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Autore Discussione: FERDINANDO CAMON. -  (Letto 30975 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:18:49 pm »

15/9/2008
 
La fedeltà al fascismo? Un'aggravante
 
 
 
FERDINANDO CAMON
 
Sul tema toccato dal ministro La Russa (i fascisti che mantennero fedeltà all’idea, anche quando l’idea veniva sconfitta dalla storia, meritano ricordo e onore) c’è una letteratura che conosciamo poco, perché è sepolta sotto l’accusa di filofascismo, ma dentro di essa vi sono testi memorabili, di scrittori che è doveroso definire grandi. Due su tutti: Giose Rimanelli e Carlo Mazzantini. Ambedue trattano in pieno i due problemi che stanno a monte e a valle del discorso di La Russa: l’entrata nel fascismo repubblichino e la non-uscita, fino alla consumazione della tragedia militare.

È chiaro che la coerenza e la fedeltà sono un valore se ciò a cui si resta fedeli è un valore. I tedeschi maturati nell’epoca del nazismo hanno inventato una formula, per definire coloro che sono nati dopo: costoro, dicono, hanno avuto «la grazia della nascita tardiva». Perché, se fossero nati prima, sarebbero stati come loro. Noi, dice Mazzantini, eravamo nati «dentro» il fascismo, e ragionavano da fascisti: «Noi non abbiamo conosciuto altro che quello». La scelta fra partigiani e fascisti non si poneva, perché non si sapeva nulla dei partigiani: quando ne catturano alcuni, i fascisti-nazisti di cui fa parte Mazzantini li guardano come marziani.

Ma Mazzantini è anche lo scrittore che sbatte più duramente contro la vera natura del fascismo: lui entra nel reparto, e molto presto, già a pagina 78 e seguenti (il libro è A cercar la bella morte, Marsilio), diventa una rotella vorticosa del vasto ingranaggio delle stragi di massa. Partecipa alla fucilazione di circa quattrocento nemici. Il massacro è un test. Ci sono state civiltà, come quella spartana, che imponevano ai ragazzi il test dell’omicidio: dovevano uccidere qualcuno per mostrarsi uomini. Qui la carneficina, raccontata con la precisione di chi l’ha vista, è il collaudo attraverso il quale chi vi partecipa diventa fascista: la strage non finisce mai, c’è qualcuno che sopravvive alle raffiche, bisogna sparargli ancora, è una gara, poi ci sono i colpi di grazia, si uccide a più non posso, e quando tutto finisce cala un silenzio assurdo. In quel silenzio ognuno sente reagire le forze morali che ha in sé.

La reazione del perfetto fascista è quella di colui che è squassato nei nervi e nella mente, ma camminando tra i moribondi si sforza di controllarsi ripetendo a se stesso: «Io sono granitico, granitico io sono». È il battesimo. Dopo, si è al servizio della nuova idea. E di chi la incarna: il duce. Primo Levi diceva che i grandi leader erano Hitler e Stalin, non Mussolini, perché non aveva forza trascinante. Visto dai fascisti repubblichini, in queste testimonianze interne, la forza l’aveva, loro la sentivano. A disfatta ormai chiara, l’autore della Bella morte si trova in uno sparuto gruppo di tenaci fascisti che non vogliono arrendersi, e ricevono la visita del Duce, che li passa in rassegna: «Io vi porterò alla vittoria», promette. E lui a piangere di tristezza: non doveva ingannarci così, doveva dire: «Morite per me!», e saremmo morti con gioia.

Dopo il duce verrà un altro duce, è la speranza dei fascisti ormai intrappolati alla fine del libro di Rimanelli (Tiro al piccione, Einaudi). Sono su un cocuzzolo, assediati tutt’intorno dai partigiani, non hanno cibo né munizioni, saranno ammazzati uno a uno («Tirate al piccione» è il grido dei partigiani, il piccione è l’aquila d’argento sul berretto dei sottufficiali repubblichini), ma ecco venire un prete con una bandiera bianca: tutto è finito, Mussolini è morto, non ha senso sprecare altre vite, pace. Qualcuno tra gli ufficiali trae la pistola e si spara in testa.

Sì, è fedeltà. Fino alla morte. Ma a monte ci stanno distruzioni, fucilazioni, perquisizioni, cacce all’uomo: la fedeltà è fedeltà a tutto questo, non c’è, neanche soggettivamente, un valore, un bene. «Noi amavamo la morte», dice onestamente Mazzantini, «la bella morte». Volevano morire e amavano uccidere. Tutto quello che han continuato a fare lo han fatto perché continuavano gli ordini, ma gli ordini continuavano perché c’eran loro pronti a obbedire. Questa fedeltà non è un merito, ma un’aggravante.

fercamon@alice.it
 
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 21, 2008, 07:22:20 pm »

Il vangelo di Gentilini

Ferdinando Camon


Esce il testo pressoché integrale del discorso che Gentilini ha tenuto alla festa della Lega, domenica scorsa a Venezia, ed è un testo di così rozza violenza, che merita di essere analizzato: è la prima volta che càpita di veder condensato in una colonna il sistema del primo sceriffo d´Italia. "Popolo della Legaaaaa! - esordisce -. La Lega si è svegliataaaaaaa!": appena salito sul palco aizza l´orgoglio dei leghisti, annunciando che la Lega che sembrava impotente in realtà dormiva, adesso si è svegliata e mangerà il mondo. "Le mura di Roma stanno crollando sotto i colpi di maglio della Lega": il nemico è sempre Roma, ma adesso i leghisti sono arrivati sotto le sue mura e le abbattono, sono i nuovi barbari. "Questo è il vangelo secondo Gentilini": la parola vangelo manda una luce che vorrebb´essere sacrale su tutto il proclama. "Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari": non leggi, che rispettino i codici, ma la rivoluzione, che scatena il furore. "Io ne ho distrutti due a Treviso": non messi in regola o bonificati, ma distrutti, dunque il problema degli zingari non è come si comportano, ma il fatto che esistono. "Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anzianiiiiiii!": non rieducarli ma eliminarli, toglierli dalla vita. Molto più di quello che chiede la Lega. Infatti: "Se Maroni ha detto tolleranza zero, io voglio tolleranza doppio zero". Questo è uno slogan a uso interno, stabilisce una supremazia da leghista dentro la Lega, non c´è nessun leghista più leghista di lui. "Prenderò dei turaccioli per ficcarli in bocca e su per il c… ai giornalisti che infangano la Lega": l´allusione oscena serve a cementare l´oratore con chi ascolta, crea intimità, non c´è intimità più forte di quella sessuale, e infatti a questo punto gli applausi scrosciano. "Voglio la rivoluzione contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici": ma tra questi ci sono anche le gerarchie ecclesiastiche, e allora? "Le gerarchie ecclesiastiche dicono: Lasciamoli pregare. Noooo! Vanno a pregare nei desertiiii!": ma vengono dai deserti, e allora questa è una cacciata indietro con l´uso della forza, il loro voler pregare è un oltraggio che ci autorizza a usar ogni mezzo per rispedirli a casa. La presenza degli islamici diventa oltraggiosa quando si comportano da islamici. "Ho scritto anche al papa: gli islamici, che tornino a pregare nei loro paesi": probabilmente è vero, avrà scritto al papa, ma il papa non ha risposto e lui adesso, annunciandolo pubblicamente, si presenta come più cristiano del capo dei cristiani. "Voglio la rivoluzione contro la Magistratura: ad applicare le leggi devono essere i giudici veneti": qui c´è l´idea che il potere gudiziario, per essere un potere, deve rappresentare il popolo, ma per rappresentare il popolo dev´essere eletto dal popolo, e questo è il programma sottinteso: giudici eletti. "Questo è il vangelo di Gentilini: tutto a noi e se avanza qualcosa agli altri. Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moscheeeee!": il discorso tocca l´apice, "pisciare nelle moschee" è il motto che muove una spedizione punitiva, e lui urlando la guida. "Voglio la rivoluzione contro il burqa e i veli delle donne, che mostrino l´ombelico caso mai… Non voglio veder neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini, cosa insegnano, la civiltà del deserto? Ho scritto al presidente della repubblica": probabilmente anche questo è vero, avrà scritto a Napolitano ma Napolitano non ha risposto, e denunciando la cosa pubblicamente il vicesindaco di Treviso comunica: non c´è da fidarsi del presidente della repubblica. Ognuno è la propria origine: patria, cultura e razza sono unite. "Queste sono le parole del vangelo secondo Gentilini, ho bisogno di voi, statemi vicini": nel vangelo secondo qualcun altro, quando il protagonista sentiva avvicinarsi l´ora della morte, pregava i seguaci di vegliare con lui. Anche per Gentilini è un´ora brutta, l´ora dell´estremo pericolo. Le ultime parole: "Viva la Lega!" e il coro di risposta saldano l´abbraccio.

fercamon@alice.it

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.50   
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« Risposta #17 inserito:: Novembre 22, 2009, 10:37:32 am »

22/11/2009

Noi artisti davanti al Pontefice
   
FERDINANDO CAMON

Dovevamo essere 250, ma siamo certamente di più, nella Cappella Sistina, invitati dal Papa. Scrittori, registi, pittori, scultori...: artisti di tutto il mondo. Tutti, cattolici e non, aspettavamo da una vita d’incontrarlo. Ed ecco, l’incontro avviene. E non su richiesta nostra, ma sua. Una gentile e-mail è piovuta nel nostro computer, c’informava che era «desiderio del Santo Padre incontrarci» per parlarci del nostro lavoro, di come molta arte oggi si chiude in se stessa e non si preoccupa di raggiungere un fine etico: che è ciò di cui l’umanità ha più bisogno.

Leggo l’e-mail, e mi sembra eufemistica: in realtà le cose stanno anche peggio. La distinzione non è fra arte autoreferenziale e arte morale. Tantissima arte oggi, specie nel campo dello spettacolo, soprattutto cinema, punta al denaro: se vuoi fare un film, dev’essere un affare. E l’affare lo fai (anche in tv, anche nel libro, anche nel teatro...) se cedi agli istinti del pubblico, lo compiaci o lo peggiori. Benedetto XVI vuol parlarci di questo? Vuol parlarci del bisogno dell’umanità di avere un’arte che la migliori, un’arte in cui la bellezza rimandi alla trascendenza? Grande tema. Non sono d’accordo con gli invitati che han rifiutato: approvavo in pieno Yehoshua, Oz e Grossman, ma visto che non sono venuti, ora ho qualche riserva.

Ognuno di noi ha un vistoso «passi» penzoloni sul petto, con nome e cognome. Sul retro è stampato un numero, che indica il nostro posto a sedere nella Cappella. Infinite curiosità e malignità sui numeri. Impossibile che siano casuali. Rispondono certamente a una gerarchia. Siamo stati valutati e pesati, chi merita la prima fila e chi l’ultima. C’è di peggio: un buon terzo dei presenti finisce dietro la transenna, da dove non vede nemmeno il Papa. Viviane Lamarque viene da me a lamentarsi. Ma tutti ci domandiamo: che graduatoria è? di artisticità, di cattolicità? Nanni Moretti sta tre file davanti a me, come Carlo Lizzani, Andrea Bocelli sta davanti a tutti, la Pamela Villoresi viene due numeri dopo di me: io ho il 123. Mondo e Parazzoli e Doninelli stanno dietro. Tornatore è tra i primi, come i fratelli Taviani. Qualcuno maligna: dev’essere il nostro ordine di salvezza eterna, chi si salva facile e chi fa fatica. Ma pochi minuti dopo scopriremo quant’è vero il detto evangelico «beati gli ultimi».

Alle 11 esatte tutti i faretti si accendono, la luce raddoppia, e tutti si voltano indietro. Il Papa avanza dalle nostre spalle. Sorride con mitezza, ora a destra ora a sinistra, parimenti. Si guarda bene dal concedere privilegi. Ma improvvisamente fa un gesto inspiegabile: vede due file avanti alla mia, sul lato che dà sul corridoio centrale, il faccione da luna piena di Lino Banfi, il Papa devia con uno scatto improvviso, s’illumina e stende la mano. Banfi s’inchina con flessuosità e gliela bacia. A quel punto ho un sospetto: la graduatoria rispetta la mediaticità. Il Papa sale verso il Giudizio Universale. Un dolcissimo coro di bambini si alza dalla nostra destra, poi l’arcivescono Ravasi saluta il Papa, che dunque può parlare. Ecco dove scatta il «beati gli ultimi»: noi delle file anteriori, i prediletti, non sentiamo niente. Alla fine mi farò dare il testo scritto. Il Papa ha una visione manzoniana dell’arte: l’artista che fa arte ha una forza, ma l’artista che fa arte etica ha una doppia forza. Lui incoraggia verso questa doppia forza. L’artista lavora sul mistero, dice, ma il mistero è il regno del divino, artistico e divino si toccano. Nel sistema del Papa gira il concetto che le scale dei valori non possono restar separate, alla fine devono per forza toccarsi, e il valore del bene morale prevale su tutti. E’ stretta la relazione tra arte e trascendenza, tra arte e mistero, fede e arte scavano nel mistero, dunque sono sorelle. La bellezza salva dalla disperazione. Definisce «ipocrita» la bellezza che assume i volti dell’oscenità, della trasgressione e della provocazione. La vera arte, «anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, si fa voce dell’universale attesa di redenzione».

Vorrei sapere se c’è qui la possibilità di una riabilitazione di scrittori cosiddetti immorali (Moravia, Pasolini...) in moralisti: si può orientare alla speranza descrivendo la disperazione. E allora, la sofferenza dell’artista, poiché ogni opera richiede sofferenza (a volte fino alla morte), può diventare redenzione: è possibile che l’artista si salvi perché è un artista. Su «Civiltà Cattolica» ci fu chi scrisse che Moravia e Pasolini sono certamente in Paradiso. Mi pare che il Papa passi vicino a questi concetti, dal suo discorso si possano ricavare. Finisce con dolcezza, chiude il foglio. Da noi, seduti, lunghi applausi. Lui per ringraziare si alza in piedi. L’arcivescovo Ravasi ci ferma nel corridoio, dà a ciascuno una medaglia-ricordo coniata per l’occasione. Sul retro c’è il Cristo che piomba su san Paolo, nella via di Damasco, opera di Michelangelo, nella Cappella Paolina. Una conversione traumatica. Avrei preferito qualcosa di diverso, e visto che tutto il discorso era d’impronta manzoniana, poteva incidere per noi il monito manzoniano: «Non profferir mai verbo - che plauda al vizio o la virtù derida». Che vuol dire: Non mettere la tua genialità al servizio dei soldi. O dei partiti. Il precedente incontro di un Papa con gli artisti risale a 45 anni fa. Troppi. Penso (ne parlo con Lorenzo Mondo, Ernesto Ferrero, Giuseppe Parazzoli, Maurizio Cucchi): sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni dieci anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro. Sarebbe meglio che fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge: di area cristiana). Un minimo di pre-intesa, di problemi in comune. Treni e alberghi ce li paghiamo noi (come stavolta), i rinfreschi li offre la Martini&Rossi: al Vaticano non costa niente. Sento l’obiezione: un sinodo cattolico-laico? Rispondo: e perché no?

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« Risposta #18 inserito:: Novembre 23, 2009, 10:46:29 am »

23/11/2009

Il bello non ha né etichette né religione
   
ALAIN ELKANN


Caro direttore,
ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon.
Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda.

Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina. Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo. Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza - su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro.

Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa. Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura. Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato». A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre. Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.

Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi. C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro». Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).

Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica...».

Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso. Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.

Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso. La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri. L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto. Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale. Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine.

Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 24, 2009, 06:17:13 pm »

24/11/2009

Gli artisti dal Papa mi dispiace per gli assenti
   
FERDINANDO CAMON


Su «La Stampa» di domenica Ferdinando Camon ha raccontato l’incontro degli artisti con il Pontefice auspicando un confronto periodico riservato solo ai cristiani.
Su «La Stampa» di ieri Alain Elkann, ebreo e scrittore da sempre impegnato nel dialogo inter-religioso, ha espresso la sua obiezione.
Qui di seguito pubblichiamo la risposta di Ferdinando Camon e un intervento di Lorenzo Mondo.


Domenica, su questo giornale, ho raccontato l'incontro del Papa con gli artisti. Lunedì è uscita una lettera-commento di Alain Elkann: sostanzialmente la scrittura di un altro articolo.
Elkann mi rimprovera di aver avuto con l'incontro un approccio leggero. Io ho detto che noi tutti, cattolici e non, lo aspettavamo da una vita: dire che lo aspettavamo da prima della nascita mi risultava difficile. Elkann si sofferma sulla quantità di arte, altissima, che circondava l'evento. E' vero, era una cornice grandiosa. Ma se l'incontro fosse consistito in quella musica e quella pittura, pochi di noi ci sarebbero andati. Siamo andati per sentire il discorso. Dopo 45 anni, un Papa parlava di arte agli artisti: l'evento stava qui. Per me come per tutti, visto che tutti gli articoli parlano solo del discorso. Un discorso alto e complesso, ma anche rischioso. Non tutto mi lascia tranquillo. Sul Giudizio Universale di Michelangelo chiedo a Elkann di comprendermi: nessun artista cattolico lo può contemplare con libera gioia, come fa Elkann, per una ragione grave, anche ai fini del tema che il Papa trattava: su quell’opera di Michelangelo la Chiesa cattolica sbagliò. Quando Michelangelo aprì le porte e invitò il Papa e i cardinali a venire a vedere il lavoro finito, nel Papa e nei cardinali si diffuse la costernazione. Un cardinale sussurrò: «Un inutile sfoggio di sapienza anatomica», e un altro: «Non è una sala papale, è una sala termale».

Ogni volta che vedo la Cappella Sistina questo giudizio mi affiora nel cervello, doloroso e insopprimibile. Il rapporto della Chiesa con gli artisti, fino a Fellini, fino a Pasolini, a Testori, a Tondelli, è un problemaccio. Sul discorso del Papa, e sui problemi arte-morale, mi sarebbe piaciuto restare un giorno di più, e parlarne tra di noi ospiti. Se il Papa, come ha annunciato con quell'«Arrivederci», ripeterà l'incontro, ci terrei a che questo avvenisse. Tra noi chi? Ho detto: di area cristiana. Fin dove arriva l'area cristiana? Fin là dove la parola del Papa trova attenzione. Lo ha detto il Papa stesso. Fra tutti coloro che se il Papa chiama e li invita a venire, gli riconoscono autorità e vengono. Elkann è tra i primi.

Ma i maggiori scrittori d'Israele, Yehoshua, Oz e Grossman, han rifiutato in blocco. Hanno ritenuto che il tema o l’oratore non meritassero ascolto? Con pieno diritto, se è così.
Elkann glissa sul fatto, come se non importasse. A me ha dato delusione e dispiacere.

Ma non facciamone una guerra di religione. Ci è stato detto: «Arrivederci», rispondiamo: «A presto».

da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:46:17 pm »

29/1/2010

L'Italia rassegnata
   
FERDINANDO CAMON

Ho ospite in casa un amico straniero, un francese. Passiamo giornate e serate insieme. E guardiamo la tv. Il suo sguardo ha cambiato il mio.

Lui, straniero, guarda con eccitazione notizie delle quali io, italiano, neanche m'accorgo. A Favara è crollata una casa, due bambine sono morte, carabinieri e magistrati si son riuniti per vedere se c'è qualche problema: il crollo è colposo? è colpevole? ci sono case nuove non assegnate? perché? ci sono responsabilità? Ieri sera trapelava che non c'era nessun indagato. Perché? Bisogna vedere a chi spettava la sicurezza a suo tempo, a chi il controllo degli edifici, a chi l'assegnazione degli alloggi. Per me, italiano, è tutto normale. È stato così nel passato, lo è nel presente, lo sarà nel futuro. Non ho mai pensato di lasciare ai miei figli un'Italia senza mafia, senza camorra e senza 'ndrangheta. Mafia, camorra e 'ndrangheta qui sono e qui resteranno. Edilizia e mancati controlli formano un binomio fisso. Morte di inquilini e nessun indagato è la prassi. Sud e disgrazie vanno insieme. Dal Sud diranno: come Nord ed evasione. Ma certo, hanno ragione. Ma l'amico straniero mi fa mille domande: se una casa è legalmente abitata e crolla, invece di cercare se ci sono dei colpevoli, non bisognerebbe cercare chi sono? Gli edifici hanno un costruttore: costui non resta agli atti? Gli edifici sono stati collaudati? Il collaudatore risulta agli atti? Provo a dirgli: ma a Perugia i collaudi non si trovavano… Lui osserva: un documento che non si trova, o non c'è o è nascosto. Fa un ragionamento elementare, che sta al terremoto di Perugia come i pareri di Perpetua al problema di don Abbondio. E cioè: per fare un edificio pubblico si bandisce una gara, affidata la costruzione non si permettono varianti, stabiliti i tempi non si ammettono ritardi, finiti i lavori si passa al collaudo, e il collaudatore non deve spartire interessi col costruttore. Sono cinque punti. Ne è stato infranto qualcuno a Perugia? Il sospetto è: tre, quattro, a volte tutti. Più uno: anche i tempi della ricostruzione urgente sono stati scavalcati.

Il tg procede, va sulle case abusive di Ischia. Arriva la squadra dello sfratto, e si scatena l'inferno: non solo la famigliola insediata nella prima casupola da buttar già, ma altre trecento persone organizzano barricate: pietre, bottiglie, spranghe, bastoni. Il vicequestore finisce al pronto soccorso. Domanda: ma è una sola casa abusiva? No, seicento. Costruite in una notte? No, da tempo. Mesi? No, dieci anni. Prima che faccia un'altra domanda, lo precedo: in tante città ci sono case abusive vecchie di mezzo secolo. E non solo al Sud. Risultano al catasto? No. Risultano alle foto aeree? Sì. E perché non sono censite? Non lo so. Pagano l'Ici? Mai pagata. Noi italiani non vediamo queste illegalità, perché non sono rare, sono normali. Ognuno di noi ha una quindicina di amici, va al cinema con loro, con loro in pizzeria. Sa benissimo quanti e quanto evadono. Se una famiglia ha quattro case, son quattro prime case, intestate a padre, madre, figlio, figlia. Applicano una morale condivisa da gran parte degli italiani: lo Stato non mi riguarda, io ho soltanto la mia famiglia, sono onesto se faccio l'interesse della mia famiglia. Se un padre ha dei problemi con le tasse, la famiglia lo ama di più. Tutti son convinti che mafia, camorra e 'ndrangheta non verranno mai distrutte, perché chi dovrebbe distruggerle spartisce i loro interessi. Se cambi governo, il nuovo governo subentra al precedente anche negli interessi. Siamo rassegnati. Ad Haiti son cadute le case dei poveri, perché eran fatte male, le case dei ricchi sono ancora in piedi. Noi italiani lo abbiamo capito in due giorni. Qui in Italia abbiamo lo stesso problema da mezzo secolo, ma la rassegnazione ci rende ciechi.

fercamon@alice.it
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 03, 2010, 09:29:13 am »

3/2/2010

Perché la gente ruba i bambini
   
FERDINANDO CAMON

Non c’è solo il caso dei dieci americani arrestati perché avrebbero cercato di far uscire di nascosto da Haiti trentatré bambini, ci sono numerosi altri episodi di piccoli haitiani portati via senza autorizzazione. L’Istituto per il Benessere Sociale di Haiti è diretto da una donna, ed è questa direttrice a lanciare l’allarme. Portare via senza autorizzazione vuol dire rubare. Dunque ad Haiti si rubano bambini.

C’è chi li ruba, c’è chi li vende, c’è chi li compra. Lasciamo stare l’atroce sospetto che chi li compra voglia costruirsi una riserva di organi per i trapianti. Sarebbe cannibalismo. Stiamo all’ipotesi più dolce e più probabile, che chi li compra voglia farne dei figli: ci sono in tutto il mondo coppie che non hanno bambini e vogliono averne, e sono pronte a pagare. Non è il denaro che gli manca, sono i figli. La mancanza di figli rende inutile il denaro. I figli sono il senso della vita. Perciò sono anche la salvezza del matrimonio: matrimoni in crisi perché sterili vengono rivitalizzati dall’entrata di bambini, che trasforma la coppia in famiglia. Si dice spesso «famiglia composta di due coniugi» (alle volte si dice anche «famiglia con un solo componente»), ma in realtà la famiglia è completa quando ci sono i figli. Fino a ieri dicevamo: almeno uno. Da un po’ di tempo abbiamo corretto: almeno due. L’Italia s’è rimessa a far figli. Chi ha figli impara che la famiglia con un figlio è una piccola dittatura: il piccolo comanda su tutti. È quando si hanno due figli che in famiglia s’introduce la democrazia: nasce la spartizione, il confronto. Le madri sanno che l’ideale sarebbe avere un maschio e una femmina. Per la stessa ragione gli insegnanti sanno che è meglio avere una classe mista invece che di soli maschi o sole femmine.

La classe mista rende di più. È meno aggressiva e meno isterica. È una cellula in cui si ripete la composizione della società. Se però la famigliola o la classe deve per forza avere solo figli maschi o solo femmine, allora i pareri, su quale combinazione sia migliore, divergono: io ho due figli maschi, accanto a me abita una signora che ha due figlie femmine, ogni volta che m’incontra ripete: «Il Signore è stato buono con me, sapeva che con due figli maschi sarei morta». Questo può avere una certa importanza sul mercato dei bambini: le bambine sono molto richieste, come completamento di una coppia in crisi funzionano meglio. Nei film hollywoodiani sulle coppie in crisi è più spesso la presenza di una figlia a rendere distruttiva la crisi. Perciò non credo che nella corsa al furto di bambini haitiani ci sia una preferenza: si ruba quel che si trova, tutto è buono. La coppia senza figli che compra un figlio compra l'immortalità. La crisi che (non sempre, ma spesso) s’insinua nelle coppie senza figli è il sentimento della mortalità: non vivi oltre la morte, al termine di tutto il lavoro la carriera i debiti le malattie c’è il vuoto, tutto precipita lì. La cultura popolare ha creato un proverbio che riassume tutto: «I figli aumentano le preoccupazioni, ma alleviano la morte». Fino a ieri pensavamo che questo vale se i figli sono tuoi, se li hai fatti tu. Se li rubi non sono tuoi, non sono te. Oggi ci accorgiamo che neanche i figli nostri sono la nostra reincarnazione: non imparano da noi, imparano dagli amici, reali o virtuali. Perciò un bambino introdotto in casa può riuscire figlio come un bambino nato in casa, basta che tu lo ami. Resta però il furto: è un reato, tu non vivi con un figlio, ma con un corpo del reato.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 01, 2010, 01:21:33 pm »

1/3/2010

Gli scandali uccidono il senso dello Stato

FERDINANDO CAMON

E’interessante sentire la lettura che il popolo fa del maxi-scandalo del riciclaggio: basta ascoltare i clienti dei bar. Non sanno niente di caroselli, elezioni all’estero, voti per posta. Ma nel bar ci sono 4-5 giornali, e le prime 3-4 pagine hanno le stesse frasi, le stesse foto, gli stessi titoli. Io porto la mia mazzetta, e la lascio circolare. Quando mi riportano un giornale, lo confesso, li interrogo. I clienti commentano con sarcasmo. Non so quanti milioni di italiani entrino in un giorno nei bar, ma sono milioni di italiani nei quali s’infiltra il sospetto che lo Stato non solo non stia vincendo la guerra contro la criminalità, ma non la stia nemmeno combattendo.

Vedono un politico che dichiara: «Mai conosciuta la ‘ndrangheta», e accanto c’è la foto di lui con un boss. La gente sghignazza. È un autosghignazzo: l’italiano da bar disprezza il corrotto ma compatisce se stesso, la propria impotenza. Noi non possiamo farci niente, chi può farci qualcosa è lo Stato, ma lo Stato sta dall’altra parte. Siamo traditi. Il maxiscandalo è per la gente un tradimento dello Stato.

Un titoletto dice: «Riciclatore prima che senatore». Il messaggio è chiaro: è un senatore perché era un riciclatore. Vuoi far politica?
Sii disonesto. Carriera e disonestà sono sinonimi.

Il riciclaggio ammonta a due miliardi di euro, ma i clienti traducono: quattromila miliardi di lire. Così fa più impressione.
Il confronto è sempre col proprio stipendietto, sopra o sotto i mille euro. Io, sbarcare il lunario. Loro sbarcano sulla luna.

Nelle intercettazioni il supposto corrotto «si vanta di aver affittato ufficiali e militari della Finanza», per fare «affari tranquilli».
La parola che rode il cervello è «affittato». Questo «affitta» finanzieri. La Finanza è un’auto a noleggio. Servitori dello Stato in vendita. Allora lo Stato t’imbroglia: Legge, Giustizia, Politica sono gli strumenti con i quali frega te e i tuoi figli. In conclusione: pagare le tasse? «Conti correnti su decine e decine di banche»: tu ne hai uno solo, ne avevi due ma li hai unificati perché ognuno costa 5 euro al mese. Con 5 euro ti paghi 5 caffè. Le banche non sono di tutti i clienti, sono di questi clienti qua. Puoi fidarti delle banche?

La ‘ndrangheta raccoglie voti nelle case dei poveracci emigrati in Germania, e l'inviato dice che quelle case gli fanno «schifo». I voti no. Il votato da quei voti dovrebbe far gl’interessi di quei votanti. Ma come può, se gli fanno schifo? Avrà pure il diritto di non vomitare.

«L’ambasciatore si adoperava a procurargli falsi documenti»: se sei all’estero e hai bisogno di una pratica, vai alla tua ambasciata e ti senti un pezzente alla corte del re: rompi le scatole. Questo chiede documenti falsi e l’ambasciatore muove le chiappe.
Sono ambasciate d’Italia o della mafia?

Stravotato all’estero, in Italia è «un perfetto sconosciuto». Ma tanti voti non significano tanta popolarità? Noo? Significano tanta mafia? «Ascoltami testa di c…, tu puoi anche diventare presidente della Repubblica ma resti il mio schiavo»: il cliente del bar legge la frase ad alta voce. Un boss parla a un senatore: il parlamentare fa le leggi ma è schiavo. Quindi fa le leggi per il suo padrone. La ‘ndrangheta.

La ‘ndrangheta: una sera sì e l’altra pure, sentiamo ai tg i tremendi colpi inferti alla mafia: pare sgretolata. E tu ci credi?
Non è che invece si moltiplica? Domani ti suonano il campanello e ti chiedono il pizzo.

«Ascolta amico, il Fioravanti e la Mambro li ho tirati fuori io, li ho aiutati economicamente», ma non erano ergastolani? Non diciamo sempre: «Sbatterli in galera e buttar via la chiave?». Invece questi la chiave se la mettono in tasca, e la tirano fuori quando vogliono.

Cos’è che tagliano a fette, al bar, ogni mattina, le lingue del popolo? Il Pdl? La Politica? La Giustizia? Di più: con questi scandali si uccide nel popolo il senso dello Stato.

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« Risposta #23 inserito:: Marzo 04, 2010, 11:15:04 am »

4/3/2010

In corteo con i capelli bianchi
   
FERDINANDO CAMON

Ci sono foto tali che ne basta una sola per simboleggiare un intero evento: la vedi, e ti ricordi tutto. La strage di Bologna, il terremoto dell’Aquila.

E poi il napalm in Vietnam, la guerra di Spagna. Queste foto che arrivano dalla Grecia resteranno il simbolo della crisi: la crisi che morde la cellula interna della società, la famiglia, e dentro la famiglia addenta l’elemento più debole, il vecchio, il nonno. Una sola di queste foto vale come tante prime pagine di quotidiani: ecco cosa fa la crisi, taglia le pensioni, costringe gli anziani, che già gravano sulle famiglie, a gravare ancora di più, a diventare un peso morto. Gli anziani hanno un sussulto di dignità e protestano. E come protestano? Non scagliano bombe, non tirano sassi, non lanciano bottiglie molotov. Con ogni probabilità, non sanno nemmeno fabbricarsele. No, semplicemente manifestano per le strade.

Ovviamente, la loro è una sfilata contro lo Stato. E lo Stato risponde con la forza: poliziotti in gran numero, con stivali elmi scudi e manganelli, schierati a sbarrare il passaggio, e a ributtare indietro la schiera dei vecchietti tumultuanti. I vecchietti hanno i capelli bianchi, quelli che hanno i baffi hanno baffi bianchi. I poliziotti oppongono divise verde-scuro, stivali neri, scudi opachi. È la guerra della canizie sdentata contro i ventenni in armi. Un vecchietto è arrabbiato, lo si vede dalla bocca, ma non è una bocca feroce, è una bocca imbronciata. Sta urtando un poliziotto con ambedue le mani, ma è debole, da dietro qualche amico lo sorregge. C’è uno che urla, in questo marasma, ha la bocca spalancata, il suo grido deve suonare osceno e disturbante nella strada: ma non è un vecchietto, è un poliziotto. Un vecchietto avanza con un cartello sul petto, è un vecchietto-sandwich. Davanti a lui i poliziotti formano uno sbarramento senza buchi, tengono i piedi in posizione anti-urto, uno avanti e l’altro dietro. Se il vecchietto è un sandwich, quelli se lo mangiano. Non spaventano, queste foto, non sono terribili. Però fanno tristezza. Mostrano la crisi al suo apice, e fan capire che la crisi scatena una guerra generazionale: la generazione più debole, quella dei vecchi, è la prima a pagare. Quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, Kusturica girò un film un cui mostrava i fratelli che sparavano ai fratelli. Ho visto il film in Francia e c’era una strofa che diceva: une guerre - n’est pas une guerre - jusque le frère - n’agresse le frère (una guerra non è una guerra finché il fratello non aggredisce il fratello). La guerra è guerra se spacca le famiglie. Adesso facciamo i conti con la crisi, e queste foto vengono a spiegarci cos’è: la crisi è crisi se spacca le generazioni, se i nipoti aggrediscono i nonni.

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« Risposta #24 inserito:: Aprile 15, 2010, 09:45:51 am »

15/4/2010

Cattolici la tentazione dello scisma

FERDINANDO CAMON


C’è qualcosa di smodato e d’incontrollato nella marea di accuse che si scaricano sul Papa. Si ha l’impressione che non tutte siano motivate dagli episodi di pedofilia di alcuni preti.

Tra i nemici che la Chiesa Cattolica annovera in questo momento, molti sarebbero suoi nemici anche in assenza di queste notizie di pedofilia. Questo Papa incarna l’ortodossia della cattolicità al massimo grado: basta leggere la «Dominus Jesus». La «Dominus Jesus» è stata riassunta dalla stampa con una formula sbrigativa, perciò imperfetta, ma che ha moltiplicato l’avversione dei non-cattolici verso il Cattolicesimo. La formula era: «Tutta la verità è nella Cattolicità». Sostituiamola come vogliamo, però quel testo di Ratzinger esprimeva l’orgoglio del cattolico, la disposizione al dialogo salvando la premessa che compito del dialogo è l’opera di convinzione dell’altro. Da lì (e non dalla pedofilia) è partito l’inasprimento dell’ostilità da parte di cristiani-non cattolici, fedeli di altre religioni, atei e non credenti. Perfino da quei cattolici che compongono il lento ma inarrestabile «scisma silenzioso». Che senso ha dichiarare alla stampa, in questo momento, da parte di un rappresentante degli ebrei: «Adesso la Chiesa Cattolica dichiari che rinuncia alla nostra conversione»? E perché dovrebbe? I casi di pedofilia nel clero cattolico sono forse una smentita della dottrina cattolica? Aprono un buco nella credibilità dei testi cattolici? Inabilitano la Chiesa Cattolica a predicare la sua verità e la sua morale?

Fermiamoci sulla sua morale, perché l’ostilità del mondo nasce da qui. In quella morale ci sono valori che la Chiesa definisce «non negoziabili», e sono quelli che tante parti della società vorrebbero non solo negoziare ma cancellare: le chiusure verso l’aborto, il matrimonio omosessuale, l’eutanasia... Le battaglie combattute pro o contro questi valori, quando la cronaca li sbatteva sulle prime pagine dei giornali, sono battaglie immortali, non arriveranno mai né a una pace né a un armistizio. La guerra mai sopita riesplode violenta appena una parte vede che la parte avversa è in difficoltà. A vedere che la Chiesa Cattolica è in difficoltà sono, in questo momento, tutti coloro che hanno combattuto quelle battaglie contro di lei. In una certa parte delle accuse di oggi, in Italia e nel mondo, contro papa Ratzinger si sente la spinta a combattere contro la sua dottrina, molto più che a difendere le vittime della pedofilia.

I nemici di Papa Ratzinger non tengono conto che è il Papa eletto in una elezione in cui tutti gli elettori lo conoscevano a fondo (cosa rara, nei conclavi); che nei casi di pedofilia discussi in Vaticano alla sua presenza ha avuto il ruolo del più strenuo oppositore dei pedofili, anche quando avevano grande potere economico come il fondatore dei Legionari di Cristo; che si dichiara pronto a incontrare le vittime personalmente, anche se questa non è (se non nelle accuse dei suoi nemici) una sua colpa personale; e che in un tempo breve (che diventa fulmineo se pensiamo ai secoli con cui ragiona la Chiesa) ha inasprito la legislazione vaticana contro la pedofilia, portandola a una durezza che scavalca la legislazione di molti Stati, anche per quanto riguarda la prescrizione. I casi di pedofilia nel clero sono intollerabili. Infatti questo Papa non li tollera. Doveva fare molto per impedirli. Sta facendo il massimo. A questo punto, chi lo avversa non avversa lui ma la Chiesa. E non c’è niente che lui possa fare per placare questa avversione. Non è giunto il momento che anche in Italia, come succede in altre parti del mondo, gli scrittori e intellettuali che lo apprezzano per quel che dice, che scrive e che fa, glielo dichiarino pubblicamente in un appello?

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« Risposta #25 inserito:: Maggio 30, 2010, 05:32:58 pm »

30/5/2010 - ETICA

Bisogna dire al verità ai malati?

FERDINANDO CAMON

E’ giusto che il medico curante dica, al paziente inguaribile e ai suoi parenti stretti, che morirà entro pochi mesi?
Il primario che m’ha sbattuto in faccia questa sgradevole verità mi ha spiegato: siamo obbligati per legge a dire la verità, se il paziente ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, perché se gli diciamo un’altra verità e lui viene a sapere la verità vera, può rivalersi su di noi per l’inganno.

Se un medico dice che questa è la nuova etica dei medici devo credergli. Tuttavia, dire la verità e dirla con termini netti, spietati, senza scampo, sarà deontologico ma non è umano.
Un mese fa una mia parente vien ricoverata per leucemia. Buon trattamento, buona sistemazione, e, ritengo, buone cure. Vado a parlare col primario. Prime sorprese: in portineria mi fermano, non è che dopo di me qualcun altro vorrà sapere? Io sono il fratello del marito, può darsi che anche il marito venga a informarsi. Ma non posso informarlo io? Va bene, lo informerò io, ditemi. Mandano a chiamare il primario. Molto preparato, eccellente medico. Mi domanda se la paziente è contenta che io venga a sapere. Dico: la paziente è qui, può domandarglielo. Ma io voglio sapere la diagnosi o la prognosi? Tutt’e due, soprattutto la prognosi, se la parente guarirà e tornerà a casa. Sta dritto davanti a me, a un metro di distanza. La sua comunicazione è la seguente: «Certamente», pausa, «questa malattia», lunga pausa prima della parola seguente, «ucciderà», pausa, «la signora», ultima pausa, «nel giro di pochi mesi». Mi guarda. Lo guardo, e lo vedo oscillare nel senso destra-sinistra. Sta svenendo, penso, quel che dice gli pesa. Ma sono io che oscillo, quel che sento mi pesa.

Lui è un medico, io uno scrittore. Come scrittore, peso le sue parole. Le più pesanti sono due: «certamente» e «ucciderà». Il «certamente» non lascia nessuno spazio né al dubbio né alla speranza: è così e basta. «Ucciderà» è un verbo attivo (molto diverso da «morirà»), qualcuno o qualcosa sta uccidendo qualcun altro. La frase «questa malattia ucciderà la signora» descrive il paziente come un condannato alla fucilazione appoggiato al muro, qualcuno sta per sparargli, nella scena non c’è nessun altro che si opponga. Né medico né scienza, niente. Il mio istinto è il rifiuto: «Ma scusi, verrà anche il marito, glielo dirà negli stessi termini?», «Siamo tenuti per legge a dire la verità, non possiamo lasciare confusione», «E se lo chiede la paziente?», «Se la signora vuol sapere, dobbiamo dirle tutto». Mi lascia. Fra poco metteranno nell’atrio un robot, tu digiti la domanda, e da una feritoia del monitor ritiri la risposta.

Ora il problema è mio, chiamo sul cellulare il marito e cerco di dire le stesse cose che m’ha detto il medico ma cerco altre parole: «È una malattia contro cui la medicina non può fare niente, ma i medici qui faranno di tutto». Lui capisce che è una lotta tra medici e malattia, e dice che si potrebbero trovare altre possibilità cercando altri medici, forse al San Raffaele… Gli spiego che non è un limite dei medici ma della scienza. Capisce, ma tuttavia vuol cambiare ospedale. Nel nuovo ospedale la chemio ha un’efficacia imprevista, i globuli bianchi scendono precipitosamente, parlo col nuovo primario: «Com’è la situazione?», «Ottima». Mi aggrappo alla loro deontologia che impone la verità, se la verità è ottima forse c’è qualche possibilità: «Scusi, previsioni?», «Pessime», «Speranze?», «Nessuna». Chiamo sul cellulare il medico di base: «Ma lei per una settimana diceva che si può fare questo e si può fare quello, negli ospedali dicono che non si può fare niente», «Loro parlano secondo la legge, io mi rifiuto di rassegnarmi». È durata un mese. Un giorno prima della fine la signora ebbe un sospetto, chiese spiegazioni, le dissero la verità. La notte dopo si spense. Se le avessero detto la verità un mese prima, nei termini in cui l’han detta a me, si sarebbe spenta un mese prima. Forse è vero che «questa malattia uccide il paziente nel giro di pochi mesi», ma se la nuova etica dei medici è questa (dire tutto subito, in forma chiara anche se brutale), da profano temo che questa etica uccida il malato nel giro di pochi giorni.

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« Risposta #26 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:46:03 am »

22/6/2010

L' Alfa Romeo mi ha salvato la vita
   
FERDINANDO CAMON


Compro e guido solo Alfa Romeo da quarant’anni, e da quarant’anni non ho un incidente. Sarebbe ora che il Lloyd Adriatico, ora Allianz, mi desse il Volante d’Oro. Sui quarant’anni senza incidenti ho un dubbio: merito mio o merito dell’Alfa?

I pregi dell’Alfa sono stabilità, velocità, frenata. Il mio traduttore francese Yves Hersant, docente all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, compra Alfa Romeo «parce qu’elle tient bien la route». Il garage accanto al mio è dell’architetto De Simone (intervistato da «Panorama» come possibile costruttore di un bunker per Saddam), che usa sempre Alfa Sprint. Una sera lo incontro che ha appena parcheggiato l’auto, la guarda ed esclama: «Ti perdona l’errore». Pioveva, probabilmente aveva sbagliato una curva, ma l’auto l’aveva corretto. La mia Alfa di adesso è una 159, segue a una 156 sedici valvole, trasportando un’amica le ho chiesto: «Le senti le sedici valvole?», e lei: «Tutte, una per una».

Mentiva. Perché è incompetente. In realtà il motore Alfa si sente, e la linea Alfa si vede. Anche troppo. La 156 per presentarsi con le fiancate filanti ha abolito le maniglie posteriori, mimetizzandole in false prese d’aria. Nella mia città c’è una Scuola Italiana Design diretta da Massimo Malaguti, che proprio per questa mimetizzazione delle maniglie assegnò alla 156 il premio di auto più bella dell’anno. È bellissima, infatti. Ma alla stazione c’è un tassista con la 156, e disperato perché nessun cliente riesce mai a vedere la porta, ha incollato sulla fiancata una freccia rossa con scritto: «Maniglia». I punti più lontani che ho raggiunto con questa Alfa sono Berlino, Istanbul, Lisbona, Amsterdam. Mosca no, per Mosca prendo l’aereo.

I pericoli mortali sono stati, in 3-4 anni, una decina. Mi son sempre salvato. Sto in regola, quando guido non bevo alcol, ma la stabilità della vettura gioca il suo ruolo. Adesso la cambio. Prendo un’altra Alfa. Perché voglio vivere ancora.

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« Risposta #27 inserito:: Settembre 06, 2010, 06:04:14 pm »

6/9/2010

La tragedia che non conta
   
FERDINANDO CAMON

Giornata tristissima per lo sport: a Misano durante il GP della Moto2, un pilota giapponese di 19 anni correva a 240 all’ora, la sua moto s’è intraversata, lui è balzato in aria, e quand’è caduto i due piloti che lo inseguivano gli sono finiti addosso e l’hanno travolto.

Ferite multiple, elicottero fino all’ospedale più vicino, Cesena, da qui all’ospedale meglio attrezzato della zona, Riccione. Si temeva l’arresto cardiaco, e infatti il cuore s’è arrestato. Ma non stanno qui gli apici della tragedia. Non è per questo che ne parliamo. Alla tragedia sportiva, sempre possibile nelle gare dove per vincere bisogna oltrepassare i limiti di sicurezza, si aggiungono altre tragedie, che vorrei dire morali. Dopo la visione atrocemente spettacolare del multiplo incidente, con tre moto e tre piloti coinvolti, la gara è proseguita come se non fosse successo niente. Dunque quella tragedia «era» un niente. Per molti minuti il pilota-ragazzino è rimasto sospeso tra la vita e la morte, nel circuito le autorità sapevano tutto, ma nessuno ha pensato che quel tutto valesse qualcosa.

Si trattava di una gara della Moto2, le gare che precedono la MotoGp sono sentite da tutti, organizzatori e spettatori, come una introduzione di scarsa importanza alla vera gara che riempie la giornata, la MotoGp. Qui, in MotoGp, corrono gli assi mondiali del motociclismo, così veloci che sembrano volare rasoterra. Il problema era: si poteva perdere tempo per la morte di un ragazzino, si poteva ritardare la partenza dell’unico vero grande spettacolo sportivo della domenica, il MotoGp? La riposta è stata: no. Non si dica: ma non sapevano ancora che il giovane pilota sarebbe morto, potevano pensare a ferite rimarginabili, concludere la gara di Gp col giovane pilota giapponese fuori pericolo era un bene per tutti, ritardare la gara non serviva a nessuno.

Errore. Non è un ragionamento lecito. Perché la cronaca del Gp è proseguita in costante collegamento con la clinica dove il 19enne giapponese stava morendo, la notizia della sua morte è arrivata in diretta a tutti nel circuito (e a tutti noi, nelle case del mondo), e il coro dei cronisti è stato: «Non c’è niente da dire», «Non c’è niente da fare». E così tutto proseguiva come se niente fosse. Ma neanche questo è il vero acme dell’insensatezza di questa tragedia in diretta: perché quando la gara è finita, e i grandi campioni sfilavano uno alla volta davanti alle telecamere, strizzati nelle tute multicolori, tutti venivano informati, e tutti reagivano con: «Così è lo sport», «Non si poteva fermare la gara», «Sappiamo che la logica è questa» (quest’ultima risposta è del grande Valentino Rossi, il più amato dagli italiani). Sono parole di scarsa sensibilità? Provengono da un fondo morale dove mancano i valori? Ma no. I valori ci sono, e sono enormi. Valgono più della vita. Più della vita di tutti. Perché i grandi campioni che parlano così mettono in conto non solo che la vita dei concorrenti può essere stroncata di colpo, ma anche la propria: partono, e non sanno se arrivano. Se accettano che la loro vita finisca così, accettano anche che la gara non s’interrompa, che il palinsesto delle tv non venga modificato neanche di un minuto.

Nei siti dei giornali, ieri, la tragedia ovviamente c’era, con tanto di filmato, ma prima e dopo c’erano l’ordine d’arrivo e la classifica mondiale, e queste notizie valgono più di quella. Chi vince resta, chi muore svanisce. Oggi tutti parlano della tragedia. Alla prossima gara non ne parlerà nessuno. E la prossima gara non avrà tanti spettatori come ieri, ma di più. Se lo spettacolo che vediamo conta più della vita, non possiamo perderlo.

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« Risposta #28 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:38:56 am »

29/9/2010

Addormentarsi italiani e svegliarsi ratti
   
FERDINANDO CAMON

Un personaggio di Kafka, destandosi una mattina, si trovò tramutato in scarafaggio: «Che cosa m’è accaduto?», si domandò terrorizzato. Il terrore non lo molla più. Noi, lettori occidentali, pensavamo che il grande scrittore praghese, ebreo, intuisse e rappresentasse gli incubi delle minoranze oppresse: essere declassati da uomini ad animali. Ma pensavamo tutto questo sforzando il cervello, per intuire una condizione che non sarà mai nostra: noi siamo occidentali, siamo europei, siamo cristiani, le condizioni a-umane o sub-umane non possono toccarci, sarebbe una contraddizione della storia, e noi siamo autori di storia, padroni della storia. Noi italiani, poi, siamo il centro della cristianità, il cuore dell’arte e della genialità. Mai saremo visti, dai fratelli europei, come animali repellenti o feroci. Non siamo lupi. Non siamo scimmie.

Ed ecco, dalla civilissima Svizzera, e dalla parte più italiana della Svizzera, il Canton Ticino, esce uno spot pubblicitario che ci raffigura come topi, anzi toponi. I toponi sono topi grassi. Perché mangiano molto formaggio. Svizzero. Non lo fanno, ma lo mangiano. Entrano in casa e sbafano tutto. Peggio che ladri, sono ladri e rapinatori e parassiti insieme. La didascalia dice: «I ratti invadono la Svizzera italiana», ma il messaggio è: «I ratti italiani invadono la Svizzera». Perché non ci siano dubbi sull’identificazione uomini-topi, i topi, tre, hanno dei nomi. Uno si chiama Fabrizio, vive a Verbania ma va a lavorare in Ticino. Il secondo si chiama Bogdan, è romeno, non ha né casa né lavoro: come uomo, un sotto-uomo, come topo, un sotto-topo. Il terzo si chiama Giulio, e fa l’avvocato. Un Giulio che fa l’avvocato è Tremonti, e Tremonti è descritto poco dopo come citrullo, disonesto, dannoso ai suoi concittadini, sabotatore delle oneste e professionali banche svizzere. Perché, introducendo lo scudo fiscale, richiama dalla Svizzera i capitali illecitamente esportati. Dei tre tipi che incarnano la malaumanità europea, noi italiani siamo presenti in due. La società svizzera-ticinese è laboriosa, risparmia e accumula (il formaggio è lì pronto, una forma enorme), «guadagna bene» (lo dice il testo, con legittimo vanto), insomma rappresenta il benessere capitalistico, e chi sta bene Dio è con lui. Noi italiani siamo il male, e facciamo il male. Non noi napoletani o noi siciliani, insomma noi italiani del Sud, facilmente e ingiustamente disprezzati dal Nord: ma noi italiani del Nord, anzi del Nord del Nord, noi frontalieri della Svizzera. Noi rubiamo il lavoro. Ci facciamo pagare con una cicca, e così eliminiamo ogni concorrenza. I lavoratori svizzeri sono troppo umani e dignitosi, non si fanno pagare da straccioni. E poi hanno una moneta buona, solida, stabile. Non hanno l’euro, ballerino e spregiato. Noi italiani del Nord, sottolavoratori della zona euro, siamo accecati dal salario decente e dal franco.

Ma queste non sono esattamente le accuse che noi, italiani del Nord, rivolgiamo agli europei dell’Est e agli africani del Nord? Vengono da aree dove il lavoro è zero, hanno monete rifiutate dalle nostre banche, qui fanno i sottolavori sporchi o malsani o rischiosi che noi scartiamo, si accontentano delle sottopaghe che noi sdegniamo, qui vivono la loro miserabile sottovita, e noi li accusiamo di rubarci i posti (se non ci fossero loro, li occuperemmo noi), entrare nelle case sfitte, e ripagarci stuprando le nostre donne, rubando nelle nostre case, e riempiendo le nostre prigioni. Non diciamo «siete topi», ma gli incendiamo gli insediamenti, per farli scappare. Come gli svizzeri con noi. Gli italiani ai confini della Svizzera sono ratti, dicono, «e noi vogliamo derattizzare». Testuale. È un calcio in pancia che ci sveglia di soprassalto. Apriamo gli occhi, e ci troviamo trasformati in topi.

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« Risposta #29 inserito:: Novembre 10, 2010, 03:46:37 pm »

10/11/2010

La rabbia dei veneti

FERDINANDO CAMON

Le zone sommerse del Veneto sono tante, nelle province di Padova, Verona e Treviso l’acqua è arrivata a due metri sopra il pavimento di case, fattorie, aziende, fabbriche. Le persone evacuate sono più di tremila, intorno agli allevamenti gli animali morti galleggiano a migliaia: ma è stato così fin da subito, quando i fiumi han rotto gli argini, il giorno di Ognissanti, e allora come mai la nazione lo scopre con enorme ritardo?

Come mai Bertolaso è venuto il 7 novembre, e Berlusconi e Bossi il 9? È questo che offende e fa arrabbiare i veneti. È di questo che s’è lamentato il governatore Luca Zaia. Leggevamo i grandi giornali nazionali e sull’alluvione non trovavamo che qualche brandello di cronaca, sepolto nelle pagine interne. Guardavamo i tg e vedevamo sempre la saga di Sarah e quella di Ruby, e sulla catastrofe che faceva scappare migliaia di famiglie solo qualche cenno disinformato, o un oltraggioso silenzio. Noi ci aspettavamo di finire in prima pagina, o in apertura dei tg. Interessarsi a Ruby vuol dire divertirsi sull’eros dei potenti, e in fondo anche interessarsi a quale corda o cinghia ha strozzato Sarah è un atto di morboso voyeurismo, non venitemi a dire che è una forma di pietà cristiana. E allora la conclusione dei veneti era: noi moriamo, il paese gode. E allora: questo non è il nostro paese. Noi non facciamo parte dell’Italia, e l’Italia non ci sente come una sua parte. Noi veneti e gli altri italiani non abbiamo la stessa patria. La patria degli altri è l’Italia. La nostra patria è il Veneto.

Direte: ma l’Italia in questo momento non ha soldi, di fronte a una catastrofe il suo istinto è ignorarla o minimizzarla, quindi il silenzio dello Stato di fronte alla mega-alluvione del Veneto era una forma di autodifesa. Ma no, non è così. Perché le proteste del Veneto sono state due: la prima, l’Italia non ci vede, le nostre disgrazie non le interessano, noi anneghiamo e lei si volta dall’altra parte; la seconda, adesso che ha ben visto cosa c’è capitato, non vuole aiutarci, il governatore chiede un miliardo e la Protezione civile gli offre 20 milioni. Tra la prima protesta e la seconda è passata una settimana. Nei primi tre-quattro-cinque giorni il governatore Zaia non chiedeva soldi, chiedeva attenzione. E non l’ha avuta: l’ha avuta dopo, quando le proteste delle città son diventate un’altra notizia, che potenziava la notizia dell’alluvione. Il fatto che il Veneto non sia visto dalla capitale dipende da due ragioni, di cui una è colpa della capitale e l’altra è colpa del Veneto.

La prima: la capitale è miope, non vede fino alle Venezie. Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige per Roma sono una giungla inesplorata, piena di bestie feroci. La seconda: le Venezie hanno una miriade di giornali cittadini, ben fatti, dalla diffusione capillare, economicamente solidi, ma parlano alle proprie città, non parlano a Roma. Poco o per niente collegato alla nazione, il Veneto (e tutto il Nord-Est) non sente di farne parte. Si sente fuori. La nazione è un’entità che riscuote le tasse e basta. Una rapinatrice. Poiché una parte delle tasse del Veneto va alle regioni del Sud, il rapporto tra Veneto e Sud è brutto. È peggiore il rapporto con i meridionali che con gli immigrati. Perché gli immigrati non sono una voce delle tasse, sono anzi una voce produttiva. Adesso che il Veneto è in ginocchio, il brutto rapporto col Sud si fa ancora più brutto, in tutt’e due le direzioni: tutti quelli che hanno una carica, piccola o grande, nel Veneto lamentano che Roma guarda sempre al Centro e al Sud, ed è sempre pronta ad aiutarli, e dal Sud arrivano segnali di scherno.

In Facebook è nato un gruppo chiamato «Allaghiamo il Veneto pisciandoci sopra», dove qualcuno, dotato di spirito poetico, ha costruito un messaggio in rima: «Speriamo nell’uragano Katrina - che spazzi via ogni ridente cittadina». Il gruppo è stato subito cancellato. Ma l’odio resta. Una volta era folklore. Venivano i tifosi del Napoli a Verona, e lo stadio li sfotteva: «Benvenuti in Italia». Poi i veronesi scendevano a Napoli, e lo stadio apriva striscioni di un’irrisione colta: «Giulietta è ’na zoccola».

Ma si trattava di sport, adesso si tratta di una disgrazia. Se ridi sull’amico ferito che muore, non sei un amico. Se poi quello non muore, con lui hai chiuso.

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