Se l’Onu non conta
Gian Giacomo Migone
Come la questione del Darfur, quella georgiana rischia di diventare un altro chiodo nella bara che i nemici dell’Onu vorrebbero preparare per l’unica organizzazione di sicurezza ancora dotata di una legittimazione universale.
Da tempo circola negli ambienti neocon americani la proposta, che pure riceve attenzione da parte dei democratici, di una nuova organizzazione di Stati democratici (ma quali?) che, sostituendosi all’Onu, garantisca la sicurezza nel mondo.
Nel frattempo, le minacce di veti, da parte di Pechino per il Darfur, da parte di Mosca per la crisi georgiana, paralizzano il suo Consiglio di sicurezza. Con opportuno tempismo tattico Vladimir Putin ha stimolato, se non addirittura programmato, la crisi nell’area strategica che separa il Mar Nero dal Mar Caspio. Mentre l’attenzione del mondo si concentra sulla celebrazione del rito olimpico, all’insegna della potenza cinese, la Russia riassume l’iniziativa nei confronti di un territorio che continua a considerare cortile di casa, dotato di ingenti risorse petrolifere, con l’intento di sottoporre al proprio controllo non l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia, ma la vera spina nel suo fianco: quella Georgia che diede i natali a Giuseppe Stalin, protagonista di una politica di Grande Russia e mondiale per un trentennio, dalla leadership del Cremlino attuale considerata, più ancora dell’Ucraina, interna ai propri confini storici e naturali e che oggi imprudentemente aspira a diventare membro della Nato.
Quando Mosca afferma di rendersi garante della stabilità di quella parte del mondo e lo stesso presidente della Georgia riconosce tali pretese nei confronti di una propria regione interna con ambizioni indipendentiste, si profila una concezione della sicurezza internazionale, se si vuole analoga a quella, più che pretesa, praticata dagli Stati Uniti in America Centrale (Grenada, Panama, El Salvador, Nicaragua, Haiti) tuttavia antitetica allo spirito e alla lettera della carta delle Nazioni Unite, peraltro paralizzate da veti plurimi, più che incrociati come in epoca di Guerra Fredda.
Conviene tutto ciò a un’Europa che pure costituisce un soggetto consistente, anche se tutt’ora menomato dalla propria incompiutezza, di un mondo multipolare che costituisce ormai una realtà presente? Non è il caso di parlare dell’Italia che ha un governo ridotto al silenzio («Pic Badaluc non disse di sì, Pic Badaluc non disse di no») perché lacerato tra il servilismo professato nei confronti di Washington e un rapporto poco trasparente del suo capo con Mosca. E, spiace dirlo, con un’opposizione che ha affrontato le elezioni politiche sulla base di un programma che non contemplava la politica estera.
L’Europa, dunque, si è meritoriamente opposta all’ingresso provocatorio di Ucraina e Georgia nella Nato, ma nemmeno può sanzionare la loro riduzione a Stati satelliti di Mosca. Né ha interesse ad assistere alla liquidazione dell’Onu, magari accompagnata dalla sua sostituzione che costituirebbe poco più di una Nato allargata, sotto un’ormai anacronistica leadership americana (anche nell’eventualità di una presidenza Obama) cui il resto del mondo negherebbe legittimità, principale risorsa dell’Onu, pur nella sua configurazione attuale. La conclusione non può che essere un necessario ma poco esaltante richiamo alla riforma in particolare del Consiglio di Sicurezza che, con le regole vigenti, nella sua attuale composizione, senza una presenza europea unificata, in assenza di altri grandi protagonisti emergenti, resterà paralizzata dal meccanismo che lo riducono all’impotenza, contro l’interesse non solo nostro, ma di una parte cospicua dell’umanità.
g.migone@libero.itPubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.09
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