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Autore Discussione: GIUSEPPE BERTA  (Letto 6560 volte)
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« inserito:: Agosto 07, 2008, 09:31:25 am »

7/8/2008
 
Inflazione, chi romperà lo stallo
 
 
 
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
L’assicurazione che tarda a liquidare l’indennizzo per un sinistro, il promotore finanziario che allarga le braccia davanti ai clienti che gli chiedono consiglio per recuperare le perdite dell’ultimo anno: anche questi sono segnali che fanno apparire diversa dal passato la dura fase di difficoltà che sta attraversando l’economia. A diffondere i sintomi di crisi e di pessimismo è infatti quello strato di operatori intermedi che in passato propagava invece impulsi ottimistici, lasciando scorgere dei lampi di opportunità in mezzo alla foschia. Oggi non è più così: il senso d’impotenza è moltiplicato dal fatto che il rallentamento della dinamica economica e l’ascesa, pur differenziata, dei prezzi si accompagnano a una liquidità in contrazione. L’inflazione è reale, ma allo stesso tempo è meno il denaro a disposizione. Una situazione che rappresenta una delle novità più significative di questo primo decennio del secolo e che aumenta lo smarrimento di fronte a una realtà percepita come fuori di controllo. L’idea più inquietante che si affaccia è che tutto questo potrebbe essere all’origine di un cambiamento nel modello dei consumi. Un mutamento che non sembra proprio andare a vantaggio della parte prevalente della popolazione.

Eppure, grandi ondate d’inflazione hanno scandito la storia del Novecento. Come non ricordare l’«iperinflazione» tedesca, per esempio, che è stata poi alla base della ricerca della politica monetaria tendente alla stabilità del marco? E soprattutto come non ricordare, per stare alle vicende di casa nostra, la forte impennata dei prezzi nell’Italia degli Anni 70, che per oltre un decennio ha fatto dell’inflazione il problema centrale della politica economica? Allora l’innalzamento del prezzo del petrolio aveva dato il via una spirale inflazionistica ben più potente dell’attuale, che s’era però collegata su quella innescata dalla crescita delle retribuzioni. Lo shock petrolifero aveva avuto, nel nostro Paese, lo strascico dell’accordo sulla contingenza dell’inizio 1975, con l’indicizzazione di salari e stipendi al costo della vita. Una risposta terribilmente sbagliata e fuorviante, che però s’era fondata sull’illusione di un controllo dell’inflazione attraverso il recupero integrale del potere d’acquisto. Forse per questo nella memoria collettiva la grande inflazione degli Anni 70 non è rimasta come un fenomeno devastante. Una pioggia di Buoni del Tesoro, anch’essi ben più che indicizzati, avrebbe infatti permesso un particolare ed eterodosso meccanismo di ripartizione della ricchezza, di cui doveva beneficiare una massa di piccoli risparmiatori che ancora adesso ripensa a quegli anni come a una stagione per nulla affatto infausta. Chi aveva qualche somma da parte non aveva che da investirla nei titoli pubblici e il ritorno era garantito senza rischio. Peccato che a caricarsi di un onere, inizialmente invisibile ma poi sempre più manifesto e gravoso, fosse l’economia nazionale nel suo complesso, che di quell’epoca continua a pagare le cambiali.

Dinanzi alla nuova inflazione odierna non sono in molti a sentirsi al riparo e meno ancora sono coloro che sanno come investire i loro risparmi con qualche tornaconto. Per questo affrontiamo il passaggio attuale al buio, col timore di non poterlo superare indenni, senza cioè dover subire una riduzione non solo del nostro tenore di vita, ma anche - il che è ben peggiore - delle nostre aspettative per il futuro. Le terapie virtuose che ci vengono più o meno concordemente indicate suscitano anch’esse preoccupazione: mostrano la via maestra del taglio della spesa, ma col pericolo di colpire, insieme con gli sprechi e le inefficienze, anche una domanda interna già in fase di ripiegamento. Non rimane dunque che confidare in un incremento generalizzato della produttività, che sia in grado di ridare tono all’economia. In una simile cornice, la richiesta di rassicurazione alla fine non può che rivolgersi alla politica. Toccherebbe ad essa configurare quella prospettiva di fiducia che serve a una comunità nazionale per elaborare un’idea di futuro. Finora l’unica formula che è emersa è quella di un federalismo fiscale dai lineamenti ancora largamente indistinti: basta davvero per rompere lo stallo?
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:29:06 am »

20/11/2008
 
L'industria delle industrie
 
GIUSEPPE BERTA

 
Nessun settore industriale è colpito dalla crisi globale come l’industria dell’automobile. Lo testimonia la caduta della domanda, che procede a un passo impressionante, come dimostrano le cifre che giungono dall’America, cui tengono ora dietro anche quelle dell’Europa. È negli Stati Uniti, tuttavia, che la crisi sfida le possibilità di sopravvivenza delle imprese un tempo considerate l’emblema stesso dell’industrialismo. Dieci anni fa, era impossibile prevedere che i grandi gruppi di Detroit potessero andare incontro all’eventualità di un collasso finale. Più di tutto colpisce il tracollo della General Motors, l’impresa-tipo del Novecento, quella che Peter Drucker aveva indicato, fin dagli Anni Quaranta, come il modello stesso della grande corporation.

Oggi la Gm stenta a immaginare di poter stare in piedi con le proprie forze dopo Capodanno, se dallo Stato non verranno aiuti ulteriori, dopo i 25 miliardi di dollari già stanziati. La Ford dispone d’una migliore situazione di liquidità, ma le sue prospettive paiono altrettanto cupe.
Quanto alla Chrysler ha dichiarato la propria sorte nel momento stesso in cui ha ipotizzato di fondersi con un altro gruppo dell’auto.

In particolare, il destino della Gm è appeso a una difficile alternativa: o la procedura di amministrazione controllata che in America va sotto la sigla di «Chapter 11» o un intervento dello Stato di dimensioni tali da sottrarre quella che è stata la maggiore impresa americana alla voragine dei suoi conti. Non sappiamo ancora quale strada verrà presa, ma molte indicazioni fanno capire che la nuova amministrazione democratica farà di tutto pur di impedire la caduta di Detroit. Intanto, in Germania si è affacciata l’ipotesi di aiuti alla Opel, il marchio europeo della Gm.

Questo scenario apocalittico rischia d’indurre in due gravissimi errori. Il primo consiste nell’avviare misure che non siano indirizzate al sostegno dell’industria dell’auto nel suo complesso, come ha segnalato ieri Sergio Marchionne. È un problema dal quale non può chiamarsi fuori l’Unione Europea. Guai infatti se si creasse un’asimmetria fra i produttori americani e quelli europei. Sbaglia chi dà per definitivamente spacciati i giganti di Detroit. È vero che la loro gestione degli ultimi anni è stata fallimentare e che ora sono in coma. Ma al loro interno dispongono di una gamma eccezionale di competenze tecnologiche e di capacità organizzative.
È assai probabile che continueranno a sussistere anche nell’ipotesi peggiore per le attuali case americane. Di sicuro gli Usa non permetteranno che vadano disperse.
Ed esse si riveleranno delle carte preziosissime, adatte a essere giocate sui mercanti emergenti (dove la Gm in particolare è già ben radicata).

Il secondo errore, connesso al primo, è di trarre dalla situazione attuale un presagio infausto per l’industria dell’auto, come se ciò che avviene in America potesse infliggere un colpo fatale alla vitalità del settore. Ha ragione invece l’ Economist (nell’editoriale Saving Detroit del numero del 15 novembre) a ricordarci che non è così. Nei prossimi quattro decenni, le previsioni dicono che il numero delle auto in circolazione nel mondo salirà dagli attuali 700 milioni sino a circa 3 miliardi.

Un incremento colossale e un business enorme, che confermano come varrà anche per il XXI secolo la celebre definizione coniata per il settore automobilistico proprio da Drucker: «L’industria delle industrie». Un ampliamento di queste proporzioni non si realizzerà nei mercati più consolidati, a cominciare da quelli dell’Occidente, ma in quelli emergenti. Uno dei primi effetti della crisi globale sarà che il numero delle auto vendute nell’area Bric (Brasile, Russia, India, Cina) sopravanzerà per la prima volta le vendite sul mercato nordamericano. Non si tratterà di una svolta solo nei volumi di produzione, bensì anche nelle tipologie di prodotto: si costruiranno auto più piccole, essenziali, economiche e funzionali. E con un impatto ambientale sempre più ridotto, perché altrimenti l’ambiente non ce la farà a reggere all’urto causato da una moltiplicazione inusitata degli autoveicoli.

Per le case produttrici si aprirà quindi un’opportunità di crescita senza precedenti, almeno per quelle di loro che riusciranno a superare la crisi globale.
Proprio per questo occorre che la partita non sia impari e che a tutti i produttori siano garantite le stesse opportunità e condizioni.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 26, 2009, 09:59:43 pm »

26/1/2009
 
La forza del Nord-Ovest
 
GIUSEPPE BERTA
 

Il problema dell’industria torna questa settimana sull’agenda del governo, che affronterà il nodo delle misure in grado di sostenere la produzione automobilistica. È un passaggio tanto importante quanto delicato, sia per la definizione delle risorse e dei margini finanziari a disposizione del governo, sia per l’ampiezza della riorganizzazione che investe il settore dell’auto, come hanno messo in luce le ultime mosse della Fiat. La crisi globale è destinata a ridisegnare le forme della presenza industriale nei Paesi sviluppati e il sistema dell’automobile dovrà subire una rivoluzione tale da mutare la sua dislocazione su scala continentale.

È evidente che sono in gioco le prospettive della Fiat, come hanno dichiarato fin dall’incontro di fine anno al Lingotto Sergio Marchionne e Luca Montezemolo. Ed è assai probabile che per continuare a esistere la nostra industria automobilistica dovrà proiettarsi fuori dei propri confini, dando luogo a configurazioni d’impresa inedite, come lascia intravedere la stessa bozza d’intesa siglata la settimana scorsa con la Chrysler. Anche il futuro dell’industria automobilistica è una terra incognita, al pari degli andamenti prossimi della crisi mondiale. Su un punto, però, esiste una concordia di fondo e cioè che il settore dell’auto conoscerà, al termine della crisi, una stagione di sviluppo più intensa ancora del passato.

Cambieranno gli assetti produttivi e anche la tipologia del prodotto, ma la domanda di mobilità che si è manifestata presso i Paesi emergenti negli ultimi dieci anni riprenderà con più vigore.

È una ragione sufficiente, questa, per scommettere ancora sull’industria dell’auto del nostro Paese e per far sì che si consolidi l’organizzazione delle competenze produttive e professionali raccolta attorno a essa? Sì, se siamo convinti che il modello industriale del nostro Nord-Ovest continui a rappresentare un asse portante dello sviluppo italiano. In questi giorni si è colta, anche in ambienti governativi che sono sembrati voler prendere le distanze dagli orientamenti del ministro per le Attività produttive Scajola, una nota di disaffezione verso quella parte dell’Italia economica che si incardina sull’area nord-occidentale. Quasi che si trattasse di una sopravvivenza manifatturiera in via di diventare obsoleta, soppiantata da altre forme economiche più moderne e più versatili.

Quest’immagine non corrisponde in alcun modo alla realtà effettiva del Nord-Ovest. Si sbaglia soprattutto se la si raffigura come una società di fabbrica dove il problema fondamentale è costituito da un sistema di garanzie sociali per i «colletti blu». Le indagini più complete e aggiornate del Nord-Ovest mostrano come questo territorio sia attraversato da alcune delle tendenze più dinamiche che interessano tutta l’Italia settentrionale, in primo luogo quella che porta a miscelare fra di loro industria e servizi. In altri termini, oggi è semplicemente impossibile pensare la produzione industriale come un processo confinato in fabbrica, che non si salda con un reticolo complesso di attività progettuali e innovative, da un lato, e con una serie di funzioni di commercializzazione e di assistenza, dall’altro. D’altronde, se una visione è stata superata dai fatti, è quella che dipingeva il Nord-Ovest come una terra di imprese di grandi dimensioni, opposta a un Nord-Est dominato dalle piccole aziende. Questa dicotomia poteva avere un’efficacia descrittiva trent’anni fa, non certo oggi quando è visibile la riduzione delle disomogeneità fra le varie componenti del Nord. Oggi, dall’una come dall’altra parte, si è sviluppato un sistema imprenditoriale più articolato e composito, con la crescita dei soggetti di media dimensione.

E poi, il Nord-Ovest resta la base di un’imponente concentrazione e sedimentazione di risorse organizzative e tecnologiche che non è sostituibile nell’architettura economica dell’Italia odierna, anche perché rappresenta una porta aperta sugli scambi internazionali. Non è l’equivalente dell’industria di Detroit, insomma, che ha dinanzi a sé l’imperativo della trasformazione, a meno di non condannarsi a perire. Se il Paese incoraggerà il Nord-Ovest nella sua evoluzione, non avrà sostenuto dunque i mammuth dell’industrialismo, né pagato un tributo alla storia passata della manifattura, ma investito in un comparto territoriale capace fin qui di un’incessante metamorfosi.

La forza del Nord-Ovest - cementata da uno stile di relazioni sociali e da un timbro civile, oltre che dalla consistenza delle sue relazioni economiche - non ha alternative nel tessuto di un’Italia dove la terziarizzazione è sicuramente in marcia, ma appare troppo spesso assediata, come dice il Censis, da una «mucillagine», che rischia di rallentare i comportamenti innovativi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 12, 2009, 11:04:07 am »

12/2/2009
 
Fucina nord-ovest
 
GIUSEPPE BERTA
 

Ci sono episodi che, a posteriori, possono essere citati a riprova del carattere o, se si vuole, addirittura della predestinazione economica di un territorio. Prima che uno dei più straordinari e geniali avventurieri finanziari della storia, lo scozzese John Law, si recasse in Francia per una speculazione ardita e rovinosa destinata a precipitare il Paese in un baratro, passò nel 1711 da Torino per cercare di convincere il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, della bontà dei suoi piani. John Law voleva introdurre la circolazione cartacea della moneta in luogo di quella metallica allora in corso dovunque. Era convinto, come disse a un amico, di aver trovato la vera pietra filosofale, quella che permetteva di trasformare la carta in oro. Il duca ascoltò il suo progetto, ma lo liquidò con una battuta definitiva: «Non sono abbastanza ricco per rovinarmi con le mie mani». Così il Piemonte scartò dalle origini la possibilità di diventare teatro dell’innovazione e della speculazione finanziaria europea.

Fosse per prudenza subalpina o per calcolo accorto, il Piemonte scelse un’altra via per l’allargamento delle sue basi economiche. Una via che transitava per i circuiti della produzione materiale, di un orgoglioso saper fare costruito sui mestieri e sulle capacità della manifattura. È il modello industriale che si configura in tutta la sua pienezza negli anni del grande sviluppo dopo la seconda guerra mondiale e che fa da scenario alla fondazione dell’Ires nel 1958. Il nuovo istituto per la promozione della ricerca economica e sociale del Piemonte nasce prima dell’ente regionale, che seguirà parecchio dopo, ma già ne anticipa l’orientamento alla programmazione territoriale.

Era, quello, un periodo di attese ottimistiche. Il Piemonte, come l’Italia del Nord, girava a pieno regime, trainato dalla forza e dalla capacità di espansione delle sue imprese, che attiravano massicciamente risorse di lavoro, promettendo livelli crescenti di benessere.

Quella condizione positiva, sostanziata da una diffusa speranza collettiva, durò ancora per un decennio, fino alla fine degli Anni 60. Solo allora, entrando in un decennio di alta conflittualità sociale nell’industria, l’immagine di forza e capacità di progresso alimentato dal sistema delle imprese s’appannò. Per tutto il decennio successivo l’economia piemontese restò imperniata sulle sue imprese maggiori, ma con una crescente incertezza sulle loro strategie di sviluppo. Esse rimanevano al centro del sistema territoriale e ne raccoglievano le domande e le aspettative, ma stentavano a rintracciare un percorso di crescita, frenate da un dimensionamento troppo pesante e da assetti gerarchici troppo estesi.

La svolta si verificò negli Anni 80 quando il sistema industriale parve riacquistare lo smalto perduto. Nei caratteri di fondo l’economia piemontese era inalterata rispetto a un quarto di secolo prima. Del resto, chi avrebbe potuto confutare i successi della sua industria? La Fiat Uno era l’auto più venduta del mondo, il personal computer M24 Olivetti il più diffuso anche in Usa. A New York sulla Quinta Strada le vetrine esponevano gli abiti di Armani e Valentino prodotti da un’altra grande impresa torinese, il Gruppo Finanziario Tessile. Eppure, 25 anni dopo, quel periodo rischia di apparire un’occasione mancata: non si utilizzò la consistenza economica del territorio per farlo evolvere oltre le basi naturali. Permaneva un divario fra l’industria e il sistema dei servizi, mentre la dotazione infrastrutturale accumulava carenze e ritardi. Gli Anni 80 sono stati l’ultima grande stagione industriale del Paese quando ancora non s’erano affacciati i molti, nuovi concorrenti che la globalizzazione avrebbe portato alla ribalta.

Le difficoltà successive sono da imputare anche a un processo di diversificazione che ha tardato troppo a progredire. Oggi l’industria produce servizi non meno di manufatti; anzi, deve operare in misura efficiente gli uni e gli altri, in un contatto costante. Ciò ha diluito la purezza manifatturiera del «modello Piemonte» e ha allargato il numero e la varietà dei soggetti che lo compongono. Non possiamo ancora stimare la nuova configurazione che gli imprimerà la crisi attuale. Possiamo però prevedere che si porrà in un asse di continuità con quell’orientamento all’economia reale che l’ha sempre contraddistinto.

Dalla relazione che l’autore terrà oggi a Torino, al convegno internazionale «Modello Piemonte: sistemi ed economie territoriali a confronto», organizzato per i cinquant’anni dell’Ires.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:48:47 am »

Giuseppe Berta, storico dell’economia: «Una città che reagisce al colpo improvviso»

di Marco Tedeschi


Torino che marcia per il lavoro. Torino che ha paura... Sembrano lontanissime le luci delle Olimpiadi. Sembra lontanissima la corale festa sul Po, quando venne presentata la nuova Cinquecento. Nel parliamo con Giuseppe Berta, torinese, storico dell’economia (insegna alla Bocconi) che la sua città ha studiato in tanti aspetti della sua storia e soprattutto in quelli che riguardano il lavoro.

Perché proprio Torino?
«Perché Torino è in questo senso, nelle difficoltà d’oggi che toccano il mondo intero, sovraesposta. Le radici della crisi non sono industriali, ma la crisi ha fatto sentire i suoi effetti nefasti sull’industria e in particolare su quella automobilistica, che è la prima industria nazionale e il cuore stesso, ancora di Torino. La drammaticità viene dalla rapidità con cui la crisi si è manifestata. Tutto è avvenuto all’improvviso dopo che per un lungo periodo la città aveva giocato la carta della diversificazione, con importanti risultati, sul terreno della nascita di nuovi servizi e della affermazione di nuove attività. In sei mesi lo scenario s’è corrotto in un orizzonte nero».

C’è una risposta possibile? Quale strada seguire?
«Tutto segnala un problema di mancanza di liquidità che incombe sul sistema delle grandi imprese. È come se si pompasse sangue nelle vene di un malato, senza esser riusciti a eliminare i grumi che ostruiscono il fluire del sangue. Che fare, allora? Bisognerebbe riuscire a ridare fiato alle imprese, attraverso il credito. Ma le soluzioni andrebbero cercate, radiografando accuratamente il nostro sistema produttivo, caso per caso, distretto per distretto, territorio per territorio. Bisognerebbe dall’altro lato ampliare al massimo la gamma della garanzie degli ammortizzatori sociali, per soccorrere le situazioni sociali più gravi e per ridare dinamismo ai consumi. Ma soprattutto, per quanto riguarda in particolare l’auto, bisogna continuare lungo la strada dell’innovazione. Per l’auto eletttrica. Bisognerebbe ricordare ad esempio il tentativo del povero Andrea Pininfarina, che aveva scommesso appunto sull’auto elettrica, su nuovi propulsori».

Come sta reagendo Torino?
«Sta reagendo bene, cioè con una elevata capacità di reazione. D’altra parte nella sua storia ne ha vissuti tanti di momenti drammatici. Ha imparato a mantenere la speranza. Anche se in questo caso è difficile. Si sono sempre vissuti conflitti aspri, ma finora si aveva avuto la certezza di poterne uscire con sacrifici ma anche con un bilancio positivo, nel segno del progresso...».

Che cosa pensa del progetto del ministro Sacconi, per regolamentare gli scioperi nei trasporti?
«Credo che regole fosse necessario immaginarle. Regole nuove di fronte alla nuova complessità del sistema. La mappa del trasporto pubblico sta cambiando interamente. Basterebbe pensare all’alleanza possibile tra Roma e Milano... ma non si pensi di poter gestire le trasformazioni, escludendo il conflitto. Non si pensi di poter abolire il conflitto per decreto».

28 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 25, 2009, 09:01:09 am »

25/3/2009
 
Essen-Torino promozione e reputazione
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
In Europa, quando si parla di cultura si intende in realtà riferirsi a un complesso di attività utili allo scopo di accompagnare il passaggio da una società a carattere industriale a una ad assetto più diversificato, in cui il sistema dei servizi si sviluppa sul ceppo manifatturiero preesistente. La cultura è l’elemento promotore di questa trasformazione. Ecco perché essa si declina e manifesta in tante forme spurie, in cui gli elementi di valorizzazione del patrimonio storico e artistico s’intrecciano ad altri che hanno una semplice finalità di richiamo mediatico. Persino una città come Essen, cuore della Ruhr tedesca, ha titolo per figurare fra le città scelte come «capitali europee della cultura» e lo diverrà l’anno prossimo.

Essen richiama alla memoria l’industria pesante, le ciminiere degli impianti siderurgici, la storia della famiglia Krupp (ancor oggi la città ospita il quartier generale della ThyssenKrupp e di una dozzina di imprese fra le prime cento della Germania). Che cosa potrà accreditare questo grande centro economico a svolgere un ruolo culturale significativo? La risposta si può trovare su Internet, dove è ben documentato lo sforzo che gli amministratori compiono per dare un’immagine diversa a Essen, puntando sulla creazione di un importante centro d’arte contemporanea e dando rilievo a monumenti urbani significativi come la cattedrale e la sinagoga. Tutto questo per sottolineare come la città abbia perso il monocromatismo di un’epoca fondata sul carbone e sull’acciaio per aprirsi a un ventaglio di attività che richiede un ambiente più attraente. Di qui la scommessa sulla cultura.

Non c’è nulla di originale in questa politica urbana. Non sfugge come il percorso virtuoso scelto per Essen ricalchi, in buona sostanza, l’esperienza di Torino, fra i primissimi grandi centri industriali d’Europa a incamminarsi sulla via della diversificazione, attraverso la riscoperta della propria storia culturale e artistica.

Molte frasi oggi impiegate per rendere convincente la trasformazione della città tedesca sembrano tolte di peso dalle rappresentazioni che Torino ha offerto di sè negli ultimi anni. La dotazione d’arte e cultura del capoluogo piemontese risulta imponente a paragone delle risorse storiche che può vantare Essen. Per non parlare della piacevolezza della posizione geografica di Torino, esaltata dalle Olimpiadi invernali 2006, a fronte delle caratteristiche ambientali della Ruhr (dove, dicono le statistiche, il mese più piovoso è agosto). Insomma, Torino avrebbe buone ragioni per inorgoglirsi della propria primogenitura, al punto da poter guardare con un po’ di condiscendenza al tentativo di Essen di migliorare radicalmente la qualità della propria immagine. Se non fosse che il credito di Torino rischia di uscire seriamente scosso dalle cronache giudiziarie di questi giorni. La reputazione è il capitale più volatile. Si lavora anni per accumularlo, ma basta pochissimo per disperderlo, sotto i colpi di vicende e scandali dai risvolti un po’ sordidi. Torino ha fatto tanto per restaurare e innovare il proprio prestigio culturale, riportando alla luce il volto nascosto o rimosso della città.

Ora rischia di dissipare la recente credibilità a causa di episodi che dimostrano come non si sia riusciti a gestire l’ordinaria amministrazione delle istituzioni culturali. In gioco non è tanto la funzione della cultura in astratto, ma la capacità di amministrare un’immagine del territorio in grado di assicurare quella forza d'attrazione indispensabile per sostenere la concorrenza fra le città e le regioni europee.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 05, 2009, 11:20:57 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 31, 2009, 03:46:55 pm »

31/3/2009
 
Torino, America
 
GIUSEPPE BERTA
 
La Chrysler non ha nessuna speranza di potercela fare senza l’apporto di prodotti, tecnologie e capacità organizzativa che le può recare la Fiat: questa la conclusione raggiunta ieri dalla task force nominata dal presidente Obama per fronteggiare una crisi dalle ripercussioni devastanti per l’industria dell’auto americana.

Nella sua relazione finale la task force guidata da Steven Rattner non usa certo la mano leggera nei confronti dei gruppi automobilistici di Detroit, esprimendo giudizi molto severi sui piani di ristrutturazione presentati da General Motors e Chrysler. Li rigetta entrambi come inattendibili, criticando le misure indicate per la loro inadeguatezza ad assicurare le condizioni indispensabili per un rilancio effettivo. Le conseguenze sono per la Gm un cambio al vertice immediato, con la sostituzione di Rick Wagoner da parte di Fritz Henderson, un altro dirigente cinquantenne della casa di Detroit, e per la Chrysler la sollecitazione a proseguire nella definizione dell’alleanza con la Fiat, in cui si ravvisa l’unica possibilità di salvezza. Così, il governo Obama è disposto ad accordare alla Chrysler altri 30 giorni di sopravvivenza per mettere a punto un piano organico di alleanza col gruppo torinese. Se entro questo termine non sarà stata elaborata un’intesa fondata su un credibile progetto industriale, la vicenda della terza casa storica di Detroit sarà da considerarsi conclusa. Al contrario, se il patto tra Fiat e Chrysler convincerà il governo americano, questo è pronto a sostenerlo con l’erogazione di altri 6 miliardi freschi di dollari (uno in più di quanto aveva già richiesto la Chrysler).

La vera sfida comincia quindi adesso. La Fiat si trova nella posizione di dover portare a compimento un’alleanza sul mercato americano, da cui è stata a lungo lontana e in cui aveva ripetutamente progettato di sbarcare negli ultimi anni. Ma ciò succede proprio nel momento più difficile, quando le vendite di auto sono al minimo. Quest’anno in Nord America esse dovrebbero ammontare a circa 10 milioni, quando ancora nel 2007 erano 16,5 milioni. Una contrazione impressionante, che ha fatto precipitare in una voragine i conti dell’industria automobilistica Usa, dopo un decennio di declino in cui il suo vantaggio storico era stato progressivamente eroso dai concorrenti, soprattutto giapponesi.

Per la Fiat inizia di sicuro la partita più impegnativa. Essa è chiamata a riscattare la situazione di un’impresa che nel 2009 ha calcolato un taglio dei suoi volumi di prodotto pari al 60 per cento. Il gruppo italiano non dovrà conferire alla nuova alleanza soltanto i suoi modelli, le sue piattaforme, i suoi motori. Deve trarre la Chrysler dallo stato di obsolescenza dove è scivolata e che la crisi globale ha esasperato. Deve modernizzare i suoi impianti produttivi, rinnovare radicalmente la sua gamma d’offerta e renderla attrattiva per i consumatori americani, realizzare automobili in linea con gli obiettivi ambientali e di risparmio energetico propugnati dall’amministrazione democratica. Per vincere una simile scommessa la Fiat deve contare su qualcosa di più delle sue competenze e delle sue dotazioni: deve fare appello fino in fondo all’orgoglio industriale di Torino, dimostrando di saper corrispondere al ruolo di protagonista del sistema dell’auto senza il quale non si supera la dura selezione darwiniana che la crisi impone ai produttori del settore di tutto il mondo.

Da tempo Sergio Marchionne ripete che il futuro delle case automobilistiche dipende dal raggiungimento di elevati volumi di prodotto. L’America costituirà un banco di prova fondamentale in questo senso per l’industria automobilistica, come lo è stata in altro modo nel passato. La riconversione che bisognerà affrontare sarà la più profonda che abbia mai conosciuto. Lo pone in luce la valutazione che la task force governativa ha manifestato sulla Gm, costringendo Wagoner alle dimissioni. Dalla metà degli Anni Cinquanta fino al 2007 la Gm ha costantemente figurato nelle posizioni di testa della classifica della rivista Fortune relativa alle maggiori imprese del mondo, ma già nel 1946 Peter Drucker l’aveva segnalata come una sorta di modello di riferimento. Ancora un decennio fa la Gm era stata identificata come il partner ideale per la Fiat, il soggetto capace di garantirle un futuro e una continuità. Ora invece tocca alla Fiat di verificare sul campo la propria capacità di riportare l’auto americana sul sentiero dello sviluppo. Senza peraltro dimenticare che la scena asiatica sarà l’altro teatro decisivo per l’evoluzione della produzione automobilistica, giacché il primo mercato del mondo è diventato ormai quello cinese, l’unico oggi in crescita, dove è atteso un aumento delle vendite del 10 per cento.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:21:23 am »

5/4/2009
 
La scommessa del quarto capitalismo
 
 
GIUSEPPE BERTA
 

Quale posto deve occupare l’industria nell’assetto economico dei Paesi sviluppati? La crisi ha ricondotto i sistemi di produzione e il mondo delle imprese industriali al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, dopo che per anni la sfera della manifattura era sembrata destinata a perdere irreparabilmente di rilievo a paragone della crescita dell’economia dei servizi. Oggi ci si interroga sul destino che avranno i grandi complessi produttivi, a cominciare da quelli dell’automobile, cui nessuno dei governi occidentali pare disposto a rinunciare. L’universo della produzione viene riscoperto e valorizzato nel momento in cui si sottolinea la sua funzione di pilastro dell’organizzazione economica. Ma ciò avviene proprio quando la crisi sfida la continuità delle strutture industriali, mettendo alla prova la loro capacità di sopravvivenza.

Le incertezze del presente mostrano come sia stata contraddittoria la percezione della realtà dell’industria in questo primo scorcio del Ventunesimo secolo. Pensiamo al caso del nostro Paese: qualche anno fa, si è discusso a lungo della «scomparsa dell’Italia industriale» (per dirla con le parole di Luciano Gallino), scorgendo in questa tendenza il sintomo di un processo di declino economico ormai inarrestabile. Nel nostro apparato produttivo sono stati così riscontrati i difetti peggiori: mentre le grandi imprese storiche decadevano, la scarsa capacità dinamica della nostra economia industriale veniva spesso imputata alla proliferazione e alla disseminazione delle imprese minori.
 
Insomma, era come se l’Italia possedesse, allo stesso tempo, troppa manifattura ereditata dal passato e poca industria concentrata e moderna. Aveva ancora troppi «colletti blu» e pochi lavoratori ad alta specializzazione. Da queste considerazioni nasceva da più parti l’invito ad accelerare una trasformazione che superasse questo stato di cose obsoleto per completare anche in Italia il passaggio a una più progredita economia dei servizi. Con la crisi la prospettiva è sicuramente mutata. Sia perché si è verificata una riscoperta, benché sovente un po’ di maniera, dell’economia reale e delle radici produttive, sia perché l’immagine dell’Italia industriale è stata rivalutata.

Al punto da legittimare l’esortazione a riscoprire il nostro «orgoglio industriale», come scrive oggi Antonio Calabrò, sperimentato giornalista alla guida delle relazioni istituzionali della Pirelli (Orgoglio industriale. La scommessa italiana contro la crisi globale, Mondadori, pp. 184, € 17,00). Il saggio di Calabrò costituisce una sorta di atlante dell’attuale Italia produttiva, di cui elenca puntigliosamente meriti, attitudini e benemerenze. È un sistema economico che trova il suo fulcro nelle regioni settentrionali, dove si è disegnata, nel corso dell’ultimo decennio, una nuova, consistente mappa di attività imprenditoriali che hanno cambiato il volto dell’organizzazione d’impresa. Anche Calabrò, che naturalmente non dimentica il ruolo delle grandi imprese, si sofferma estesamente sul profilo del «quarto capitalismo» delle imprese di medie dimensioni, agili e internazionalizzate, dove si è incardinato un bacino di vivacissima imprenditorialità. È su questa realtà solida, sedimentata nel tempo, che secondo Calabrò occorre continuare a investire, con l’occhio già rivolto al domani, quando la crisi sarà superata e il cammino dello sviluppo potrà essere ripreso.

C’è ancora l’industria, quindi, nel futuro dell’Italia. Un’industria che però non può assorbire i volumi di occupazione del passato né configurare attorno a sé un modello di società. Essa resta soprattutto come un nucleo d’iniziativa economica di cui non si può fare a meno, né dal punto di vista economico né da quello civile. Un Paese come il nostro ha bisogno della risorsa rappresentata dall’industria perché essa garantisce apertura internazionale, capacità d’innovazione, sollecitazioni al confronto e alla concorrenza. Senza una forte presenza industriale, l’Italia rischierebbe di essere soffocata da quella massa mucillaginosa di attività e di comportamenti collusivi che, come ha denunciato il Censis un paio d’anni, fa potrebbero bloccarne lo sviluppo.
 
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:52:31 pm »

19/4/2009
 
Così Detroit può ripartire. Da Torino
 
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
L’industria dell’auto americana, e di conseguenza mondiale, è alla vigilia di una rivoluzione. Quanto sta avvenendo a Detroit, dopo la relazione della task force nominata dal presidente Obama su quella che è stata un tempo l’industria Usa per eccellenza, è destinato a sconvolgere l’assetto di un settore che si è retto per un lungo tratto del Novecento su uno schema consolidato. Con la trasformazione radicale di General Motors e Chrysler, il sistema di Detroit cambia volto e dimensioni.

La General Motors sta per subire uno smembramento, dettato dall’insostenibilità dell’indebitamento aziendale di fronte alla caduta del mercato, che scomporrà i suoi marchi e le sue attività, distinguendo le parti sane da quelle irrimediabilmente malate, in modo da sottoporle a una revisione completa e poi, probabilmente, a un riaccorpamento. Si affaccia la possibilità, presentata ieri da Automotive News, che i marchi Gm potranno rientrare in un negoziato da cui potrebbe uscire un nuovo grande gruppo, da realizzarsi con Fiat e Chrysler. Saranno i prossimi mesi a verificare il fondamento di questa prospettiva, in cui resta l'incognita costituita dalla Ford, l'unica superstite delle «Big Three» di una volta, che non potrà non reagire anch’essa alla riorganizzazione in atto. Per il momento, Sergio Marchonne deve chiudere la delicata partita che sta giocando in queste settimane su più fronti. Se l’operazione chirurgica più ardua è quella che deve compiersi sul corpo della Gm, con i suoi 250 mila dipendenti e un indotto di proporzioni ancora mastodontiche, è la trattativa in corso tra Fiat e Chrysler a mettere a nudo per intero i punti critici del sistema dell’auto americano, i nodi che deve sciogliere per la propria sopravvivenza.

Marchionne si è finora dovuto muovere su due versanti contemporaneamente per definire le condizioni che renderanno possibile la stipula dell'alleanza con la Fiat. Da un lato, occorre fronteggiare la mobilitazione dei detentori dei corporate bonds di Chrysler, refrattari ad accettare a una caduta verticale dei titoli nelle loro mani. Su questo negoziato, che naturalmente chiama in causa il ruolo delle banche, il governo può far pesare la sua influenza. Dall’altro lato, negli ultimi giorni si è surriscaldato il confronto col sindacato: rivolgendosi alla federazione dei lavoratori dell'auto del Canada (dove sono ubicati impianti produttivi Chrysler), Marchionne ha detto che l’alleanza non andrà in porto, se tale organizzazione non accetterà una netta riduzione delle prerogative acquisite.

Non è un caso che la presa di posizione dell’amministratore delegato Fiat abbia suscitato il plauso del senatore repubblicano Bob Corker del Tennessee, il critico più duro degli aiuti concessi dal parlamento americano alla fine dell’anno scorso. Lo stato del Tennesse ospita alcune delle aree dove si sono insediate le fabbriche d’auto di produttori giapponesi ed europei, in cui si applicano paghe e normative di lavoro imparagonabili a quelle in vigore a Detroit. Marchionne oggi domanda alla United Automobile Workers, il sindacato dell’automobile, di disporsi a un passo gravoso, riducendo le tutele e le garanzie introdotte nelle fabbriche di Detroit dal 1937 in avanti, da quando cioè si era imposto il metodo della contrattazione collettiva dopo uno dei più aspri e massicci conflitti del lavoro della storia Usa.

Sarebbe la prima mossa verso il superamento del divario che separa in due il mondo dell’auto, opponendo i territori di vecchia industrializzazione come il Michigan agli stati dove l’industrializzazione è un fenomeno più recente, come appunto il Tennessee. La Uaw si trova così dinanzi al dilemma di scambiare livelli salariali, coperture assistenziali e pensionistiche con la speranza del mantenimento del posto di lavoro. È chiaro, tuttavia, che il sindacato ha bisogno per contraccambio anche di un riconoscimento simbolico, quale potrebbe essere una consistente partecipazione al capitale d’impresa.

Se Marchionne otterrà le condizioni richieste, allora l’alleanza potrà decollare e si potrà mettere mano a quella riorganizzazione totale dell’automotive americano cui la Chrysler deve fare da apripista. L’intesa Fiat-Chrysler sta dunque diventando la chiave di volta per ridisegnare da cima a fondo il sistema dell’auto. Può darsi che il lavorìo concitato di queste settimane metta capo a un nuovo grande gruppo su scala globale, sull'onda della fusione e dell’ibridazione di due esperienze industriali, l’europea e l’americana. Un gruppo effettivamente multinazionale, radicato in Usa come in Europa e in America Latina, con una presenza di mercato vasta e integrata, forte di un’estesa gamma di prodotto. Se ciò si verificherà, si potrebbe davvero dire che di lì incomincia la nuova storia industriale del Ventunesimo secolo.

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« Risposta #9 inserito:: Aprile 27, 2009, 11:35:41 am »

27/4/2009
 
Industria dell'auto, il peso dei manager
 
GIUSEPPE BERTA
 

Anche nei prossimi giorni il destino del settore dell’auto campeggerà nei titoli di tutto il mondo dell’informazione. Man mano che i termini imposti dal governo americano a Chrysler e a Gm si avvicinano alla scadenza, cresce la drammatizzazione impressa alle notizie, un fenomeno che dà origine a un affastellarsi di voci e di opinioni contraddittorie, in cui si mescolano elementi di aspettativa, di timore, di dubbio. Al di là di ogni polemica, è fin troppo evidente che nessuna attività economica è riuscita come l’industria dell’auto a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica. Nonostante le trasformazioni che si sono verificate nel tessuto dell’economia negli ultimi vent’anni, per la gran parte del pubblico l’industria continua a identificarsi largamente con la produzione automobilistica. Non sono bastati i progressivi snellimenti che il settore ha subìto per far venire meno la sua caratteristica fondamentale di costituire una concentrazione di persone, tecnologie, organizzazione senza riscontro negli altri comparti.

È così da un secolo, da quando Henry Ford lanciò la sua rivoluzione, imperniata sulla produzione di massa di quello che era stato fin lì un bene di lusso, appannaggio di una ristrettissima élite. La storia vera dell’industria automobilistica incomincia allora, dalla linea di montaggio dello stabilimento di Highland Park, per diventare una vicenda di straordinarie fortune e di maestosi fallimenti, di sviluppo e di contrasti, che ha fatto da contrappunto a tutto il ’900 e si prolunga ancora nel nostro secolo. Per molti versi, si è trattato di una storia eccezionale, fuor di misura. Come fuor di misura sono state le personalità che l’hanno animata: basti pensare, sul fronte imprenditoriale, alla genialità unita alla follia autocratica dello stesso Ford, o al calibro di uomini come il fondatore della Fiat, Giovanni Agnelli, o Louis Renault o Ferdinand Porsche e gli altri protagonisti che hanno stampato un’orma durevole sull’economia europea. Ma l’auto è un’industria in cui il ruolo dei manager ha avuto un peso elevatissimo: parlando di Chrysler, chi non ricorda Lido «Lee» Iacocca, il manager che la risanò negli Anni Ottanta, quando era già arrivata sull’orlo del tracollo? Scongiurando il fallimento della Chrysler, Iacocca aveva voluto dimostrare la sua capacità ai Ford, che non gli avevano dato accesso alla responsabilità di vertice della loro azienda. Prima di lui, un altro manager d’eccezione, Alfred P. Sloan, aveva costruito l’enorme edificio della General Motors, strappando la supremazia sul mercato alla Ford. In ogni epoca, l’auto ha rappresentato un decisivo terreno di prova per saggiare l’abilità manageriale, creando e distruggendo carriere, come ha appena dovuto constatare amaramente su di sé Rick Wagoner, che Obama ha estromesso dalla guida della Gm. È proprio questo retroterra a far risaltare oggi l’avventura di Sergio Marchionne, impegnato in un progetto che, se riuscirà ad acquisire il controllo della Chrysler, dominerà la scena per anni.

I più grandi conflitti del lavoro, infine, sono stati combattuti proprio sullo sfondo delle fabbriche automobilistiche. Tutti in Italia ricordano eventi e date simbolo come l’Autunno Caldo del 1969 e la Marcia dei Quarantamila del 1980. Ma in America la storia sindacale è stata ancora più drammatica: la Uaw, il sindacato dell’automobile, celebra fra i suoi momenti fondativi il tremendo pestaggio che nel 1937, a Detroit, Walter Reuther, il leader che sarebbe poi divenuto amico di John Kennedy, e i suoi compagni subirono a opera dei vigilantes di Ford, armati di mazze da baseball.

Difficile dunque parlare dell’industria dell’auto senza evocare, magari indirettamente, un passato unico per quanto ha convogliato dentro di sé. Per di più, oggi è netta la sensazione di trovarsi davanti a un passaggio che, per il modo in cui lo si affronterà, segnerà un cambio d’epoca. Comunque vadano le cose, la procedura di fallimento concordato a cui è avviata la Gm sancirà la fine dell’assetto del sistema dell’auto che abbiamo conosciuto. Esso si imperniava sul primato dell’industria americana: ora invece sarà la Toyota, pur anch’essa in crisi, a collocarsi in cima alla classifiche dei produttori. A questo punto, però, lo scenario si complica, aprendosi a diverse soluzioni. La Fiat ha scelto di giocare d’anticipo, muovendosi per prima allo scopo di conquistare una posizione di forza all’interno di un quadro in fase di rapido mutamento. Il gruppo torinese ha deciso, come ha scritto l’Economist, di essere il cacciatore e non la preda. Una mossa che ha rafforzato la sua capacità di negoziato sulla scacchiera delle alleanze e che attende ora il proprio esito.
 
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