenti. Tutto è sempre sullo sfondo di questo amore fatale eppure pacato, squilibrato (lei popolana e lui re) eppure perfettamente armonioso (erano fatti l’uno per l’altra). Un amore durato trent’anni, un’eternità, e un’infinità di momenti condivisi - a letto, certo. Ma anche a tavola (chissà perché, ce la immaginiamo cuoca provetta, la bela Rosin), la sera davanti al camino, a cavallo nei boschi, in passeggiata a braccetto per la vigna.

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« Risposta #33 inserito:: Marzo 28, 2011, 04:56:29 pm »

28/3/2011

Una piccola speranza

ELENA LOEWENTHAL

I bambini nascono quando vogliono loro, non quando decidiamo noi. E sanno il perché, anche se non ce lo dicono. Yeabsera, ad esempio, ha deciso di fare capolino al mondo non in quel tragico luogo di transito che è la Libia in questi giorni.

Non in un punto imprecisato di quelle migliaia di chilometri fatti di steppe, deserti, montagne, fame e sete e paura, che separa l’Etiopia dalle coste del Mediterraneo e che suo padre e sua madre hanno percorso in una fuga inimmaginabile, eppure vera. Macché: Yeabsera ha deciso di nascere sul barcone che trasportava quei due giovani profughi verso una specie di salvezza, una chimera lontana eppure, forse, vera quanto il loro quasi impensabile cammino. E così, il primo pezzo di terra che Yeabsera ha incontrato nella vita è stata l’isola di Lampedusa: un congestionato puntino nel mare.

Eppure, in quel caos che è l’isola di questi giorni, in quell’emergenza cronica di barche, stranieri e ordinanze, malgrado i lampedusiani non si sentano comprensibilmente in vena di accogliere gli immigrati con danze e cocktail di benvenuto (smarriti gli uni, smarriti gli altri), malgrado il crescente sovraffollamento, ad accogliere Yeabsera sul molo c’erano le donne del paese con vestitini, panni e biberon.

E così, anche se Lampedusa in questi giorni assomiglia più a un campo profughi che a una chimera come quella che papà e mamma inseguivano sin dal Corno d’Africa, per Yeabsera l’isola dev’essere sembrata una specie di paradiso terrestre, pieno di regali e sguardi per lui. A ben pensarci, lui ha fatto quello che tutti i bambini sanno fare, ciascuno a suo modo: ha deciso di nascere al momento giusto, anche se a noi adulti non sembra tale e crediamo che un moderno ospedale sia meglio di un barcone. Ma aveva ragione lui, perché contava su qualcosa che noi adulti ci siamo un po’ dimenticati. E cioè che ogni nascita è qualcosa di grande e meravigliosamente incomprensibile. Perché al di là della solidarietà e di un salutare appello al bene di cui (talvolta) l’uomo (soprattutto nel senso di donna) è capace, un bambino che nasce muove dentro di noi (uomini e donne) qualcosa che non sappiamo bene dove stia, a mezza strada fra il cuore e le viscere. E questa cosa che si muove lì dentro, risvegliando meccanismi magari arrugginiti, mettendo da parte per un attimo tutti gli altri sentimenti - e risentimenti -, ci spinge a fare cose. Come aprire un armadio e tirare fuori un bavaglino, magari ingiallito dal tempo e da vecchie macchie di latte. E correre a portarlo a una giovane donna che chissà come ha vissuto sino ad oggi, anzi ieri quando ha partorito in mezzo al Canale di Sicilia, a bordo di un barcone pieno di gente. Buona vita a te, Yeabsera, e a chi te l’ha data, questa vita strana e bella cui le donne di Lampedusa hanno dato il benvenuto.

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« Risposta #34 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:15:07 pm »

17/4/2011

La scomparsa di Israele

ELENA LOEWENTHAL

In questi giorni concitati per il Medio Oriente e il Maghreb affacciato sul Mediterraneo, Israele è un osservatorio molto particolare. Dotato di una duplice prospettiva che è come una lente bifocale in contraddizione solo apparente. Le notizie e i sommovimenti sono percepiti per un verso nella loro dimensione strettamente geografica, di grande vicinanza.

Israele è nell’occhio del ciclone, esattamente al centro di quell’immenso movimento che parte dall’Africa settentrionale e attraversa il mondo arabo dalla Tunisia alla Libia, lo Yemen, l’Egitto, la Siria e non pochi altri Paesi. Questa vicinanza fisica si accompagna, nella percezione dei media e nel modo in cui nello Stato ebraico vengono lette e interpretate le notizie, a una sorta di inedito distacco. Non è questione di priorità o dimensioni dei titoli, è qualcosa di più profondo. La vicinanza fisica da una parte e la distanza mentale dall’altra, risolvono la contraddizione in una specie di prudente stupore. Nella consapevolezza che qualcosa sta cambiando.

Perché dalla Tunisia al Bahrein è successa e sta succedendo una cosa nuova. Israele non è più al centro. Non è più il fantasma, lo spettro, il demonio. Il nemico per eccellenza, che non va neppure nominato ma solo annientato: nemmeno «lo Stato d’Israele» ma «l’entità sionista». L’entità sionista è stata per decenni il presunto collante che ha tenuto insieme le masse arabe e l’islam. È servito al potere per rivendicare se stesso, per ottenere un consenso più urlato che sostanziale. E invece in questi ultimi mesi di Israele si è detto ben poco, dentro le rivoluzioni dell’islam. Qualche bandiera bruciata, certo. Qualche sporadico richiamo. Ma la voce «Israele» non è più il riflesso condizionato che fa puntualmente gridare le masse. Perché le lotte a questi regimi hanno ben altro a cui pensare: rivendicano i propri diritti, la libertà, governi meno corrotti. Vogliono benessere e una società civile degna di questo nome. Cose che, nel mondo della globalizzazione, sono note anche a chi non le ha. E le vuole.

Nel bene della rivoluzione e nel male del terrorismo, come dimostra l’assassinio di Vittorio Arrigoni. A parte qualche delirio residuale che, come nel caso degli squali di Sharm El Sheikh non molto tempo fa, vede tutto e tutti al soldo del Mossad, questa tragica vicenda tiene fuori Israele dal problematico scacchiere che è Gaza oggigiorno, con i suoi giochi di potere interni. Come dimostra, del resto, l’eloquente e prudentissimo silenzio dell’Anp in questa vicenda.

Per decenni i popoli arabi sono stati tenuti a bada con una strumentazione di potere che prevedeva in prima linea lo stereotipo di Israele fonte di tutti i mali e l’idea malsana che eliminando dalla faccia della Terra questo Paese tutto si sarebbe risolto. L’impressione generale è che queste rivoluzioni abbiano aperto una nuova fase in cui questo collante artificiale non tiene più. Le ragazze tunisine che chiedono la libertà di portare il velo o non portarlo nel loro Paese, non temono di dire che Facebook è stato il vero strumento di lotta per il loro popolo. Facebook: un prodotto dell’imperialismo americano, inventato da un ragazzo ebreo… Roba che fino a non molto tempo fa sarebbe stato un tabù politico.

Pensiamo del resto al profilo assai basso scelto anche dall’Iran di fronte a quel che succede nell’universo islamico. I silenzi talora valgono non meno delle parole: Ahmadinejad è un po’ che tace, che non sputa più ad uso del mondo intero i suoi proclami contro Israele, le sue profezie d’annientamento. È un segnale importante di consapevolezza - quasi la prova del nove -, che questo genere di slogan non attecchisce più come una volta, su dei popoli in lotta per se stessi e non contro qualcun altro.

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« Risposta #35 inserito:: Aprile 24, 2011, 05:58:40 pm »

24/4/2011

I mobili contro la Costituzione

ELENA LOEWENTHAL

Due uomini si tengono per mano e, quasi timidamente si guardano. Che cosa abbia di incostituzionale l’immagine di due esseri umani uniti nel destino, nei sentimenti, e nell’atto di comprarsi i mobili di casa, resta un mistero. Forse il sottosegretario Carlo Giovanardi non ha colto l’ironia della nuova pubblicità dell’Ikea, che promette di soddisfare i bisogni di «ogni tipo di famiglia».

E’ vero che la famiglia è una cosa sacra e lo è più che mai per noi italiani - peraltro avidi consumatori di mobili economici che vengono dal Nord Europa e ci danno, oltre a un modico comfort, anche la sensazione di entrare in un altro mondo, un po’ diverso dal nostro.

Ma la famiglia non si giudica secondo parametri di genere, censo, idee. La famiglia è un luogo che appartiene solo a chi ci sta dentro. Chi - oltre a Giovanardi - può anche solo vagamente pensare che due uomini o due donne che si amano, vogliono costruire e magari ammobiliare qualcosa insieme, facciano qualcosa di contrario alla Costituzione della Repubblica? Per fortuna, l’Italia ha un’idea di famiglia non troppo diversa da quella che disegna il cartellone pubblicitario con due esseri umani che si tengono per mano. Anche se sono dello stesso sesso

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« Risposta #36 inserito:: Maggio 08, 2011, 11:35:36 am »

8/5/2011

No, meglio il modello chioccia

ELENA LOEWENTHAL

Mamme in carriera. Mamme da accudimento ad alto contatto. Mamme postmoderne. Mamme biologiche. Destrutturate e perfezioniste. Istintive e documentate. Chi più ne ha più ne metta.

Se la varietà del creato è un pregio, i nostri figli non hanno certo da lamentarsi in fatto di assortimento. Però, a ben pensarci e a costo di cadere in un contagioso fanatismo affettivo, in fondo di mamma ce n’è una sola. Sempre lei. Quella che porta il nome con il niente affatto malcelato orgoglio dell’antonomasia. La mamma senza aggettivi, attributi (grammaticali), specificazioni: quella che basta la parola perché dice tutto.

La mamma unica e inimitabile ha un paio di ali: non si vedono ma ci sono e servono per coprire i pargoli sin da quando le stanno dentro la pancia, perché in fondo anche quello è un posto pieno di insidie e pericoli. La mamma deve stare all’erta. Per questo allarga le ali e ce li tiene sotto più tempo che può e a prescindere dall’età. Quella non conta niente: se sei una mamma così, senza bisogno di aggettivi, tuo figlio può avere due o settant’anni, non cambia proprio niente. Insieme alle ali - che non servono per volare, figuriamoci, ma per coprire, proteggere, talora nascondere - quella mamma lì sviluppa a tempo di record anche una portentosa moltiplicazione dei sensi: udito, vista, olfatto (soprattutto questo). Le servono per individuare da abissale distanza tracce di sigaretta. Una impercettibile inclinazione della pupilla che comunica direttamente con un cuore spezzato. Un’incrinatura di voce nel declinare il bis di pastasciutta che tradisce un quattro di compito in classe.

La mamma mamma queste cose le capisce al volo, perché lei è una specie di superuomo - anzi di più. La mamma mamma non è necessariamente colei che dichiara, con un misto di fierezza e frustrazione: i figli sono la mia ragione di vita. Anzi, la mamma mamma è consapevole di ricevere dai figli immensamente più di quanto non dia loro, giorno per giorno.
Però a ben pensarci, quella mamma lì, come siamo un po' tutte noi dal giorno in cui ci è capitata la strabiliante fortuna di mettere al mondo un figlio, un nome ce l’ha. È la mamma chioccia. La yidishe mame. La mamma italiana. Il suo marchio è inconfondibile: come lei, ce n’è una sola. Cioè tutte noi. Auguri alle mamme del mondo, con o senza aggettivi.

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« Risposta #37 inserito:: Maggio 28, 2011, 11:04:08 am »

28/5/2011



ELENA LOWENTHAL

Quando si hanno dei figli, può capitare di tutto. Di amarli e patirli, di condividere e sentirsi distanti. Perdonare e incattivirsi. Ma dimenticarli, quello proprio non si può: quando si è genitori, l’oblio non è ammesso. I figli ti riempiono la vita con una prepotenza che non ha pari. Eppure, è capitato, e due volte nel giro di pochi giorni.

Lo scenario è una tragica copia conforme. Due bambini piccoli, ancora dentro quell’età in cui comunicare è una conquista giorno per giorno. Due automobili e una stessa calura, dentro l’abitacolo. Due padri innocenti, eppure colpevoli. Di averli dimenticati lì, complice quel silenzio che quando si hanno figli piccoli è una rara benedizione e che invece è costato a loro due la morte. Perché sarebbe bastato un verso, un inizio di capriccio, uno starnuto o un colpo di tosse, per salvarli. Per far sì che questi due padri, innocenti eppure colpevoli, si ricordassero di loro, allacciati sul seggiolino, lì dietro, disgraziatamente fuori portata dello specchietto retrovisore.

Complice di queste due tragedie così terribilmente simili fra loro, in questo precoce principio d’estate, anche lo stress. La fatica di tirare avanti e mantenere una famiglia e non aver più tempo di pensare, ragionare. E così, dimenticare anche una cosa tanto ovvia e banale come quella di avere un bambino in macchina, seduto alle tue spalle. La mamma della piccola Elena ha prontamente scagionato il marito, anzi ha fatto di più: in morte della figlia l’ha elogiato. Quella di Jacopo appare incredula, le mani quasi rivolte al cielo e una smorfia di dolore, mentre qualcuno tiene in braccio suo figlio morto, dentro un lenzuolo bianco. I due padri sono assenti, e chissà che cos’hanno disegnato in volto, in questi momenti. Una colpa che grida se stessa anche se tutto il mondo proclamasse la loro innocenza, anzi di più, la loro infinita bontà di padri modello. Una colpa dalla quale sarà impossibile trovare anche solo uno straccio di redenzione, per il resto della vita.

Perché dev’essere terribile, dimenticarsi un figlio e ritrovarlo morto. Anche se tua moglie spiega davanti alla telecamera che sei il migliore dei mariti. Anche se non ce ne puoi proprio fare nulla, anche se non è colpa tua e amavi quel bambino più di ogni altra cosa al mondo.
Perché dimenticare un figlio non si può. Come si fa? È persino più inammissibile di ucciderlo. Un figlio ce l’hai davanti agli occhi e dentro la testa sin da quando ti viene al mondo ­ e anche prima. Sta lì, occupa tutto lo spazio che hai ­ dentro e fuori. Come fai a dimenticarlo? A ignorare la sua esistenza, anche solo per un pugno di ore ­ ma sufficienti per farlo morire? Non hanno colpa, questi due padri. Però si sono scordati dei bambini in macchina e li hanno lasciati lì. Chissà come guarderanno, d’ora in poi, quel sedile dietro dell’automobile, vuoto per sempre

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« Risposta #38 inserito:: Settembre 09, 2011, 05:19:29 pm »

Cultura

01/09/2011 - DUE DIVERSI "MARI"

Dal Talmud a Internet è dolce il naufragare

Un rabbino alle prese con il Talmud: la parola ebraica significa "oggetto di apprendimento" e indica la cosiddetta "Torah orale", cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno alla Torah "scritta"

Nella XII giornata della cultura ebraica le analogie tra il modo di procedere all'interno del testo rabbinico e nel Web

ELENA LOEWENTHAL

Tanto nel tempo quanto nello spazio, l’ebraismo ha da sempre un bislacco senso dell’orientamento: il mondo si estende verso quattro irraggiungibili angoli, che in ebraico sono detti «venti» (nel senso di folate, non di numero). Il tempo, dal canto suo, scorre lungo una linea ma ha anche un andamento circolare: in tale doppia, forse inconciliabile dimensione, il passato ci sta di fronte mentre il futuro è alle spalle, come insegna anche l’ Angelus Novus di Walter Benjamin. Nello spirito ebraico spazio e tempo si confondono, si scambiano i ruoli in un continuo ripensare se stessi. Spesso si dice infatti che per duemila anni gli ebrei hanno abitato il tempo e non lo spazio, la storia invece della geografia. Sparso ai quattro angoli del mondo e cacciato di qua e di là dai capricci dell’esilio, il vero territorio esistenziale del popolo d’Israele sono stati i libri. Sotto l’angusta porzione di cielo che concedevano le mura dei ghetti, gli ebrei hanno vissuto dentro, sopra i libri.

In questa geografia alternativa fatta di pagine e parole, c’è un luogo che ha un posto centrale, che tutto divide per unire: è il Talmud , parola ebraica che significa «oggetto di apprendimento» e indica la cosiddetta « Torah orale», cioè l’immenso corpus di discussioni rabbiniche intorno all’altra Torah , quella «scritta», quella per antonomasia - il Pentateuco . Il Talmud ha anche altri nomi, più o meno confidenziali. Ma è, come viene detto in ebraico, soprattutto un «mare»: yam ha-talmud .

Questa poetica metafora si addice certamente a un testo dalle dimensioni spropositate, in cui è facile perdersi. Ma non è solo questione di quantità. Nel Talmud si naviga davvero, si spazia con quell’anarchia irrefrenabile dettata dal senso ebraico dell’orientamento. O meglio, dalla sua beata assenza. E la giornata europea della cultura ebraica di quest’anno, giunta alla XII edizione, bene ha fatto a cogliere questo risvolto così antico e anche moderno del popolo d’Israele: il tema conduttore è «Ebr@ ismo 2: dal Talmud a Internet». Dove, per l’appunto, la strada non è affatto lunga come si possa pensare, malgrado i secoli e millenni: perché quando si abita il tempo periodi così diventano una passeggiata.

Se il Talmud è un mare, come tutti sappiamo in Internet si naviga. E non è una pura coincidenza lessicale. Il modo in cui si affronta il testo rabbinico, infatti, è molto simile alla tecnica che si usa cliccando e scorrendo con il topo informatico. Una pagina centrale - la home -, una serie di links che ti portano di qua e di là, in una sequenza illogica e niente affatto lineare in cui di rado per non dire quasi mai torni al punto di partenza. Basta aprire una pagina a caso del Talmud per rendersi conto di quella strabiliante somiglianza evidenziata dal titolo di un libro a suo modo profetico: Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi di Jonathan Rosen (tradotto da Einaudi nel 2001). Sarà sicuramente evocato nel dibattito che si terrà domenica alle 10 a Torino nel centro sociale della comunità (piazzetta Primo Levi): «Il Talmud : un ipertesto ante litteram ?».

In parole povere, non è solo una questione di forma, di somiglianza grafica per cui una pagina del Talmud , con al centro una breve porzione di testo e tutt’intorno una serie di rimandi, note, riferimenti, commenti e supercommenti, assomiglia a una schermata di Internet. È anche e soprattutto una questione di metodo, di sinapsi mentali e spirituali che questa forma del pensare innesca. Nel Talmud di solito funziona così: un maestro dice una cosa, un altro dice più o meno il contrario, arriva un terzo che invece di conciliare decide che o hanno ragione o hanno torto tutti e due, pesca una parola o una lettera dal contesto in cui si trova e con una disinvolta acrobazia mentale cambia radicalmente argomento e lascia beatamente in sospeso il contenzioso. Intanto, tutt’intorno a questi tre si innesca un ventaglio di riferimenti, talvolta pertinenti talaltra arditi ma sempre immancabilmente «fuori luogo»: fatti apposta per portarti lontano di lì, in un altrove ancora tutto da definire. Proprio come capita fra un clic e l’altro nell’universo di questa rete che, inutile negarlo, ci ha cambiato la vita mettendoci a disposizione un universo di conoscenze in cui l’unico orientamento possibile resta l’intuito, purché condito di fantasia.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/417762/
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:39:40 am »

6/1/2012

Il delirio e la pena

ELENA LOEWENTHAL

Se non fosse che erano tutti rigorosamente maschi e (un po') più anziani di me, se non fosse che non sono mai esistiti, in questi ultimi anni mi sarei di tanto in tanto sentita un savio di Sion. A darmi questa poco inebriante ma certamente surreale sensazione sono stati, in questi ultimi anni, alcuni messaggi del prof. Pallavidini. Che, dopo aver apostrofato l'internazionale ebraica di cui io farei parte, cantava vittoria. Ho sconfitto lei e il complotto sionista! Ripetevano i suoi messaggi da un latente "tiè" finale, in un caso pure irrorati da un virtuale e tuttavia sgradevole rivolo di sangue.

La lobby ebraica, nella fattispecie io e un gruppo di ariani genitori di studenti del liceo classico Cavour di Torino, avevano posto il suo caso all'ordine del giorno dopo una serie di stramberie che andavano dalla reiterata apologia di Ahmadinejad all'invito alle ragazze della classe a starsene a casa a fare la calza, fino alla negazione della Shoah. Il tutto a scapito di storia e filosofia, di fatto sparite dalla II E.

Ne seguì un piccolo pandemonio, da Roma arrivò un ispettore del ministero: stese un rapporto che si concludeva con l'inadeguatezza del professore. Un ricorso l'ha poi riportato in cattedra in un altro liceo torinese. A mio discapito, oggi, va detto che i miei tre figli sono tutti maturi: stavolta non c'entro. Non l'ho provocato io con la mia sionista irritazione, come quando ero venuta a sapere che secondo il professore il giorno della memoria è il piede di porco che gli ebrei usano per torturare la coscienza mondiale. Non ho mosso i miei potenti e sionisti mezzi per perseguitarlo.

A quanto pare, il reintegro nelle funzioni di mentore non è bastato per tenere a freno quel suo impulso irrefrenabile a dire stupidaggini. Il che non mi autorizza affatto a ricambiare il suo "tiè" virtuale indirizzatomi con tenacia nei suoi messaggi, nelle cose che scriveva su Internet, nelle interviste. No, professor Pallavidini: non canto vittoria perché lei è di nuovo e giustamente nel mirino. Sento solo tristezza per lei e i suoi allievi di ieri e di oggi. Sperando che non ce ne siano più di domani.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9622
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« Risposta #40 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:28:03 pm »

27/1/2012

Auschwitz l'antidoto è il silenzio

ELENA LOEWENTHAL

Una palestra di Dubai che, per rendere convincente la promessa di addio alle calorie, usa per la sua campagna pubblicitaria una gigantografia dell’ingresso di Auschwitz. Degli ultraortodossi indignati con il governo israeliano e dei loro concittadini indignati vuoi con la polizia vuoi con gli avversari politici, che si battono a suon di stelle gialle appuntate sul petto ed esclamazioni «nazista!» elargite un po’ qua e un po’ là. Stelle gialle, ancora, usate da islamici di Svizzera per protestare contro la discriminazione. Per non parlare di chi con queste armi va nella direzione opposta: rimpiangere quei tempi e auspicarne il ritorno. E non sono pochi.

Il giorno della memoria cade in un anniversario tanto feroce quanto ambiguo: il 27 gennaio, infatti, Auschwitz fu liberata. Quelle porte si aprirono. Sarebbe, teoricamente, un momento festoso: la fine di un incubo, di un inferno bruciato per anni dentro l’Europa. In realtà, è un giorno di sgomento, di occhi sbarrati di fronte a quell’assurdità: come è potuto succedere? Le porte aperte di Auschwitz furono sì, liberazione. Ma furono anche e soprattutto svelamento di una ferocia quale non s’era mai vista. E, come diceva Primo Levi (ma perché, invece di cercare sempre qualcosa di «nuovo» da dire, non si legge una sua pagina? Una soltanto, e basterebbe), il fatto che sia già successo non ci vaccina, anzi, moltiplica le probabilità che accada di nuovo.

Quasi a farlo apposta, intorno al giorno della memoria i suoi simboli spuntano a destra e a manca come funghi velenosi. Si moltiplicano in sequenza incontrollata, come per dare un calcio alla memoria. L’uso trasversale di questi riferimenti, che accomuna partiti diversi, etnie disparate, posizioni ideologiche e vissuti enormemente distanti fra loro, è la prova inequivocabile che essi si sono svuotati. Che hanno perso il loro senso. L’unico che avevano: risvegliare la memoria. Fare andare, con la mente e con il cuore, a quel laggiù da cui ci separa una distanza di anni esigua - per quanto sempre più grande - ma soprattutto l’abisso di un intero universo. Quei simboli, infatti, servivano a farci intuire che quel passato non saremo mai in grado di capirlo. Che bisogna sentirlo e basta. Possibilmente in silenzio. Come si fa a entrare nei panni di un bambino che entra in una camera a gas? È impossibile. La stella gialla che portava sul cappotto questo ci diceva: ricordami. Ma sappi che non comprenderai cos’è stata la vita per me. Tieniti a distanza dalla mia storia, perché è inafferrabile.

Invece, la moltiplicazione del ricordo, l’inevitabile ritualismo che si porta con sé la puntuale commemorazione, hanno portato a quella memoria una pubblicità a doppio senso. Da una parte, certo, il rispetto. Dall’altra la banalizzazione e, senza soluzione di continuità, l’abuso. I simboli si sono svuotati, il ricordo è diventato cerimonia, la parola non può mancare e così, ogni anno, gli editori si sentono irresponsabili se non pescano l’ultimo sopravvissuto, le lettere rimaste nel cassetto, la storia ancora da raccontare. Un po’ come le strenne per Natale. Il cinema, idem. Scuole ed enti pubblici s’ingegnano per non ripetersi con i loro «eventi». L’evento, comunque, è indispensabile.

È inevitabile, tutto questo? Qualunque celebrazione ha per conseguenza la trasfigurazione della memoria, la sua metamorfosi in rito più o meno svuotato, non tanto di contenuti quanto di pathos? Difficile dare una risposta. Forse, l’unico antidoto è il silenzio. Quello che offre una pagina scritta, ad esempio. In Israele il giorno della Shoah cade in primavera: la rievocazione è un interminabile minuto di sirena che suona in tutto il paese. Un silenzio assordante. Tutti si fermano, tutto si ferma. È un momento tremendo e basta.

Come tremendo dev’essere, per chi è stato laggiù ed è ancora su questa terra, ritrovare i segni di quei ricordi e l’abuso che a volte se ne fa. Ma ancora una volta, come facciamo noi a immaginare cosa prova qualcuno che l’ha portata davvero, la stella gialla sul petto, vedendola brandire così? Dev’essere tremendamente doloroso, e anche tanto frustrante. La memoria, e quella che si celebra oggi più di ogni altra, non è mai innocua.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9697
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 08, 2012, 04:55:47 pm »

8/3/2012 - 8 MARZO, FESTA DELLA DONNA

Noi donne, orgogliose e libere di essere diverse

ELENA LOEWENTHAL

Che cosa ci dice, oggi, questa esplosione di fiori gialli? La mimosa è una creatura modesta eppure prepotente, s’arrampica nei luoghi più impervi, è tenace con la terra e sfida le intemperie. Quest’anno in molti luoghi è fiorita troppo presto, ingannata dal caldo, poi si è intirizzita. Ma oggi è dappertutto: nelle mani e nei capelli, sugli angoli di strada. La giornata internazionale della donna, comunemente chiamata «festa», è in realtà memoria di un evento terribile: un incendio divampato in una fabbrica dove morirono tante operaie.

Al di là dell’equivoco di fondo che ha trasformato in allegria festosa un tragico ricordo di morte, al di là dell’inevitabile dose di retorica che in questo nostro presente tanto laicizzato quanto affamato di celebrazioni ogni ricorrenza porta con sé, è lecito domandarsi quale sia, ancora, il senso di questa giornata particolare. A incominciare dalla sua denominazione ufficiale, che racchiude il femminile in un singolare generico: questa è la festa non delle donne, ma della donna. Come una sorta di entità astratta, inafferrabile e fors’anche angelicata.

La donna come singolare femminile, nella nostra certo difettosa e perfettibile ma tutto sommato progredita civiltà, non esiste più. Se c’è una conquista che possiamo rivendicare, noi che ci siamo ritrovate con il grosso del lavoro fatto dalla generazione precedente quella dei reggiseni al rogo e delle grandi battaglie per l’emancipazione - questa conquista è il nostro diritto alla pluralità. Non siamo più una massa indistinta che la pensa e la dice all’unisono. Non abbiamo più bisogno dell’unanimità come arma di lotta - l’unica che in fondo avevamo, noi donne, negli ultimi millenni. Da queste parti possiamo ormai rivendicare il diritto a non essere più tutte eguali, a non doverci ritrovare sempre tutte sullo stesso fronte, sempre tutte dalla stessa parte. Questo discorso vale ovviamente soltanto per noi, donne emancipate dell’Occidente. Noi che non abbiamo più bisogno di identificarci in un unico modello, di schierarci compatte per ottenere ciò che ci spetta, in quanto umanità rimasta marginale perché qualcun altro ti ha imposto quell’angolo d’esistenza, sin dai primordi della storia. Questo discorso non vale per i milioni di donne che debbono ancora lottare per tutto ciò. Il loro femminile singolare va rispettato per quello che è e deve essere. Ma il nostro, ormai, ci sta un po’ stretto. Negli ultimi quarant’anni abbiamo imparato il valore aggiunto del plurale e come tale ci consideriamo - prima ancora di pretendere di essere considerate: non un insieme monocorde, tutto eguale a se stesso. Piuttosto un universo colorato e discordante, come i tanti fiori diversi che in questa beata stagione fanno capolino dalla terra, sui rami ancora spogli degli alberi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9858
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:30:39 pm »

20/3/2012

L'antico demone che risveglia l'orrore

ELENA LOEWENTHAL

La strage di Tolosa ha lasciato muta l’Europa e inorridita Israele. Prima di ogni giudizio, prima di una riflessione che non potrà né dovrà mancare, pesa su tutto lo sgomento.

Braccare dei bambini dentro una scuola, rincorrerli fra i banchi per prendere meglio la mira prima di sparare: è una cosa tremenda anche solo pensarla. Eppure, questo delitto che forse ha dei precedenti, forse è il terribile seguito di una catena di orrori - ma forse no - non desta incredulità. Non è una cosa cui non si può credere e che nessuno si sarebbe mai aspettato.

Ha, piuttosto, una inenarrabile coerenza, per quanto sotterranea e difficile da ammettere.

Ammazzare dei bambini dentro la loro scuola è una cosa cui ci piacerebbe non poter credere, ma non è così. Perché questo delitto si è consumato in una città fitta di conflitti come lo sono molte, nel Sud della Francia. Forse si lega a una sequenza di omicidi di ambiente militare. Ma ha avuto per teatro una scuola ebraica. E le prime immagini che ci sono arrivate da lì mostrano teste di uomini e bambini coperte dalla kippà, la papalina che portano sempre gli ebrei religiosi. Che portano, in Francia, con un certo timore, con la paura di essere aggrediti anche solo per questo. Capita persino che la si lasci a casa, la papalina, per evitare guai per strada.

Incidenti piccoli e grandi sono all’ordine del giorno nei pressi di ogni scuola ebraica. I bambini arrivano scortati, spesso accolti da insulti e non raramente da lanci di pietre. Questa è la Francia del Sud, ma è anche la Francia tout court e in una certa misura lo è tutta l’Europa. In Israele, oggi, c’è paura dell’Europa. Dove, a quanto pare, l’antico demone dell’antisemitismo è ancora vivo, aleggia, sta sotterraneo, magari appena sotto la superficie della civiltà civile e benpensante. È un demone antico e tenace, l’antisemitismo. China la testa, sembra sconfitto per sempre, e poi ricompare, quasi corroborato dal tempo trascorso in clandestinità.

Perché oggi come oggi nessuno si dichiara più antisemita, l’odio per gli ebrei - cioè i diversi, gli irriducibili dell’identità, come se ciò fosse una colpa ancora in questo presente che si fa un vanto del proprio multiculturalismo - non è politicamente corretto. Ma il fatto che non sia decoroso dichiararsi antisemiti non significa che questo pregiudizio sia morto. Anzi. Quando viene fuori, non parla ma distrugge. Prima o poi torna. E ci fa paura, in Israele così come in questa Europa ammutolita tanto brava a commemorare retoricamente il passato affinché non si ripeta più, così intraprendente nel condurre le giovani generazioni ad Auschwitz perché imparino la lezione. In questa Europa così saggia e attenta al proprio passato, in questa Europa che ha davanti agli occhi le camere a gas e le racconta con tanto slancio nei libri di scuola, capita ancora di morire perché si è ebrei. L’orrore, lo sgomento, la paura, lasciano addosso una rabbia amara e impotente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9901
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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:31:30 pm »

Editoriali
27/10/2012

L’incubo inconfessabile di ogni mamma

Elena Loewenthal

Ogni volta che si alza e se ne va, foss’anche per un quarto d’ora, una madre avverte qualcosa di strano dentro di sé. Difficile darle un nome, definirla, provare a scendere a patti con essa. Forse è il cordone ombelicale che stride e fa male, anche se non c’è più. E così anche la più emancipata donna in carriera, guarda la tata, che sia avventizia o di fiducia, con un sentimento di sgomento: ma chi è davvero la persona a cui sto lasciando mio figlio? Quando e come lo ritroverò? O addirittura: lo ritroverò? 

Certo è un pensiero che non si articola in modo razionale perché inconfessabile, giace in letargo nel più profondo di noi, ma sussiste da sempre e alimenta spaventose leggende. Ai tempi miei lontani era in voga quella di una tata venuta da un altro Paese che aveva messo nel forno, cotto i due bimbi che le erano stati affidati e li aveva infine ammanniti in tavola facendo impazzire per sempre i genitori. Una leggenda terribile che ha tolto i sonni in più di una notte a chi l’aveva anche ascoltata raccontare una volta soltanto.

La verità di quello che è successo ieri a New York porta dalla diceria alla più sconvolgente realtà quelle paure che ogni madre, apprensiva o pacifica, non sa strappare dentro di sé. Bisogna farci i conti e per una volta scendere a patti non con un incubo ma con la cronaca. Ma è giusto, doveroso e anche bello sapere che le tate a cui affidiamo i nostri figli ce li restituiscono sani e salvi e sono spesso migliori e più pazienti di noi.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/l-incubo-inconfessabile-di-ogni-mamma-cp8e7ROeQn9KiWjH41HbyN/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:38:51 pm »

Editoriali
28/11/2012

Cancellate tante parole inutili

Elena Loewenthal

La Camera ha approvato in via definitiva l’equiparazione dei figli «legittimi» a quelli «naturali». La prima giustizia di questo provvedimento è di ordine semantico: il «figlio naturale», nato fuori dal matrimonio, era infatti una definizione tanto ovvia quanto assurda nel suo presupporre, per opposizione, l’esistenza di figli «artificiali». 

 

Ma l’aggettivo «naturale» era comparso nel 1975 in sostituzione del drastico «illegittimo», che sanciva la venuta al mondo di un bambino i cui genitori non erano sposati. 

 

Naturale, come a dire spontaneo (scappato fuori…) o illegittimo (dunque carico di una colpa congenita), questo bambino subiva fino a ieri una serie minuziosa di limitazioni. Innocue e trascurabili, se viste nell’ottica gioiosa di una nascita, ma pesanti magari al momento di una successione. A incominciare dall’inizio, perché il figlio «legittimo» è automaticamente riconosciuto da entrambi i genitori, mentre quello naturale va attestato con una firma, che al di là del suo valore simbolico significa avviare in modo diverso la genitorialità. D’ora in poi, un figlio potrà essere riconosciuto anche da genitori sposati con «terza persona» al momento del concepimento: in sostanza, a discrezione di chi lo mette al mondo, sparisce la figura del bastardo. 

 

La modifica è importante soprattutto sul piano della famiglia, dentro la quale non ci saranno più d’ora in poi differenze fra figli di matrimonio e figli di convivenza. Spariscono i casi limite di nonni cui non possono essere affidati bambini orfani perché per legge non sono parenti, in quanto i genitori non erano sposati. Sparisce soprattutto il diverso trattamento in merito all’eredità che nel contesto della successione all’interno di una famiglia era riservato al figlio nato fuori da un «regolare» regime matrimoniale.

 

Ma questa discriminazione era innanzitutto anacronistica, in un’Italia di oggi in cui ci si sposa sempre meno ma si convive sempre più, costruendo famiglie di fatto non meno stabili e degne di tale nome. In un’Italia sempre più piena di quei cosiddetti figli naturali che, a guardarsi intorno, popolano le classi di scuole, si affacciano al mondo del lavoro, piangono parenti morti, costruiscono a loro volta una famiglia. Non sono dei fantasmi, ma una realtà viva e indistinguibile dall’altra che vanta lo status di legittimità. Questa legge non viene a gratificare una marginale minoranza di cittadini italiani: rispecchia invece una realtà sociale che da tempo esigeva un aggiustamento giuridico. Con un auspicio che dovrebbe essere la diretta conseguenza di questa doverosa «modernizzazione» del nostro diritto di famiglia: che questa modifica del codice civile sia il preludio a una legislazione in merito alle coppie di fatto - quelle cioè che stanno «a monte» dei figli naturali: che li hanno voluti, concepiti, messi al mondo, riconosciuti. E cui prodigano amore e cura in misura non diversa da quella che ricevono i figli nati nel matrimonio. 

 

loewenthal@tin.it 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/cancellate-tante-parole-inutili-NkVdsGWZTf818IiBxa6SXL/pagina.html
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