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Autore Discussione: ELENA LOEWENTHAL  (Letto 30069 volte)
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« inserito:: Agosto 19, 2008, 04:55:10 pm »

19/8/2008
 
Onore al merito, però...
 
 
 
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Un premio alla media dell’otto. In una stagione di più o meno conclamati rigori scolastici, di grembiuli e voti di condotta che (forse) tornano in auge, la notizia giunge da alcuni istituti di Roma e Milano e si configura come una clemente controtendenza: gli studenti che saranno capaci di sfoggiare una pagella esemplare, per intenderci dall’otto in su, avranno in premio un bonus. Il liceo classico «Visconti» di Roma stanzierà 90 euro per ogni media eccellente, lo scientifico «Einstein» di Milano 200. In moneta se non proprio sonante, quasi. Per monetizzare il suddetto premio, infatti, dovranno recarsi nelle librerie e nei teatri convenzionati, ma anche, volendo, iscriversi a corsi di musica, sport, lingue straniere.

In parole povere, questo onore al merito non sarà a fondo perduto, né lasciato all’arbitrio di quegli inevitabili capricci che l’età della scuola (ma non solo quella) porta con sé. Non finirà speso in un qualunque accessorio griffato o telefonino multifunzione, né sfumerà in tanti altri e ben peggiori modi che consentono ai nostri adolescenti di dissipare generosamente. Questa somma infatti, piccola o grande a seconda di come la si guarda, sarà un contributo aggiuntivo a quell’istruzione che chi porta a casa una media dell’otto dimostra di avere in qualche modo a cuore, visto che ci investe cervello e fatica.

L’iniziativa dei due istituti, cui faranno prevedibilmente seguito altre, è un segnale concreto che l’autonomia scolastica sta diventando una cosa meno astratta di quanto non sia stata sino ad ora, proprio perché essa è frutto di decisioni «locali». Ma è anche frutto di un certo ritorno di fiamma della parola «merito», che sino ad ora nella scuola e altrove era rimasta ammantata di una vaghezza inafferrabile. Aleatoria come poche. Ecco che invece il merito sale alla ribalta, prende corpo in un bonus in moneta: così lo si può quasi toccare, il merito scolastico.

E questa è una buona cosa, lo sarà soprattutto per quei ragazzi che, a fine anno, si ritroveranno per le mani non soltanto una pagella smagliante, ma anche un premio vero, tangibile. Da riscuotere. Non una simbolica stretta di mano, un complimento lanciato per aria, vuoto per quanto gratificante. La gratifica in denaro fa un effetto ben diverso. Però è proprio qui che il meccanismo un poco s’inceppa. Ben venga il riconoscimento vero del merito. Ben venga il bonus istruttivo: in questi due sensi il provvedimento è ineccepibile. In un altro, più sottile, un po’ meno. I nostri ragazzi vanno a scuola, infatti, perché quello è - insieme - un diritto e un dovere. Diritto allo studio e dovere di non andarci solo per scaldare il banco. In tal caso, ci vuole una sanzione. Una pagella impresentabile esige di per sé qualche provvedimento, a casa come a scuola: il castigo è parte essenziale del sistema. Ma il bonus per un risultato positivo? Non è affatto scontato. È davvero giusto, insomma, premiare chi ha la media dell’otto? Non è che questi sta facendo, sia pure con slancio e capacità e impegno, né più né meno di quel che gli spetta di fare? Può sembrare una riflessione esagerata, da vecchi Catoni incattiviti. Probabilmente lo è. Ma resta il vago sospetto che, invece della tanta auspicata severità, la manica larga vada ancora per la maggiore.

elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
 
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 08, 2008, 09:52:27 am »

8/9/2008
 
Quelle leggi razziali "italiane"
 
 
 
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Le vie delle parole sono, talvolta, imperscrutabili. Nel linguaggio della politica, che si fa alla giornata su improvvisazione dettata dalle circostanze e ciononostante lascia il segno, l’aggettivo irrituale ha ormai un che di scostante. Designa qualcosa di quasi inammissibile, secondo le regole del gioco. Le parole pronunciate qualche giorno fa dal presidente Napolitano dando il via al Quirinale alle celebrazioni per il Giorno della memoria, riportano invece alla valenza positiva di questo termine. Nel contesto di una ricorrenza che è ormai il (troppo) capiente contenitore di cerimonie monotone e parole che a forza di ripeterle suonano a vuoto, il suo breve discorso è stato decisamente irrituale. Ma nel senso migliore e soprattutto più profondo che l’aggettivo porta con sé: quello di uscire dagli schemi del rito per entrare nel contesto del significato, rammentando all’Italia le sue leggi razziali. La memoria non è di per sé terapeutica. Come diceva Primo Levi, il fatto che sia accaduto non azzera, anzi moltiplica le probabilità che accada di nuovo. La memoria non è uno scudo inossidabile, di fronte al male. È una necessità, forse un tributo a chi non c’è più. Ma di per sé non serve affatto, se non a risvegliare sentimenti inesprimibili. La percezione della storia attraverso la memoria è invece istruttiva: guardare al passato per capire che cosa e come siamo. Da dove veniamo, insomma. E il presidente Napolitano ci ha ricordato che l’Italia di oggi viene anche dall’infamia delle leggi razziali.

Gli italiani amano denigrarsi, sparlano del proprio Paese e delle sue disfunzioni con un narcisistico compiacimento. Guai però a toccarne gli aspetti più profondi, il «carattere nazionale», dentro il quale vige tenace l’immagine degli italiani «brava gente». Quasi incapaci di far male a una mosca, e quando capita è per cause di forza maggiore. Eppure, a dispetto di questo inossidabile stereotipo, settant’anni fa esatti questo Paese è stato capace di sfoderare una legislazione razziale che non fu seconda a nessuno. Nemmeno alla Germania nazista, se restiamo sul piano dei documenti giuridici con cui la storia si racconta.

«Leggi che suscitarono orrore negli italiani rimasti consapevoli della tradizione umanista e universalista della nostra civiltà», ha ricordato il presidente Napolitano parlando delle leggi razziali del 1938 come mortali apripista della Shoah. È tutto terribilmente vero. Il censimento degli ebrei italiani che nell’agosto di quell’anno fu l’astuta premessa per una applicazione «a tappeto» delle leggi razziali emanate nell’autunno successivo, costituì dopo l’8 settembre 1943 un comodo strumento per i tedeschi a caccia di stücke («pezzi» come loro chiamavano i deportati) per i vagoni merci, i campi di sterminio, i forni crematori.

Le leggi razziali, in cui «Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia - imperatore d’Etiopia» decreta e firma i provvedimenti insieme con Mussolini, sono un vero monumento all’infamia. Stabiliscono una serie di restrizioni che vanno dal divieto di contrarre matrimonio misto a quello di firmare manuali scolastici, proibiscono agli ebrei italiani di avere dipendenti, di essere dipendenti di enti statali, banche, assicurazioni, di prestare servizio militare, possedere terreni e aziende. Pretendono, con brutale ottusità, di definire l’appartenenza ebraica in termini di sangue (art. 8, comma a: «È di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica») con paradossale precisione (comma c: «È considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre»).

Queste leggi, tanto spietate quanto assurde, non furono un meteorite precipitato sul ridente pianeta Italia da una remota e maligna regione siderale. Furono il prodotto di forze congiunte: il regime fascista, la consenziente monarchia (i cui degni eredi, forse perché non hanno più nessun regio decreto da firmare, si son dati allo sport, con risultati davvero eccellenti nel lancio di boutades) e il popolo italiano. Stretto nelle maglie di questa orribile storia, che tuttavia è proprio la sua.
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 24, 2009, 04:37:02 pm »

24/1/2009
 
Il giorno della memoria come arma
 
ELENA LOEWNTHAL
 
Si avvicina il Giorno della Memoria e crescono i dubbi sulla tenuta della ricorrenza. Sul suo senso e l’utilità civile che riveste, a prescindere dalle encomiabili intenzioni di chi, una decina d’anni fa, costruì - a livello culturale ma anche politico - questa scadenza del calendario nazionale. Il Giorno della Memoria incontra innanzitutto il rischio che ogni forma di ritualizzazione comporta: la perdita di pregnanza. Quando qualcosa si ripete, la monotonia è un effetto tanto collaterale quanto inesorabile. E giunge puntuale la noia, l’inconscia alzata di spalle. Intorno al Giorno della Memoria si crea non di rado un paradosso quasi spietato: la costante ricerca del «nuovo», da parte di enti, editori, scuole. Che è un’assurdità: perché la ricorrenza celebra per definizione sempre la stessa cosa; perché la brutalità di quel passato sta anche nel fatto che non ha nulla di nuovo da raccontare. E poi la forza del ricordo sta proprio nel già detto, tramandato, ripetuto.

Di pari passo sorge la questione dell’«invadenza» del Giorno della Memoria nella scuola. A che serve? La scadenza è diventata un impegno curriculare di grandi proporzioni: docenti e studenti si sentono in dovere di mobilitarsi. Di sapere e capire. Il terreno è minato. Molto più delle guerre puniche e della rivoluzione francese: perché la memoria non è storia. Non chiede un approccio interpretativo, quanto emotivo. A scuola, invece, il Giorno della Memoria si carica di aspettative troppo alte: non didattiche ma etiche. Il metodo più efficace per (presumere di) arrivare a questi obiettivi si rivela la ricerca dell’effetto. E così, il ricordo finisce per diventare qualcosa di astratto. Tanto è vero che il Giorno della Memoria isola l’esperienza storica ebraica, invece di contestualizzarla. La sigilla in una bolla trasparente ma impenetrabile. Questo è innanzitutto un impulso naturale: di fronte al male si arretra, per difesa. L’orrore dello sterminio non può indurre vicinanza, anzi respinge. Di fronte alla Shoah, l’istinto inconscio si ribella, dice: no. Ora è diverso. Io sono diverso. A me non potrà mai accadere. Come ci si fa a immedesimare in una vittima, un torturato, un corpo dentro un forno crematorio? È contro natura.

Poi c’è la questione didattica. Gli ebrei arrivano sui banchi in due occasioni: agli albori, con babilonesi, assiri e fenici, preludio al passato «importante», greci e latini. Millenni dopo tornano con la Shoah. A farsi sterminare. Tutto ciò contribuisce a isolare la loro storia a renderla strana, aliena. Questa specie di disconoscimento si riflette fuori dalla scuola. Non a caso in questi giorni il conflitto a Gaza e in Israele ha preso una piega diversa. Non dove c’è la guerra. Qui in Europa. L’imminente Giorno della Memoria è diventato un «soggetto» della guerra. Il bambino di Gaza e la donna di Sderot non se ne fanno nulla di un’immedesimazione storica, di un «ardito» accostamento al passato. Loro hanno da sopravvivere. Qui invece s’imbrattano muri di scritte antisemite (Torino), s’infangano cimiteri ebraici (Pisa), si disdicono celebrazioni del Giorno della Memoria (Catalogna), si grida: viva Hamas, ebrei nelle camere a gas (Olanda). La Shoah diventa codice interpretativo della guerra a Gaza. Non si tratta solo di opinioni azzardate, d’incompetenza allo sbaraglio. È anche un effetto del Giorno della Memoria: più s’avvicina, più diventa comodo strumento per denigrare l’oggi. Per isolare ancora una volta l’esperienza ebraica, che sia dentro la Shoah o nell’attualità. Liquidarla con categorie prefabbricate. E poi c’è qualcosa di più profondo: sta nell’inconscio di quell’Europa in cui la Shoah si è consumata ed è rimasta lì come un peso insopportabile. Che sarebbe bello poter finalmente scaricare altrove.
 
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:59:51 am »

18/2/2009
 
Nove in condotta e una coltellata al professore
 
ELENA LOEWENTHAL
 

uando si hanno soltanto tredici anni, per pugnalare alla schiena il professore di musica non basta tenere in mano un’arma: bianca sì, ma letale. Non basta essere stati ripetutamente rimproverati perché «così proprio non va». E nemmeno aver premeditato l’assalto con tale rigore da entrare in classe armati di coltello sottratto alla cucina di casa. Non basta essere stressati (fino a non molti anni fa lo stress era un privilegio degli adulti, un mal di successo) dai compiti e dalle aspettative dei genitori e dalla quantità di ore che si passano a scuola. Che sono davvero troppe a ogni ordine e grado, perché in fondo tenerli in classe è una comodità per tutti: genitori indaffarati, organico scolastico. Coscienza collettiva, appagata a quanto pare dal principio che la quantità di tempo scolastico sia una garanzia educativa.

Per aspettare che il tuo insegnante di violino si giri a riporre lo strumento nella custodia e ficcargli il coltello dentro la schiena - com’è accaduto ieri a Chioggia - ci vuole un miscuglio di odio e rabbia e incoscienza e violenza difficile da districare. Scomodo per chi se lo porta dentro, e per chi da domani dovrà occuparsi di un tredicenne ovviamente non perseguibile a termini di legge. E, non certo ultimi, per quei due genitori che non più tardi di qualche giorno fa si sono visti consegnare una pagella decorosa, con tanto di nove di condotta.

Già, la condotta: questa sconosciuta. I criteri di valutazione quest’anno sono cambiati (anche se non in tutte le scuole: alcune hanno optato per la via della conservazione). Come? Non è facile a dirsi. Le disposizioni ministeriali prescrivono che il voto di condotta sia equiparato agli altri, in scala: un nove, dunque, dovrebbe valere moltissimo. Qualche assenza scriteriata basterebbe per un otto (che fino a ieri in condotta confinava con l’inaccettabile sette). Certo, nella griglia di valutazione che molte scuole hanno allegato alla pagella (con specifico riferimento al «nuovo» che avanza in condotta), la pugnalata alla schiena del professore non è contemplata, nemmeno con la peggiore insufficienza. In compenso ci sono parametri quali «attenzione costante», «comportamento maleducato», «interazione con i compagni». Istruzioni per l’uso alla mano, il genitore dovrebbe interpretare il voto.

Al di là dello sforzo ermeneutico, questa storia del voto di condotta svela una verità triste per tutti: è sempre più difficile conoscere i nostri figli. Ogni anno, ogni giorno che passa, qualcosa ci sfugge. E di fronte a un tredicenne normalmente diligente - nonché assiduo frequentatore dei corsi pomeridiani di violino - che tenta di ammazzare il suo insegnante, non siamo tanto esterrefatti e increduli, quanto rattristati. Rassegnati forse no, ma poco ci manca. Quel ragazzino non è un mostro. Anzi, sino a ieri era un tredicenne assolutamente normale. Potrebbe diventare un delinquente, ma anche no. Forse, per evitare la prima possibilità ci vorrebbe una punizione esemplare, come si diceva una volta. Che forse non arriverà, perché il supporto psicologico, come castigo, non è poi uno spauracchio colossale.

Ma al di là del destino che attende questo scellerato tredicenne partito da casa con il coltello in cartella, lo sgomento che la storia ci provoca nasce da una consapevolezza intima e profonda, quasi inconfessabile: chissà che anche noi con i nostri figli non stiamo rischiando di vivere un incubo così. Non li conosciamo mai abbastanza, ma soprattutto non sappiamo più come fare per decifrarli, per leggere loro in faccia, nei gesti, nel rumore dei loro passi, nel modo in cui masticano la bistecca e ti guardano di sottecchi, che cosa hanno in testa e nel cuore. E non ce lo dicono.
 
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:27:40 am »

5/5/2009
 
Le domande dei bambini
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Ci sono cose che i bambini sanno fare molto meglio dei grandi. Le domande, ad esempio.
Come Misha Lerner, classe quarta di una scuola elementare ebraica in quel di Washington, il quale con la sua zazzera rossa e il suo competente scilinguagnolo ha messo in seria difficoltà la signora Condoleezza Rice, che pure si era anche abbassata con la testa e le spalle, per mettersi al suo livello.

Quasi non le sentisse bene, le domande di Misha che invece deve averle scandite a chiare lettere, nel suo inglese di quarta elementare: «Perché avete applicato tecniche di interrogatorio simili alla tortura?», ha chiesto scendendo nei dettagli tecnici della brutta faccenda. E lei c’è rimasta un po’ male, per la domanda. Ha risposto, sì, ma senza troppa disinvoltura. Il presidente G. W. Bush, ha detto quella signora tutta d’un pezzo che si è sempre dimostrata Condoleezza Rice, «ha sempre espresso la volontà di autorizzare solo politiche legali per proteggere l’America»: una frase un po’ troppo arzigogolata per una classe di quarta elementare, anche se c’è da scommettere che Misha abbia capito benissimo che cosa lei intendeva dire.

Misha con la sua zazzera color carota ha solo nove anni. Il mondo che conosce è quello venuto dopo Ground Zero. Con tutto ciò che è seguito all’immenso buco nero apparso là dove c’erano una volta le Torri Gemelle: la guerra e le paure e l’incertezza e una sequenza di domande terribilmente angosciose che venivano da dentro gli adulti, anche se loro non sempre trovano le parole per fare domande. Poi è giunta la grande crisi, che c’è ancora e per la quale anche i bambini hanno in serbo un sacco di domande. Però, è finita la stagione di Bush e di Condoleezza Rice, quelle paure sembrano più lontane e viene un po’ per tutti la voglia di aprire una pagina nuova. Di non farsi troppe domande sul passato e provare a guardare verso il futuro, per tentare di immaginare che faccia avrà, lasciandosi alle spalle un briciolo di quell’angoscia che stagna sul mondo dall’11 Settembre. Cioè, più o meno da quando Misha s’affacciava al mondo.

Senza particolari meriti se non quello - strabiliante - di essere un bambino, Misha porta con sé un’innocenza che non ha niente a che vedere né con l’ignoranza né con la mancanza di esperienza, è piuttosto la capacità di guardare il mondo dritto negli occhi. Con le sue verità, le sue mezze verità, le contraddizioni. L’innocenza dei bambini è una specie di militanza, che noi adulti ci perdiamo per strada, sbadati come siamo e incapaci di capire quanto sarebbe utile, tenercela stretta: la voglia di non arrendersi all’impervietà del mondo. Di andare al sodo, alla sostanza delle cose, senza troppi giri di parole.

Per Misha insomma, come per qualunque altro bambino, il nostro presente è carico di misteri. Di domande in sospeso, dubbi che martellano, certezze che esigono una spiegazione. Non per niente, a un certo punto della loro (e nostra, di noi genitori) vita, i bambini diventano talmente generosi di domande da risultare molesti, con tutto il bene che vogliamo loro. Un «perché» tira l’altro in una sequenza che pare interminabile e comunque dura un sacco di tempo. Anni e anni, in cui il mondo è un oceano di punti interrogativi. Tocca rispondere una, due, mille volte, senza mai stancarsi. Tocca soprattutto insegnare a quei bambini avidi di perché, che malgrado le nostre risposte il mondo resta pieno di dubbi, mezze verità, piccoli e grandi segreti. Ma certamente sarebbe un po’ più banale e tremendamente insipido, senza le domande dei nostri bambini.

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« Risposta #5 inserito:: Maggio 28, 2009, 09:52:50 am »

28/5/2009
 
La stella gialla non è una bandiera
 
 
 
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
La stella gialla non era come quella che Marco Pannella ha deciso di usare per dare voce alla sua campagna elettorale. Non era ritagliata nel cartoncino ma stava cucita al vestito, là dove meglio e prima si vedeva: non potevi attaccarla e toglierla a piacimento. Non era una bandiera, bensì un marchio. Lo imposero i nazisti agli ebrei dell’Europa occupata, mentre li rinchiudevano nei ghetti: invivibili anticamere dei treni merci, degli smistamenti all’ingresso del campo di sterminio, delle camere a gas, dei forni crematori. I nazisti hanno inventato la soluzione finale, ma non la stella gialla, che si sono limitati a riesumare dalle ceneri ancora calde di una storia millenaria: la nostra, quella dell’Europa, che per secoli ha imposto ai figli d’Israele un segno di riconoscimento - banda, stella, cappello a punta - sì da poterli individuare, segregare, evitare, e non di rado cacciar via.

La stella gialla non era come quella adottata da Pannella per denunciare una pratica politica, un’inazione generale, un silenzio colpevole. Quella cucita sul vestito non c’entra nulla con la politica intesa come «scienza» (o trasandata pratica) che regola i rapporti fra gli uomini.

Non indica, nemmeno vagamente allude, non lascia spazio ad alcuna istanza di libertà: abita in un universo in cui la libertà non è concepita, non c’è modo di articolarla neppure come remota aspirazione. Chi portava addosso la stella gialla riusciva a pensare solo a sopravvivere, e sapeva bene che l’emarginazione era il muto preludio dello sterminio. Se quella di cartoncino che usa Pannella vorrebbe richiamare l’idea di una battaglia - pacifica e silenziosa, ma eloquente -, l’altra, quella vera, parlava solo di una sconfitta tremenda, inimmaginabile eppure vera. La stella gialla è, insomma, il simbolo di una resa atroce. Non esprimeva alcunché, non provava a sollecitare coscienze, denunciare ingiustizie. Era l’apice e l’abisso di una storia in cui il mettere da parte l’altro, tenersene a distanza, riconoscerlo per evitarlo, significava ribadire l’inguaribile disprezzo che per quel diverso si provava. Al limite da orchestrarne lo sterminio. La stella gialla era la fredda incubatrice della soluzione finale.

Per questo è impropria in qualsivoglia battaglia politica, morale, mediatica. Perché non sveglia le coscienze: le tramortisce. Non è uno stimolo, ma uno schiaffo alla giustizia e all’umanità. La stella gialla che i nazisti imposero agli ebrei, ripescando quel vecchio principio del segno distintivo infamante, concepito per emarginare e riconoscere il diverso per eccellenza, il «perfido giudeo», era un marchio indelebile. Ti stava cucito addosso sinché i kapò non ti facevano spogliare e ti spingevano dentro i locali doccia da cui usciva il gas letale Zyklon B, invece dell’acqua.

Da allora, la stella gialla non regge alcun paragone storico, rifiuta di farsi strumento di lotta, perché non dice altro che quella storia inaudita. Indossarla, farne un’allusione, non è atto che indigna. Men che meno scandalizza: non è oscena né offensiva. Però è inevitabilmente inadeguata a ogni linguaggio che non sia quello dell’abisso nero.

Fa parte di quell’universo, che non risponde alle leggi di questo (o almeno non dovrebbe essere così). Basti pensare a come e dove l’abbiamo vista, cucita sul vestito, indelebile. Nei ghetti, nei campi di raccolta, nelle retate, dentro i treni merci. Addosso a occhi sgomenti, bocche spalancate ma mute, braccia alzate in una resa impari: come quelle del bambino nel ghetto di Varsavia. È addosso ai bambini, che quel marchio grida più forte. Quelle braccine levate, tremule, sembrano sole di fronte agli aguzzini. Ma dietro c’è una folla di vittime. Con la stella gialla addosso: non era un marchio esclusivo. Lì dentro ce l’avevano tutti: vecchi (quei pochi che non erano già stati eliminati dagli stenti e dalle angherie), donne, bambini. Paradossalmente la stella gialla non distingueva nessuno. Anzi, assimilava tutti dentro un unico, terribile destino.


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« Ultima modifica: Luglio 13, 2009, 09:36:07 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 07, 2009, 12:12:00 am »

3/6/2009
 
La stella gialla della buona politica
 
 
 
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
La politica non è generosa, quasi per definizione. Le righe che Marco Pannella ha affidato a queste pagine, qualche giorno fa, mettono invece in gioco quel potenziale di dialogo che rende la politica qualcosa di diverso. Di raro, in un certo senso. Nel difendere l’apposizione della stella gialla, Pannella dialoga con la storia, prima ancora che con il suo interlocutore. Di solito, invece, la politica ha la memoria corta: calcata com’è nell’attualità, considera il passato - vicino o lontano che sia - un bagaglio inutile. Sfrondata del suo sovraccarico di presente, la stella gialla che Pannella evoca con le sue parole scritte torna a essere quello che era e che è condannata a restare: un monito, certo. Non uno strumento di propaganda elettorale, bensì l’incursione della storia nel nostro presente.

Ma, come diceva Primo Levi, il «male già fatto» non redime da quello ancora da fare. Non siamo più immuni dal male, adesso. Anzi. Per questo la stella non può che restare un monito muto. Incapace di comunicare null’altro che lo sgomento e la paura e il silenzio della morte che portava con sé. Il 1938 che Pannella richiama è lontano, irraggiungibile, se non per chi l’ha attraversato e se lo ricorda. Questo presente globalizzato può portare in sé tutte le apocalissi del mondo, ma non sarà mai la stella gialla a gridarlo, perché è rimasta laggiù, nel ’38. Le armi della politica possono, e debbono, rinunciare a quel simbolo.

Soprattutto nel caso di un’identità politica come quella radicale, che a differenza di tutte le altre è sempre stata e continua ad essere generosa. Perché nel Dna dei radicali c’è il saper dichiarare e agire per gli altri, senza diventare «altri»: la vocazione a intraprendere campagne e battaglie per conto di chi non lo fa, e non può farlo. Dalla bioetica ai diritti civili, alle battaglie internazionali che agli altri non interessano perché non ci sono interessi in gioco, i radicali hanno sempre fatto della politica qualcosa di transitivo. Senza mai diventare qualcosa di diverso da ciò che sono, senza immedesimarsi nell’altro da sé per cui si combatte, hanno reso la politica non una conquista - di voti o dell’altro che sia - ma una militanza altruistica, virtuosamente «per conto terzi».

I radicali, insomma, continuano a fare politica generosa da decenni, come dimostrano quasi tutti i traguardi di civiltà che il nostro Paese è in grado di declinare a testa alta. Per questo l’«assunzione» della stella gialla incollata al petto fa un torto prima di tutto a quell’identità politica radicale ben viva e così capace di combattere per gli altri senza camaleontismi, senza comode immedesimazioni, senza ipocrisie.

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« Ultima modifica: Giugno 24, 2009, 04:22:02 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 24, 2009, 04:23:23 pm »

24/6/2009
 
Oltre l'orrore
 
ELENA LOEWENTHAL
 

La violenza, in questa nostra civiltà urbana, ha spesso la faccia tremenda di una chiazza di sangue spalmata sull’asfalto. Tutt’intorno, il disordine dello sgomento e della morte. La tragedia di Monica, stamattina a Milano, si è consumata in un posto che tutto moltiplica: davanti all’asilo nido del figlio di due anni, che lei ha tenuto in braccio sino all’ultimo.
Mentre suo marito la aggrediva verbalmente, s’infuriava per il telefonino di lei che squillava al momento sbagliato, la picchiava a pugni e calci e poi tirava fuori il coltello. Quattro fendenti, poi è scappato a bere qualcosa in un bar, mentre lei che quella mattina come tutte le altre stava portando suo figlio all’asilo nido, agonizzava lì sull’asfalto. Dentro questa giornata tremenda, quel padre e marito non saprà spiegare il perché di quel delitto. Il piccolo, dal canto suo aspetterà all’asilo nido quella madre che non tornerà mai più a prenderlo.

La storia di Monica fa orrore, certo. È una storia di violenza brutale, cieca e tremendamente insensata come lo è sempre la violenza e più che mai quella che si consuma dentro la famiglia. Dove, malgrado tutto, le donne sono ancora un anello tremendamente debole non soltanto in quel terzo e quarto mondo che ci pare così lontano, e da cui c’illudiamo di essere immuni.

Anche in questo nostro civile Occidente, le donne continuano a essere un anello debole tanto da poter cascare sull’asfalto agonizzanti, una mattina di inizio estate mentre si accompagna il bambino all’asilo. Ma la storia di Monica che è morta stamattina fa orrore non tanto o non soltanto per quella scena terribile che devono aver visto maestre e bambini e genitori accorsi dall’asilo nido lì davanti dove Monica non ha fatto in tempo a portare suo figlio, stamane.

Non tanto o non soltanto per quella chiazza di sangue violaceo che l’asfalto non riesce ad assorbire. Per la morte che una mattina d’inizio estate esplode dentro una giornata come tutte le altre. Come si fa a trarre un senso, da una storia così? Una storia di violenza e basta, con un passato di altra violenza e litigi, di rassegnazione mancata e sicuramente di quella paura che ogni donna sente dentro come un sasso, da quando abbandona un compagno violento, capace di tutto.

Se questa storia dice qualcosa di più dell’orrore che mostra, è altro orrore. Quello di cogliere una donna, anzi una madre, nel momento in cui è più forte e vulnerabile più che mai. In quella condizione indescrivibile, eppure vissuta almeno mille volte al giorno dall’istante in cui diventi madre, che significa tenere un figlio in braccio. Sapendo che è affidato a te non tanto e non soltanto dentro quella quotidianità e i bisogni primari e l’affetto e l’istinto. Certo, c’è anche tutto questo. Ma c’è qualcosa di più, in quel momento che ogni madre vive mille volte al giorno e dall’istante in cui mette al mondo un figlio, e per il resto della vita.

In quel momento indescrivibile in cui una madre tiene in braccio un figlio - e nel caso di Monica che è morta accoltellata dall'ex marito violento, un bambino di appena due anni - una donna è più forte e tenace e indistruttibile che mai. Ma anche tremendamente debole, verso se stessa e il mondo che la circonda. E dentro l’orrore di stamattina in via Cova, zona Monforte, a Milano, proprio davanti a un asilo nido pieno di bambini, c'è anche lo sgomento per questa madre assassinata con suo figlio in braccio.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it

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« Risposta #8 inserito:: Luglio 13, 2009, 09:35:50 am »

13/7/2009
 
Doppio, cioè normale
 

ELENA LOEWENTHAL
 
Perfetta nel suo incarnare due esistenze opposte. L’unico trait d’union si ritrova, forse, nella montagna di materiale pornografico che aveva in casa. Ma anche questo «genere» è ormai una consuetudine, messa a disposizione di tutti (maggiorenni e non) dalla rete Internet.

Di fronte a questa schizofrenia dell’anima e ancor più del corpo, la prima reazione è lo sgomento. Dev’essere terribile vivere così, ancor più terribile scoprire di aver vissuto accanto a una persona così - senza aver capito, senza nulla aver riconosciuto. Familiari, fidanzata, colleghi di lavoro, compagni di sezione: nessuno avrebbe immaginato che dietro quei panni qualunque si celasse un mostro che violentava sconosciute a ripetizione. Forse l’unico a non volere ancora confrontarsi con questa doppiezza è lui – che nega, si ripete innocente a dispetto delle evidenze. Coloro che gli stanno intorno da sempre, l’opinione pubblica e le sventurate donne che l’hanno subìto, tutti paiono increduli di fronte a questa ambiguità. Pare impossibile, che la stessa persona sia di qua e di là del confine fra il contabile modello e lo stupratore seriale.

Eppure quel che ha di peggio, questa storia, è la sua normalità. Certo, Luca Bianchini è un malato. Ha un’ossessione violenta. Però la cosa che più atterrisce di lui è l’equilibrio della sua doppia vita, la sua coerenza intima che gli ha permesso di condurla così per anni, su due binari perfettamente paralleli e mai incrociatisi fra loro. Questa «normalità » della doppia vita è un tarlo che ci coglie puntuali, dentro la nostra giornata. Quando lanciamo di sottecchi uno sguardo al nostro partner, per cogliere la conferma di un sospetto. Quando gli/le arraffiamo il telefonino mentre è sotto la doccia, in cerca di un sms compromettente, o anche soltanto per pura curiosità. Quando incolliamo l’orecchio alla porta chiusa della camera di un figlio, per captare brandelli di conversazione: innocua, magari.Mamagari no.

La doppia vita di Luca Bianchini era estrema. Ma tante altre doppie vite si annidano intorno a noi. Nel marito che credevamo di conoscere come le nostre tasche, dopo trent’anni: e invece... Nell’amica che ci aveva svelato tutti i suoi segreti... tranne uno. Nella figlia adolescente che esce di casa vestita da collegiale ma con una tenuta da cubista nella borsa. Nel collega di lavoro che con quella sua aria da buon padre di famiglia si gioca i risparmi in qualche casinò di provincia. La doppia vita è una cosa molto comune: non vorremmomai ammetterlo,masiamo capaci di adombrarla anche per chi pensiamo di conoscere meglio e con cui condividiamo (quasi) tutto.Edè questa, forse, la cosa che ci fa più paura, di Luca Bianchini.

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« Risposta #9 inserito:: Agosto 01, 2009, 04:30:15 pm »

1/8/2009
 
Protocollo boicottaggio
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Molti, quasi innumerevoli, sono i vanti del nostro Stivale. Alcuni discutibili, altri sull’insidioso confine del ridicolo: come il divorzio all’italiana, immortalato da De Sica. In più d’una lingua straniera, «all’italiana» indica una beata approssimazione. Un’approssimazione di cui non conviene andar troppo fieri. Ma per gli amatori del genere, da oggi il nostro bel Paese potrà rivendicare la paternità (o meglio, dato il caso, la maternità) anche del «protocollo» - medico - all’italiana.

L’altro ieri, infatti, nel cuore della notte, la pillola RU486 è ufficialmente entrata negli ospedali d’Italia, non più soltanto a titolo sperimentale. Con questa, si fa per dire, decisione, il nostro Paese va in linea con il resto del mondo occidentale - ad approvarla mancano ancora soltanto Portogallo e Irlanda. L’Agenzia per il farmaco ha dato tecnicamente il via libera all’introduzione di questo metodo, che rende l’aborto meno invasivo e traumatico per la donna: con quattro voti a favore e uno contro, la pillola è entrata in commercio. È, ma forse sarebbe meglio dire sarebbe: perché nel protocollo previsto, rivisto e maneggiato da una lunga serie di enti, l’assunzione di questo farmaco si è «miracolosamente» trasformata in un lungo, farraginoso iter che costringe la donna a una degenza motivata da ragioni di ordine cautelativo. Se non che, in questa prudenza non è difficile riconoscere, oltre a una prescrizione medica, qualcosa d’altro. Di più profondo e confuso al tempo stesso. Nella migliore tradizione delle cose fatte all’italiana, anche qui è tutto un dire e non dire, decidere ma anche non troppo. La pillola RU486 entra negli ospedali italiani, ma dalla porta di servizio. Con tante complicazioni (non contemplate negli altri Paesi per la medesima procedura), che diventano una specie di boicottaggio. L’assunzione del farmaco comporta, in sostanza, per la donna l’ingresso in uno stato di patologia. In parole povere, continuerà ad essere più facile abortire per via «corporale», cioè chirurgica, con tutto ciò che questo tipo di intervento comporta.

Si può tentare, certo, di risalire ai motivi di un protocollo così rigido. L’intento pare proprio essere quello di scoraggiare l’aborto. Il che è logico e anche umano: l’aborto è un dramma per la donna. Ma nel momento in cui questa immancabilmente sofferta decisione viene presa, perché non optare per una via meno dolorosa? Mettere i bastoni fra le ruote alla pillola RU486 non diminuirà il tasso di aborti nel nostro Paese. La RU486 non c’entra nulla con l’etica: è un farmaco che allevia la sofferenza, che serve al corpo. Cercare di fare in modo che sia scelta dal minor numero possibile di donne, significa soltanto pensare che la donna che abortisce merita di patire più del necessario. Che, in fondo ma neanche tanto in fondo, va castigata per questa decisione. Come se non fosse già la decisione stessa a castigarla per il resto della vita. Così capita - quasi sempre - alle donne che rinunciano volontariamente alla maternità.

La pillola RU486, ma soprattutto le donne (quelle che la useranno e quelle che l’avrebbero potuta usare) sono dunque vittime di quel raggiro tutto italiano, da intendersi non come frode in senso stretto, ma più blandamente per quello che è: il vischioso talento nel girare intorno alle cose, piuttosto che andare al dunque, prendendo delle decisioni chiare.
 
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 19, 2009, 12:17:04 pm »

19/8/2009
 
Salvate il bambino Liam
 
 
ELENA LOEWENTHAL
 
Quando un bambino si conquista un sito internet che porta il suo nome, il più delle volte è un gran brutto segno. Non sono quasi mai superdotati i bambini che salgono agli onori della rete. Sono quasi sempre assai sfortunati: perduti, malati, contesi. Quello di Liam Gabriel, ricci biondi e sorriso largo sgengivato di sette anni, si chiama «saveliam.com» e la dice lunga sul suo destino.

L’imperativo suona come un allarme, «salviamo» - ma anche «salvate» - Liam, e assomiglia a una zattera che galleggia in mezzo a un oceano vero, fatto di acqua e distanze insanabili, dove il destino si accanisce con lui. Perché il papà di Liam Gabriel si chiama Michael ed è di New York, mentre la mamma si chiama Manuela ed è italiana. Da un capo all’altro dell’oceano Atlantico, Liam Gabriel che pure non ne può proprio nulla se suo papà è nato di qua e sua mamma di là, su due sponde opposte, è lui che ci va di mezzo.

Nel marzo del 2007 la mamma viene giudicata sofferente di disordini della personalità e pertanto inadatta a custodirlo. Il piccino è affidato al padre. Ma la mamma lo rapisce e se lo porta via, dall’altra parte dell’oceano. Da allora, l’Fbi le dà la caccia. Intanto, il tribunale italiano ha confermato la sentenza americana e consegnato Liam Gabriel ai servizi sociali. In parole povere, quella cosa che una volta si chiamava orfanotrofio e che se non è più quella garanzia di infelicità che era una volta, certo ancora un po’ le assomiglia. Intanto, il papà di Liam Gabriel sta spendendo la vita in cerca del figlio, perché vuole riaverlo, dall’altra parte dell’oceano. Perché non è sempre detto che un bambino stia meglio con la mamma che con il papà. Perché una fuga disperata per portare lontano - dal tribunale, dal papà e da chissà che cosa d’altro - il proprio bambino, non è sempre detto che sia una scelta dettata dall’amor materno, o meglio da quell’idea quasi angelicata che ci siamo fatti dell’amore materno. Una mamma non ha sempre scritto nel suo Dna del cuore che cos’è meglio per il bambino che ha messo al mondo. A volte sbaglia. Proprio come un papà.

Intanto, chissà come sta lui, bambino conteso che invece di album da colorare riempie dossier di tribunale, rapporti di polizia e pagine internet in cui chiede a chi passa navigando per la rete di salvarlo, come un imperativo che ci chiama un po’ tutti, noi sprovveduti internauti dello svago estivo.

In fondo, non è difficile immaginare come stia, come si senta un bambino che ha perso mamma e papà perché lo vogliono tutti e due: smarrito in mezzo al mare. Naufrago in quell’oceano d’acqua che separa un genitore dall’altro, ma anche la follia dal raziocinio, l’affetto vero dall’egoismo parentale, l’altruismo dall’assurdo. Pensare che sarebbe così facile fare il bene di un bambino. E’ vero che in amore non ci sono regole, e men che meno nell’amore per i figli. Ma loro, soprattutto quando hanno sette anni, poco più o poco meno, e un sorriso largo, sincero e un po’ sgengivato come quello di Liam Gabriel, non sono mica troppo sofisticati, in amore. Prendono quello che gli dai. Chiedono soltanto un briciolo di spirito di sacrificio, senza il quale da genitore non fai un passo che sia uno. Come Pollicini cresciuti, ci lasciamo dietro tante briciole di piccole e grandi rinunce. E’ il sale che depositiamo sulla terra e con cui condiamo la nostra vita di papà e di mamme. Forse è solo lungo un sentiero fatte di quelle briciole lì, che il piccolo Liam Gabriel potrà ritrovare la strada di quella casa che sarà davvero la sua. Quel giorno, saremo lì ad aspettarlo, per vederlo sorridere con denti e gengive, sotto i ricci biondi.

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« Risposta #11 inserito:: Settembre 02, 2009, 04:09:32 pm »

2/9/2009

L'attualità del tricolore
   
ELENA LOEWENTHAL

L’inizio di un anno scolastico non è degno di tale nome, se non porta con sé anche un briciolo di suspense. Precari in agitazione, fondi (e di conseguenza bidelli) latitanti, classi sovraffollate; quest’anno ci si mette pure l’influenza suina, riflesso di una globalizzazione che non guarda in faccia nessuno. Si comincia o non si comincia? Se il fattore «rischio» è ormai una consuetudine che segna l’avvicinamento al (quasi sempre puntuale) fischio d'avvio, è anche vero che ogni anno che passa la scuola si trova a incontrare nuove sfide. Perché le aule dove i nostri figli trascorrono gran parte della loro crescita sono lo specchio più fedele di quella realtà cui apparteniamo tutti, e che è tutt’altro che stabile, fissa nei suoi confini sociali e mentali.

Che specie di mondo siamo? In che cosa veramente ci riconosciamo? Tutto sembra in discussione, a incominciare da quell’inno nazionale che sappiamo per lo più solo ronzare (le parole sfuggono dopo la prima strofa), ma che resta pur sempre il nostro. Per non parlare della bandiera che ha appena ieri ha animato una fumosa, quasi grottesca querelle: a quanto pare il bullismo (in questo caso con la sua pretesa monocolore) non è solo roba per adolescenti disadattati. Anche la scuola si cimenta con la bandiera, eccome. Sotto le ali del tricolore, infatti, sono stati ammessi alle materne di Milano 17 bambini figli di «irregolari», cioè senza permesso di soggiorno. Non sarà certo un caso unico, entro un sistema la cui «parola d'ordine è accogliere», dice l’assessore alle politiche sociali della Lombardia, Mariolina Moioli. La scuola non è né deve soltanto essere un rifugio d’accoglienza, ma è certo che rappresenta il nostro mondo per quello che è, senza infingimenti o ipocrisie di sorta. Rinunciare al confronto significa perdere in partenza. Il nostro tricolore, se non come simbolo certo come luogo di vita e fatica, gioie e dolori, riguarda anche quei bambini. Anche se sono figli di «irregolari». Del resto, tutto il mondo è paese. In Israele le scuole si sono appena aperte, e all’insegna di una battaglia quasi feroce per l’ammissione in diversi istituti religiosi di alcuni studenti arrivati di recente dall’Etiopia. Il sistema confessionale non li voleva per ragioni d'ortodossia, lo Stato ha imposto l'accoglienza. Non sono mancate vistose proteste pubbliche.

Sono tanti i modi per eludere il confronto, prima di tutto a scuola. Come, ad esempio, disertare l’alzabandiera - sempre lei. E diventare, senza volerlo, un caso nazionale. È successo al dirigente scolastico di Padova Maria Grazia Bollettin, che quest’anno ha subito un recesso dal contratto per giusta causa. Un provvedimento gravissimo, motivato da un’incapacità gestionale definita di ordine generale, ma con la quale è difficile credere che nulla abbia a che fare l’episodio del 4 novembre scorso. Quando tutti gli 800 alunni della sua scuola non si presentarono alle celebrazioni nazionali, per evitare un’«offesa alla sensibilità dei bambini stranieri», chissà poi se interpellati in merito. Un eccesso di riguardo che forse produce l’effetto opposto a quello voluto, perché negando il diritto a una sensibilità individuale e assegnandone una d’ufficio a tutti gli stranieri, disegna un’emarginazione di ritorno, più che carezzare una presunta suscettibilità. Quel che è certo è che la bandiera dovrebbe rappresentare un’ala gentile, non uno stendardo per inventarsi guerre e guerricciole. Ma in fondo, questa attualità del tricolore - che sia rivendicato dalle Frecce acrobatiche nei cieli di Libia o issato in cima al pennone nei cortili delle nostre scuole - è un’efficace chiave d’interpretazione della nostra realtà. E insieme a tutti i bambini e i ragazzi che - c’è da scommettere - anche questa volta cominceranno puntualmente l’anno scolastico su e giù per lo Stivale, è bene guardarla, perché ci aiuta a capire chi siamo. E che cosa saremo, in un domani che è sempre più vicino di quel ci aspettiamo.

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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:44:14 am »

8/10/2009

Terreno minato
   
ELENA LOEWENTHAL

In un linguaggio tecnico che sembra uscito da un poliziesco copiato dagli americani, si chiamano «cold cases»: casi freddi, perché rimasti sospesi nell’incertezza, senza uno spiraglio di giudizio. In quel mondo dei bambini che invece dovrebbe essere caldo per antonomasia, stanno diventando più numerosi che mai. Talmente tanti da «fare» quasi un genere letterario: come dimostrano il recentissimo «Pulce non c’è» della giovane Gaia Rayneri (Einaudi) e «Vento scomposto» di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli). In entrambi i libri si racconta di infanzie strappate a quella quotidianità cui tutti i bambini del mondo hanno diritto, e portate davanti a un tribunale. Non perché abbiano fatto qualcosa, ma perché si sospetta che qualcosa di brutto sia stato fatto loro.

Come si fa a capire, a prevenire, a riconoscere l’abuso sui bambini? Per questo, forse, negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi ambigui, se non infondati: per quella paura scura che ci prende un po’ tutti di fronte a cose così. E’ un terreno minato, insidioso come nessun altro. Sul piano giuridico e umano. Perché come si fa a giudicare da fuori una famiglia? A coltivare certezze su quell’intimità che sta racchiusa fra le mura di ogni casa? Ogni famiglia, infatti, ha i suoi codici «segreti». E’ una specie di pianeta con le sue regole, la sua legge di gravità. Per questo, è così difficile entrarci dentro, vedere, giudicare. Anche se far del bene a un bambino dovrebbe essere la cosa più facile del mondo, purtroppo non sempre è così.

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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:27:59 am »

14/10/2009

Il dialogo impossibile
   
ELENA LOEWENTHAL


Il no della Camera alla proposta di legge che avrebbe introdotto l’aggravante per i reati commessi in ragione dell’orientamento sessuale della vittima, in altre parole per omofobia, porta con sé considerazioni che ci riguardano tutti: destra e sinistra, etero e gay.

Questo veto per dichiarata incostituzionalità è innanzitutto la cartina di tornasole di uno stallo politico alquanto preoccupante. Al di là del pastone poco edificante in cui ormai da un bel po’ sguazza il confronto fra gli schieramenti, maggioranza e opposizione hanno dimostrato di non riuscire a trovare una convergenza minima nemmeno su una questione come questa, così estranea alla politica in senso stretto, e per di più in una stagione in cui pare esserci una vera emergenza, in fatto di violenza omofobica. Eppure, neanche su un terreno paradossalmente così «neutrale» come quello della tendenza sessuale, la nostra politica è riuscita a combinare qualcosa. Con, per di più, l’aggravante di una confusione ideologica che non può che generare, nell’opinione pubblica, l’ennesima disillusione condita di sarcasmo - ultimo stadio di quell’antipolitica che una volta si chiamava qualunquismo. Mentre il ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, si rimbocca le maniche con l’intenzione di far rientrare in Parlamento la norma affossata, è innegabile che qui la maggioranza non abbia retto.

Se dunque il confronto fra maggioranza e opposizione si svela tanto fragile su un argomento così trasversale e lontano dagli spartiacque tradizionali della politica, non è difficile immaginare quanto sarà (sarebbe?) erto il cammino sulla via delle riforme istituzionali, o su altri ordini del giorno. In sostanza, questo «no» della Camera è indice più di debolezza che di rigore.

E poi c’è, naturalmente, la questione Pd. Alla vigilia di fatali primarie con il loro strascico di disarmanti, inconcludenti querelles (che detto per inciso spopolano a mo’ di gags comiche nell’universo di Facebook), il Partito democratico ha dimostrato ancora una volta di soffrire di un disturbo della personalità. E non da poco. Il voto di Paola Binetti, e la sua dichiarazione a margine «con quella legge le mie idee sarebbero state un reato» (che è un terribile lapsus di anacronismo, visto che i reati d’opinione non dovrebbero più esistere…), sono ben di più di quel «signor problema» timidamente declinato da Franceschini. Sono, piuttosto, lo specchio di un vizio radicale, di una questione di fondo che per un partito progressista dovrebbe risultare - anche a prima vista - ineludibile. Un nodo che riguarda l’identità stessa del partito e non soltanto le sue scelte politiche e strategiche del momento.

E infine, c’è la questione culturale. C’è qui di che riflettere sulla nostra pretesa (o presunzione?) di civiltà, compromessa da una cronica superficialità che sarà tanto originale, ma fa pure cascare le braccia. Per noi, le pari opportunità sono la sigla di un telegiornale che espunge dal video i volti maschili per dar spazio alle donne, e di sentenze del Tar che annullano nomine in giunte provinciali a sesso unico (tutti maschi). Quando si tratta però di uscire da una cornice prettamente «estetica» - diciamo più decorativa che di sostanza - tutto diventa più complicato. Quasi irrealizzabile, come dimostra questo veto della Camera nei confronti di un provvedimento di salvaguardia fisica che mette in gioco il nostro rapporto con l’orientamento sessuale. L’impressione è che la strada verso il progresso sociale e culturale sia un po’ più lunga e accidentata di quanto il nostro bel paese si aspettasse. E così, si trova impreparato. Ma forse, più che di puro esercizio culturale, è una triste questione di fondo. Siamo, alle solite, in quel bizzarro Paese a cui piace tanto scherzare, ma quando si tratta di fare sul serio, troppo spesso sfodera un’alzata di spalle.

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« Risposta #14 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:36:13 am »

1/11/2009

Niente allarmi ma più chiarezza
   
ELENA LOEWENTHAL


Emiliana D’Auria, undici anni, è morta appena quaranta minuti dopo il ricovero. Già la corsa in ambulanza, verso l’ospedale Santobono di Napoli, era parsa disperata, con il medico in servizio che tentava manovre rianimatorie.

Emiliana D’Auria è morta per una pericardite fulminante: questa la causa diretta del decesso. Però aveva l’influenza H1N1. Per la prima volta, dunque, nel nostro Paese, un bambino muore con addosso quella febbre suina di cui si parla da tanto, e più si parla meno sembra di saperne. Perché quando muore un bambino, significa che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quel che sta succedendo. Che ci spaventa, ci tormenta, ci fa girare intorno al mondo con lo sguardo, in cerca non di un senso - quello mai, quando muore un bambino - ma di una strada per rimediare.

La cosiddetta influenza suina ha, secondo gli esperti, un’incidenza di mortalità molto inferiore a quelle delle «normali» patologie analoghe: in parole povere, è un’influenza e basta. Non è il vaiolo, nemmeno il colera o il tifo. Non è una peste, ma un’influenza. Ma anche l’influenza comune miete ogni anno le sue vittime - più di quanto le stime indichino essere capace questa, di cui si parla da tempo. E se ne parla davvero molto, forse troppo.

Perché una bambina che muore d’influenza ci sgomenta, atterrisce e inquieta. Non deve destare il panico, ma far riflettere. Sulle parole dette, quelle smentite, quelle ripetute. Di questa influenza è stato detto un po’ tutto, e anche il suo contrario: che il peggio era passato (tempo fa), che il peggio doveva ancora venire (quando? Adesso? O ancora no?). Che il peggio era lì davanti a noi (forse. Ma forse no). Nel frattempo, dopo qualche caso isolato, ecco la vera epidemia.

Scuole decimate (e torna l’ipotesi di chiuderle per evitare la diffusione. Torna perché s’era già postulata, ma presto. Troppo), uffici quasi deserti, centralini di pronto soccorso intasati. Il copione di una pandemia. La parola spaventa, ma indica solo una misura di quantità: è soltanto più diffusa di un’epidemia, non più grave e minacciosa. Significa solo che dobbiamo tutti essere pronti a beccarci l’influenza. Che può capitare a tutti, ed è probabile che ciò succeda. Anche sui vaccini, s’è detto di tutto e di più: farlo? Non farlo? A chi, prima? Quante dosi sono in circolazione? Nessuna certezza, un sacco di interrogativi. Troppi, di fronte a una pandemia. Per quanto d’influenza. E di un’influenza blanda persino più di tante altre.

In sostanza, di fronte alla prima bambina morta d’influenza nel nostro Paese, arrivata agonizzante in un ospedale di Napoli senza portar con sé - pare - patologie pregresse, la preoccupazione è grande. Eccome. Ma non tanto per lo spettro della suina che ormai non è più un’ombra ma una presenza dilagante in Italia (migliaia di casi a settimana) quanto per l’incertezza che ci accompagna. E che sembra dettare le direttive di chi dovrebbe invece «guidare» la salute pubblica con coerente competenza.

La ridda di notizie e raccomandazioni contraddittorie, la confusione di dati (per esempio sull’efficacia e la necessità del vaccino): tutto questo ci mette forse più paura dell’influenza in sé. L’unica cosa che sappiamo è che probabilmente molti di noi la prenderanno. Come comportarci quando viene la febbre, e magari anche un po’ prima, questo le autorità preposte finora non sono proprio state in grado di dircelo, anche solo a titolo di consiglio. E l’incertezza, la confusione, non sono certo buone compagne, quando c’è un’emergenza. Quella, innegabile, ci sta di fronte: ha la faccia di una bambina di undici anni morta quaranta minuti dopo il ricovero.

Elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it

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