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Autore Discussione: FERDINANDO CAMON. -  (Letto 30864 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:48:25 pm »

16/12/2010

Il senso del traditore

FERDINANDO CAMON

Mai come in questi giorni è risuonata, in tv e sui giornali, la parola «tradimento». Pare che molti nostri parlamentari siano traditori: traditore chi è passato adesso da sinistra a destra, chi è passato in precedenza da destra a sinistra, o da destra e sinistra al centro. «Tradimento» è un concetto polivalente. Fatalità, sul più diffuso quotidiano nazionale si leggeva proprio ieri la citazione di un generale tedesco, che alla fine della Seconda guerra mondiale ha dichiarato: «Non so chi vincerà la terza guerra mondiale, ma so chi la perderà: colui che si alleerà con l’Italia, perché l’Italia lo tradirà». Ecco, partirei da questo concetto: l’Italia, nella Seconda guerra mondiale, ha tradito la Germania. Contesto in toto questo giudizio. È un giudizio che va capovolto.

L’Italia è entrata in guerra (sbagliando, perché la guerra, quella guerra e tutte le guerre, sono, come qualcuno aveva pur detto, «un’inutile strage») insieme con un alleato, contro un nemico, per un traguardo. Pochi mesi dopo tutto era cambiato: alleato, nemici, traguardo. L’alleato aveva allargato a dismisura il fronte dei nemici, s’era fatto nemico tutto il mondo, anzi adesso aveva scoperto anche dei nemici interni da eliminare, i nemici di razza. La soluzione finale con la tecnica dello sterminio fu attuata nell’agosto del ’40. La guerra era diventata una guerra contro l’umanità. Tra i tedeschi c’erano intellettuali che ragionavano (la Rosa Bianca ne era una piccola espressione) sulla liceità, per un tedesco, di augurarsi la sconfitta della Germania. Pareva loro che questo fosse l’unico modo perché la Germania sopravvivesse. C’era anche Thomas Mann fra questi. Si ponevano il problema di come salvare la Germania, come ridarle il diritto di sedere tra le nazioni civili d’Europa. Traditori o salvatori? In Italia poco dopo si porrà lo stesso problema. La scelta tra Resistenza e Salò era una scelta tra due opposti: chi era fedele all’Italia e chi la tradiva? Benedetto Croce dice che nel corpo della nazione italiana, nato liberale, il fascismo s’era infiltrato come una malattia, e che la fine del fascismo fu la fine di una malattia, diciamo pure una guarigione. Non so se si possa mantenere questa metafora, perché la malattia è sempre non-voluta, arriva come una disgrazia, mentre sul fascismo c’è chi pensa che avesse un vasto consenso popolare. Ma il concetto resta: se il fascismo era una dittatura, continuare a servirlo era una prova di fedeltà? E il distacco dal fascismo era un tradimento? o era un tradimento del male, quindi una fedeltà al bene?

Anche le associazioni criminose chiedono la fedeltà e accusano chi le abbandona di tradimento. Si chiamino mafia, camorra o ’ndrangheta, o siano associazioni terroristiche e si chiamino Brigate Rosse o Prima Linea, si attribuiscono un codice etico per cui chi le abbandona è un traditore, un super-traditore, che merita il titolo di «infame». Ora, uno che entra nella mafia, e fa quel che la mafia gli ordina, sequestra, strangola e seppellisce, comportandosi da uomo d’onore, poi entra in crisi, si pente e collabora con lo Stato, certamente in una fase della vita è un traditore, ma quando? Quando lavora per la mafia o quando lavora per lo Stato? Non c’è dubbio che tradisce quando lavora per la mafia, e quando passa allo Stato smette di tradire. «Infame» è il mafioso, non il collaborante. Non merita fedeltà se non il bene, non c’è fedeltà se non al bene. La fedeltà al male è sempre un tradimento.

fercamon@alice.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8203&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 13, 2011, 11:58:47 am »

13/1/2011

Senza Belluno non è più il vero Veneto

FERDINANDO CAMON

Dunque tutta Belluno vuol passare col Trentino-Alto Adige? E il Consiglio provinciale ha detto sì? Se la secessione dal Veneto va in porto, il Veneto ne avrebbe un danno immenso. Cambierebbe tutto.

La sua immagine, la sua completezza, di regione col mare più affollato d’estate e con le montagne più belle d’inverno, il possesso del cuore delle Dolomiti, appena dichiarate dall’Unesco «patrimonio dell’umanità», la sua cultura e la sua storia, perfino la sua memoria letteraria. E perfino la sua italianità. Perché dire Trentino è un po’ come dire Alto Adige, e l’Alto Adige non è italiano. Camminavo per Brunico, a un passo dall’Austria, con una nipotina, la nipotina vede una cartaccia per terra, la raccoglie e la mette nel cassonetto, passa una bolzanina in bicicletta e la rimprovera: «Non usarlo tu, quello è mio». È suo? Qui i cassonetti son tanti, come son tanti i fiori alle finestre. La Provincia autonoma ha un «servizio fiori», che rifornisce di fiori alberghi e case. Ma può farlo perché riceve dallo Stato assai più di quel che dà allo Stato: il rapporto vien calcolato al 120 per cento. Galan sostiene che i soldi in più che lo Stato dà al bolzanino sono i soldi in meno che dà al Veneto. E cioè: sono soldi veneti. E allora: di chi è quel cassonetto?

Se dall’Alto Adige passi in Austria, vedi subito un crollo di ricchezza. Non è ricco il loro Tirolo, è ricco il nostro Sud-Tirolo. Nel Tirolo meno fiori, meno verniciature recenti, supermercati meno sontuosi, e meno affollati. Ma se dall’Alto Adige scendi a Cortina, hai la stessa impressione: corre meno denaro, i prezzi son più alti, le attrezzature più povere. Il Bellunese sta peggio di Cortina: ha montagne stupende, piste lunghe e numerose, e tuttavia ha qualcosa di povero, disadorno, abbandonato. La Val di Zoldo, con il comprensorio del Civetta, è un centro sciistico ricco di piste come in Alto Adige il Plan de Corones. Ma sul Plan de Corones ci van tutti (anche la Roma, anche l’Inter), lo Zoldano è semideserto. Sebastiano Vassalli ha scritto che lì, sotto il Pelmo, «ha visto gli dèi». Ma io sul Pelmo sono stato in vetta, che è larga come una piazza, e gli dèi non c’erano. Anche se i veneti chiamano quella vetta «el caregòn de Dio». Lo Zoldano è una zona di gelatai, sono emigrati tutti per fondare le più grandi gelaterie della Germania. Là guadagnano bene. Non tornano indietro neanche d’estate. Pietro Citati va più a Nord, intorno a San Candido, e ha scritto che gli dèi li ha visti lì. È più probabile che abbia ragione Vassalli, i monti bellunesi son più belli.

Dino Buzzati ci camminava sopra e intorno fino agli ultimi anni, e in suo nome han chiamato Dino l’orso importato dalla Slovenia (un anno fa lo davan per morto, ma adesso han scoperto che è tornato a casa, perché qui non c’eran orse). Che succede ora, se tutta quest’area abbandona il Veneto? Avremo un Veneto «senza montagne», troncato all’altezza del Trevigiano Nord? Solo pianura e mare? Anche l’Altopiano di Asiago vuole lasciare il Veneto, e per l’Altopiano passare nella regione confinante vorrebbe dire rinnegare la storia. Perché l’Italia è stata fatta qui, l’Austria è stata combattuta qui. «Uomo veneto» e «trincea» sono sinonimi. Vorrebbe dire, con un secolo di ritardo, la vittoria dell’Austria. I grandi libri sulla formazione dell’Italia, a partire da quello di Emilio Lussu, andrebbero annotati da capo, perché come li leggiamo ora non sarebbero più veri. C’è un paese sull’Altopiano (nell’elenco telefonico, il 95 per cento han lo stesso cognome), che quando ci fu l’opzione tra Mussolini e Hitler, optò per Hitler. Ancor oggi nelle trattorie cantano canzoni hitleriane, le ho sentite. Con la secessione, l’Altopiano gli darebbe ragione. Andrebbero abolite le canzoni, tipo «Bombardano Cortina - dicon che gettan fiori -, tedeschi traditori»: a Cortina stan raccogliendo firme per la doppia cittadinanza, italiana e austriaca. Queste secessioni sono un disastro economico, culturale, storico. La soluzione è un’altra: autonomia anche per il Bellunese. Anzi, meglio: tutte Regioni speciali o tutte normali.

fercamon@alice.it
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:01:28 pm »

7/4/2011

La legge della disperazione

FERDINANDO CAMON

Ora sappiamo la «verità» sull’immigrazione. Credevamo di saperla anche prima, ma era una bugia.

Finora la verità erano le migliaia di immigrati che s’accumulavano a Lampedusa, tanti da superare gli abitanti dell’isola, il loro bisogno di tutto («sono miserabili»), le loro pretese («sono intrattabili»), le loro rampicate su per le reti di recinzione, fino a scavalcarle e scappare per i campi, vanamente inseguiti dalla polizia a piedi o a cavallo, come nei film tra California e Messico.

Quella non era la verità, era un’apparenza. Perché faceva credere a noi e a tutta l’Europa che arrivasse un’umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l’istinto di tenerli alla larga. Era l’istinto di conservazione, tanto più forte quanto più alto è il benessere da conservare. Questa strage di circa duecento uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale che i nostri cervelli e i nostri nervi, intorpiditi dalla civiltà borghese nella quale siamo nati e nella quale moriremo, non ci permette più di cogliere. Ci metteremo giorni a capirla un po’, a ogni tg capiremo qualcosa di più. Non capiremo mai tutto, perché i tg evitano di spaventarci, di farci del male. E la strage fa male. Solo sapere che è avvenuta e che può ripetersi turba la nostra vita, non ci permette più di vivere come prima. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte, e attraversano la morte pur di scappare.

Se la vis a tergo fosse un miglioramento della vita, non potrebbe spingerli per giorni e notti, farli navigare senza direzione, mal guidati da qualche rudimentale strumento che fa della loro navigazione un lungo tuffo nel buio fra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, manca l’acqua, e loro si mettono a pregare, singolarmente o in coro. È la «morte lenta», che può durare anche giorni e giorni. Fino a diventare indefinibile: in qualche salvataggio si scopriva che a bordo c’era qualcuno già morto da tempo, che i vivi non avevano le forze per sollevarlo oltre la sponda. Altre volte dai racconti si poteva dedurre che qualcuno era stato buttato fuori della barca senza la certezza che fosse morto.

La strage di ieri entra invece nella «morte rapida», resa più crudele dal fatto che è avvenuta in prossimità della salvezza. Han visto arrivare nel buio, ombra nell’ombra, la nave che li soccorreva, si sono spaventati, nel panico si sono spostati in massa dentro l’imbarcazione capovolgendola. Era la salvezza, è diventata la morte. Ci sono transiti dalla vita alla morte che sono governati senza pietà. La «morte rapida» è sempre uno scontro con la natura, gli uomini usano le loro forze e la natura le sue: gli uomini perdono tutti, ma per primi perdono i più deboli, i bambini e le donne. Così qui è successo che alcuni salvati han visto morire la moglie e i figli. Dobbiamo fare ancora un altro passo, se vogliamo capire fino in fondo cos’è la migrazione: le disgrazie come questa (annegare in massa) tutti i migranti sperano che non avvengano, ma un pezzettino del loro cervello, un pezzettino inascoltato e nascosto, sa sempre che non sono impossibili. Si parte con quella spia accesa nel cervello. Con quei barconi stravecchi, tra quelle masse umane vaneggianti e inesperte, noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto l’altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza, una questione di ordine pubblico.

Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. Se uno ce la fa, salva se stesso e coloro che da lui verranno. Abbiamo visto in passato barconi sfracellarsi sugli scogli, otto-dieci fortunati scendevano, e raccontavano dei compagni morti nella traversata: ma quelli che scendevano alzavano due dita in segno di vittoria. L’Italia e l’Europa ci mettono tutta la forza delle leggi e dei trattati per impedirgli di venire qui. Ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Lo scontro è fra queste due forze. Ora lo sappiamo.

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« Risposta #33 inserito:: Giugno 10, 2011, 10:31:37 am »

10/6/2011 - IL CASO UDINE

Il gen. Cadorna non ha diritto a vie e piazze

FERDINANDO CAMON

Gli abitanti di Udine protestano: non vogliono più avere un piazzale intitolato al generale Luigi Cadorna. La commissione per la toponomastica è d’accordo, la giunta ha votato, è deciso: via il nome di Cadorna dal piazzale che sta davanti all’ex caserma dei Vigili del Fuoco. Si chiamerà Piazzale Unità d’Italia. È una tardiva, irrimandabile correzione della storia. Il generale che fu il comandante supremo dell’esercito nella prima guerra mondiale, fino a quando fu sostituito da Armando Diaz, aveva a Udine la sede del comando. Finita la guerra, con una grande vittoria (ma lui era già stato sostituito), era inevitabile che gli onori e la gloria che dovevano piovergli addosso partissero da questa città, come dire da casa sua.

Ma da allora è stato un continuo scavo degli studiosi nella sua strategia, la sua tecnica d’attacco, gli assalti a ripetizione, lungo tutto il fronte e specialmente sul vicino Altopiano di Asiago, dove esercito italiano ed esercito austriaco si fronteggiavano da pochi metri di distanza, con una successione ininterrotta di battaglie e valanghe di morti. Sono stati eventi grandiosi, perciò inobliabili. Da quella grandezza discendeva una gloria, che ricopriva anzitutto il generalissimo. Ma era una gloria funerea, ogni nostro attacco si trasformava in un suicidio collettivo. I diari e le testimonianze di quelle giornate terribili provano che i nostri soldati davano continue prove di eroismo, e i comandanti d’impreparazione: «Grandi soldati, piccoli generali». In tutte le città del Veneto e del Friuli, ma soprattutto sull’Altopiano, è un continuo fiorire di libri sulla prima guerra mondiale, ogni anno ne escono 3-4, non c’è battaglia piccola o grande che non sia stata studiata in tutti i dettagli. C’era un tale disprezzo per la vita dei soldati negli ordini di Cadorna, che i soldati sentivano anche i propri comandi come nemici da cui difendersi. Il pilastro delle testimonianze sul disprezzo per la vita dei soldati sta nel libro di Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano. Fondamentale la scena in cui un maggiore, da solo, processa e condanna a morte e fucila, uno ad uno, i propri soldati, usciti senza ordini da una caverna su cui cadeva per errore il fuoco amico della nostra artiglieria. Il maggiore viene a sua volta ucciso da un ufficiale subalterno. C’è un passo, in un libro scritto da Cadorna, in cui il generalissimo sostiene l’efficacia degli attacchi frontali a ripetizione, con la tesi che «prima o poi il nemico si stanca e spara alto». Un comandante così non merita l’onore di piazze e strade, ma la Corte Marziale. Nella follia di quegli ordini s’intravede il concetto che i soldati che vanno all’assalto moriranno, sì, ma questo sacrificio collettivo fortifica l’esercito, la monarchia e lo Stato. È l’idea del popolo come strame della storia. Cancellando il nome di Cadorna da una piazza, la città di Udine non è più disposta a ritenere che l’Italia sia stata fatta dai comandanti con il materiale inerte del popolo, ma dal popolo nonostante l’inadeguatezza militare ed etica dei Comandi. In quel modo non si creava uno Stato per un popolo, ma un regno per un re. È giusto prenderne coscienza. Ogni città che ha vie o piazze intitolate a Cadorna dovrebbe pensarci. Poiché queste vie e piazze sono tante, la decisione di Udine può mettere in moto una frana. Una benefica, salutare frana.

fercamon@alice.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 10, 2011, 04:00:12 pm »

10/7/2011

Non sempre è giusto salvare i figli

FERDINANDO CAMON

A Vaprio d’Adda, nella provincia milanese, in piena notte, un figlio di 34 anni travolge con l’auto un ragazzo in bicicletta e scappa, e suo padre di 76 anni si presenta dai carabinieri per dire: «Sono stato io, arrestatemi, voglio pagare». I carabinieri non gli credono. Indagano freneticamente, e all’alba scoprono il vero colpevole, che alla fine confessa.

Qui s’impone una domanda: un padre pronto ad andare in prigione al posto del figlio, lo ama? Gli fa del bene? Lo aiuta?
Non tutti i lettori saranno d’accordo, ma bisogna rispondere di no.
Certo, l’amore è disposizione al sacrificio, chi ama soffre nel vedere l’amato che soffre, vorrebbe mettersi al suo posto.
Ma chi ama non può togliere un diritto all’amato. Deve anzi aiutarlo a far valere i suoi diritti, ad attuarli.

Noi diciamo sempre che chi ha ucciso, sia pure colposamente, ha il dovere di espiare, scontando la pena. È una formula imprecisa, anzi errata. La formula giusta è: chi ha fatto un omicidio, colposo o colpevole, «ha il diritto» di espiare. Se non lo fai espiare, gli togli un diritto. La sua vita sarà umanamente degna solo dopo l’espiazione.

Se fa il latitante, se scappa all’estero, se trova protezione di qualche genere, compresa quella del padre che va in prigione al posto suo, allora non si redime, non rimette la sua vita in relazione con l’umanità, sta fuori della morale e della legge. Vive una vita indegna. Aiutandolo in questo, gli si fa del male.

Certo, di un padre che corre a farsi mettere in galera al posto del figlio, esclamare: «Lo ama» è giusto. Non si può dire che non lo ama. Lo ama al massimo, è pronto a farsi seppellire vivo al posto suo. Però lo ama, ma non gli vuol bene. Lo ama, ma non fa il suo bene. Il suo bene è la redenzione, gli vuol bene chi lo avvia e lo sorregge sulla strada della redenzione.

C’è una stupenda poesia di Catullo sulla differenza tra amare e voler bene. Ci sono delle situazioni, dice, in cui la persona che ami si comporta male. Ma non per questo tu puoi smettere di amarla, anzi la ami di più. Però non la apprezzi, non le vuoi bene. Non ti è cara.

Più la disprezzi, più la ami e meno le vuoi bene. L’amare ti lega a lei e basta. Il voler bene ti lega a lei e a tutti. Nell’amare non giudichi, nel voler bene giudichi ed educhi. Nell’amare, se l’altro è peggiore, tu peggiori. Se l’altro è drogato, tu ti droghi. Nell’amare, se l’altro è nel male, tu lo raggiungi e vai nel male. Nel voler bene, fai di tutto per tirarlo nel bene.

È strano che qui, in questo episodio milanese, sia il padre a non denunciare il figlio. Di solito, a non denunciare sono le madri. Le madri hanno un senso della famiglia, come dire, endofamigliare: tutta la vita si svolge secondo le regole interne della famiglia. I padri fanno da ponte fra la famiglia e la società. Se un figlio sgarra, è più facile che lo denunci il padre che non la madre.

Questo figlio di 34 anni si sentiva protetto dal padre verso la società: aveva dei precedenti per ubriachezza ed eccesso di velocità, non sarà stato perdonato anche allora? Non è che tutti lo amavano troppo ma nessuno gli voleva veramente bene?

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« Risposta #35 inserito:: Agosto 12, 2011, 09:12:05 am »

12/8/2011

La reazione a un dramma indicibile

FERDINANDO CAMON

Tutte le lingue hanno la parola per indicare chi perde il coniuge, ed è «vedovo», hanno la parola per indicare chi perde un genitore, ed è «orfano», ma nessuna lingua ha inventato la parola per indicare il genitore che perde un figlio. Perdere un figlio è un dolore così estremo, così totale, che svuota l’esistenza, la rende assurda e impossibile. Prima avevi un senso, ora non l’hai più. La lingua si rifiuta di battezzare con una parola questa condizione, perché si rifiuta di accettarla. Per un genitore, perdere un figlio è l’indicibile perché è l’inaccettabile.

A Sovico, paesotto di ottomila anime della Brianza, un ragazzo di 18 anni è stato ucciso in una lite per stupidi motivi, durante una partita a carte, da un coetaneo, anzi un po’ più giovane, 17 anni, con una scheggia di bottiglia che gli ha tagliato la carotide. La madre, subito informata, ha avuto una reazione così sublime da apparire inintelligibile. Ha detto: «Sono straziata per la mia sorte, ma mi dispiace anche per il ragazzo che ha commesso questo delitto e per i suoi genitori, per tutto quello che da adesso in poi dovranno sopportare e superare per tutta la vita».

Pare, a chi giudica d’impulso, una reazione non materna: nessuna madre reagirebbe così, ogni madre vorrebbe riavere la vita del figlio, e poiché questo è impossibile, vorrebbe che chi gli ha tolto la vita perdesse quel che può perdere della propria vita. Suo figlio ha perso tutto, un altro figlio deve perdere il massimo. Lei madre soffre la massima pena, un’altra madre deve soffrire una pena equiparabile. Ma questa sarebbe una reazione da madre che vive una parte del lutto, la parte che la riguarda. Qui il lutto è più grande. Riguarda tutti i membri del gruppo. Anche gli amici del figlio, che gridano: «Date a noi l’assassino, sappiamo cosa farne»: pronti all’occhio per occhio.

Quando senti questa reazione, hai l’impressione che chi ha ucciso non sia molto più cattivo delle vittime, semplicemente le ha battute sul tempo. Questa madre non è così. Lei sente che in quella disgrazia s’è bruciato un gruppo di diciottenni, il povero morto senza ragione, il povero assassino senza motivi, gli amici del figlio, pronti alla vendetta. Questa madre soffre l’assurdità di una tragedia come questa, che la lingua non sa battezzare, e che è più vasta del singolo delitto: è assurdo morire così, assurdo uccidere così, assurdo per suo figlio non esserci più, assurdo per tutto il resto del mondo esserci ancora.

Lei sente che qui scatta per lei la condizione-che-non-ha-nome, ma per gli altri scattano condizioni che hanno nomi sbagliati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9087
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:48:52 pm »

19/1/2012

Le prede più facili

FERDINANDO CAMON

Pare un incontro di pugilato all’ultimo round, quando un pugile sta per crollare e l’altro gli dà i colpi di grazia. Qui a ricevere i pugni, gli urtoni e le sberle è una donna, anziana, non autosufficiente.

Il petto e la testa le cadono continuamente in avanti, e davanti a lei sta un’infermiera, col camice bianco. Tu pensi: Adesso l’infermiera la sorregge, la aiuta, la sistema, la imbocca. Invece no: ogni volta che la testa della vecchietta cade giù, sul petto, l’infermiera gliela ributta indietro con un cazzotto, a volte con una sberla. Siamo in Italia, a Sanremo, in una casa di riposo. Cose del genere non dovrebbero mai accadere. Non in Italia. Non in una casa di riposo. Non a danno dei vecchi. Non sui disabili e i non-autosufficienti. Non ad opera del personale che lavora lì, e che per questo lavoro vien pagato.

Non c’è un reato, in questo comportamento, ce ne sono 4-5. Nessun codice li abbraccia tutti quanti. Quale che sia, la pena sarà inadeguata alla colpa. Le riprese sono stupende, limpide, crudeli, chiare. Valgono più di qualsiasi arringa. La telecamera dev’essere nascosta in alto, forse al di sopra di qualche armadio. Gli infermieri non ne hanno il minimo sospetto. Fanno liberamente, senza esitazione, quel che fanno sempre. Picchiano, bastonano, insultano. Si credono non-visti. E così noi, parenti delle vittime, carabinieri, semplici cittadini, li vediamo nella loro vera segreta attività quotidiana.

In una casa di riposo, a occuparsi dei vecchi e degli inabili, quelli che hanno problemi fisici o (qui ce ne sono) mentali, noi pensiamo che ci vada personale preparato, adeguato, che non prova schifo o ripulsa per chi ha bisogno del loro aiuto. Noi portiamo in case di riposo i nostri vecchi pensando che l’istituto diventa il nostro continuatore, si occupa dei vecchi con la stessa affettuosità che avremmo noi, e in più ci mette una competenza che noi non abbiamo. Questo crediamo. Separarci dai nostri vecchi ci costa, lo sentiamo come una specie di tradimento: ci han tenuti con sé finché ce l’han fatta, ora che non ce la fanno più ce ne sbarazziamo. Ma questo nostro senso di colpa è alleviato dal pensiero (che gira per il cervello di tutti coloro che scaricano negli ospizi i genitori anziani) che lì stiano meglio che a casa. Se hanno bisogno di qualcosa, lì lo capiscono prima di noi. Se hanno un problema, lo sanno senza che gli venga detto.

Invece, è doloroso dirlo, questo atroce filmato che vien da Sanremo, dove adesso ci sono quindici indagati per percosse e maltrattamenti in una casa di riposo, e quattro operatori più due infermieri sono in carcere, qui scopriamo una cosa inaudita, difficile perfino da dire, e dunque, per i lettori, da credere: qui i vecchi e gli inabili, in questa casa di riposo (mai nome fu più mendace) non sono trattati con affetto, non con professionalità, e nemmeno con neutro rispetto: qui sono odiati. Il personale che lavora in questo istituto fondato per vecchi e i malati «odia» i vecchi e i malati. Dev’essere un odio che riempie tutti, compresi i dirigenti, se il gestore dell’istituto, che è una donna, è agli arresti per il sospetto che sapesse tutto da tempo. C’è perfino una certa raffinatezza nella crudeltà di chi picchia questi degenti: c’è un’infermiera che picchia una vecchia a letto colpendola sulle caviglie con la mano a coltello. Istinto? o esperienza? o cultura? E poi dicono che siamo il Paese dei vecchi. No, siamo un Paese di prede e di predatori. E i vecchi son le prede più facili, più innocue, perché sono immobili. Due vecchi sono morti tempo fa di morte sospetta. Adesso s’indaga. Fossero morti due bambini, scoppiava il finimondo. Ma i bambini sono preziosi, mentre i vecchi non hanno importanza.

fercamon@alice.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9663
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« Risposta #37 inserito:: Marzo 15, 2012, 12:29:31 pm »

15/3/2012 - SVIZZERA. LA STRAGE DEGLI STUDENTI

Il dolore che non si può sopportare

FERDINANDO CAMON

Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore.

Ma se ci fosse una gradazione, questo sarebbe il vertice: un’ecatombe di bambini sui 12 anni, vitali e festosi, che rientrano a casa dopo una settimana bianca, in pullman, e vengono falciati in un incidente assurdo. Ventidue muoiono sul colpo, altri vanno in coma, altri ancora sono feriti gravi. È una di quelle scene che non hanno risposte sulla Terra, e ti fanno alzare gli occhi al cielo. L’uomo non è fatto per sopravvivere alla morte di un figlio, la morte di un figlio è un capovolgimento della natura. E qui è avvenuto un capovolgimento innaturale della vita di decine di famiglie, e delle famiglie a loro collegate. Non è umanamente possibile reggere questa piena di dolore. Nessuna delle esistenze toccate da questa tragedia potrà continuare come prima. Tutte le vite subiranno una deviazione, una stortura. Compiendosi in un attimo, la tragedia avrà conseguenze per sempre.

Quando si dice «figlio» non si dice tutto, perché un figlio cambia di significato per i genitori lungo le fasi della vita: se c’è una fase in cui è «più figlio» è questa, sui 12 anni. A quell’età i figli hanno ancora qualcosa di quand’erano bambini e fanno già vedere qualcosa di quando saranno uomini o, le bambine, donne. E noi padri, amandoli a quell’età, li amiamo per quel che sono, quel che erano e quel che saranno. Riempiamo la loro vita, e questo riempimento fa la nostra felicità. Loro lo sentono, e ci fan vedere che la loro vita è piena apposta per farci felici. Questi bambini tenevano un blog in cui annotavano le loro emozioni, e in questa settimana bianca scrivevano: «Papà, mamma, siamo felici ma ci mancate». È amore filiale allo stato puro, senza quelle ambiguità (rivalità, proteste, autonomia) che inveleniscono il rapporto 5-6 anni dopo. Dategli ancora 5-6 anni, a questi figli, e quelle parole non le scriveranno più. Ma adesso le scrivono. Il rapporto genitori-figli a quell’età è gioia pura, da conservare nel ricordo. Qui la gioia pura si è rovesciata nel dolore irrimediabile, che ti fa perdere la ragione. È questo il momento terribile, nella cronaca di questa disgrazia: quando i genitori vedono i figli. Mentre scrivo, i genitori sono in volo dalle Fiandre verso la Svizzera. Le cronache non lo dicono, ma in ciascuno di quei genitori si agita la speranza che suo figlio non sia tra le vittime, che fra poco avverrà il grande abbraccio che ridarà un figlio al padre e alla vita. Il bambino non sa ancora di essere mortale, lo imparerà più tardi, molto più tardi, nella terza età. In giovinezza si crede eterno. E anche i suoi genitori lo credono così. A questo livello, la disgrazia non squassa il cuore soltanto, e i nervi, ma la ragione, la fa vacillare o crollare. E non occorre essere il padre o la madre di uno di quei bambini. Basta soltanto essere un uomo o una donna che passa di lì. C’è una donna che ha visto il pullman sfracellato mentre dai suoi finestrini svolazzavano dei fogli, dunque a urto appena avvenuto, e descrive la scena come farebbe un automa: pullman sventrato, sedili tranciati, sangue dappertutto, bambini che la fissano con occhi spalancati, «non sa se vivi o morti». A quest’ora i genitori saranno arrivati, tutti. E sapranno. Le analisi per l’identificazione saranno finite o finiranno presto. I figli torneranno ai padri nell’unico modo possibile. Non ci sarà spiegazione. Sulla morte di un figlio di questa età il regista Malick ha costruito un film che ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2011. Nel film la madre di un figlio morto in un incidente alza gli occhi e chiede: «Cosa siamo noi per te?», dall’alto scende una risposta che la gela: «Dov’eri tu quand’io creavo le galassie e gli abissi?». Mi torna sempre in mente questa botta-risposta, quando penso al problema. È nella Bibbia, Giobbe. Posto così, il problema è un rapporto di potere: noi non abbiamo alcun ruolo se non quello di sopportare l’insopportabile.

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« Risposta #38 inserito:: Giugno 05, 2012, 07:02:14 pm »

5/6/2012



FERDINANDO CAMON

Mi preparo a vedere domattina il transito di Venere davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini si pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà: ma com’è piccola Venere! Siamo così lontani? Sì, siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il desiderio degli scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l’abbiamo toccata? Sì, anzi calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini come noi, dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro.

Abbiamo inventato la stretta di mano per far sentire all’amico che non siamo armati: la stretta di mano è una reciproca perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e perquisirli, è il presupposto per un’amicizia cosmica. Poter cominciare domattina, con questa Venere che passa tra la Terra e il Sole! Ma come si fa ad andar là? Il barone di Münchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare nello spazio fosse la cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo scavalchi l’orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare fino a Venere. Era anche la nostra idea, quand’eravamo piccoli: velocità-distanza-sparo. L’idea della nipotina, e dei bambini della sua età, è un’altra: il rumore che ti porta lontanissimo è il sibilo. La «s» è una consonante detta «sibilante». Nei fumetti, il sibilo è indicato da una scia di «s» seguìta da un’h: sssh. Il suono sssh ti porta nell’immenso, il suono bùm ti fa fare un salto e poi cadi.

Il viaggio nell’immenso non fa rumore: Venere transita in silenzio. In «2001 Odissea nello spazio» non si sente mai un fruscìo, i bambini si domandano se i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, «infinità» ed «immensità» erano sinonimi, più tardi l’uomo ha cominciato a sentire che «immensità» è più vasto di «infinità». Leopardi ha oscillato tra la prima parola e la seconda. «L’Infinito» è il titolo di un suo canto, familiare a tutta l’umanità, «M’illumino d’immenso» è la risposta di Ungaretti. Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: «Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio». Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile, sulla riva del Pacifico, sta esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e la parola «immensità» è cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita con «infinità». Dunque Leopardi s’era pentito di «immensità». Più tardi si pentì del pentimento e ristabilì «immensità», che è la parola che noi leggiamo oggi. Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva il bisogno di quella sibilante: come se avesse pre-sentito, con secoli d’anticipo, che il suono con cui l’uomo entra nel cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo.

Ci sono autori italiani, l’ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, «Il cantico di frate Sole» di Francesco d’Assisi: la nostra letteratura s’è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del «Cantico» è: «Altissimu», in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all’alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: «Altissimu, onnipotente, bon Signore...». Quella parola con la doppia «s» colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l’11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.

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« Risposta #39 inserito:: Novembre 02, 2012, 05:18:27 pm »

Editoriali
02/11/2012

La dolcezza di visitare i morti

Ferdinando Camon

Infelice la frase di Benedetto Croce che per il 2 novembre diceva: «Via dalle tombe!». Pensava ai bambini: ai bambini, secondo lui, fa male sapere che i nonni sono morti. Infelice anche la frase di Ugo Foscolo, nei «Sepolcri»: «A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti». Perché le urne dei forti? Perché solo loro? Perché soprattutto loro? È la forza, cioè la grandezza, la garanzia dell’immortalità, del ricordo perenne? Ma da due millenni non è stato insegnato all’umanità che il traguardo non è essere forti, ma essere giusti? Essere forti, come quelli che Foscolo passa in rassegna, è concesso a pochi, pochissimi per ogni generazione. Dipende dal destino. Essere giusti è concesso a tutti. Dipende da loro. E la memoria che coloro che hanno finito di vivere ottengono nei discendenti è la loro immortalità. Andare «via dalle tombe» e non visitare i morti, oggi che è il loro giorno, vuol dire farli morire veramente. Oggi i morti-morti sono soltanto quelli che non ricevono visite. I parenti che non li visitano, li uccidono. Questo abbandono dei morti, questo distacco dai morti, segna una frattura nella vita: la vita perde continuità, rompe con il passato. Ma il passato è l’origine. Lasciar perdere la propria origine vuol dire lasciarsi andare nel fiume della vita, senza resistenza, senza orientamento. Ci sono persone abbandonate dal padre o dalla madre, o da tutt’e due, e poi adottate da famiglie sconosciute, che per tutta la vita cercano di sapere chi è la madre, chi è il padre (ma soprattutto la madre). Sapere chi è il padre e la madre significa sapere chi sei tu. Se prima non lo scopri, non hai pace. 

 

Accettare la tua origine e pacificarti con essa, è la condizione per accettare la tua fine e pacificarti con essa. Finché questo non avviene, sei in guerra con te stesso. So bene che questo avviene nella vita di quello che molti considerano (e io tra loro) il più grande scrittore francese vivente, Patrick Modiano: Patrick aveva dei motivi per non-amare il padre, e da quando il padre è morto, molto tempo fa, non è mai andato alla sua tomba, neanche una volta. Credo che questa non-conciliazione con la propria origine (questa maledizione della propria origine) traspaia nei suoi libri, di riga in riga. La lingua di Modiano è un sangue avvelenato, che scorre per smaltire l’avvelenamento, invano. Molti anni fa ebbi una malattia lunga, mesi di ospedale. Ero in stanza con uno che non poteva guarire, in fase terminale, ed era figlio di NN. Per tutta la vita aveva cercato il padre: solo per vederlo un attimo. D’improvviso sulla porta si stagliò la figura di un uomo, che alzando la mano fece soltanto un saluto. Era controluce, non si vedeva bene. Ma il figlio rispose. 

C’è una frase memorabile, non so chi l’abbia detta ma possiamo sottoscriverla tutti, che dice: «Di qualunque cosa parli, l’uomo parla sempre della propria morte». Significa: ci sono uomini che non vanno a trovare i loro morti, non ci pensano e non ne parlano, ma in realtà non pensano e non parlano d’altro. Non accettano il 2 novembre, ma anche per loro, come per tutti, ogni giorno è il 2 novembre. Quella frase si può completare con un’altra: «Qualunque cosa faccia, l’uomo la fa sempre per vincere la propria morte». Qualunque cosa: una guerra, un ponte, una casa, un libro, un figlio. Chi oggi va a trovare il padre morto e porta con sé un figlio, sentirà nascere un pensiero nel cervello: «Io ero prima di essere, e sarò anche quando non sarò». Ha una sua dolcezza, questo pensiero. 

 

fercamon@alice.it 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/02/cultura/opinioni/editoriali/la-dolcezza-di-visitare-i-morti-VsVcGaTSyZsf2IYNgFPEUL/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 23, 2012, 01:29:21 am »

Editoriali
22/11/2012


Il posto giusto per le due “Pietà”

Ferdinando Camon


Ci starà bene, per un po’ di tempo, la Pietà Rondanini nel carcere di San Vittore? Sono i destinatari giusti, coloro che stanno lì dentro e la vedranno? Lei capirà loro, e loro capiranno lei? Si parleranno? 

 

Molti diranno: «No», perché pensano che il posto giusto per una «Pietà» di Michelangelo sia una chiesa. Come quella che sta in San Pietro. Quella in San Pietro fu scolpita da Michelangelo giovanissimo, la Rondanini da Michelangelo vecchio. Chiamiamole prima ed ultima. Quelli che vogliono le Pietà in chiesa non sanno che sull’arte nelle chiese grava una maledizione di Benedetto Croce, il quale sosteneva che ammirare un’opera d’arte e pregare sono due attività dello Spirito separate e inconciliabili. Alle gerarchie cattoliche che amano riempire le chiese di opere d’arte, Croce lanciava un ammonimento: «Badate: voi praticate il diavolo!». Perché l’uomo che guarda un’opera d’arte non prega: se prega non vede l’arte, se vede l’arte non prega. Sono ammiratori dell’arte, e non fedeli oranti, coloro che, e non sono pochi, ogni volta che vanno a Roma fanno visita alla Pietà di Michelangelo in San Pietro. Mi metto tra loro. Visitare periodicamente la Pietà serve a «mettersi in sintonia» col mondo, spurgare le scorie che la vita e il lavoro ti caricano sulla mente e sui nervi. Meglio farla subito, questa visita, appena arrivi a Roma. Se stai a Roma quattro giorni, dopo quella visita i quattro giorni scorreranno diversi, e il tuo lavoro, qualunque sia, lo farai meglio. Anche se tu fossi un pilota di Formula 1. Hamilton ha visto la Pietà di San Pietro, per la prima volta, un mese fa, e se l’è fatta tatuare sul petto, per portarla via con sé: non può più farne a meno. Non so se sia un caso, ma da allora corre anche meglio: nell’ultimo Gran Premio s’è piazzato primo. Ma ha pregato Hamilton? Non credo. Pregavano quelli (molti erano giapponesi) che osservavano la Pietà l’ultima volta che l’ho vista, due settimane fa? Certamente no. Stavano muti, scattavano foto, sussurravano, ma non pregavano, la Pietà non è un’opera mistica e non favorisce il misticismo. Dire «è perfetta» è poco, bisogna dire «è la perfezione». Ma San Pietro non è il suo posto. 

 

Agostino dice che perfino cantare canti sacri, in chiesa, disturba la preghiera. Agostino aveva scoperto già grandicello che lo spirito può fare tutto in silenzio, perfino (fu per lui una traumatica scoperta) leggere. Lui in Africa da ragazzo s’era abituato a leggere ad alta voce, come facevano tutti. Venuto a Milano, andò a trovare il vescovo Ambrogio, e lo vide dritto in piedi davanti a un leggio, intento a leggere un libro a bocca chiusa, senza pronunciare le parole. Rimase incantato. Il silenzio non ti distrae, ma ti concentra. La parola pronunciata, o peggio ancora recitata, diventa materiale, perde sacralità. Quando Benigni recita «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», dal Paradiso di Dante, noi che l’ascoltiamo pensiamo a Benigni, non alla Madre né al Figlio. Si può ammirare quel passo e restare atei o materialisti. Come la Pietà di San Pietro: la guardi e resti quel che eri. (Adesso è mal collocata, troppo lontana, sbarrata da un vetro immenso, non pare offrirsi ai visitatori ma difendersi da loro, come nemici).

 

Ma i detenuti di San Vittore che s’imbatteranno nella Pietà Rondanini la vedranno come un gruppo famigliare, nel senso che è il gruppo della loro famiglia: il figlio che penzola inerte come snervato è il carcerato dopo anni di carcere, la madre che lo tira su e non ce la fa è la loro madre quando viene a trovare il figlio e non sa cosa dire, le due madri patiscono un dolore che non riesce a farsi parola. È inesprimibile. La Pietà lo esprime, col silenzio. I carcerati e i loro parenti, che vanno a trovarli, non riusciranno a dirselo, ma inconsciamente sentiranno che quel gruppo è un loro ritratto. E sta in San Vittore come un’opera giusta nel luogo giusto. Dalla Pietà di San Pietro si va via portandola con sé come un trofeo. Dalla Pietà Rondanini si va via lasciando sé stesso come un prigioniero. Resterà sempre in San Vittore, l’ultima Pietà? Purtroppo no. Resterà sempre in San Pietro, la prima Pietà? Purtroppo sì.

 

fercamon@alice.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/22/cultura/opinioni/editoriali/il-posto-giusto-per-le-due-pieta-y1MIJ3c09c2SE0TLHF1niO/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 02, 2012, 05:37:29 pm »

Editoriali
02/12/2012

La festa triste di chi non vuole avere figli

Ferdinando Camon


Si sta diffondendo il pensiero che è bello non avere figli: i figli sono una disgrazia, rovinano la vita e il pianeta. Il pensiero diventa un movimento, il de-natalismo, e prende piede in Francia, Italia e soprattutto in Belgio. Qui i de-natalisti hanno inventato una festa annuale, a Bruxelles, dove si trovano, cantano canzoni e alzano boccali di birra. E citano uomini illustri senza figli. 

 

Ma citano male. Moravia non era un senza-figli. Era un mancato-padre circondato da mancati-figli. 

Quando andavano a trovarlo, Dario Bellezza, Achille Serrao e gli altri, toccavano tutto, spostavano tutto, come fanno i cattivi figli di un padre scrittore. Uno sgattaiolava fuori dalla porta, Alberto lo inseguiva col bastone: «Cos’hai preso?», «Ma niente Alberto, poi te lo riporto». Sono gli aspetti vischiosi e fastidiosi della famiglia, che fanno una falsa famiglia. Pasolini dice in una poesia di aver amato una prostituta ma non è nato un figlio, e di questo era contento. Non ha mai affrontato il problema se la sua omosessualità fosse fuga dalla paternità.
Quando esplose la domanda, era in analisi da Musatti. Smise subito. Troppa angoscia. 

 

Sì, certo, senza figli si lavora meglio. «Tu hai dato degli ostaggi alla vita», mi ammoniva Meneghello, qui nello studio dove sto scrivendo.
L’aveva già detto Bacone: «Se hai dei figli, non farai più grandi azioni, né virtuose né vituperose». I figli ti bloccano nella mediocrità.
Sono ostaggi del nemico, in una vita che è guerra. Ma se noi, padri, siamo un esercito in guerra, i figli sono avanguardia e retroguardia: la protezione. Riempiono i vuoti del passato e vanno in avanscoperta sul futuro che non vivremo. Io non so come ho capito i primi film che vedevo, da bambino. Ma mi si spalanca una luce quando vedo la nipotina che guarda incantata il risveglio di Biancaneve, poi Biancaneve sparisce ed appare la matrigna, la piccola osserva in giro sbalordita e domanda: «Dov’è Biancaneve?». È convinta che, se non è più nel televisore, è uscita dal televisore e cammina nella stanza. Qualcosa del genere dev’essere capitato al mio cervello, quand’ero piccolo, perché a questa ri-scoperta si eccita. Senza figli e nipoti avrei un cervello non eccitato, piatto. A 6 anni il primo dei miei figli fece un sogno: «I monti mi dicevano: quando morirai, crescerai». Significa che ogni conquista passa attraverso una morte? Al fondo del mio cervello c’era questo concetto, non ero sicuro che fosse la verità, ma il sogno del figlio me lo confermava. 

 

Lui amava il cinema. Un giornale mi mandava un tesserino perché andassi alla Biennale, lui me lo rubava e ci andava lui. Sul tesserino c’era la mia foto, lo lasciavano passare perché lui era identico a me. Questo resta in me l’esempio di cosa vuol dire rinascere in un altro: quando la burocrazia controlla quell’altro e lo scambia per te. A volte mi càpita di cercare un libro che non ho mai letto, lo apro e lo vedo pieno di segni a matita. Sono segnate le frasi giuste con i giusti segni, asterischi, cerchi, punti interrogativi o esclamativi. Ma se non ho mai letto quel libro, chi ha fatto quei segni? Un figlio. Dunque, io ho letto quel libro non come io, ma come figlio. E allora, continuerò a leggere libri, segnandoli con i miei simboli, anche quando non ci sarò. I bambini si ammalano e finiscono in Pediatria. L’ospedale vuole che di notte stiano soli, se c’è bisogno ci sono gli infermieri. Ma le madri non vogliono lasciarli, e si nascondono negli armadi. Il primario prima di andarsene apre gli armadi e le scaccia, allora si nascondono nei bagni. Le ho viste. I figli sono il sancta sanctorum della famiglia, non possono restare senza sentinelle. Quando andavo a prendere un figlio all’asilo, o adesso una nipotina, la maestra lo chiama e gli chiede: «Chi è questo signore per te?», perché ci sono i ladri di bambini, i bambini sono un valore. Diciamo sempre che non ci sono più valori: eccolo, un valore. Ho sentito una madre raccontare: «Passeggio con la figlioletta, questa si nasconde, non la vedo più, e mi son detta: Mi uccido». 

 

Ho sentito una madre friulana cantare una canzone al figlio ricoverato in ospedale: «Signor del Cielo ascoltami, / non farlo mai soffrire, / se c’è dolor per lui, / ti prego dallo a me»: voleva soffrire e morire al posto del figlio. È difficile che chi non ha figli attraversi
l’esperienza di voler morire al posto di un altro. Per chi li ha, è un’esperienza perenne. Essere umani vuol dire questo. A Bruxelles alzano boccali di birra per la gioia di non avere figli? Avranno, come tutti, disgrazie nella vita, ma nessuna più grave di questa. 

(fercamon@alice.it)

da - http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/la-festa-triste-di-chi-non-vuole-avere-figli-i98efBDyDrq5tcWHat8BkI/pagina.html
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 06, 2013, 07:43:29 pm »

EDITORIALI
06/10/2013

Quella vita invivibile

FERDINANDO CAMON

Carlo Lizzani s’è buttato dal terzo piano ed è morto. Non sopportava più la vita? Ma aveva 91 anni. 
Quanta vita aveva ancora da vivere? Pochissima. Ma anche quella pochissima ha voluto rifiutarla, non ce la faceva più. La stessa cosa è capitata a Mario Monicelli, per restare nel cinema. 
Monicelli aveva 95 anni quando si buttò dalle finestre della clinica dov’era ricoverato, aveva un cancro ed era appena stato operato. Malato, ultravecchio, non autosufficiente, comunista e ateo dichiarato, cosa gl’impediva di uccidersi? Niente. Ma Lizzani era con me tra gli ospiti di Ratzinger, i 250 artisti che il Papa aveva chiamato da tutto il mondo per incontrarli. Non è detto che fossero (che fossimo) tutti cristiani credenti, ma eravamo intellettuali (registi, attori, cantanti, scrittori…) che, se sentiamo parlare la Chiesa, non ci turiamo le orecchie. E tra le cose che abbiamo sentito, e che han segnato la nostra cultura, c’è la gravità del suicidio: gesto estremo, col quale «rifiuti di esistere», ti sottrai alla famiglia, agli amici, all’umanità. Prima di farlo, t’interroghi migliaia di volte: cosa perdi? cosa guadagni?
 
A novant’anni non è che quel che può ancora darti la vita sia poco o niente, cioè un valore positivo prossimo allo zero, o lo zero addirittura. No, per gli uomini della quinta età (oltre i novanta), quel che la vita riserva è un valore negativo. Sotto lo zero. Soltanto sofferenze e umiliazioni. Hai bisogno di tutto e di tutti e non puoi più dare niente a nessuno. Se sei stato un grande (Lizzani è stato un grande, Monicelli è stato un grande), il ricordo della passata grandezza diventa un dolore lancinante quando ti accorgi che gli altri cominciano a dimenticarti. Si dice: la storia cambia e la vita si rinnova. Sì, ma mai come adesso. Adesso s’affaccia una nuova generazione di scrittori registi pittori, insomma artisti, ogni dieci anni. Sono feroci: vogliono prendere il tuo posto e seppellirti. Fanno cose diverse dalle tue, non capiscono le tue e tu non capisci le loro. Chi decide tra i due? Il pubblico e i media. Pubblico e media stanno sempre col nuovo, perché il nuovo è il loro cibo. Se ne nutrono e poi lo scartano, perché vanno alla ricerca di nuove novità. Cosa può confortare un artista che invecchia e aiutarlo a tirare avanti? Che le sue opere lo seguano. Se trent’anni prima ha scritto un grande libro, che il libro si ristampi ancora. Se ha diretto un grande film, che il film si proietti ancora, magari per gli studenti. Per l’artista che invecchia, non conta il successo di una volta, ma la durata attuale delle sue opere. Questa è il massimo che può avere. Dovrebbe bastare. Se a Monicelli e a Lizzani non è bastata, vuol dire che le amarezze della quinta età sono così mostruose, che prima di entrarci non possiamo neanche immaginarle. Ormai prolunghiamo troppo la vita. Rischiamo che l’ultimo tratto non sia più vivibile. 
 
(fercamon@alice.it)
http://www.lastampa.it/2013/10/06/cultura/opinioni/editoriali/quella-vita-invivibile-eqwH3WvgCFZO5ut3dNrY7M/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:08:36 am »

Editoriali
09/01/2014

Lo spinello libero sarebbe la resa dopo la sconfitta

Ferdinando Camon

Lei si fa di cocaina da un anno, lui esita e le chiede: «Com’è?». «Ricordi la prima volta che abbiamo fatto l’amore? Be’, mille volte di più». È un film tratto da un diario. Si può tirar fuori dal giro quei due, che han sentito la dolcezza mille volte più dolce? Troppo tardi. E quand’è che si poteva? Prima della prima droga leggera.

Ho lavorato anni nel primo Centro Regionale Anti-Droga fondato in Italia, e ricordo la polemica quando un collega preparò un librino da diffondere tra gli studenti: diceva che la marijuana dà un senso di «benessere». Lunga discussione, per correggere «benessere» in «euforia». Anche l’euforia è benessere, ma un benessere malato. Il ragazzo che prova la prima volta una tirata di spinello, o un quarto di pasticca, dice: «Tutto qui?». È una sensazione «di vittoria». La volta dopo fuma lo spinello tutto intero, o inghiotte tutta la pasticca. La pasticca è più pesante, certo. Ma il primo passo è pericoloso perché rende più facile il secondo. La pasticca si scioglie sprizzando un flash che brilla nel cervello, in quel lampo vedi di più, senti di più, hai l’impressione di godere di più. Ti piace. Ti piace che ti piaccia. Proverai quando vorrai, sei tu che comandi il giuoco. 

Prima eri mezzo uomo, adesso sei un uomo intero. O se prima eri un uomo, adesso sei un superuomo. Potresti scrivere. O dipingere. Anche l’eroina, le prime volte, è piacevole. Anche la cocaina. La prima volta la cocaina ti lascia una nostalgia «straziante», ci pensi giorno e notte, anche dormendo. Se vuoi tener lontano un ragazzo dall’eroina o dalla cocaina, devi tenerlo lontano dalla marijuana. Chi ha la marijuana in circolo ha l’impressione che i colori si ravvivino e il tempo rallenti. È questo che dona euforia: il tempo si ferma, puoi goderti la vita con calma. 

L’effetto della droga, sto ai diari e alle confessioni, è come un’onda che percorre il corpo, e l’onda dà la sensazione che adesso si sta bene mentre prima si stava male: la vita nella droga è sentita come guarigione, e la vita normale di prima è sentita come malattia. È malata la fretta, è malata la preoccupazione, è sana la calma, è sana l’indifferenza. Purtroppo la vita è una gara, e ritirarsi dalla gara significa ritirarsi dalla vita. L’euforia dura poco. Al calore subentra il freddo, che comincia dalle mani. Raffreddandosi, le mani tremano, se provi a scrivere fai degli scarabocchi. Allora subentra la paura, che in certi casi può diventare panico. La paura è maggiore negli studenti, minore nei lavoratori. Perché per lo studente la scrittura è un mezzo per rivolgersi agli altri, perdere la scrittura vuol dire perdere il mondo, essere perduto. È in quella fase, del freddo e della paura, che i ragazzi e le ragazze si spinellano in coppia. Spinellarsi in coppia vuol dire abbracciarsi. 

Nelle scuole, i ragazzi che si spinellano aumentano le assenze e peggiorano i voti. Sono i peggiori della classe. Certo, il proibizionismo ha fallito. Ma la libera circolazione delle droghe leggere è una resa dopo la sconfitta. 

Da - http://lastampa.it/2014/01/09/cultura/opinioni/editoriali/lo-spinello-libero-sarebbe-la-resa-dopo-la-sconfitta-zFW7mGqRZdS2SdxWca9QLL/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:30:53 pm »

Cronache

27/04/2014 - Giovanni XXIII
Il “confortatore” che conquistò il cuore di tutti
La gente lo ricorda vestito di bianco che visita i carcerati e dice loro che per ognuno c’è speranza

Ferdinando Camon

Un giornalista ostile, come la Chiesa ne trova tanti nel suo cammino, fece a Giovanni XXIII una domanda maligna, com’era nel suo diritto, per incastrarlo, e il papa, prima di rispondere, posò il librone che aveva in mano sull’angolo di un tavolo, vi adagiò sopra una delle sue non minuscole chiappe, e cominciò la risposta così: “Basandomi sulle Sacre Scritture…”. 

È un aneddoto irriverente, dirà qualcuno di voi. Ma no, è rispettosissimo. A me lo raccontò Giancarlo Zizola, a casa mia, durante uno di quegli strani pranzi che lui cominciava con la frutta e proseguiva con la verdura per finire con la minestra. Zizola non avrebbe mai pronunciato nulla d’irriguardoso su nessun papa. Giovanni XXIII era santo prima del 27 aprile 2014, la santificazione di questo giorno aggiunge soltanto l’ufficialità, che per il popolo dei credenti non è necessaria. Non è la Chiesa che indica un nuovo santo al popolo, è il popolo che lo indica alla Chiesa. Un santo è tale in ogni atto della sua vita, e – sto arrivando all’innocenza di quell’aneddoto – anche quando va in toilette. I monaci del Medioevo non cessavano di pregare, non interrompevano il contatto con Dio, nemmeno quando si sedevano sul wc, ma pronunciavano questa premessa: “Quod exit supra, Deo; quod exit infra, diabolo”, ciò che mi esce da sopra, dalla bocca, va a Dio, ciò che esce di sotto va al diavolo. Era la continuità, l’ininterruzione della santità. È ciò che il popolo pensa crede spera di Giovanni XXIII. Non lo ha fatto santo un gesto, una frase, una parola, un atto, magari storico. Lui “è” santo: ha i gesti, le parole, la faccia, i discorsi, le azioni del santo. Senti un suo discorso, “Anche la Luna ci guarda”, “Date una carezza ai vostri bambini”, e pensi: “È buono”. 

“Santità” e “bontà” sono equivalenti. La santità può essere molte cose, macerazione, tormento, sacrificio, sottomissione di tutti, e in primo luogo di se stesso, a Dio. È la santità dei papi fino a Giovanni XXIII escluso (ma ripresa con Papa Ratzinger). Uno scrittore cattolico oggi poco ricordato, Antonio Barolini (che fu corrispondente dall’America per questo giornale), ha scritto che nei Papi cattolici (lui pensava a Paolo VI) la santità non è mai uno “stato in luogo”, è sempre un “moto a luogo”: il senso dell’uomo cattolico sta nel “tendere verso”, senza “giungere mai”. Questo concetto è stato spazzato via da Giovanni XXIII e poi da Giovanni Paolo I (“Dio è madre”) e Francesco (“Chi sono io?”), che sono i suoi fedeli continuatori. Questi tre Papi hanno insegnato e praticato un’idea di “santità” come contatto e anzi (molto di più) amicizia con Dio. Anche Wojtyla aveva sentito e applicato questo concetto, ma senza abbandonare tutte le connotazioni del “timore e tremore” che devono stare in quel contatto. “Timore e tremore”, come ognun sa, è il titolo di un’opera di Kierkegaard: tu cerchi e, avvicinandoti a quel che cerchi, temi e tremi. 

 M’è capitato, due settimane fa, di rivedere su Sky un film bellissimo e disperato di Lars von Trier, proprio mentre stavo leggendo il diario del segretario di Wojtyla intitolato “Ho vissuto con un santo”. Cosa racconta (in ogni suo film) Lars von Trier? La stessa cosa che raccontava Bergman: la ricerca di un contatto con Dio, il viaggio al termine del quale poter dire (anzi, esclamare): “È qui”. E cosa prova, il viaggiatore, a quel punto? Paura o spavento. Il segretario di Wojtyla racconta lo stesso viaggio, al termine del quale però il viaggiatore prova conforto. Questa è la nuova santità. Della quale è un’incarnazione perfetta Giovanni XXIII, e perfettissima il suo continuatore, Francesco (Luciani è durato troppo poco). Se, raggiunta la santità, provi conforto, allora trasmetti conforto. Giovanni XXIII è un grande confortatore. Le folle si radunavano davanti a lui per questo, come adesso si radunano davanti a papa Bergoglio. È questo il loro miracolo.

Non c’è nessun bisogno di un altro miracolo, perché uno possa dirsi santo. Giovanni XXIII ha cancellato “perfidis” davanti a “judaeis”, con disperazione di Mel Gibson, che a quel “perfidis” tiene ancorato il senso della propria vita; ha fondato un’istituzione per metter fine alla separazione dei cristiani, vergogna delle vergogne, peccato dei peccati; ha indetto un concilio ecumenico, perché la base della Chiesa parlasse al vertice, mentre nei secoli avviene sempre il contrario. Ma tutto questo lo ricorda la Storia, non la gente. La gente lo ricorda vestito di bianco, che visita i carcerati, e dice loro che per ognuno c’è speranza. “Anche per me?” chiede uno. “Anche per te”, risponde il Papa, senza sapere quali colpe abbia commesso. Alla cieca. Sicuro di non sbagliare.
(fercamon@alice.it)

Da - http://lastampa.it/2014/04/27/italia/cronache/il-confortatore-che-conquist-il-cuore-di-tutti-A3aowiSt3MGzHHnLkgQpZN/pagina.htm
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