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Autore Discussione: Beppe SEVERGNINI. -  (Letto 77680 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:10:02 pm »

AGO
14

Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi
Noi maschi dovremmo occuparci di più del femmicidio

di Beppe Severgnini


Ero a Madonna di Campiglio e li ho incrociati. Professionisti di mezza età con redditi da adulti e vezzi da giovani: un’auto veloce, un’attenta trasandatezza nei vestiti, le salite in bici come nuova sfida, il calcio o il tennis praticati con agonistica serietà, i risultati esibiti come prove di gioventù residua. Chiacchiere notturne di amori e viaggi. L’estate come stagione speciale, un catalogo di possibilità tra città vuote e spiagge piene; e la montagna dell’infanzia, dove tornare da vincitori.

Non ho incontrato Vittorio Ciccolini con Lucia Bellucci, ma avrei potuto. A Campiglio come in tante località turistiche italiane, belle e borghesi.

Una coppia italiana in rotta verso un ristorante: lei, estetista, sorridente sotto tanti capelli; lui, avvocato, concentrato come il protagonista di un telefilm. Finito male, purtroppo: Vittorio, veronese di 45 anni, ha ucciso Lucia, pesarese di 31 anni. L’ha strangolata, l’ha accoltellata, ha cercato di metterne il corpo nel bagagliaio della Bmw cabrio, non c’è riuscito e ha guidato col cadavere a fianco fino a Verona. Poi ha chiuso macchina e vittima nel garage della madre. Arrestato, ha confessato: «Ho fatto una cavolata». Chiamala cavolata.

La sociologia dell’orrore è rovesciata: i mostri non sono semplificazioni lombrosiane, personaggi abbruttiti e abitualmente violenti. Molti studiano, lavorano, guadagnano, si vestono bene. Tra di noi ci sono uomini tragici e pericolosi mascherati da persone prevedibili; e li riconosciamo quando è tardi.

Noi maschi dovremmo occuparci di più del femmicidio: parlarne, scriverne, domandare, provare a capire. Anche a costo di dire e scrivere leggerezze. È invece un dramma confinato in un universo femminile: ne parlano le donne, ne scrivono le donne, le fotografie sono quasi sempre delle vittime e non dei carnefici. È come se noi uomini volessimo prendere le distanze da qualcosa che non capiamo e di cui abbiamo paura.

Ha ragione Giulia Bongiorno, che suggerisce di evitare “l’ultimo incontro” che spesso il maschio ossessivo pretende: perché potrebbe diventare l’ultimo per davvero. Intervistata da Giulia Dedionigi su Corriere.it, l’avvocato penalista annuncia che assisterà i famigliari della ragazza uccisa a Campiglio. E consiglia alle donne di non minimizzare, di interpretare i segnali in modo razionale:

«un approccio pressante non è più corteggiamento, ma un’indicazione che qualcosa comincia a non andare».

L’avvocato Bongiorno ha ragione: ma non è facile.

Sul sito dello Studio Legale Corcioni di Verona, dove l’omicida lavorava, una biografia esemplare nella sua normalità. «Vittorio Ciccolini – Nato a Verona il 20 luglio 1968, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Modena il 4 marzo 1997 con la votazione di 110/110, titolo della tesi Problemi in tema di colpevolezza. Ha superato l’esame di Stato presso la Corte d’Appello di Venezia. È iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona e alla Camera Penale Veronese. Si occupa di affari penali, anche in qualità di difensore d’ufficio, ed è costantemente impegnato in vari approfondimenti della materia. Sue passioni, oltre il diritto, sono la lettura di testi filosofici del Maestro di Königsberg (der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir), la pratica del tennis a buon livello, dello sci e la ricerca di funghi (stagione permettendo, Boletus edulis e Cantharellus cibarius)».

Filosofia e micologia. Kant e funghi. Sci e tennis. Codici e processi. E poi, una sera d’agosto del 2013, un giro in Val Rendena, simile a tanti altri. Raccontano i camerieri della locanda “Mezzosoldo” di Pinzolo al cronista dell’Adige: «Hanno mangiato tagliata con verdure e bevuto due bottiglie di Marzemino, lui assecondava in tutto le richieste di lei e poi andava continuamente in bagno». Sono usciti dal locale e hanno parlato a lungo nel parcheggio. Poi sono partiti. Il finale, purtroppo, lo sappiamo.

È in questa normalità che noi maschi dobbiamo scavare. 762 donne uccise dal 2009: una ogni tre giorni. Non chiamiamoli “omicidi passionali”: la passione non c’entra. Non chiamiamoli raptus: sono atti spesso prevedibili e talvolta preparati. Sono azioni covate tra ossessione, orgoglio ed egoismo, che sfociano in un epilogo orrendamente semplice. «Ogni delinquente va soggetto, nel momento del delitto, a una specie di prostrazione della volontà e della ragione, alle quali subentra invece una puerile, fenomenale leggerezza…».

Vi sembra eccessivo ricorrere a Fedor Dostoevskij per cercare di capire un avvocato di Verona che in una notte d’estate uccide e si distrugge? Non lo è. I démoni purtroppo sono tra noi, e dentro di noi.

twitter @beppesevergnini

da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/noi-maschi-dovremmo-occuparci-di-piu-del-femmicidio/
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« Risposta #61 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:29:44 pm »

LAMPEDUSA È UN’EMERGENZA COMUNE

Il muro europeo dell’indifferenza


L’Europa non sa più emozionare, dicono. Se fosse vero, sarebbe grave. Di sicuro, l’Europa non sa più emozionarsi: e non è meno grave. La tragedia a puntate nel Canale di Sicilia non viene percepita come un dramma comune. Non saranno agenzie come Frontex o programmi come Eurosur, da soli, a trovare le soluzioni per affrontare una migrazione epocale dall’Africa e dal Medio Oriente. Saremo noi, mezzo miliardo di europei. Ma gli europei per ora sanno poco, pensano in fretta, agiscono tardi.

L’anatomia continentale, in fondo, è semplice. Le istituzioni Ue rispondono - direttamente o indirettamente - alle opinioni pubbliche nazionali, le opinioni pubbliche nazionali rispondono ai propri occhi e alla propria pancia. Ciò che vedono e sentono è fondamentale. I soccorsi internazionali, dopo il terremoto dell’Aquila (2009), sono arrivati perché la comunità degli europei ha saputo, ha visto, ha capito e ha risposto. La distesa di bare posata oggi sulla porta dell’Europa - i morti accertati dopo i recenti naufragi sono più numerosi delle vittime in Abruzzo - non è bastata a smuovere gli uomini e le donne del continente. I cadaveri dei bambini che galleggiano nell’acqua non hanno toccato il cuore di irlandesi e olandesi, inglesi e polacchi, tedeschi e spagnoli.


L’America ha invece mantenuto la capacità di emozione collettiva. La lingua comune e alcuni media - dal New York Times ai network televisivi, da Usa Today a National Public Radio - hanno conservato una capacità di mobilitazione. Vent’anni fa, l’intervento in Somalia seguì alcune sequenze traumatiche in televisione; la risposta militare in Afghanistan è figlia delle immagini sconvolgenti dell’11 settembre. Un disastro naturale - pensate all’uragano Sandy, un anno fa - viene percepito come un problema federale; quindi, per definizione, collettivo. La risposta adeguata di Barack Obama, in quel caso, s’è rivelata fondamentale per la rielezione. La risposta inadeguata di George W. Bush all’uragano Katrina (2005) ha segnato quella presidenza.


In Europa non avviene. Emozioni e reazioni, punizioni e premi, sconfitte e vittorie: tutto è locale. Abbiamo messo insieme i mercati, non il cuore e il futuro. I media, diversi per lingua, sono divisi. Internet è potente e ubiqua, ma dispersiva: permette la parcellazione dei problemi e, quindi, delle risposte. Ognuno dei 28 Paesi dell’Unione è assorbito dalle proprie ansie: il deficit, la disoccupazione giovanile, il finanziamento del Welfare, i partiti xenofobi. Anche le migrazioni, certo: ognuno le sue. La Grecia guarda al confine turco. Germania e Polonia ai movimenti dall’Est. In Nord Europa e nelle isole britanniche discutono di migrazioni, in questi giorni. Ma non quelle in corso dall’Africa e dalla Siria attraverso il mare. Quelle attese di romeni e bulgari, che dal 1° gennaio potranno muoversi liberamente nella Ue.


Gli spagnoli, dieci anni fa, gridavano che i cadaveri marocchini sulle coste erano un dramma di tutti: nessuno li stava a sentire. Oggi tocca a noi sperimentare la sordità dell’Europa. Giorgio Napolitano ha ragione quando ricorda, angosciato, che nel Canale di Sicilia è in corso una tragedia collettiva, e tutti devono sentirsi coinvolti. Che malinconia: abbiamo bisogno di un uomo di 88 anni, che ha sperimentato dove conduce l’apatia europea, per ricordarci l’evidenza. Abbiamo messo in comune la moneta, non la coscienza. Ma sono le coscienze che cambiano la storia.

14 ottobre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Beppe Severgnini

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_14/muro-europeo-dell-indifferenza-a55d1e30-3490-11e3-b0aa-c50e06d40e68.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 18, 2013, 10:25:36 pm »

BERLUSCONI come Kurtz di Conrad

«Cuore di tenebra», il potere senza eredi

Non c’è spazio per il pensiero critico, nell’accampamento del Colonnello-Cavaliere. Solo per devozione, obbedienza, riconoscenza

Nel racconto Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Kurtz è un mercante d’avorio, inviato in Africa da una società belga: potente e spietato, si ritira gradualmente dalla civiltà, circondato dagli indigeni che lo adorano e lo considerano un semidio. Nel film Apocalypse Now l’azione si sposta nella giungla del Sud-est asiatico, durante la guerra del Vietnam: l’inquietante Colonnello Kurtz, interpretato da Marlon Brando, si rifugia nella parte remota di un fiume e diventa un rinnegato.
C’è perfino un videogioco ( Spec Ops: the Line ), ambientato in una spettrale Dubai. Gli autori, riconoscendo il debito, hanno chiamato il protagonista Colonel John Conrad.

Da Forza Italia al Pdl e ritorno: «Silvio risorgerai»
di Nino Luca

Kurtz non è solo un personaggio letterario.
È una tentazione perenne del potere. L’isolamento, la scelta di non misurarsi col mondo, il disinteresse per il futuro, la convinzione di costituire l’inizio e la fine. Denaro e carisma creano e mantengono una corte di adoratori e adulatori, disposti a rinunciare alla propria autonomia in cambio di incarichi, benefici e prossimità al capo. Sanno che criticarlo è impossibile: sarebbero disprezzati ed estromessi.

Non è Kurtz, Silvio Berlusconi: non ancora. Ma l’incapacità di organizzare una successione è diventata inquietante. Gli eredi politici vengono illusi e liquidati uno
a uno, appena manifestano segni di indipendenza. Sul Corriere di ieri Pigi Battista ha abbozzato un elenco: Antonio Martino, Marcello Pera, Pierferdinando Casini, Giulio Tremonti, Roberto Formigoni, Gianfranco Fini, ora Angelino Alfano. Ormai è chiaro. Non c’è spazio per il pensiero critico, nell’accampamento del Colonnello-Cavaliere. Solo per devozione, obbedienza, riconoscenza.

È un problema che ogni leader politico dovrebbe porsi, ma raramente avviene. Personalità, fascino e consapevolezza di sé - diciamo pure egocentrismo - sono necessari per sfondare. Sono le qualità che l’elettorato moderno chiede, non solo in Italia. Ma questi stessi elementi rendono difficile la successione: il leader carismatico vede l’erede come la prova della propria mortalità politica, e finisce per detestarlo. Lui o lei - pensate a Margaret Thatcher - si considera la misura di tutte le cose, e ci sarà sempre qualcuno, intorno, pronto ad assecondarlo. Per interesse, per debolezza, per gratitudine, per una combinazione di questi motivi.
La deriva conradiana non è un rischio limitato alla politica. In Italia Kurtz si nasconde nell’università e nell’industria, nella grande distribuzione e nella finanza, perfino nello sport e nel volontariato. Ma nella politica il fenomeno è particolarmente evidente e grave. Perché non c’è solo Berlusconi, e non c’è solo la destra.

Kurtz, da noi, non è solo un colonnello, bensì un maggiore, un capitano, un ufficiale di complemento: pensate a Marco Pannella, ad Antonio Di Pietro, a Umberto Bossi e al loro tramonto solitario. Pensate a Nichi Vendola, agli incarichi che accumula e agli errori che commette. Pensate a Mario Monti e al capitale politico che sta sprecando. Pensate a Beppe Grillo, autodefinitosi furbescamente «il portavoce» del movimento, quando ne è il padre-padrone, come dimostrano i recenti interventi in materia di cittadinanza e legge elettorale. Il M5S, senza di lui, non sarebbe nato; e tutto lascia credere che a lui non sopravviverà. È uno spettacolo collettivo che Matteo Renzi - instancabile, carismatico, ambizioso - deve osservare con attenzione. L’Arno non è il Mekong né il fiume Congo, e lui non deve cadere nella trappola di Kurtz.

Perché il giudizio su un leader si misura anche - anzi, soprattutto - sulla sua generosità: su quanto è capace di costruire e lasciare dopo di sé. L’Italia ha bisogno di una destra moderna, democratica ed europea: ne ha bisogno anche chi non la voterà mai. Una formazione politica che non dipenda dai destini, dagli umori e dalla risorse di un uomo solo. Silvio Berlusconi non ha il diritto di pensarci: ne ha il dovere. «Dopo di me, il diluvio!» è un pessimo motto. Dopo di sé meglio una pioggia leggera, poi nuovi fiori.

18 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
BEPPE SEVERGNINI @beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_18/cuore-tenebra-potere-senza-eredi-3df1d436-501d-11e3-b334-d2851a3631e3.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 16, 2013, 11:02:41 pm »

CHI STRUMENTALIZZA IL VERO DISAGIO

La geografia del malessere


Tutti abbiamo incontrato, negli ultimi giorni, persone preoccupate e deluse. Lavorano negli ospedali, sui treni, nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche e nelle caserme. La sera tornano in appartamenti di periferia, salgono per scale bisognose di manutenzione, parcheggiano davanti a una villetta a schiera. Di loro non ha parlato nessuno.

Abbiamo parlato tutti, invece, dei Forconi. Un nome bucolico e minaccioso, una miscela di frustrazione e prepotenza, la capacità di sfruttare l’ansia iconografica dei media. Non sono molti, qualche migliaio. Ma uno scontro di piazza produce immagini più interessanti di una riunione intorno al tavolo della cucina, cercando di far quadrare i conti.

Se l’Italia non esplode è per merito di milioni d’italiani seduti intorno a milioni di tavoli in milioni di cucine: ma non bisogna abusare della loro pazienza. Finché la protesta rimane in certe mani, ed esce da certe bocche, resta confinata al folklore: le divisioni grottesche intorno alla «marcia su Roma» lo dimostrano. I partiti politici non credano, tuttavia, di liquidare l’accaduto come uno sfogo. Indulgenti verso i Forconi, o mescolati tra loro, ci sono italiani normali: umiliati dalle autorizzazioni, assillati dai pagamenti, asfissiati dalle imposte.

Sono passati dieci mesi dal trionfo elettorale del Movimento 5 Stelle, e qualcuno sembra aver dimenticato la lezione. Esiste un’Italia che non ce la fa più: economicamente, fiscalmente, psicologicamente. Appena trova un megafono per gridare «Basta!» lo afferra. È una fortuna che, negli ultimi vent’anni, siano stati megafoni e non manganelli: dal referendum di Segni alla Lega di Bossi, dalle promesse di Berlusconi ai vaffa di Grillo.

Nessuno di questi, per motivi diversi, ha saputo diventare un partito: con le sue regole, i suoi ricambi, i suoi recuperi. Eppure tocca proprio a loro - ai partiti - creare il ponte tra le cose chieste e le cose fatte. Accade dovunque. Quando le democrazie hanno cercato alternative, hanno trovato guai. Come minimo, hanno perso tempo. La protervia, la pigrizia e l’egoismo famelico dei partiti italiani non costituiscono un’attenuante: non provino a tirarsi indietro. Matteo Renzi non ha solo il diritto di guidare il Partito democratico: ne ha il dovere. A Milano, ieri, non è stato «incoronato», come s’è letto. La corona spetta ai re; ai servitori toccano secchio e straccio, perché c’è molto da pulire e riordinare. Cambierà anche a destra e al centro? Si spera. Perché se i partiti non fanno il lavoro, ci penserà qualcun altro. E potrebbe risultare meno innocuo dei Forconi, meno velleitario di Beppe Grillo.

In una delle sue poesie più belle, The Second Coming , W.B. Yeats scrive: «I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata». In democrazia i migliori sono - dovrebbero essere - coloro che sono stati eletti per scavare nella complessità e uscirne con qualche soluzione. I peggiori non sono necessariamente cattivi, ma non hanno la preparazione, la disciplina e i mezzi per risolvere i problemi che si accumulano. Hanno invece passione, rabbia, energia. In mancanza di meglio, qualcuno potrebbe accontentarsi. Sarebbe un errore. Chi pensa che i problemi d’Italia si risolvano con sputi, vaffa e forconi, prenda un libro di storia, e capirà come può andare a finire. Male. Molto male.

16 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Beppe Severgnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_16/geografia-malessere-ed877a4a-6616-11e3-8b64-f3a74c1a95d8.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:46:44 pm »

Un collega della televisione olandese, Rop Zoutberg, chiede di registrare un’intervista sul Lungotevere, da utilizzare in un servizio ispirato a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Il clima è più nederlandese che italiano – sole ghiacciato, acqua grigioverde – e la domanda d’apertura lo conferma: “Cos’hai in comune con Jep Gambardella e con Roma?”. La prima parte della risposta è facile: più capelli e meno cinismo in testa. La seconda, invece, è complicata. Quant’è romano un italiano?

La prendo alla larga. Dico, indicando il fiume che schiaffeggia l’isola Tiberina, che Roma è la nave-scuola d’Italia: da lei abbiamo imparato a ingioiare molto e digerire tutto. Roma è la Grande Metabolizzatrice: datele tempo e ogni cosa verrà consumata e messa in circolo. Imperatori e papi, arte e ideologia, divertimento e sacrificio, genio e politica. Gli attori di oggi non si illudano: saranno presto le comparse di ieri, puntolini nella storia.

Invito il collega olandese, arrivato da poco in Italia, a non farsi ingannare da una città che, anche in questo, è assai italiana: gode a spiazzare chi osserva, si compiace della confusione altrui. Se qualcuno ci prende, invece, Roma si preoccupa. “La grande bellezza” poteva girarla soltanto un forestiero e piace soprattutto ai forestieri: perché offre un’interpretazione, di cui i residenti non hanno bisogno. Ogni romano ha la sua Roma in testa, e ci lavora dall’infanzia.

Anche “Otto e mezzo” (1963) è un capolavoro che solo un non-romano poteva girare: però ai romani piace. Il motivo è semplice. Federico Fellni dipingeva una città e una nazione in ascesa, mentre Paolo Sorrentino (2013) racconta una città e una nazione in stallo. Il primo genera indulgenza; l’altro, disagio. I personaggi del giro di Gambardella sono come le statue del Pincio: stanno lì a ricordare che in Italia e a Roma è successo di tutto, ma potrebbe anche non succedere niente. 

I nobili sfiniti, i naufraghi della sinistra presuntuosa, le donne aggrappate alle conoscenze e al botulino. Non sono più protagonisti, ma nuotano intorno al protagonisti del nuovo potere, che li usa per arredare le serate. Crede, con questo, di aver conquistato Roma; ne è invece rapidamente sedotto. Piazza del Quirinale intasata di auto blu per la “cerimonia degli auguri” (non erano solo ambasciatori!) vuol dire due cose: chi comanda continua a non capire, e Roma detta tempi e modi. Meridionali e settentrionali, forzisti e leghisti, ex-comunisti e neo-liberisti, conservatori e grillini (Laura Bottici, questore M5S al Senato, pure lei al Colle in auto blu). Date un titolo a un italiano e scriverà un romanzo: il suo.

La Grande Bellezza italiana assiste a tutto questo, impotente ma non sconfitta. La falsifichiamo, la calpestiamo, la inganniamo: ma è sempre lì, in attesa. Un olandese intirizzito sul Tevere in dicembre la coglie meglio di tanti di noi: omini agitati e immobili, come in quadro di  Hieronymous Bosch.

 
(dal Corriere della Sera”)

 Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 08, 2014, 10:43:49 pm »

EDITORIALE

Non tradite questi ragazzi
I troppi ostacolo al lavoro giovanile

Le discussioni sulla legge elettorale, per quanto indispensabili, rischiano di esasperare gli italiani. Chi ha due figli a casa, che da mesi cercano inutilmente un impiego, non può apprezzare gli esoterismi del sistema spagnolo o le discussioni sul modello tedesco modificato. Occorre, nel 2014, sbloccare il mercato del lavoro. Tutti i partiti, a parole, dicono di rendersene conto. Talvolta sono le parole sbagliate - Jobs Act ! ancora inglese, perché? E soprattutto, quali sono i contenuti? - ma è chiaro: il 41% di disoccupazione giovanile ha smesso d’essere una preoccupazione. È una bomba sociale a orologeria.
Chiunque abbia provato ad assumere un ragazzo conosce l’odissea cui sono costretti datore di lavoro e lavoratore.

L’apprendistato - il fiore all’occhiello del governo Monti, in Germania la porta d’ingresso al mondo del lavoro - deve passare sotto le forche caudine di dodici (12!) autorizzazioni. Il part time non ha mai preso piede (e molte aziende non lo concedono). I contratti a progetto sono spesso una farsa, che nasconde la totale assenza di un progetto. I contratti a termine riguardano ormai cinque rapporti di lavoro su sei: ma generano quel precariato cronico che sta azzoppando due generazioni. Restano i classici contratti a tempo indeterminato. I neolaureati che entrano così in azienda sono scesi dal 20% del 2004 al 5% del 2012: una percentuale irrisoria.

Perfino lo stage - la cui importanza non dev’essere sottovalutata: nove ragazzi su dieci passano di qui - è stato burocratizzato. La legge 148/2011 prevede che il datore di lavoro sia solo il tutor (sic) di un rapporto tra un’associazione di categoria e lo stagista. I due sono costretti a operare fianco a fianco: la legge ignora che, nel XXI secolo, il lavoro si svolge spesso a distanza e in movimento. Lo stagista, infine, deve pagare imposte sul reddito anche su un compenso di 500 euro mensili. Davvero questo Stato vorace vuole aiutare i ragazzi italiani? È necessario un Codice del Lavoro semplificato, integrato nel Codice Civile, tradotto - quindi, chiaro e traducibile - in inglese, come chiede l’Unione Europea. Un progetto è stato presentato nel 2009 da 54 senatori, e il Senato nel 2010 ha approvato una mozione in tale senso. L’idea è stata lodata da tutti, a destra (Berlusconi), a sinistra (Renzi) e nel sindacato (Uil). Tanto per cambiare, non è accaduto nulla.
I sindacati devono fare la loro parte. Non possono continuare a difendere i buchi neri delle aziende municipalizzate e, in genere, a proteggere chi è già protetto, ignorando chi è da sempre ignorato: i milioni di lavoratori atipici che si dibattono tra contratti astrusi. Centinaia di norme, infatti, si sono stratificate nel tempo, e oggi la legislazione del lavoro è così complessa da risultare comprensibile solo agli esperti.

La via d’uscita? Esiste, e se n’è parlato. Un contratto unico di ingresso, nessuno inamovibile, ma garanzie crescenti nel tempo, condizionate alla disponibilità del lavoratore alla riqualificazione e alla ricollocazione. Lungo il percorso, un servizio di orientamento professionale, capillare ed efficace.

Si può fare, il governo Letta ha la sua grande occasione. Gli inglesi, anche grazie al nudging (incoraggiamento individuale), ci stanno riuscendo. Noi italiani non siamo né più pigri né più stupidi. Siamo solo legati. E come i contorsionisti del circo, in questo modo, stiamo affondando. Ma i contorsionisti, alla fine, si liberano e riemergono. Noi rischiamo di restare, malinconicamente, sul fondo.

07 gennaio 2014
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Beppe Servegnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_07/non-tradite-questi-ragazzi-8a561da4-7760-11e3-823d-1c8d3dcfa3d8.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Febbraio 19, 2014, 11:37:30 am »

Qualità e debolezze di un leader

Le tentazioni del potere

«Ci metterò tutta l’energia, l’entusiasmo e il coraggio che ho», ha detto Matteo Renzi, accettando l’incarico di formare il governo. Affermazione rassicurante, ma prevedibile: a 39 anni, energia ed entusiasmo non mancano; e il coraggio, siamo certi, si trova. Il nuovo presidente del Consiglio dovrà fare di più. Dovrà tirar fuori le sue qualità e vincere le proprie debolezze: perché la sua prima volta è forse la nostra ultima spiaggia.

L’Italia è l’unico Paese d’Europa che ha visto calare il prodotto lordo pro capite - un comune indicatore di benessere - dall’introduzione dell’euro sui mercati (1999). Non possiamo, perciò, prendercela con la nuova moneta: ce l’avevano anche gli altri. Dobbiamo prendercela con le nostre pigrizie e le nostre ipocrisie, che la politica ha accarezzato, invece di combattere.

Come ogni nuovo capo di governo, Renzi godrà di cento giorni di luna di miele con l’opinione pubblica. Forse qualcuno di meno, considerato il modo irrituale (e sbagliato) nel quale ha sloggiato il predecessore. In questo (poco) tempo dovrà dimostrare di avere obiettivi chiari, sfruttare le nostre risorse (indiscutibili) ed evitare tentazioni (inevitabili).

Le tentazioni del carattere, per cominciare. Matteo Renzi, secondo le migliori tradizioni regionali, è impulsivo e impaziente. Due caratteristiche utili, in mezzo a tanta rassegnazione: a patto di non esagerare. L’Italia è stordita dagli annunci: ha bisogno di fatti. Ieri il presidente del Consiglio incaricato ha promesso la riforma del lavoro in marzo, la riforma della Pubblica amministrazione in aprile e la riforma del Fisco in maggio. Tre mesi per tre cose che aspettiamo da trent’anni? Auguri.

Matteo Renzi dovrà guardarsi dalla popolarità. Un leader deve condurre: non seguire umori, applausi e sondaggi. Deve passare alla storia, non passare l’estate. Per far questo, occorre resistere alle lusinghe degli adulatori: a Roma sono molti, abili e instancabili. Renzi si circondi di persone capaci, oneste e sincere: ne avrà bisogno. La palude italiana - evocata nel giorno del congedo di Enrico Letta - non è popolata solo di aironi e fenicotteri: ci sono rospi, bisce e coccodrilli. Alcuni già si muovono a pelo d’acqua, cercando di avvicinare la nuova preda. Stia attento ai conflitti d’interesse, il nuovo capo: chi comanda non può fare affari, neppure per interposta persona.

Se mescolerà entusiasmo e prudenza, Matteo Renzi potrà andare lontano: il coraggio e l’ambizione non gli mancano. Neppure la consapevolezza che l’Italia sta accumulando ritardi drammatici, in molti campi. È inutile proporre rimedi ordinari in tempi straordinari. Ma bisogna correre insieme, per una volta.

Non si può molestare gli italiani con imposte confuse e continue, invocando l’emergenza finanziaria, e ignorare che il Fondo Unico Giustizia, incaricato di raccogliere i beni confiscati alle mafie, dispone di «978 milioni di risorse liquide, 2,1 miliardi di risorse non liquide (titoli, ndr ) e circa 30 miliardi d’aziende e beni immobili», come ha riferito il sottosegretario Luigi Casero in Parlamento e Gian Antonio Stella ha riportato sul Corriere . Con quei soldi sapete quanti asili, scuole, strade e argini si sistemano? E quanti ragazzi si assumono?

Il compito che attende Matteo Renzi e la politica italiana è impegnativo, ma non impossibile. Gli elettori, davanti a un governo serio, si comporteranno seriamente. Ma guai a illuderli e deluderli, com’è accaduto tante volte in passato. Perché la speranza delusa si chiama rabbia. Qualcuno che la raccoglie e la sfrutta si trova sempre.

18 febbraio 2014
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Beppe Severgnini@beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_18/tentazioni-potere-6765dad4-9865-11e3-8bdc-e469d814c716.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 26, 2014, 05:20:03 pm »

GLI AFFONDI CONTRO RENZI E IL NUOVO GOVERNO

Ma i grillini pensano di essere Grillo?
Provocazioni e battute: deputati e senatori M5S provano a usare in Aula le armi del loro leader. Ma con risultati deludenti

Dare a qualcuno del «figlio di troika» è più che offensivo: è una battuta scadente. Ovviamente il parlamentare che l’ha pronunciata nell’aula di Montecitorio - Carlo Sibilia del Movimento 5 Stelle - non se ne rende conto. Si ritiene, probabilmente, spiritoso e irresistibile.

È triste, per non dire patetico, che la nostra classe politica - vecchia e nuova - conosca solo i due estremi: l’inciucio o l’insulto, la retorica o lo sberleffo, la prosopopea o la volgarità (Samuele Segoni, M5S, 30 gennaio). Se si sforza, arriva al sarcasmo, che comunque è sgradevole: ironia inacidita. L’ironia - quella vera - è invece la sorella laica della misericordia. Permette di ridere della commedia umana. E quella che va in scena nel Parlamento italiano, come sappiamo, ha pochi rivali.

Il discorso programmatico di un emozionato Matteo Renzi, ieri, conteneva troppi annunci e pochi dettagli, è vero. Ma bisogna riconoscere al giovane presidente del Consiglio di possedere la tecnica raffinata della presa in giro (essere fiorentini aiuta). Lo stesso non si può dire dei suoi detrattori. Se pensano che essere sgradevoli equivalga a essere popolari, si sbagliano. Il popolo sa sorridere, ridere e far ridere: eccome.

A discarico dei parlamentari grillini bisogna dire che ci mettono la faccia. Ma chiamare il nuovo capo di governo «un venditore di pentole» (Andrea Colletti, M5S) è banale; nonché offensivo verso i venditori di pentole, degnissimo mestiere. Definirlo «un grande bugiardo, un Wanna Marchi della politica» (Vincenzo Santangelo, sempre M5S) è grave e un po’ pavido, quando si è protetti dall’immunità parlamentare.

Aggressività e spontaneità non sono sinonimi. E per scherzare, ripeto, bisogna esserne capaci. L’ironia è come il bisturi di un chirurgo: o si sa maneggiarlo, oppure si rischia di fare e farsi male. L’impressione è che i deputati M5S vogliano scimmiottare il padre-padrone. Ma Beppe Grillo è un comico esperto, un gran professionista, e un uomo intelligente. Non a caso resta lontano dal Parlamento, dov’è impossibile far pagare il biglietto per le proprie esibizioni.

25 febbraio 2014 (modifica il 26 febbraio 2014)
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Beppe Severgnini@beppesevergnini

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_25/severgnini-insulti-grillini-b99f5e46-9e33-11e3-a9d3-2158120702e4.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:40:30 pm »

Sono stato a Ferrara lunedì e c’era il sole. Una piccola città italiana in un mattino di primavera è un capolavoro che dovremmo issare come una bandiera, per dire al mondo che siamo meglio di quanto crede. L’occasione era l’iniziativa “Di sana e robusta costituzione”, lanciata dall’Osservatorio Adolescenti dell’assessorato ai giovani, in collaborazione con le Pediatrie di Comunità dell’Asl. Ho incontrato cinquecento ragazzi in un teatro ma non il vescovo, monsignor Luigi Negri. Peccato, perché so che i giovani interessano anche a lui.
 
Qualche mese fa ha definito le adunate nella spettacolare piazza del Duomo “un postribolo a cielo aperto”. Tornando a casa la notte, ha raccontato d’aver sorpreso “persone intente in atti di promiscuità. Ho visto scene di sesso tra due ragazzi e un gruppo, evidentemente ubriaco, coinvolto in atteggiamenti orgiastici. Io non ho mai visto un postribolo. Ma l’idea era quella”.
 
Ora, mi risulta che quegli “street bar” (li chiamano così, in ferrarese moderno) siano di proprietà della Curia: quindi, se sono tanto demoniaci, basta non affittarli. Ma la questione supera l’aspetto immobiliare. Mi sembra, per cominciare, che la presenza in piazza escluda il vagabondare in auto tra le strade del ferrarese, tra platani e fossi, dove per anni è avvenuta un’ecatombe di ragazzi. Meglio bevuti e vivi che morti, per cominciare.
 
Certo, se non fossero bevuti è meglio. In questo, Ferrara non è sola. Una generazione cui non sappiamo offrire una prospettiva – due ventenni su tre sono disoccupati, non dimentichiamolo mai – si consola come può. Non mi piace e non giustifico: cerco di spiegare, che è un’altra cosa.
 
L’aperitivizzazione di una generazione è sotto gli occhi di tutti.  Lunghe giornate vuote si accendono grazie a fumo e alcol in compagnia, con la complicità di un buon clima e di un bel posto. I ragazzi italiani – monsignor Negri dovrebbe saperlo – si ubriacano anche in posti brutti e solitari. Ma di lì cercano di scappare. A Ferrara, e nelle altre città-gioiello, rimangono. Ma così facendo scambiano il porto col mare, e potrebbero pentirsene.
 
Il mare è quello che, a una certa età, bisogna provare: sfidando le tempeste, temendo la bonaccia, evitando il naufragio. Sono le città degli studi, i luoghi dei viaggi e dei primi lavori,  l’Europa delle conoscenze e delle esplorazioni.  Il porto è invece il luogo da cui si parte e dove si torna, per riposare, rifornirsi: e ripartire. Una città come Ferrara  è un porto perfetto, anche perché è vicino al mare. Ma, ripeto, non è il mare.
 
L’ho già scritto, lo ripeto: non c’è nulla di più triste, arrivati a una certa età, che capire di non essersi mai mossi. Di aver girato in tondo nel porto, accettando le sue piccole consolazioni: i soliti amici con cui tirare tardi,  birra e corteggiamenti, un lavoro qualunque basta che arrivi. Non è un invito a scappare. E’ un invito ad andare perché poi sarà bello tornare. Il nostro viaggio non è infinito:  per restar fermi avremo molto tempo, dopo.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #69 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:26:48 pm »

Detesto l’espressione “i panni sporchi si lavano in famiglia!”

Bisogna sempre e soltanto parlare bene dell’Italia all’estero? Questo patriottismo è compatibile con il giornalismo? La risposta è semplice: un doppio no. Se ami il tuo Paese – anche se ami il Paese di un altro – si capisce: e sei autorizzato a criticarlo per migliorarlo. Se lo racconti per mestiere, e non sei un diplomatico o un ministro, hai il dovere di farlo. “Right or wrong my country” (giusto o sbagliato è il mio Paese) suona bene, ma funziona male.

Una delle frasi più irritanti del lessico nazionale è “non diciamolo, per carità di patria”. Quale carità? Quale amore? Se ami qualcuno vuoi che si riprenda; non ti giri dall’altra parte facendo finta di niente. Quasi peggio è l’espressione “i panni sporchi si lavano in famiglia!”. Che ipocrisia. Chi sostiene questo i panni sporchi non li lava proprio, e gira con gli indumenti che mandano cattivo odore. Ogni tanto il bucato serve, e il bucato ha bisogno della luce del sole.

Ho dovuto ripetere queste cose per restare calmo, e devo restare calmo dopo aver letto certi commenti a un mio pezzo sul “New York Times”, dove scrivo come “contributing opinion writer” (si dice così, gli americani sono precisi nelle definizioni professionali). Il pezzo ha per titolo “Why No One Goes to Naples”, perché nessuno va a Napoli, e racconta l’allegra catastrofe del turismo meridionale. Mi dispiace? Molto. Devo far finta di niente? Manco per sogno.

Il pezzo inizia così: “E’ primavera: nell’Italia del Sud il sole splende, il cielo è blu, il clima è mite e l’aria profuma di fiori. Il cibo è buono, il vino costa poco, la gente è cordiale e la bellezza è dovunque. Ma dove sono i turisti?”. I turisti, spiego, non ci sono. Solo il 13% degli stranieri si spinge a sud di Roma. Siamo passati dal primo al quinto posto nella classifica delle destinazioni turistiche; non abbiamo, di fatto, un ministro del turismo; il portale Italia.it è stato un costoso, prevedibile disastro; l’Enit (Ente Nazionale Italiano Turismo) impiega la quasi totalità dei fondi – 17 milioni su 18 – in stipendi e spese amministrative; la delega alle Regioni ha prodotto duplicazioni e sprechi, come la faraonica sede della Regione Campania a Manhattan (caritatevolmente chiusa nel 2009).

Devo andare avanti? In una settimana, nell’estate 2013, dagli aeroporti tedeschi sono partiti 223 voli per le Baleari e 17 per l’Italia meridionale. So che alcune regioni (la Puglia) fanno meglio di altre (la Calabria): ma i numeri e i fatti sono quelli che ho riportato. Mi è spiaciuto che Nichi Vendola, in diretta tv (Ballarò, martedì), mi abbia fatto passare per un nemico del sud: perché davvero non lo sono. Non devo scrivere certe cose, altrimenti i turisti stranieri non arrivano? Errore: forse ne arriveranno di più. E chissà che qualcuno, al governo e dintorni, decida di occuparsi della questione, invece di scattare selfie alle fiere del turismo.

(dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/2014/04/17/detesto-lespressione-i-panni-sporchi-si-lavano-in-famiglia/
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:59:14 pm »

Gli ultrà e il caso coppa Italia, l’immagine che il paese non merita
Una vergogna da riscattare

Di Beppe Severgnini

Che umiliazione, per il presidente del Consiglio e per il presidente del Senato: ostaggi di un energumeno in diretta televisiva. Che pena per le autorità sportive riunite all’Olimpico: impotenti davanti alla loro sconfitta. Che tristezza per i bambini che accompagnavano le squadre in campo: un giorno speciale rovinato così. Che vergogna per tutti noi, ammutoliti davanti ai televisori.

Lo spettacolo offerto, all’Italia e al mondo che ancora ha voglia di guardare, dalla finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli non è soltanto squallido. Puzza di pessimo passato prossimo. Quello che tutti, da Palazzo Chigi in giù, dicono di volersi lasciare alle spalle. Abbiamo una sola possibilità per redimerci. Fare in modo che cose del genere non accadano mai più. Il 3 maggio 2014 sia il capolinea della nostra vigliaccheria.

Basta sociologia, basta letteratura, basta piagnistei, basta paura. Basta leggi cervellotiche dai nomi complicati. Basta palliativi come il Daspo. Ha ragione Mario Sconcerti: allontanare i violenti dagli stadi è come tenere i ladri fuori dai supermercati. Ma questi ultimi si processano e si puniscono; per i violenti del calcio troviamo sempre qualche giustificazione. Sono passionali, sono spettacolari, sono divertenti, sono della nostra squadra! Storie: sono dei delinquenti, e noi siamo i loro ostaggi.

Gli stadi sono luoghi della vita italiana, e le partite sono momenti di festa: contenitori di ricordi, esercizi di umiltà, lezioni di vittoria e sconfitta. È intollerabile che qualcuno violenti tutto questo. Che giochi alla guerra perché, in fondo, si diverte. Il nostro silenzio è diventato assenso. Politica e forze di polizia, magistratura e autorità sportive, società e tifoserie: siamo tutti pavidi, patetici amanti del calcio.

È ora di reagire: l’Italia non è il pietoso impasto di fumogeni e arroganza che abbiamo visto sabato. L’Italia non è odio e pallottole e bande dementi. L’Italia non è questa. L’Italia è ancora il posto dove nessuno tiene armi in casa, e basta un sorriso a smontare la diffidenza. Prendete un treno, parlate con i viaggiatori. Gli italiani sono gente che fatica ma non odia, che sbaglia ma non distrugge, che sogna e ha pudore di ammetterlo.

Come può, quest’Italia normale, riconquistare lo sport che ama di più? Esiste un modo? Certo che esiste. Abolire qualsiasi reticolato, transenna, ingresso separato, treno speciale, presenza massiccia delle forze dell’ordine (hanno di meglio fare). Lo stadio è una festa, e alle feste non si va scortati dalla polizia. I biglietti si acquisteranno in rete o al botteghino, senza formalità, come al cinema o per un concerto. Ma se qualcuno sgarra - insulta, esplode, minaccia, colpisce, ferisce - dev’essere immediatamente fermato e punito. Come accade in una piazza o in qualunque altro posto.

I luoghi dello sport non sono extraterritoriali. Sono, ripetiamo, luoghi della vita. Tra i più belli, oltretutto. Lo sanno bene negli Stati Uniti, dove lo sport è una grande festa, una magnifica coreografia, un enorme business. Lo hanno capito in tutta Europa. Come hanno fatto gli inglesi a debellare gli hooligan ? Processi per direttissima negli stadi. Pene proporzionate, rapide, certe. Invece, in Italia, le pene sono sempre teoricamente drammatiche, praticamente lentissime, assolutamente incerte.

Abbia coraggio, Matteo Renzi, che ama il calcio e ha visto da vicino, sabato, cosa ne abbiamo fatto. Basta scenografie di guerra preventiva, basta impunità, nessuna nuova legge: basta e avanza il codice penale. Basta volere.
È una riforma che non costa niente, e cambierebbe tutto.

5 maggio 2014 | 07:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_05/vergogna-riscattare-4ce22310-d411-11e3-9778-04e759d64fc3.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 16, 2014, 06:37:33 pm »

Immaginate. Una sera d’estate, dieci anni fa. Cena con gli amici, bevete troppo, salite in auto, perdete il controllo e demolite un negozio di abbigliamento. Storia imbarazzante, non è bene che si sappia in giro, anche se è passato molto tempo. Vi rivolgete al giudice e chiedete che la notizia non sia più reperibile: esiste il diritto di dimenticare, ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione Europea! Google e gli altri motori di ricerca dovranno accettare la vostra richiesta di rimuovere il link a quella vicenda.

C’è un particolare, tuttavia. Il Corriere della Sera, nelle pagine locali, aveva pubblicato la notizia, con tanto di fotografia («Serata allegra, finale tragicomico: finisce in vetrina tra i manichini»). Chiedereste, in nome del diritto all’oblio, che ogni copia del giornale venga distrutta? Probabilmente no.

Voi direte: «Le notizie pubblicate sulla carta sono difficilmente reperibili, dopo qualche tempo. È colpa dei motori di ricerca se ogni informazione diventa accessibile!». Ragionamento zoppo. Se esiste un diritto all’oblio, dev’essere universale, non legato alle modalità di recupero delle informazioni. Modalità che possono cambiare. Se il Corriere rendesse accessibile in formato digitale la sua raccolta ultracentenaria, cosa accadrebbe? Chiedereste di bruciare i nostri archivi?
Speriamo di avervi convinti.

La pronuncia della Corte di Giustizia, che riconosce il diritto a essere dimenticati, nasce da lodevoli intenzioni: ma risulta impraticabile e inopportuna. Se dovessimo prenderla alla lettera, finirebbe il giornalismo e - perché no - la storia, e il diritto di raccontarla. Verrebbe limitata la libertà di espressione, come ha scritto a caldo il New York Times. La nostra vicenda collettiva diventerebbe la somma aritmetica di tanti profili Facebook. Ognuno scriverà solo quel che gli fa comodo, cercando di riuscir bene nella fotografia.

È umana la voglia di essere ricordati: i social network campano su questo. È altrettanto comprensibile il desiderio di essere dimenticati, talvolta. Incidenti professionali, errori, eccessi, perfino relazioni sentimentali: non fa piacere, al nuovo fidanzato, vedere la compagna abbracciata a numerosi predecessori. Ma abbiamo inventato qualcosa che non si può disinventare. Internet è il genio uscito dalla bottiglia. Si può controllare, ma non si riesce a riportarlo dentro.

Google, e gli altri giganti della Rete, hanno colpe: ma non sono queste. Non avrebbero dovuto mettere a disposizione dei governi ogni informazione su di noi, per esempio. Ma non possiamo chiedergli di dimenticare gli ultimi vent’anni, solo perché sono in grado di ricordarli. Tutti noi, ogni giorno, utilizziamo i motori di ricerca. Se sapessimo di trovare solo ciò che fa piacere agli interessati - pensate a politici, produttori, ristoratori - rinunceremmo a consultarli.

Cancellare i link «inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti», come chiede la Corte, è una pia illusione. Chi stabilisce l’adeguatezza e la rilevanza di un’informazione? Un giudice, ogni volta? E se anche i 28 Paesi dell’Unione Europea decidessero d’imbarcarsi in quest’impresa, come impedire che i cittadini europei si rivolgano ai motori di ricerca americani? Introduciamo una censura di tipo cinese? Perché in tanti la farebbero, quella ricerca. Alcuni, magari, vogliono che qualcosa di sé venga dimenticato. Ma molti, state certi, sono curiosi di sapere qualcosa degli altri.

La possibilità di conoscere e rintracciare informazioni non è una caratteristica da Grande Fratello: è una conquista. Orwelliana è invece è la pretesa di essere dimenticati. Non siamo avatar, che possiamo annullare premendo «Canc». Siamo persone con un passato, un presente e un futuro, inesorabilmente collegati. Dentro Internet corre la vita. La vita non si ferma con le forzature.

16 maggio 2014 | 08:11
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_16/passato-non-si-cancella-un-clic-1c87a630-dcb9-11e3-a199-c0de7a3de7c1.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:09:08 pm »

Il New York Times ha chiesto a un gruppo dei suoi giornalisti di valutare la strategia digitale del giornale.
Tempo, sei mesi. Il rapporto (“Innovation”), lungo 90 pagine, è appena uscito. Il Nieman Journalism Lab di Harvard l’ha definito “uno dei documenti-chiave di questa era dei media”.
Importante: il NYT è una delle testate dove l’accesso a pagamento dopo un certo numero di articoli (paywall) funziona.
L’allontanamento della direttrice Jill Abramson non ha nulla a che fare con i conti, ma con la gestione dei giornalisti.
Che non sono, come qualche editore vuol credere, semplici impiegati: siamo professionisti da maneggiare con cura.


Cosa contiene il rapporto? Molte cose interessanti. Ne segnaliamo otto.

1)      Il giornalismo del NYT è eccellente, ma non viene distribuito efficacemente. L’importanza della homepage è diminuita: solo un terzo dei utenti/lettori la visita, gli altri arrivano sugli articoli attraverso motori di ricerca e condivisione.

2)      La prima pagina di carta assorbe troppe energie e attenzioni. Gli incarichi migliori, nel giornale, sono assegnati a giornalisti con poca conoscenza digitale, “mentre i colleghi più bravi in materia sono ridotti a spostare pezzi da una pagina all’altra”.

3)      La diffusione e la condivisione dei contenuti viene lasciata alla parte tecnico-amministrativa, ma confezionare, promuovere e condividere richiede supervisione editoriale. Un suggerimento: i giornalisti presentino, insieme al pezzo, cinque tweet per lanciarlo.

4)      Molti giornalisti sono convinti che il Social Media Team serva a promuovere il loro lavoro. Il suo compito invece è raccogliere informazioni.

5)      La news room deve collaborare con la parte business della testata, pur rispettando le divisioni dei ruoli: guai a mescolare pubblicità e giornalismo. Meglio abbandonare, però, espressioni come “Church and State” (Chiesa e Stato), d’uso comune al NYT. Proiettano un’idea di separazione, mentre l’obiettivo è comune.

6)      Ci sono 14,7 milioni di articoli negli archivi del NYT, dal 1851. Questo materiale va usato, perché non ce l’ha nessun altro. “Dobbiamo essere insieme una newsletter e una biblioteca”, scrive il rapporto. Bisogna imparare a riconfezionare i vecchi contenuti. Flipboard ha ottenuto un grande successo, nel 2013, offrendo i migliori obituaries (articoli commemorativi di un defunto) pubblicati sul New York Times. Domanda: perché non l’ha fatto il New York Times?

7)       Non c’è ragione per cui i Ted Talks (con biglietti fino a $7.500!) non siano stati creati dal NYT, che ha il marchio, i nomi, la qualità e l’esperienza.

Fico      Esperimenti e innovazione sono affidati a pochi desk (grafici, design, social team). I giornalisti sono tagliati fuori. Spesso, ben felici di esserlo.

Hanno scritto molto altro, i colleghi di New York: ma ci siamo capiti.

(Dal Corriere della Sera)

Beppe Severgnini

Da - http://italians.corriere.it/
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« Risposta #73 inserito:: Maggio 29, 2014, 10:58:47 pm »

I leader vengono votati per quello che sono, ma anche per quello che NON sono

L’importante è che Matteo Renzi, adesso, non si consideri l’unto del Signore: abbiamo già dato. Non dovrebbe accadere. L’uomo ha neuroni vivaci e sa – se ancora lo conosco, se adulatori e servitori non l’hanno cambiato – qual è stata, finora, la chiave del suo successo.

I leader politici vengono votati per quello che sono, certo. Ma anche per quello che NON sono. Bossi e Berlusconi, negli anni Novanta, perché non erano politici democristiani. Prodi perché non era Berlusconi. Berlusconi, di nuovo, perché non era D’Alema. Monti perché non era Berlusconi. Letta perché non era Monti. E Renzi perché non somiglia ad alcuna di queste persone. E’ nuovo e diverso. E, sotto sotto, anche i più cinici tra noi si rendono conto che occorre un approccio diverso e nuovo per disincrostare questo benedetto Paese.

Vengo da diciotto giorni negli Stati Uniti d’America, e là accade lo stesso. Jimmy Carter – come ha ricordato Joe Klein tempo fa su “Time” – venne scelto perché non era Richard Nixon, Ronald Reagan perché non era Jimmy Carter, Bill Clinton perché non era George H. Bush, George W. Bush Bush perché non era Bill Clinton, Barack Obama perché non somigliava, neppure lontanamente, ad alcuno dei predecessori.

Non sempre gli interessati se ne rendono conto. Pensano d’essere arrivati in vetta esclusivamente per quello che sono. Speriamo, ripeto, che Matteo Renzi non cada nella trappola. E’ stato intellettualmente onesto, finora: prima del 25 maggio ha detto di avere una legittimazione costituzionale, ma non popolare. Ecco perché teneva tanto alle Europee: chiedeva un’investitura agli elettori. L’ha ottenuta.

Se ci siamo dimostrati più sensati di francesi e inglesi -  troppo emotivi, l’ho sempre detto – è anche merito suo. Ha ragione, il presidente del Consiglio, quando dice che l’Europa, riveduta e corretta, resta un grande investimento e un’ottima assicurazione. Ma ripeto: il giovane inquilino di Palazzo Chigi ricordi che non s’arriva al 41% solo per quello che si è, si fa o si propone. Conta anche quello che non si è, non si fa e non si dice. L’attuale forza di Renzi è anche questa: non essere un uomo cauto che attende volentieri (Letta); non essere un professore con i numeri nel cuore (Monti); non essere un signore che promette, non mantiene e traffica (Berlusconi); non essere un populista che urla e straparla (Grillo).

La prossima volta sarà diverso.  Matteo Renzi verrà votato per quello che ha fatto e ha dimostrato di essere. Quindi, al lavoro. Le promesse sono state voluminose, nei primi mesi del governo. E, per adesso, restano tali. Lo scadenziario iniziale – una mega riforma al mese! – era volonteroso, ma utopistico. Ma ora le elezioni ci sono state: basta annunci. L’Italia è stordita dagli annunci. Ha bisogno di fatti, per dimostrare a se stessa, all’Europa e al mondo di essere finalmente cambiata.

(Dal Corriere della Sera)
Beppe Severgnini


Da - http://italians.corriere.it/2014/05/29/i-leader-vengono-votati-per-quello-che-sono-ma-anche-per-quello-che-non-sono/
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« Risposta #74 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:11:17 am »

Il commento

Dopo i «100 motivi per amare l’Italia» Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna
L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione

Di Beppe Severgnini

Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili.

Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.

4 giugno 2014 | 13:35
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_04/dopo-100-motivi-amare-l-italia-ecco-almeno-10-motivi-vergogna-a04ae7c2-ebda-11e3-85b9-deaea8396e18.shtml
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