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Autore Discussione: ELENA LOEWENTHAL  (Letto 30046 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 12, 2009, 10:08:41 am »

12/11/2009

Il nostro terzo mondo quotidiano
   
ELENA LOEWENTHAL


Ci sono luoghi in cui sappiamo riconoscerci e altri che paiono fatti apposta per disegnare con impassibile precisione il nostro volto di massa anonima. I meandri della metropolitana, con i suoi dedali di scale.

Le fermate dell’autobus, in un continuo viavai che ci impone di non fermarci a guardare, a cercare di capire che cosa succede. Non a caso questi luoghi, quasi un simbolo della nostra frenetica modernità, diventano teatro di storie che preferiremmo ignorare. Ma quelle di tanto in tanto affiorano dai sotterranei. Proprio come a Milano, dove qui si chiedono, pagano e ottengono aborti clandestini. Dove, sotto le luci artificiali, fra i binari e i corridoi, sulle pedane dei binari, si consuma quotidianamente una specie di immenso consultorio per le donne in difficoltà. Le brevi trattative che si concludono con interventi clandestini e sacchetti di pastiglie ceduti sottobanco, hanno un codice di gesti e parole fatti apposta per passare inosservati, sotto la fragile copertura che i luoghi di passaggio garantiscono - dove tutti siamo solo facce anonime e gambe che corrono. Anche così si abortisce in Italia: con una fermata d’autobus o di metro per sala d’accettazione. E non si tratta di casi isolati: è un sistema intero, che funziona a pieno regime.

Molte delle donne che vanno a chiedere di abortire nei corridoi della metro, alla fermata dell’autobus di una metropoli come Milano, sono straniere. Ma ci sono anche italiane. Minorenni. Giovani che non possono permettersi di guastare una carriera avviata, e scelgono di farlo così, di nascosto. Le straniere, braccate da una clandestinità cronica, sentono di non avere altra scelta che quel buio lì. Le italiane optano per il buio perché sono vittime di un’altra clandestinità, più inafferrabile, strisciante. Le une e le altre ci dicono che dentro questo nostro mondo ne esiste un altro. Un po’ come la rete della metropolitana sotto il traffico in superficie: non si vede, ma c’è. E ogni tanto non si può fare a meno di abitarlo, anche solo attraversarlo. Sembra quasi improbabile, eppure in questa società dai diritti reclamati e ottenuti, dove le garanzie sociali sono un vanto e la tutela globale della persona un impegno comune, succede che ogni anno circa ventimila donne abortiscono clandestinamente. Senza copertura sanitaria, con procedure immancabilmente ad alto rischio.

Che cosa spinge una persona a trattare così se stessa e il proprio corpo? La paura, certo. Ma anche una diffidenza profonda per la legalità, per il sistema che sta alla luce e dove da anni si può interrompere una gravidanza indesiderata a termini di legge, sotto l’ala di un servizio sanitario. E’ assurdo che tante donne scelgano un anonimato rischioso, in una società come la nostra così ossessivamente attenta al rispetto della privacy. Ci vogliono un sacco di firme in calce per autorizzare qualcuno a spedirti a casa un po’ di pubblicità, ma pur di non compilare un modulo d’ospedale ci si riduce ad abortire di nascosto, cominciando da una fermata dell’autobus. Come se l’emancipazione e il progresso non fossero riusciti a estirpare quel senso di sottomissione femminile a un destino ingrato, di cui vergognarsi. Una specie di rassegnazione a una comune condanna che ci impone di stare nell’ombra di un sotterraneo, anche quando potremmo risalire in superficie.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 22, 2009, 04:20:29 pm »

22/12/2009

Auschwitz e la memoria qualunquista
   
ELENA LOEWENTHAL

L’insegna di Auschwitz è stata ritrovata fra le mani di cinque gaglioffi qualunque, che (forse) avevano eseguito il «colpo» su commissione di un misterioso collezionista. Nulla a che fare con rigurgiti di neonazismo né storpiature della storia: si è trattato di delinquenza comune e pure di terz’ordine, vista la velocità con cui malviventi e corpo del reato sono stati acciuffati.

Un brutto affare, certo, ma nulla a che vedere con lo scandalo morale da molti additato appena «Arbeit macht frei» era sparito da in cima a quel terribile cancello. Il richiamo al neonazismo - fenomeno che non va affatto sottovalutato ma che qui non c’entrava nulla - è stato immediato, quasi naturale. Esclusa a priori la pista della banalità, quel furto è parso a quasi tutti un affronto alla storia, a quel passato inenarrabile, ai milioni di vittime.

E invece si è trattato di un assurdo equivoco, dove un crimine qualunque ha avuto per cassa di risonanza un certo qualunquismo della memoria. Perché siamo ormai abituati a ritualizzare il nostro rapporto con il passato, in particolar modo quel passato di cui il cancello di Auschwitz è l’ingresso. E di conseguenza a caricarlo di una sacralità che, nel bene e nel male, lo rende qualcosa di astratto. Ma Auschwitz non è affatto un luogo sacro, tutt’altro: è reale, vero, terribilmente concreto. Se allora fosse sparita quella targa, le SS non ci avrebbero pensato su due volte: ne avrebbero fatta fare un’altra, uguale. Perché nulla, lì dentro, nel campo e nelle camere a gas e nei forni crematori, nulla è mai stato un simbolo, ma solo e soltanto una tremenda verità di carne e sangue.

Invece, la ritualizzazione della memoria procede nel senso opposto, trasformando tutto in simboli più o meno evanescenti, carichi di allusioni magari inafferrabili. Ormai abituata a trasformare le cose in simboli - vuoi per ragioni di comodità, vuoi perché così è più facile ridurre tutto a ricorrenza, a celebrazione collettiva - la memoria collettiva finisce per produrre banalità, e si ritrova a caricare una targa di ferro battuto di significati che non ha mai avuto. Per questo il furto di quella insegna è sembrato inevitabilmente un esproprio della memoria, di quel passato - e un crimine così potevano averlo compiuto solo dei neonazisti, non certo dei malfattori comuni. Come su una linea di partenza tanto invisibile quanto netta, è scattato il grido allo scandalo, alla profanazione. Ma quale profanazione, se Auschwitz è il luogo più profano e infame che l’umanità sia mai stata in grado di concepire?

La riduzione della memoria a un catalogo di simboli non rende onore alle vittime, e nemmeno al nostro così disorientato presente: rischia invece di banalizzare il ricordo, facendolo dipendere da una targa di ferro battuto che, con gli occhi a terra e il cuore pieno di uno sgomento inenarrabile, i milioni di prigionieri passati lì sotto non hanno quasi mai fatto in tempo a vedere.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 20, 2010, 11:15:57 am »

20/2/2010

Tiger Woods: lo riprenderei in casa ma perdonarlo mai
   
ELENA LOEWENTHAL


Se io fossi la moglie di Tiger Woods sarei arrabbiata. Molto. Ancora? Sempre di più, anzi. Se io fossi la moglie di Tiger Woods…, non è mica che queste cose passano così da un giorno all’altro, come se non fossero mai successe. Anzi. È sempre peggio. Perché più trascorre il tempo e più affiorano i ricordi, mordono i sospetti. Più si rimugina su quel che è stato detto e quello che invece no. Sui sorrisi mal riposti e le scuse pietose prese per buone. Il tempo, invece di farle svanire, moltiplica le donne con cui mi ha tradito, le bugie, le ipocrisie. Le ingiustizie subìte di cui nessuno mai mi ripagherà.

Sono cose che capitano da sempre e che sempre capiteranno, ma quando succede a te è come se fosse la prima volta al mondo: pensi di conoscere un uomo fino alla radice dei capelli, e ancora più giù. Dentro. Invece ti sbaglii. E non per colpa di una scappatella. Un’idea balzana. Un bicchiere di troppo. Macché. Perché quel lui lì che mi dormiva accanto (quando non era nel letto di qualcun’altra), mica era lui. Era un altro. Sessuomane, malato di donne. Affamato di non si sa bene che cosa. O forse è proprio il contrario: il lui vero è quell’altro, non il mio.

Quando mai saprò dov’è la verità? Certo, adesso che ha confessato a mezzo mondo, io non ne so di più. Qual è, il vero Tiger? La star con il capo coperto di cenere, che si dichiara umiliato, contrito, pieno di vergogna? Che ammette di avere pensato che le tentazioni fossero un suo diritto? Oppure quell’altro che saltava da una donna all’altra, purché fossero tante e casuali? Nessuno mi convincerà mai più di una cosa né dell’altra, perché la cosa peggiore che ti lascia dentro il tradimento, è la diffidenza. E quella non te la togli più di dosso - come un’intolleranza alimentare, una cicatrice indelebile. Mio marito può ammettere quello che vuole, pubblicamente. Ma con me, come ha detto giustappunto, c’è ancora molto lavoro da fare. Non so nemmeno io che cosa consigliargli. Non so che cosa voglio da lui. Silenzio? Parole?

Non so nemmeno che cosa voglio da me stessa, del resto. Di sicuro non cerco vendetta. Noi donne non ce l’abbiamo come riflesso condizionato. Ogni tanto ci scappa pure, ma mica guarisce. Infilarmi nel letto di un altro servirebbe solo a immaginare lui, Tiger, una volta di più in un letto sbagliato - comunque non il mio. E il tempo, purtroppo, moltiplica i ricordi, fa bruciare ancora di più le fantasie, riempie la testa di rabbia e rimorsi. Se io fossi la moglie di Tiger Woods forse sì, forse potrei anche riprendermelo in casa, un giorno. Con gli occhi bassi e le spalle che vanno su e giù al ritmo dei singhiozzi. Quello forse sì. Ma perdonare no, proprio no.

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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 23, 2010, 11:02:17 am »

23/2/2010

Divorzio, per dirsi addio un anno è abbastanza
   
ELENA LOEWENTHAL


Un anno per dirsi addio? Sembra un tempo ragionevole, capace di lasciare spazio a ripensamenti, propositi in sospeso, spiegazioni. Intanto, in commissione Giustizia della Camera procede con calma l'esame di diverse proposte di legge per il cosiddetto divorzio breve: non più tre anni dalla comparsa dei coniugi in tribunale per l'avvio della separazione legale, ma «soltanto» uno.

Il provvedimento, che ha per relatore Maurizio Paniz del Pdl, è ancora allo studio (sono previste diverse modalità e limitazioni, come quella di accordare questa «contrazione» dei tempi solo in caso di separazione consensuale), ed è prevedibilmente trasversale.

Maggioranza di governo e opposizione si stanno insieme occupando del caso, perché non c'è forse realtà più bipartisan della famiglia, con i suoi guai. E soprattutto, con le nuove sfide che essa si trova ad incontrare, nel bene e nel male.

La strada è questa sin dal 1987, quando quella specie di limbo che sta fra la separazione e il «non essere più sposati» con Tizio o Caio durava ben cinque anni. Da allora molte cose sono cambiate, l'istituzione del matrimonio ha subìto ciclici alti e bassi, ma certamente non è più quella condizione imprescindibile di prima, come raccontano le tante coppie di fatto la cui storia è non di rado all'insegna di una stabilità consapevole - e durevole, malgrado le funeste previsioni dei molti detrattori. Sposarsi, che lo si voglia o no, ormai da qualche anno non è più l’unico sistema «efficace» per mettere su, e conservare intatta, una famiglia.

Il divorzio breve (che, dopo la separazione, si badi bene, non è un obbligo, ma una possibilità), si innesta in una situazione sociale in cui la presenza di diverse alternative di vita dovrebbe garantire una maggior libertà e soprattutto la responsabilità nella scelta. Di unire, certo. Ma anche di dividere, quando le cose non funzionano. Il fronte cattolico protesta e chiama in causa la minaccia dell’instabilità: un anno soltanto per pensare al proprio passato matrimoniale costituirebbe l'ennesima mina vagante che attenta alla famiglia.

Ma il fatto è che quando ci si presenta dal giudice per una separazione, nella stragrande maggioranza dei casi la famiglia già non esiste più. Perché separarsi non è, né mai dovrebbe essere, una decisione da prendersi alla leggera, come se niente fosse: davanti al giudice, quasi tutte le coppie arrivano devastate. Con alle spalle una lunga sofferenza che è l’unica cosa ormai che accomuna i due. E dopo la separazione legale, si crea per entrambi i coniugi - adesso per tre anni, forse fra non molto per uno «soltanto» - uno status ambiguo: sei ancora sposato/a con Tizio/a a tutti gli effetti, anche se la tua vita se ne va per una strada completamente diversa, anche se magari non sai più nulla di lei/lui, anche se, come non di rado succede, hai qualcun altro al tuo fianco. Dopo i tre anni, che forse presto saranno ridotti a uno, il divorzio si limita a ridare coerenza legale all’esistenza del coniuge separato, che «riconquista» ufficialmente uno stato libero di fatto acquisito a suo tempo con la separazione, a prezzo di litigi e sofferenze, di discussioni, aspri contrasti e tutte quelle cose che solitamente accompagnano lo scioglimento di una unione.

Questo «intervallo» in cui ci si trova in una strana posizione di «sposati ma anche no», costituisce spesso un intralcio per le ulteriori scelte di vita, e comunque sigla una condizione imprecisata, equivoca. Ben venga, dunque, la sua riduzione a un anno. Che, ad ogni buon conto, è un tempo più che ragionevole per riflettere, e casomai ripensarci su.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 09, 2010, 11:27:02 am »

9/4/2010

Insieme nel buio dell'anima

ELENA LOEWENTHAL

Che cosa avrà detto Federica a Mattia, prima di stringerselo addosso e buttarsi nell’acqua, per morirci insieme? Quando una mamma ti abbraccia forte non c’è nulla da temere, no?

E infatti li hanno trovati così, loro due, ancora avvolti l’uno nell’altra, con i pigiami addosso. Il cane, invece, è riuscito a divincolarsi, e s’è salvato. Girava ansimando intorno ai corpi di mamma e figlio, spaventato e forse incredulo. Lo siamo anche noi, pur da quella comoda e apparentemente insormontabile distanza che separa la nostra normalità dai drammi più tremendi: fa paura, una madre che si uccide e non può fare a meno di portare con sé il figlio di otto anni, in quel laggiù ignoto che è la morte.

È questo il volto oscuro, quello vero, della depressione. Quanto abusiamo di questa parola. Basta un niente, un po’ di malumore, il tempo che cambia, un contrattempo insignificante, per farci esclamare: «Sono depresso!». «Poverina, è depressa...», ingigantendo il malessere. È quasi come se ad ogni brucior di stomaco fosse lecito dichiarare che un tumore ci infesta lì dentro. Invece la depressione, quella vera, è un male terribile. Nero e muto che mette paura in chi ce l’ha e in chi la vede. È una fatica di vivere di fronte alla quale a volte ci si arrende come ha fatto lei, e ci si arrende con una tale violenza da decidere di portarsi dietro tutto ciò cui si vuol bene. Un figlio. Il suo cane inseparabile. Due libri di fiabe.

Federica era una bella ragazza di trentacinque anni. Mattia un bambino dalla dolcezza irresistibile e con due occhi vispi e intelligenti. Ha deciso di farla finita che era notte, ha preso Mattia, Amedeo - il cane beagle che è una delle razze più miti che ci siano -, e due libri di fiabe rimasti sul sedile dell’auto. Perché? Con tutta probabilità, questa domanda non avrà mai risposta: chi sceglie la morte invece della vita forse lo fa proprio per non dover rispondere a quel «perché?». Federica aveva alle spalle una separazione. «Molto civile», a detta di tutti. E un’altra storia d’amore, molto - troppo - travagliata. Son cose tristi, il più delle volte dolorose. Ma quasi normali. Capitano. Sono traumi, magari lo restano per molto tempo. Si superano o ci si convive. E la cassa integrazione, certo. Ma Federica si era rimboccata le maniche, studiava.

Qualcosa, anzi quasi tutto ci sfugge di questa storia. Prima di ieri verso le 4 del mattino, tutto sembrava protetto da una tenue luce solare: qualche guaio, certo. Ma niente di terribile, di insormontabile. Poi s’è fatto tutto buio. E in quel buio lei ha creduto di non avere altra scelta che portare Mattia con sé: per risparmiargli, forse, il terribile male di vivere che lei aveva incontrato. O forse per trovare la forza di compiere quel gesto: un figlio ti fa fare quasi ogni giorno cose che non credevi di essere capace di fare. Di solito dentro la vita. Nel caso di Federica, forse, verso la morte. Forse, è stata travolta da uno straziante delirio d’onnipotenza, che poi è un modo folle di volere bene: sei la mia creatura e vieni con me. Non lo sapremo mai, perché una madre che si uccide portando con sé il suo bambino non può che restare un mistero insondabile. Però, ed è forse l’unico modo per stare loro vicini anche se è troppo tardi, possiamo provare a immaginare la paura che li ha tenuti abbracciati sino all’ultimo. E anche quando tutto ormai era finito.

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 12, 2010, 09:54:42 am »

12/5/2010

Quando la casa diventa l'inferno
   
ELENA LOEWENTHAL

Giampiero ha ucciso Cristina con cinquanta coltellate, davanti all’assistente sociale. Cinquanta coltellate sono un oceano di rabbia, un abisso di orrore cieco. Come si fa a uccidere, e così, qualcuno che si è amato, con cui si è condiviso tutto, e messo al mondo due figli? Eppure, la violenza in famiglia non ci stupisce, nemmeno quando è così efferata. Accanto alla condanna, fa capolino una sorta di rassegnazione sociale al fatto che fra le mura di casa - o al centro di un consorzio per le separazioni coniugali, come è capitato ieri a Collegno, vicino a Torino - può succedere, e succede di tutto.

La famiglia è forse oggi più che mai il nostro rifugio. Il luogo dove troviamo quella identità che altrove sembra fare acqua da tutte le parti. E’ la nostra ultima, ma amata spiaggia, dove siamo noi stessi più che mai, negli affetti, nelle nostre potenzialità «creative», nel nostro quotidiano esercizio di umanità.

Però è altrettanto vero che questa famiglia - niente affatto ideale bensì vera, in carne ed ossa - è in crisi. E la frase più comune che si sente dire, quando un matrimonio finisce e un’unione si spezza con inevitabili strascichi di vario genere, la frase più comune che si sente dire a proposito di quel partner che ora sta dall’altra parte del fiume e prima si aveva accanto, è: «Non lo riconosco più», «Non è la stessa donna che ho sposato». E’ un modo per accettare la fine, per scendere a patti con la separazione - che la si sia voluta o subita. Questo disconoscimento del coniuge è però anche e soprattutto l’unica via disponibile per non demolire la famiglia in sé. Non è quella che non ha funzionato, è lui/lei che è diventato un altro.

Forse, la realtà non sta né su una sponda né sull’altra ma, come capita spesso, nel mezzo. Perché è proprio la famiglia, teatro della nostra vita ma anche, e purtroppo non di rado, di violenza e financo di morte, ad avere in sé questo doppio volto. Uno amabile, luminoso, o anche soltanto di accettabile teatro della nostra vita. E l’altro oscuro, inafferrabile. Capace di capovolgersi da un momento all’altro, quando un equilibrio si spezza, un nervo è scoperto. E allora, non è il nostro partner a diventare un’altra persona, terribilmente irriconoscibile, ma la vita stessa. Quelle mura domestiche che sino a un attimo prima erano «casa» e poi diventano inferno. Difficile sapere o anche solo intuire come mai la famiglia abbia in sé questa tremenda potenzialità. Difficile più che mai, come dimostra la morte di Cristina ieri dopo cinquanta coltellate infertele dal marito con cui stava «trattando» una separazione civile, prevedere che questo ti possa capitare per mano della persona con cui hai condiviso tutto, compresa magari la fiducia nella famiglia, per te e per i tuoi figli.

elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it

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« Risposta #21 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:04:14 pm »

14/5/2010
La politica cambia volto
   
ELENA LOEWENTHAL

L’austerità? Ben venga. Anche al salone del libro, sempre che, come capita quest’anno, di austerità della politica si tratti. Siccome la kermesse elettorale ce la siamo lasciati da poco alle spalle e non ci sono convocazioni all’orizzonte, quest’anno niente comizi travestiti da dibattiti, niente codazzi dietro aspiranti parlamentari in tenuta d’ordinanza che sfrecciano fra un padiglione e l’altro. Meno male. Ben venga fra i libri l’austerità (foss’anche latitanza) della politica. Il che non significa che la politica sia assente dal salone. Se ne parla eccome. Ma con un respiro più ampio, recuperando il senso originario di interesse comune. Oggi, in Sala Rossa, alle 16,30 lo storico Luciano Canfora ci illuminerà su «Pericle e l’invenzione della democrazia». E non si può negare che sia politica anche il dibattito delle 15, sempre in sala Rossa, sul peso della Chiesa in Italia (con Chiaberge, Giorello, Introvigne).

Per evadere da questi spinosi territori, niente di meglio che un’avventura nel bosco con Anna Curti ed Elena Accati, alle 11,30, ai laboratori di scienza, per conoscere le piante. Anche il libro di Cataluccio, di cui si parla con Gad Lerner alle 18 al Caffè Letterario, ha un che di confortante: «Vado a vedere se di là è meglio».

Niente propaganda elettorale al salone. Anzi sì. Perché, quasi a dispetto della salutare assenza di una certa politica, quest’anno qui si vota davvero. Le «urne» sono sparse per tutti i padiglioni, sotto forma di eleganti, minimaliste postazioni elettroniche. Basta esibire davanti allo schermo il biglietto d’ingresso, e si diventa elettori. Niente politica, per fortuna, né schede elettorali formato tovaglia. Si vota uno fra tre grandi scrittori finalisti del Premio Salone Internazionale del Libro. Questa sì che è democrazia.

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« Risposta #22 inserito:: Maggio 17, 2010, 06:52:05 pm »

17/5/2010

Attenzione: i libri ci guardano
   
ELENA LOEWENTHAL

Se noi guardiamo i libri, è anche vero che al Salone loro guardano noi. Chissà che cosa pensano e che cosa si dicono, della fiumana di gente che scorre fra i corridoi, si ferma agli stand, butta l’occhio, sfoglia, lascia o compra. Perché anche gli umani sono protagonisti su questa scena, mica solo i libri. Gli umani e le loro puntuali migrazioni. Al Salone questa specie animale fa un po’ come i monsoni, regolari e costanti nella loro stagionalità.

Ad esempio: il giovedì e oggi, lunedì, son giorni da gruppi scolastici – età variabile dai 3 anni all’università della Terza Età -. Zaini in spalla, gelati che colano, schiamazzi da vertigine di mattinata bigiata. Stamane, a partire dalle 11 in Sala Gialla, le scolaresche adottano scrittori o parlano con gli scrittori già adottati (si sa, questa specie è tanto bisognosa d’affetto).

Il venerdì è il giorno degli «addetti ai lavori», per i quali il Salone è un salotto: ci si incrocia, si chiacchiera, si spettegola (molto), si progetta (un po’ meno), se non ci si incrocia ci si aggira in cerca di qualcuno da incrociare. Sabato e domenica: forestieri e famiglie (o famiglie forestiere). Passeggini dai quali ben presto vengono fatti sloggiare i pupi per lasciar spazio agli acquisti. Chissà che cosa ne pensano i libri, di questa varia umanità.

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« Risposta #23 inserito:: Giugno 18, 2010, 05:06:13 pm »

18/6/2010

Le regole del nuovo modello di famiglia
   
ELENA LOEWENTHAL

La vita è fatta di piccole e grandi tragedie. Soprattutto delle prime, a quanto lascia intendere lo studio della prestigiosa London School of Economics.Cci viene spiegato qualcosa che sembra un’evidenza, ma finché non te la trovi davanti così seriamente documentata stenti quasi a crederci: i matrimoni finiscono, il più delle volte, per delle ragioni banali, ma vere. Non di rado per un equivoco in quel gioco delle parti che è il presupposto d’ogni vita di coppia: se lui si sente in obbligo di riparare lavandini che perdono, avvitare impervie lampadine, sappia che farebbe meglio a lavare i piatti e passare l’aspirapolvere. Nella famiglia moderna l’interscambiabilità dei ruoli è essenziale. Il principio è ovvio: se lei porta a casa reddito, perché lui non dovrebbe rifare il letto o cambiare il pannolino al pupo?

Eppure la realtà non corrisponde alle regole, e il modello attuale di famiglia è minato non tanto da vigliacchi tradimenti o crisi esistenziali, quando dallo stillicidio della quotidianità. Il marito deve sapere di essere a rischio se non è disposto a dare una mano nelle pulizie, se non fa la spesa, se non si occupa dei figli – non per impartire ramanzine ma anche e soprattutto per portarli a ginnastica o aiutarli a fare i compiti. In particolare, è deprecabile il marito che si rifiuta di mettere a nanna i bambini (cosa che non di rado è un’operazione snervante almeno quanto un cliente moroso o un attacco di narcisismo del capo). Questo ed altro basta per arrivare a un divorzio, non in nome di alati sentimenti o romantiche passioni (alternative). Piuttosto, con i piedi saldamente per terra. Anche se in fondo, forse, basterebbe capirsi. Lei trova naturale essere aiutata in casa, visto che lavora fuori come e magari più di lui. Lui fatica a rinunciare al proprio ruolo, anche perché è piuttosto comodo. Lui fa finta di non vedere gli sguardi d’odio, lei alza le spalle e pensa, «lo sapevo che sarebbe finita così». La crisi arriva quando ormai il danno è fatto. Ed è un vero peccato, perché forse sarebbe bastata una spolverata, un bacio della buona notte, la tavola apparecchiata prima che lei torni a casa sfinita dall’ufficio, dopo l’ennesima riunione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7491&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 30, 2010, 10:20:24 pm »

30/6/2010
Unioni di fatto

Le ragioni dell'amore

ELENA LOEWENTHAL

Poeti e filosofi lo dicono da millenni. In fondo, non ci dicono altro, da che mondo è mondo. Eppure ci sono volute duemilacinquecento firme (raccolte da associazioni radicali e laiche) e relativa delibera di iniziativa popolare, per far sì che se ne accorgesse anche la politica: che l'amore è un vincolo. Non un capriccio né un passatempo, prima ancora che passione.

E così, finalmente, attraverso una buona politica - che soddisfazione poter ogni tanto usare questo binomio di parole - approda all'anagrafe di Torino la dicitura «vincolo affettivo» come riconoscimento di unione civile. La delibera è stata approvata a larga maggioranza e con la consapevolezza che si tratta di un passo d'inizio verso una tutela più ampia e sostanziale. D'ora in poi, a Torino gli impiegati dell'anagrafe saranno autorizzati a rilasciare un attestato di famiglia anagrafica basato su una storia vecchia come il mondo: il vincolo affettivo. Sembra paradossale che tutto ciò costituisca, oltre a un'evidenza - l'amore lega! - anche un traguardo. Ma è soprattutto un punto di partenza verso un sistema di organizzazione civile meno astratto e più vicino alla realtà della vita.

Perché questa storia a lieto inizio riguarda, certo, le circa cinquecento coppie omosessuali che con questa delibera possono trovare una prima forma di ufficializzazione. Ed è un passo non da poco. Ma riguarda anche le trentamila coppie eterosessuali che per tante e diverse ragioni non vogliono o non possono ricorrere al matrimonio. E soprattutto, riguarda la nostra idea di famiglia: che non è affatto scomparsa, come vorrebbero sociologi apocalittici e catastrofisti dell'etica. E' solo cambiata.

Come da sempre l'amore è un vincolo, così da che mondo è mondo la buona politica si fa sul terreno delle cose, più che delle parole. La versione nostrana dei Pacs è tramontata molto in fretta sotto il peso di nomi tanto pomposi quanto buffi: i Dico e i Didorè (da non confondersi con la madama delle filastrocche) sentenziavano di «diritti e doveri delle coppie di fatto» ma hanno fatto un bel buco nell’acqua. Le solite storie all'italiana, la prevedibile inconcludenza di una politica che parla per codici ermetici. «Vincolo affettivo» invece non è l'abbreviazione di niente: ci dice come stanno le cose dentro migliaia di case, nella vita quotidiana e nei grandi momenti. Stabilisce che questo vincolo esige un riconoscimento, da parte della società, non offende nessuno e non limita la libertà di chi crede che l’unione tra un uomo e una donna debba essere sigillata dal matrimonio.

Presuppone, senza tante formule vuote e assordanti discussioni parlamentari, che esso tiene insieme le vite e, mattone su mattone, giorno per giorno, costruisce una famiglia. Anzi, la famiglia in senso lato: quella vera, della vita, e quella astratta, dei principi. Prevede, con una formula - per una volta tanto in politica - niente affatto oscura, ma anzi chiarissima a tutti (senza distinzioni di età, sesso, cultura, travagli amorosi), che un'unione fondata sul vincolo affettivo è una cosa civile. Non un’eccezione, né una scappatoia, non un vicolo cieco e nemmeno un chiaro segno di dissolutezza. Sembra quasi impossibile, ma ogni tanto anche la politica è progresso.

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« Risposta #25 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:42:14 am »

29/7/2010 - IL CASO

Vacanze: i sommersi e i salvati
   
ELENA LOEWENTHAL

Le vacanze fanno bene a chi può permettersele. E’ il risultato di un’indagine condotta dal «Time» sulla pausa scolastica. Ma se c’è un momento in cui la famiglia è sottoposta a un destabilizzante cortocircuito, è proprio l’estate, quando mamma e papà continuano a far la loro vita, mentre la prole è in vacanza.

I casi sono due: o la si spedisce da qualche parte oppure ci si rassegna a un picco di reciproca incomprensione fatto di orari sballati e nullafacenza spinta da una parte, frustrazione e affanno dall’altra. I nostri figli hanno almeno tre volte le ferie che abbiamo noi. Certo, non c’è che l’imbarazzo della scelta, per la prole: soggiorni rustici, viaggi studio, training sportivi. Sempre che si abbiano i mezzi per offrire ai figli scioperati valide alternative ai banchi di scuola chiusi per ferie. Tocca a tutti (più che mai a noi italiani con le nostre vacanze estive elefantiache), contrastare la «summer learning loss»: perché non andare a scuola non significa solo svagarsi, ma anche disimparare. Questa perdita può essere compensata, a patto di avere le risorse per «impiegare» i propri figli e far sì che l’ozio estivo diventi tale nel senso più nobile e latino del termine, invece di restare impantanato in una palude di rincitrullimento.

La scuola, soprattutto quella primaria, prova a rimediare con i compiti delle vacanze, elargiti come un surrogato delle lezioni, non di rado in dosi mastodontiche. Senza neanche la fatica di dettare, visto che esiste una vasta letteratura di manuali appositi (e paradossali: come se il medico avesse lo stetoscopio per le vacanze, e il commercialista il modello unico da spiaggia). I compiti delle vacanze sono destabilizzanti per tutta la famiglia, mobilitata in una spiccia esecuzione per toglierseli di torno prima che rovinino i pochi giorni di ferie per tutti. Sono uno spettro per le famiglie. Non per gli studenti, uniti dalla inconfutabile certezza che quei compiti nessuno te li chiederà, a settembre. Perché, come si sa, anno scolastico nuovo, vita nuova (e compiti nuovi).

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« Risposta #26 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:26:47 am »

26/9/2010

Il complesso del minore
   
ELENA LOEWENTHAL

Fratelli coltelli, come sentenziano un vecchio detto e un film recente, senza mezzi termini né spazi d’equivoco?
Quando si nasce con un buon pezzo di Dna in comune (e due fratelli sono la cosa geneticamente più vicina che ci sia), davvero non c'è spazio che per l’amore o per l’odio?
Nella realtà della vita le cose sono - per fortuna - più complicate di così. Anzi, se c’è un rapporto complesso, intricato e fitto di sottintesi è proprio quello fra fratelli, in una gamma quasi infinita di sfumature. Per questo la vicenda dei due Miliband, candidati entrambi alla guida del partito laburista inglese e usciti l’uno vittorioso (il «piccolo» Ed, quarant’anni) e l’altro sconfitto (il maggiore David, quarantacinque anni, che ha perso la cappa per un punto e tre per cento), è curiosa non solo sul profilo politico, ma anche e forse persino di più su quello umano.

Chissà che cosa si sono detti, che cosa si sono comunicati attraverso le parole, i silenzi e gli sguardi. Un fratello, a meno che la vita ti divida da lui o da lei molto presto, finisci per conoscerlo come le tue tasche. E se i gemelli condividono una specie di telepatia reciproca, e si «sentono» a distanza usando dei codici indecifrabili a tutto il resto del mondo, qualcosa di simile accade anche fra fratelli comuni, perché comunque, aver condiviso lo stesso grembo materno non è cosa da poco.

Ne sa qualcosa anche la Bibbia, dove il rapporto fra fratelli è sondato nel profondo dei sentimenti. In quell’atavico susseguirsi di generazioni che il testo sacro ci narra, è quasi sempre nella dialettica fra fratelli che i grandi nodi vengono al pettine e la storia diventa capace di stupire, di sovvertire i destini in un modo imprevedibile. Caino e Abele, protagonisti del primo, precoce omicidio (necessariamente un fratricidio, visto che l’umanità era ancora tutta lì). Ma anche dell’affermarsi di una giustizia armata di clemenza, quando Dio vieta di far del male al bieco colpevole in fuga.

Poco più avanti troviamo un sorprendente capovolgimento di quelle regole che paiono ovvie, naturali. In una società primitiva come quella dei patriarchi, dove la primogenitura è un valore essenziale - che comporta la consegna del patrimonio e delle benedizioni disponibili dal cielo al figlio maggiore -, succede più di una volta che il minore abbia la meglio. Giacobbe estorce quel supremo diritto e ottiene la benedizione dal vecchio padre cieco, con un bieco stratagemma e la connivenza della niente affatto imparziale madre Rebecca: si copre la mano con un pelo d’animale e finge d’essere il peloso Esaù, che gli aveva appena venduto la primogenitura in cambio di un succulento piatto di minestra. Una generazione più tardi, fra i tanti figli di Giacobbe sarà Giuseppe a incassare la quota maggiore di benefici terreni, dopo aver subìto le angherie dei tanti fratelli maggiori. In sostanza, paiono dirci queste epopee, quando si tratta di famiglia e fratelli non bisogna mai dare nulla per scontato, e anzi essere pronti a repentini, sorprendenti scambi di ruolo.

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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 03, 2010, 12:15:13 pm »

3/10/2010
 
Non sempre la tv fa male ai bambini
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Un libro è meglio? Non è detto che sia sempre così. Non a priori, comunque. L’assunto del nuovo libro di Desmond Morris - il celebre etologo e antropologo inglese -, che uscirà martedì in Gran Bretagna con il titolo di «Child» (Bambino), potrebbe sembrare una pura provocazione, ma a ben guardare non lo è.

Un approccio «zoologico» all’essere umano, che egli considera né più né meno di un primate senza (quasi) peli, ha permesso allo studioso di affrontare in modo originale e creativo il comportamento della nostra specie, sin dai tempi de «La scimmia nuda», pubblicato nel 1967. In questo nuovo libro ci spiega, fra il resto, che è sbagliato forzare i piccoli a un’eccessiva generosità.

E che per un bambino è meglio l’asilo della mamma: nel nostro Dna tribale i piccoli crescevano insieme, non in isolamento affettivo. A spedirla al nido o alla materna, insomma, si fa un favore e non un dispetto alla prole. Almeno secondo i dettami dell’etologo.
Ma questo è niente, al confronto con la decostruzione che Morris lancia quando si arriva a temi caldi quali la televisione. Bando agli snobismi, dice: per i bambini in età prescolare lo schermo è meglio di un libro! Ebbene sì, non è una svista né un colpo di testa, ma una articolata argomentazione. Ormai da decenni vige nel mondo occidentale un dogma inespugnabile: leggere è un valore. Leggere fa bene più di qualunque altra cosa. Questo «oltranzismo» è indubbiamente efficace e financo necessario, per guidare i nostri figli scolarizzati sull’unica via che non porta a un analfabetismo, che sia di andata o di ritorno. Ma è altrettanto vero che la lettura non è un pregio di per sé: moltissimo dipende dall’oggetto, cioè dalla pagina che ci si ritrova per le mani. Fra il Mein Kampf e la Divina Commedia corre una sostanziale differenza. Un libro può essere anche un pessimo maestro.

Prima di accostarsi alle istruzioni educative di Morris, è dunque bene spazzare via il luogo comune secondo cui per i nostri figli il libro è bene e la televisione è male - a prescindere. Un bambino in età prescolare, spiega l’etologo, è decisamente più stimolato da un cartone animato che dalla voce monotona e magari svogliata di un genitore. Lo schermo offre infatti una pluralità di impulsi - voci, suoni, colori, musiche - capaci di garantire un migliore e più completo sviluppo cognitivo nella prima infanzia. Il libro, che ha necessariamente come tramite una voce adulta, offre invece una stimolazione piatta, univoca. Ma accende la fantasia!, esclamano sdegnate le schiere di detrattori preallertati.

Certo è che, senza dover convincere fino in fondo, la tesi dello studioso per un verso solletica la coscienza, per l’altro assopisce i sensi di colpa che la nostra generazione di genitori sa interpretare con inaudito virtuosismo. La mamma al trucco e parrucco prima di correre in ufficio non sentirà più un groppo in gola di patema piazzando il pupo davanti ai cartoni mattutini (mica per niente li programmano a quell’ora…) e il papà insegnante, dopo essersi sgolato in classe tutto il giorno, potrà serenamente azionare il telecomando, invece di aprire un libro. Perché questi non sono gesti particolarmente esecrabili o nocivi, ma fanno parte della vita insieme ai propri figli. E al di là della portata provocatoria di queste tesi «zoologiche» applicate a un’umanità teoricamente (ma non sempre all’atto pratico) evoluta, Morris ci guida lungo una strada molto saggia ma soprattutto inevitabile: quella di non dare per scontato nulla, in fatto di educazione alla vita. Che è poi quella giusta da impartire ai propri figli. Evitare dogmi, luoghi comuni, comode certezze. Rimboccarsi le maniche ed essere pronti ad affrontare l’imprevisto, disponibili a rivedere le opinioni assodate. Sono proprio i nostri figli a imporci di star dietro ai cambiamenti - che siano un numero in più di scarpe ogni mese o un mondo fortunatamente incapace di stare fermo dov’è.
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 13, 2010, 05:16:05 pm »

13/10/2010

La violenza dell'indifferenza

ELENA LOEWENTHAL

Un attraversamento pedonale con le strisce zebrate. La banchina di una metropolitana in un’ora di punta. Luoghi dall’apparenza neutra, persino inoffensiva. Se non fosse che in questi ultimi due giorni sono diventati teatro di una violenza bieca, assurda.

A Milano un taxista ha inavvertitamente travolto un cane libero da guinzaglio, a Roma una giovane donna ha battibeccato con un ragazzo per una precedenza in coda, come capita infinite volte. Entrambi sono finiti in coma, con grave trauma cranico. E di fronte a casi del genere non ci si può esimere da una domanda tanto banale quanto imperativa, pur sapendo che la risposta sarà necessariamente ambigua, parziale. Che non ci aiuterà a capire. E tuttavia il «perché è successo?», il «come è potuto accadere?» non possono non essere un tormento, per tutti noi.

Il caso più recente, quello al capolinea Anagnina della metropolitana capitolina, è terribile proprio perché scatenato da una circostanza talmente comune che non facciamo alcuna fatica a ricostruire la scena iniziale. Ne siamo stati protagonisti tante volte, da una parte o dall’altra: una fila di persone in coda davanti a uno sportello, una rivendicazione di precedenza, il diverbio che ne nasce con l’inevitabile coinvolgimento di qualcun altro in attesa. Qualche insulto e qualche brontolio che risuonano nel trambusto mattutino. Di lì in poi, l’esito agghiacciante e imprevedibile. Altre parole, spintoni, e un pugno in faccia. L’infermiera trentaduenne cade a terra immobile, l’aggressore ventenne se ne va.

E poi, passa un bel po’ di tempo prima che qualcuno si renda conto della gravità di quella scena. Intanto, la gente passa, sale e scende dalla metro, nessuno pensa di fermarsi accanto a quel corpo esanime, allungato per terra. Così come sulla strada milanese una domenica mattina, anche questa scena si consuma in un luogo di passaggio, di transito. Un non-luogo che non appartiene a nessuno e dove teoricamente nessuno ha nulla da rivendicare, un territorio neutrale dove siamo tutti di passaggio e che dovrebbe essere incapace di generare conflitti. E invece, difficile dire se quanto è successo sia una scena più adatta a un film dell’orrore o a una tragedia dell’assurdo, quel che è certo è che appartiene alla realtà di una mattina romana come tutte le altre. Al di là del danno subito fisicamente dalle vittime, questa è certamente la cosa più preoccupante di tutte: il fatto che sia successo per davvero, e non in una finzione cinematografica.

Le due vicende, quella milanese sulle strisce pedonali e quella romana allo sportello della metropolitana, sono al di fuori di ogni possibile «catalogazione» razionale o emotiva. Per questo, le domande sul perché, sul come sia potuta succedere una cosa del genere, non trovano un azzardo di risposta. C’è troppa violenza per potere tirare qualunque somma. C’è una violenza gratuita, come la violenza è sempre perché in fondo se ne potrebbe sempre fare a meno. Ma c’è anche e soprattutto una violenza imprevedibile, capace di scatenarsi con una facilità spropositata, come se fosse stata lì in agguato ad aspettare il momento propizio, la scusa più blanda per venire fuori e far finire in coma due persone.

Anzi, di violenze ce ne sono due. Certo differenti per grado e dato di colpevolezza, eppure in qualche modo parallele. Ci sono la rabbia e i pugni da una parte, e il distacco dall’altra. In entrambi i casi, tanto a Milano quanto a Roma, è passato del tempo prima che il corpo al suolo venisse degnato d’attenzione. In quel terribile intervallo, è stato come se nulla fosse successo. O peggio ancora, come se quel che era appena successo non riguardasse nessuno di noi. Quanto è durato, quel tempo sospeso? Una manciata di secondi? Qualche minuto? Certamente, un’eternità di indifferenza.

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« Risposta #29 inserito:: Novembre 06, 2010, 04:02:59 pm »

6/11/2010

Ma le escort sono salve
   
ELENA LOEWENTHAL

Da domani battere il marciapiede o il ciglio della provinciale sarà più difficile e soprattutto più rischioso. In strada, beninteso. Perché se si è professioniste del più antico mestiere del mondo al calduccio della casa propria o altrui, da domani non cambierà proprio nulla. Per non parlare di quella ormai larga fetta di prestazioni erotiche che si avvalgono della rete e che, in virtù della liberalizzazione di segno opposto per il web, saranno agevolate invece che intimidite dalla stretta governativa.

La quasi ovvia considerazione che ne consegue è che tutto diventa più semplice se ci sono di mezzo i soldi. Bastano infatti un po’ di dimestichezza con il computer per «ottimizzare» il contatto con la clientela, un letto sotto e un tetto sopra la testa, per prostituirsi in santa pace. Senza dover temere quel foglio di via che da domani sarà elargito rigorosamente alle prostitute in flagranza di reato. Cioè, sempre che il reato ci sia. Cioè, solo se il mercimonio è esercitato in un Comune in cui il sindaco abbia emesso un’ordinanza che ne vieta l’esercizio – su strada. Se l’ordinanza c’è, da domani potrà partire il foglio di via. Ma mica per tutte, beninteso. Solo per le straniere. In primis extracomunitarie, poi anche le straniere d’Europa, per le quali l’espulsione è pressoché simbolica, vista la libera circolazione di merci e persone in vigore.

In sostanza, il provvedimento è una bislacca sequenza di discriminazioni: è riservato ai Comuni provvisti di ordinanza (non è difficile prevedere una fulminea mappatura del nostro territorio, con indicazione dei Comuni sì e Comuni no). Riguarda solo la prostituzione di strada, quella che fa chi non ha le risorse per esercitare sotto un tetto. Punisce soltanto le prostitute straniere, e stabilisce una disparità di trattamento fra chi arriva da lontano e chi da vicino. Infine, ma non certo perché si tratti di una quisquilia, mette in secondo piano il cliente. Colui che, per dirla in parole povere, fa girare il mercato.

Qui casca l’asino. A fagiolo e con un tempismo grottesco, vista la ribalta mediatica di cui in questi giorni gode (si fa per dire) l’«utilizzatore finale» (in senso astratto). Ma anche perché se nell’ormai arenato disegno di legge Carfagna le sanzioni contro la prostituzione prevedevano l’arresto o la multa per il cliente, nell’urgente provvedimento di oggi questo capitolo compare in secondo piano. Potrebbe diventare punibile sulla strada, ma non in quella comoda intimità del web di cui si avvalgono fornitrici di servizi provviste di casa e/o entrature in discoteche vip, e fantasmatici consumatori. Per loro, da domani sarà tutto ancor più facile di quanto già non fosse prima.

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