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Autore Discussione: MARCO BELPOLITI.  (Letto 8820 volte)
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« inserito:: Luglio 30, 2008, 09:23:50 am »

30/7/2008
 
La politica del paparazzo
 
 
 
 
 
MARCO BELPOLITI
 
Una serie di foto su giornali che un tempo si sarebbero detti da servette e portinaie - antenate strapaesane del moderno gossip -, della nuova Famiglia Reale, e poi l’immagine di Veronica addobbata per una serata mondana, mano nella mano con lui, Silvio, invece in blu assottiglia-vita, sui giornali più «seri». Quindi un profluvio d’articoli tra la cronaca rosa e la riflessione politica. Fino a che un commentatore e sociologo, Ilvo Diamanti, scrive su la Repubblica che «l’estate è diventata una stagione più politica delle altre». Possibile? Davvero è «politica» il «ri-matrimonio di Silvio», come titola l’articolo di Maria Corbi su La Stampa del 28 luglio, alludendo alla nuova luna di miele con la moglie, dopo il correre di voci sulle sue scappatelle extraconiugali? Sì, è ancora politica, ma in un senso nuovo e diverso da prima.

O meglio, è politica della comunicazione, che sostituisce la politica tout court. Per dirla con un filosofo di moda negli Anni 80, Jean Baudrillard, dimenticato, eppure da riscoprire: «L’informazione è sempre più invasa da una sorta di contenuto fantasma, d’innesto omeopatico, di un sogno diurno di comunicazione. Dispositivo circolare in cui viene messo in scena il desiderio della platea, l’antiteatro della comunicazione, che, come si sa, non è nient’altro che il riciclaggio in negativo dell’istituzione tradizionale, il circuito integrato al negativo».

Nel momento in cui esplodevano i nuovi mass media, in particolare la televisione, che continua, nonostante l’avvento massiccio d’Internet, a dominare il nostro rapporto con la cosiddetta realtà, Baudrillard ci ricordava come l’informazione avesse cominciato a divorare i suoi stessi contenuti, così che, invece di comunicare, «s’esaurisce nella messa in scena della comunicazione stessa». Non produce senso, scriveva il filosofo francese, ma consuma la «messa in scena del senso». Si tratta di un processo di simulazione che da allora è andato molto avanti e di cui vediamo le ulteriori conseguenze in questa estate post-politica. Qualche esempio, oltre al gossip sui giornali rosa: l’intervista presa al volo, la parola e la telefonata degli ascoltatori, la partecipazione artefatta di tutti a tutto, il regno della trasparenza mediatica e dei reality show. Si tratta del «ricatto della parola» (Baudrillard), attività in cui uno dei totem della televisione berlusconiana, Maurizio Costanzo, è stato gran maestro. La realtà è scomparsa a favore di un’iperrealtà che dalle pagine di Chi approda ora ai fogli dei quotidiani, iperrealtà della comunicazione e del senso, che appare negli scatti dei paparazzi più reale del reale, con la conseguenza che il reale stesso viene abolito.

Naturalmente tutto questo non è l’effetto di un uomo solo, o del suo pur potente mezzo televisivo, ma il risultato di un processo che ha nella pubblicità il suo centro. La sua forza, diceva Baudrillard in un’intervista del 1983, ma anche la grandezza, risiede nella capacità di liberarci dalla «tirannia dei giudizi» per consegnarci al piacere immediato del puro défilé d’immagini che «non ci obbligano più a niente». In un altro libro del 1970, riedito di recente dopo vent’anni d’assenza, La società dei consumi (il Mulino), Baudrillard spiega che la pubblicità non ci inganna: «È semplicemente al di là del vero e del falso, come la moda è al di là del brutto e del bello, come l’oggetto moderno, nella sua funzione di segno, è al di là dell’utile e dell’inutile».

Berlusconi rappresenta la presa del potere del simulacro, ovvero di questa realtà di segni che rimandano solo a se stessi: funzionano alla stregua della pubblicità affrancandoci completamente dal gioco tradizionale della politica quale progetto di trasformazione. Possiamo ancora definire questo «politica»? Probabilmente sì. Nel lontano 1974 Jean Baudrillard intitolava un suo libro: Per una critica dell’economia politica del segno. Segno, che mai sarà?, si chiederanno molti con trent’anni di ritardo. È qui, nel gioco a vuoto dei segni, tra i simulacri del presente, che si disputa la partita del futuro. Per questo, e solo per questo, l’estate delle foto mano-nella-mano appare come la stagione più politica dell’anno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:38:57 am »

20/4/2010

Sorvegliare e sorridere
   
MARCO BELPOLITI

Perché mai continuare a chiamarla sorveglianza? Perché ostinarci a considerare la presenza delle telecamere che ci scrutano per strada, in banca, nel condominio, in casa, qualcosa di molesto? Oramai dal regno del «sorvegliare e punire», di foucaultiana memoria, siamo passati al regno del «sorvegliare e sorridere»: Smile! Se infatti non c’è una telecamera che ci inquadra, bisogna sospettare qualcosa di strano.

A chi potrò mai sorridere, a chi potrò rivolgere il lato più telegenico di me stesso, se non c’è chi mi osserva? Come aveva capito Thomas Pynchon, in un fulminante romanzo, «L’incanto del lotto 49», pubblicato a metà degli anni Sessanta, noi siamo sempre davanti a «camera» (cinematografica, televisiva, video). C’è un legame strettissimo tra l’avvento della «cultura del narcisismo» e quella della diffusione dei sistemi di registrazione delle immagini - e anche del suono.

La battaglia per la privacy presuppone l’esistenza di una società del segreto, società discreta, al riparo da sguardi eccessivi, società gerarchica e chiusa. La società di massa, della trasparenza, della visione continua e allargata, è invece per sua natura una società in cui si è visti e si vede continuamente, come dimostra l’uso della televisione commerciale. Anche il computer con cui scriviamo contiene una telecamera, mediante cui ci palesiamo, grazie a Skype, ad amici vicini e lontani, con cui dialoghiamo vedendo l’altro, e al tempo stesso vedendoci in una porzione più piccola dello schermo.

Le telecamere della videosorveglianza di polizia, carabinieri, vigili urbani, società pubbliche e private, non sono altro che l’estensione più coercitiva della visione che pratichiamo di continuo in forma casalinga, e quasi innocua. Lo stesso televisore, che nel suo etimo indica una «visione da lontano», in realtà è un «cortovisore», con cui vedere il vicino e il vicinissimo. Certo, la trasparenza, lo sappiamo, in questa società di consumatori allargati è solo un’ipotesi, una sorta di utopia sperimentale, perché ci sono zone della società dove gli sguardi di tutti non penetrano. Tuttavia non bisogna trascurare che il passaggio dalla società di Edipo, fondata sul parricidio rituale, alla società di Narciso, fondata sulla visione speculare, è in apparenza incontrovertibile, un atto compiuto negli anni Settanta del XX secolo, quando la riproducibilità delle immagini è diventata un elemento quotidiano e consueto.

Dalla fotografia alla telecamera digitale, la tendenza è di registrare ogni momento della nostra vita così che, quando in banca o al supermercato, si passa davanti al video, che ingloba e archivia il nostro ritratto, il primo impulso è di guardarci nello schermo, per verificare la bontà o meno della nostra immagine. Un effetto di derealizzazione ci attraversa di colpo mentre ci contempliamo. Ma è solo un attimo: io sono là, e non solo qui (per quanto del mio ritratto in forma digitale se ne potranno avvantaggiare ipoteticamente investigatori e spioni professionali). Cosa avrò mai da nascondere? Tutto è chiaro e saputo. Come ha scritto Georg Simmel, un segreto noto a più di una persona non è per nulla un segreto. Registratemi, registratemi, alla fine qualcosa di me resterà. O almeno così si spera.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 24, 2011, 09:54:32 pm »

24/8/2011

Quando cade la testa del leader

MARCO BELPOLITI

Le teste rotolano. Ad ogni rivoluzione i rivoltosi e i rivoluzionari si avventano sui simboli del passato regime: abbattono statue, rovesciano monumenti, sbriciolano emblemi e insegne.

Ma è dalla metà del XX secolo che le sculture marmoree o bronzee dei capi sono state deliberatamente prese d’assalto, colpite e ridotte a terra. E non solo quale opera di iconoclastia del vecchio potere, ma come effettiva azione sostitutiva dell’aggressione al corpo stesso del re, del tiranno o del despota. La statua di Mu’ammar Abu Minyar ‘Abd alSalam al Qadhdhafi, meglio la sua testa dorata, giace ora a terra in una evidente decapitazione in assenza, per il momento, del suo corpo fisico. Il potere simbolico dei monumenti dei dittatori è tale che nel 1956, nel corso della rivolta ungherese, schiacciata dai cingoli dei carri armati sovietici, il popolo di Budapest rischiò la vita per demolire la gigantesca effigie del dittatore di Mosca eretta nel centro della città. L’abbattimento della scultura era una risposta al potere idolatrico di Stalin, così che correre a picconarla sotto il tiro dei cecchini aveva il valore di un esorcismo contro la sua perdurante presenza, come ricorda Deyan Sudjc nel recente «Architettura e potere» (Laterza). In quella occasione gli abitanti della capitale ungherese ricorsero, tra i colpi di arma da fuoco, a scale, funi, torce ossiacetileniche, e occorsero molte ore di duro lavoro per vederla schiantare al suolo. La testa sbrecciata del capo sovietico, il cui nome, Stalin, significa non a caso acciaio, baffuta e sorridente, fu vandalizzata e presa a calci, e vi fu persino chi vi defecò sopra per spregio. La medesima cosa è accaduta dopo la caduta del Muro nei vari stati satelliti del potere sovietico. La prima cosa che i rivoltosi fanno, una volta conquistato il campo, è infatti avventarsi sul corpo metallico del Capo che con la sua presenza fisica campeggia nel centro della piazza principale della capitale. Nella Cecoslovacchia, cui era toccato un destino analogo a quello dell’Ungheria, del monumento a Stalin a poche ore dall’evaporare dell’Impero non era rimasto che il piedistallo. Una forma di damnatio memoriae che affonda le sue radici nella storia antica dell’umanità, un tempo operata dai vincitori nei confronti dei vinti, ma che, a partire dalla Rivoluzione francese, ha invertito il suo corso e si è diretta in modo inequivocabile verso i Re e i Capi. A Notre Dame nel 1789 furono picconate dalla folla inferocita le sculture dei personaggi regali dell’Antico Testamento scambiate per i discendenti di Capeto. Sudjic racconta che all’epoca della seconda Guerra del Golfo i consiglieri di George Busch junior avevano osservato a lungo e con attenzione i vecchi cinegiornali, che ritraevano l’abbattimento delle statue di Stalin, così da voler far riprodurre la medesima scena a Baghdad, fotogramma dopo fotogramma, per l’atteso gran finale della invasione dell’Iraq. Ma mentre i ribelli ungheresi non ebbero bisogno di nessun aiuto per travolgere le statue del Segretario Generale del Pcus, l’iconoclastia nella capitale irachena ebbe bisogno degli esperti della guerra psicologica dell’esercito americano, che diedero il loro contributo fisico per averla vinta dell’effigie in bronzo di Saddam Hussein. Da allora ogni rivoluzione che si rispetti ha tra i suoi must la caduta bronzea del tiranno, decapitazione compresa. La rivoluzione non sarà un pranzo di gala, ma ha oramai anche lei le sue regole fisse, e persino le sue mode.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9120
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 08, 2011, 10:04:23 am »

8/11/2011

Il tradimento ama il potere

MARCO BELPOLITI

C’ è tradimento e tradimento. Il più terribile non è quello dell’abbandono dell’uomo o della donna amata, per cui in italiano si può tranquillamente titolare un film di Truffaut, dedicato alla vita coniugale, «Non drammatizziamo... è solo questione di corna», quanto piuttosto quello che ha che fare con il potere. Il vero tradimento avviene sulla scena del potere e ha come oggetto uno scambio ineguale. Giuda Iscariota, l’unico apostolo che non proveniva dalla Galilea, consegna Gesù, il suo Maestro, ai sacerdoti e si congeda da lui con il bacio. Il Cristo replica con: «Amico, fai quello per cui sei venuto». Il tradimento è un atto in cui qualcuno consegna qualcosa. Secondo un antico etimo «tradire» viene da «tra», oltre, e «dare», consegnare. Il tradimento non è che una trasmissione, e solo nel corso dei secoli tradire ha assunto un significato negativo, là dove invece implicava un passaggio, un trasferimento. Nella tradizione letteraria che è scaturita dal cristianesimo il gesto dell’Apostolo traditore è stato interpretato in molti modi, quasi che Giuda, per essere coerente con se stesso, e con gli insegnamenti del Maestro, lo consegni necessariamente ai sommi sacerdoti. Una fedeltà oltre ogni ragionevole considerazione. A chi e a cosa? All’ideale. Il tradimento supremo è un atto obbligato, una necessità, per adempiere a quanto era già stato annunciato da Gesù medesimo; affinché il Figlio dell’Uomo potesse sacrificarsi per tutti noi era necessario il bacio dell' Iscariota. Nel momento del passaggio Giuda si avvicina e non riesce a guardare negli occhi il Cristo; il bacio appare come un gesto di ripiego, una mossa diagonale, mentre Gesù, così nella vulgata non scritta, lo fissa negli occhi. La tradizione pittorica ci tramanda un Gesù a viso aperto, mentre il traditore ne fugge lo sguardo diretto. Forse a questo allude il presidente del Consiglio quando dichiara: voglio vedere in faccia chi è capace di tradirmi? Milan Kundera che tra gli scrittori contemporanei ha scandagliato con più acutezza il tema del tradimento, in «L’insostenibile leggerezza dell’'essere», sostiene la necessità del tradimento, o almeno il suo valore positivo; gli pare come il modo per sciogliere i legami che tengono fissati a noi stessi. L’ignoto è la meta cui mira il traditore che compie uno scarto improvviso, un movimento ellittico verso una possibile o presunta libertà, propria e altrui. Non si tradisce dunque per debolezza, ma per obbedire a una vocazione profonda, come sostengono i vangeli apocrifi redatti dalla sette gnostiche, ad esempio il Vangelo di Giuda.

Un tema questo che è alla radice del tradimento romantico, poiché il traditore o la traditrice cerca di colmare con il suo atto imprevedibile qualcosa d’incolmabile: l’infelicità. Amore e potere sono due facce della medesima medaglia, poiché, come il vangelo degli gnostici dimostra, si tradisce per troppo amore: della verità, della felicità, di se stessi, ma anche dell’altro, per obbedire al desiderio. Il vero opposto di Giuda, un idealista per alcuni scrittori dell’Ottocento e del Novecento, è Jago, l’uomo che trama nel buio, che suggerisce il sospetto, e logorato dall’invidia, il male assoluto, commette il vero tradimento. Il vero traditore antepone a tutto le ragioni di ciò che è superiore: Amore, Verità, Giustizia. Il traditore è colui che «consegna qualcosa a qualche d’uno». Come accade nel tradimento di Cesare: l’amato è diventato un tiranno, per cui merita di morire. Lui sì che ha tradito, non i congiurati che ne hanno ordito l’assassinio. Loro sono dei puri. I traditori sono eroi? L’intenzione era buona, il risultato nocivo.

Dopo aver consegnato Gesù ai suoi nemici, dopo il bacio, l’Iscariota si uccide. Secondo una tradizione apocrifa si sarebbe gettato dall’alto, e schiantandosi al suolo le sue viscere sarebbero schizzate fuori. Così compare in un sarcofago medievale del re Pedro I di Portogallo: Giuda si squarcia il ventre da cui, oltre alle sue viscere, esce una testa che sembra assumere la posa del rimorso. Jago non si pente, Giuda sì. Ma è troppo tardi. Il potere non risparmia nessuno e il tradimento è la sua legge più intima. Alla base di ogni potere c’è un tradimento. E ogni potere cessa attraverso il tradimento. «Chi di spada ferisce, di spada perisce», dice il proverbio. Il tradimento è il possibile nome della vendetta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9408
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 05, 2012, 11:48:18 pm »

5/1/2012

Sembra il presente ma è il passato prossimo

MARCO BELPOLITI

Per quale ragione tutto sembra essersi arrestato a vent’anni fa in una coazione a ripetere che riguarda le principali forme espressive del contemporaneo: moda, musica, design e arte? Perché la gente si veste e si comporta seguendo un gusto che appare ripetitivo? Ripetizione, ripetizione, ripetizione.

Perché oggi domina il vintage, termine che un tempo individuava i «vini d'annata», e per estensione è passato a indicare tutto ciò che appartiene a un tempo passato: passato prossimo, e mai passato remoto. Si tratta dell’effetto «nostalgia», il corrispettivo relativo del narcisismo di massa che Christopher Lash aveva identificato decenni fa nella società americana e che ha contagiato via via i Paesi a capitalismo avanzato (e non solo loro).

Il vintage individua un’estetica che si coniuga perfettamente con il glamour, altra parola magica dell’uomo consumatore.

Come ha spiegato molto bene John Berger alcuni decenni fa, le società contemporanee sono fondate sull’invidia: si sono avviate nella direzione della democrazia, ma poi si sono fermate a metà strada, per cui l’individuo consumatore «vive la contraddizione tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere», e l’invidia diventa il motore stesso di questi aggregati umani. Il senso d’impotenza nasce dalla promessa di futuro e insieme dalla dimenticanza continua del presente. Questa è la base su cui nascono e prosperano il glamour e il vintage.
L’innovazione è altra cosa da tutto questo, dal momento che sia il vintage sia il glamour presuppongono appunto il rifacimento, la ripetizione, il ritorno del sempre-uguale. La moda è diventata il motore stesso che gira a vuoto con i suoi cicli e ricicli, con la standardizzazione del rifacimento: gonne lunghe e poi gonne corte, pantaloni e poi short, tacchi e scarpe basse. Un pendolo che passa e ripassa per i medesimi elementi, gli stessi capi d’abbigliamento: sempre diversa perché sempre uguale, diceva Barthes nel Sistema della moda.

Moda e pubblicità sono i grandi lubrificanti della macchina del capitalismo postindustriale e post-finanziario in cui ci troviamo immersi. Tuttavia la ragione più profonda per cui non c’è più cambiamento, per cui tutto è citazione, dipende da un altro più radicale fattore: l’assenza del conflitto. Sono infatti i conflitti tra le generazioni, tra padri e figli, o tra i gruppi sociali e le classi, a produrre i veri e profondi cambiamenti, i quali sono a loro volta figli di traumi sociali e culturali profondi. In una società in cui il conflitto è espunto per timore delle conseguenze che potrebbe produrre, espulso prima di tutto sul piano simbolico, non può che trionfare il glamour. Non è solo il postmoderno a determinare lo stallo del contemporaneo, ma l’enorme mole di energie economiche, sociali e culturali drenate dalla continua mediazione. Il glamour ne è solo l’epitome estetica. Quello che abbiamo perso con la scomparsa del conflitto, ovvero
l’innovazione, l’abbiamo invece guadagnato attraverso la ripetizione del sempre-identico: l’equilibrio stazionario, nonostante tutto, delle nostre amate società occidentali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9616
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 06, 2012, 10:33:28 am »

5/5/2012

Il gusto della malavita

MARCO BELPOLITI

Eliogabalo a Casal di Principe? Divani argentati, trumeau postmoderni con porcellane e vetri di Murano, docce mosaicate, lampade nere, e altro ancora. Sembra d’aggirarsi nel trovarobe di un arredatore addetto ai romanzi pop Anni Sessanta di Arbasino, con un eccesso di lusso e potere che urla ai quattro venti il proprio profondo kitsch piccolo borghese.

Le immagini della casa del figlio di Sandokan sembrano mimare le ritualità artistiche del jet set, l’haute couture, che si trasforma subito nel prêt-àporter, con sfilate rutilanti immaginate in una magione fortificata alle spalle del municipio della cittadina campana. Sarebbe come stare nel bunker di Caligola, versione glamour di un lusso che vorrebbe imitare l’artificio e la frivolezza di un altro mondo, quello dell’alta società, per intenderci, intravista nelle riviste di architettura e d’interni distribuite in edicola trent’anni fa, o nei rotocalchi sfogliati dal parrucchiere per signora con le case dei cantanti di successo esibite come esempio di un agio conquistato per talento, e senza troppo sforzo, pronto per le manifestazioni di rito: se la ricchezza non la esponi nell’eccesso, che ricchezza è?

Una magione, quella che appare nelle foto scattate in occasione dell’ingresso della Guardia di Finanza, che ha per proprio insuperabile modello la pubblicità, e che è architettata per manifestare un potere che ha nel lusso pop la sua forma culminante. L’imitazione è la regola aurea di questo stile, per cui ogni oggetto, mobile, complemento d’arredo o gadget, è una citazione, rinvia a qualcosa d’altro, poiché la cultura visiva dei camorristi, e non solo quella, è sempre copia di una copia. Il kitsch, o il Pop Camp, di questa abitazione, risiede proprio in questo rinvio continuo ad altro. Si tratta del trionfo del postmoderno, più post del post, più pop di Memphis, più glamour di ogni arredo uscito dai mobilifici della Brianza felix.

Il lusso è esattamente questa unione di farsa e tragedia, tycoon e malavita. Come ha scritto sapientemente un economista, il lusso è l’inveramento democratico della disuguaglianza. Casa Schiavone come specchio dell’Italia passata o invece premonizione del futuro in cui stiamo per cadere nonostante la crisi che ci morde ogni giorno?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10065
« Ultima modifica: Maggio 15, 2012, 11:26:41 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 15, 2012, 11:26:10 am »

15/5/2012

"Quello che (non) ho", è andata in scena l'empatia

MARCO BELPOLITI

L’ invenzione, se così si può definirla, di Fabio Fazio è stata quella di rovesciare il talk show, passando dalla conversazione a più voci al monologo. Sempre di parole si tratta, ma là dove c’era il salotto, le poltroncine del Maurizio Costanzo Show, Fazio ha portato il discorso di un uomo o donna sola. Non l’intervista, non il dialogo, bensì il discorso, l’invettiva, la perorazione: la poesia delle parole al posto della prosa. Il modello cui si rifà è il monologo teatrale, quello si è affermato nella ultima e penultima stagione, da Marco Paolini in poi. Un recitato monologante che attraversa come una lama un momento della storia presente, o passata, oppure aggredisce la cronaca con l’arma della commozione e insieme dell’intelligenza argomentativa.

La parola chiave di questo sistema recitativo, di cui Fabio Fazio è il perfetto regista - presentatore e architetto - l’ha detta, e ripetuta più volte, Roberto Saviano: empatia. Si tratta della capacità di immedesimarsi in un’altra persona, sino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo. Quello che (non) ho è un teatro dell’empatia, forse oggi l’unico modo di comunicare, non solo in televisione, ma nelle piazze, e pure nei luoghi privati (in quella piazza privata che è il salotto di casa propria). Saviano, come ha compreso con indubbia intelligenza intuitiva Fazio, è un mago dell’empatia; lo è come scrittore, là dove ascolta e riporta le voci degli altri - scrive come un portavoce di chi non vuole, o non può, parlare - e lo è soprattutto come voce recitante in questi monologhi televisivi.

Lo scrittore campano si sforza di far comprendere dei contenuti che non transitano per la razionalità, o la logica dei discorsi, ma mediante stati d’animo, desideri e timori che le parole mobilitano. Forse non è un caso che proprio il titolo della trasmissione contenga quel «non» scritto tra parentesi: un non avere che è anche un avere, come dice la canzone di De André. L’empatia è oggi una delle chiavi comunicative più profonde nel Paese. I monologhi di questa prima serata si affidano a lei per capire e farsi capire. Il teatro torna a essere il modello di una trasmissione emotiva legato al pathos là dove la televisione commerciale aveva svolto il compito contrario: suscitare emozioni, ma badando a rendere il tutto assolutamente individuale. Nell’empatia, al contrario, viene esaltato l’aspetto collettivo, di condivisione. Ci sono ragioni che la ragione non conosce, diceva Pascal, su quelle ragioni si fonda questo spettacolo empatico.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10107
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 26, 2012, 12:14:02 pm »

Minima

26/11/2012

Carrelli abbandonati


Marco Belpoliti


Quando Sylvan Nathan Goldman nel 1936 inventò i carrelli per la spesa, ispirato da una sedia pieghevole, non aveva certo pensato alle conseguenze della sua creatura. La sua idea era piuttosto quella d’aiutare le clienti a trasportare con più facilità i prodotti acquistati, e nel contempo aumentare la capienza dei cestelli medesimi, per fare comprare di più nel suo supermercato di Oklahoma City. 

Adesso i carrelli, simbolo della società opulenta – la loro dimensione è aumentata in Italia negli ultimi decenni in proporzione alla dimensione dei supermercati –, sono un problema. Vengono infatti abbandonati nelle strade delle città. A Milano l’azienda della nettezza urbana, Amsa, ne recupera 2000 l’anno. Le due categorie più coinvolte nell’abbandono, stando ai giornali, sarebbero i pensionati e gli extracomunitari, che li spingono fin sotto casa con la spesa, e li lasciano parcheggiati sul marciapiede, o tra le auto. Nella città lombarda sembra che il fenomeno sia diffuso prevalentemente nelle zone periferiche e nell’hinterland. Il danno per i supermarket non è irrilevante; i carrelli costano tra i 100 e 160 euro l’uno, e l’Amsa si fa pagare, per restituirli alle catene proprietarie, 15 euro a pezzo. I gestori dei megastore e dei supersupermercati avevano pensato che sarebbe bastata l’invenzione di David J. Schonberg, brevettata nel 1991, che introduceva lo sblocco del carrello mediante moneta. La necessità di recuperare la moneta si riteneva fosse un deterrente all’asportazione del carrello. 

Ma evidentemente non è così: la comodità di spingere la spesa fin sotto casa vale l’euro abbandonato dentro la serratura. Inoltre, basta dare una secca martellata al sistema di chiusura per recuperarla. Nei low cost dei super, ad esempio Lidl, hanno installato da qualche tempo un’asta verticale al carrello stesso, per impedire di portarlo fuori dalle porte del negozio. Non è una soluzione, perché si perde la possibilità di portare le merci acquistate fino alla macchina. L’introduzione dei nuovi sacchetti ecologici e la scomparsa della plastica, poi, ha reso più problematico il trasporto dei beni acquistati. Urge un inventore che brevetti qualche semplice soluzione, poco costosa per i gestori dei mercati. Non sarà facile. O forse basterebbe un servizio di consegna a domicilio, a prezzi bassi, magari ottenibile con i punti: servizi invece di merci. In sintonia con i tempi che viviamo.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/26/cultura/opinioni/minima/carrelli-abbandonati-LeSIEAPZLWutMpihDUjqQI/pagina.html
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:24:55 pm »

Editoriali
14/02/2013 - san valentino

Il bacio, la pora della vita

Marco Belpoliti

Il 15 maggio Jacopo scrive nel suo diario: “Dopo quel bacio io son fatto divino”. Il giorno precedente il giovane e irruente personaggio di Foscolo ha baciato Teresa, le sue mani, poi la bocca, in un crescere di palpitazioni e sospiri suoi e della stessa ragazza: “le sue labbra umide, socchiuse, mormoravano sulle mie…”. Correva l’anno 1802, data della prima pubblicazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. 

Centocinquantasette anni dopo è invece lei, Zucchero Kowalczyk, a baciare lui, Joe, a scopo curativo. Dice Marylin chinandosi su un occhialuto Tony Curtis, che finge di essere refrattario a ogni bacio, nonché erede della compagnia petrolifera Shell: “Non sarò il dottor Freud o una di quelle cameriere parigine, ma mi farebbe provare un’altra volta?”. La sublime pagina del Foscolo e la prosaica, ma divertentissima commedia di Billy Wilder, A qualcuno piace caldo, qualcosa in comune ce l’hanno: il bacio. Ma nel frattempo tutto si è rovesciato. Tra il romanticismo del nostro scrittore e patriota e il postmodernismo del regista viennese, assoldato da Hollywood, è passata molta acqua sotto i ponti, per quanto tutto, almeno nel bacio, sembra rimasto uguale. 

Che cos’è in definitiva un bacio? L’aderire bocca a bocca di due individui o il premere le labbra su qualche altra parte del corpo di un altro (o su un oggetto). Così sintetizza una biologa e giornalista scientifica, Sheril Kirshenbaum, in La scienza del bacio (Cortina Editore), dove ci ricorda che per Darwin il bacio è sostituito in altre parti del mondo dallo strofinamento dei nasi, un’ipotesi sostenuta in L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872). La seducente Zucchero – nome programmatico –, o il suo regista, che vantava di aver frequentato a Vienna dal padre della psicoanalisti, doveva probabilmente sapere che per Freud il bacio è un sintomo della deprivazione del seno. Desmond Morris, zoologo, autore di Il comportamento intimo (Mondadori), è di avviso contrario: baciando si rivivono esperienze infantili positive. Per capire il bacio, e la sua origine, secondo Morris bisogna far girare indietro le lancette dell’orologio e tornare a epoche ancestrali. Così sarebbero almeno tre o quattro i tipi di baci, dalla bocca – affettivo e sessuale – a quello delle mani, del seno, del ginocchio, e persino il bacio dell’oggetto inanimato, come quello dato ai dadi lanciati da un giocatore in un casinò di Las Vegas. Gli antichi romani non a caso avevano tre termini per distinguere questo gesto: Osculum, bacio sociale, amichevole o di rispetto; Basium, tra famigliari ma anche a volte erotico; Savium, sessuale o erotico. Ma da dove deriva il bacio? Secondo alcuni studiosi è l’estensione della premasticazione, praticata per millenni dalle madri verso i bambini (solo nel 1927 comparvero le prime confezioni di purè per bambini, i proto omogeneizzati); ma c’è anche il bacio affettuoso della nutrice verso il neonato: guancia contro guancia. 

Un filosofo e regista teatrale, Franco Ricordi nella sua recente Filosofia del bacio (Mimesis) prende in considerazione un particolare tipo di bacio, il bacio in bocca, detto anche “bacio alla francese”, che secondo Kirshenbaum gli americani hanno imparato a conoscere solo dopo la prima guerra mondiale (ecco le cameriere parigine evocate da Marylin). Ricordi stabilisce tre periodi nella storia del bacio: l’epoca tragica, che è quella dell’antichità; l’epoca teologica, quella cristiana; e l’epoca economica, l’attuale. 

Secondo il filosofo, nella prima età il bacio era la porta dell’Amore, un gesto legato al sacro, all’innocenza dell’essere; nella seconda invece trionfa l’interdetto cristiano con l’accento posto sugli atti impuri; nell’ultima, l’età postmoderna, il bacio in bocca ha esaurito la sua valenza estetica ed etica ed è diventato un elemento consueto, un linguaggio acquisito, “una sorta di esperanto aperto a tutti gli uomini e le donne del mondo”. Capita che, volendo parlare di bacio e sessualità, nei libri si citi spesso Pretty Woman, interpretato da Julia Roberts; lo fa anche Franco Ricordi: una prostituta da alto bordo, una escort, fa sesso con il suo bellissimo cliente, Richard Gere, ma gli nega il bacio in bocca. 

Una conferma che amore e bacio sono legati, e il sesso no? Quale sarà allora il futuro del bacio? Se, come sembra seguendo etologi e biologi, sia proprio il bacio – emblema di San Valentino – a indicare ai partner la possibilità positiva di una successiva relazione stabile (“il bacio come firma di un uomo”, diceva Mae West), cosa succederà in un mondo in cui tutto sembra avvenire in modo virtuale? Rinunceremo a questo strumento di valutazione (odore, sapore, sensibilità, attrazione, ecc.)? Ma è davvero così necessario? L’antropologo Donald Marshall studiando gli abitanti delle isole Cook scoprì che non conoscevano il bacio in bocca prima dell’arrivo degli europei, e tuttavia avevano una media di ventuno orgasmi a testa la settimana: mille orgasmi l’anno senza neppure un bacio. È forse quello che ci aspetta?

 da - http://lastampa.it/2013/02/14/cultura/opinioni/editoriali/il-bacio-la-porta-della-vita-dyMjaK36XBSCUeBS4GMtsK/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 02, 2013, 04:46:46 pm »

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01/07/2013


Barba o non barba


Marco Belpoliti


Sono tornate di moda le barbe. Per almeno due decenni hanno dominato i visi glabri (e le teste rasate). Nel mondo gay, poi, oggi sono di moda i baffi (forse non sono mai tramontati), oltre che le barbe. Che si tratti di una moda con un suo ciclo altalenante, non c’è alcun dubbio. Paul Zanker, studioso del mondo classico, sostiene che i filosofi nel mondo greco erano sempre rappresentati con la barba, evidente segno distintivo, così che si poteva comprendere dal tipo di barba, e di pettinatura, a quale dottrina aderissero. 

 

Per i romani la rasatura era invece d’obbligo. Poi l’imperatore Adriano riportò in auge la barba (117-138 d.C.). Un esempio di barba gay? Le barbe non hanno mai il medesimo significato. A volte sono segni etero, a volte omo. Dipende. Dal Risorgimento fino alla Grande guerra furono barbuti anche gli uomini di stato, come racconta Italo Calvino in un suo articolo. Allora come interpretare i volti glabri e le teste calve del Fascismo? Federico Fellini in Amarcord suggerisce che il culto fallico del testone mussoliniano avesse un significato ambivalente: il massimo di maschilismo reca con sé aspetti di omosessualità, magari rimossa. 

 

Nel periodo della Prima Repubblica, dominato da democristiani e comunisti, i visi maschili erano rasati. L’unico democristiano non glabro, diventato presidente del consiglio, è stato Giovanni Goria. Ma nel frattempo c’era stato il Sessantotto, i capelloni e Che Guevara. Discorsi complessi, anche se è evidente che il ritorno delle teste rasate, da marines, nel periodo berlusconiano ha qualche attinenza con i precedenti cicli politici. La storia pelifera dell’umanità, almeno maschile, è tutta da scrivere, mentre per quella femminile – capelli non barba – c’è già qualche studio: Alessandra Violi, Capigliature (Bruno Mondadori). Mentre Pasolini era contro le barbe e i capelli lunghi maschili; Leonardo Sciascia, che pure non aveva molto amato il Sessantotto (si legga Il contesto), aveva una teoria: le rivoluzioni si fanno senza barba, come quella francese, mentre le contestazioni con la barba. Il Cristianesimo ne sarebbe un perfetto esempio. E i talebani? Il loro odio per le facce rasate (insieme con la visione antifemminile) come va letto? E Berlusconi che detesta gli uomini con la barba? Un talebano anche lui? Non so se ci avete fatto caso: oggi nessun presidente di Stato occidentale (quasi tutti maschi) ostenta la barba.

da - http://lastampa.it/2013/07/01/cultura/opinioni/minima/barba-o-non-barba-VZWoO9uijfjEf5pHfM6N3L/pagina.html
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:17:09 am »

Susan Sontag. Nel campo del desiderio

Marco Belpoliti   

Oggi Susan Sontag avrebbe compiuto ottantaquattro anni. E invece se n’è andata dodici anni fa, dopo una lunga malattia, un cancro, di cui ha anche scritto (Malattia come metafora, Einaudi): un altro capitolo della sua lotta contro il mondo, e prima di tutto contro se stessa, un altro esempio della sua moralità. Per la scrittrice, saggista e regista americana la “moralità” è stata prima di tutto un comportamento; meglio: “una forma di azione, non un particolare repertorio di scelte”. Ma Susan Sontag è stata attenta al tema dell’estetica: la forma. Ne ha fatto il centro della sua indagine. E per lei etica ed estetica sono sempre state collegate. Nove anni fa, quando è uscito postumo uno dei suoi libri più belli, Nello stesso tempo (Mondadori), avevo scritto che v’era antagonismo tra la forma di coscienza rivolta all’azione, che è poi la moralità, e “quel nutrimento della coscienza che è l’esperienza estetica”. Credo che sia proprio così.

Perché questo conflitto? Perché Susan Sontag è stata non solo una scrittrice ma prima di tutto una intellettuale nell’epoca in cui veniva decretata la scomparsa di questa figura. Lo è stata come Pasolini. Lo stile, da lei perseguito con costanza, è la sintesi di etica ed estetica. In Sullo stile, il titolo di uno dei suoi saggi più noti, scrive che l’arte è morale in quanto riavvicinamento alla nostra sensibilità e della nostra coscienza. Leggendo Nello stesso tempo mi ero reso conto ancora una volta che Susan Sontag è stata una scrittrice e saggista pratica. Nel saggio che dà il titolo a quella raccolta di testi, scrive una cosa che mi fa sempre pensare: “I narratori seri pensano ai problemi morali in termini pratici”. Che significa: raccontano sempre storie in cui possiamo identificarci, anche quando le vite narrate sono molto lontane dalle nostre; stimolano così la nostra immaginazione e “educano la nostra capacità di giudizio morale”. Educare: un verbo che non è molto usato dagli scrittori, o almeno non in questo significato. Quando sento quel verbo – educare – mi viene sempre in mente il finale de I sommersi e i salvati di Primo Levi, là dove parla dei nazisti e dice che non erano dei mostri – neppure Eichmann probabilmente lo era –, ma che erano stati educati male. Per educare, ed educarci, ci vuole sia l’etica che l’estetica. E la bellezza, che le unisce. Anche se Susan Sontag ne diffida, ma non può fare a meno di evocarla, di cercarla, la bellezza dello scrivere, prima di tutto. Le belle frasi, che non significa frasi eleganti (uno scrittore non scrive bene, semplicemente scrive: questo esattamente è lo stile). Frasi efficaci, come dice Susan Sontag, e perciò morali. Senza dubbio è stata una formidabile scrittrice di frasi. Il suo modo di scrivere e raccontare procede per cerchi concentrici: si avvicina progressivamente al centro di quello che vuol dire, ma non lo raggiunge mai; in quel procedere aggiunge però qualcosa d’indispensabile: ci aiuta a comprendere il mondo che è complesso, inafferrabile; eppure è sempre lì, davanti a noi. Le sue frasi, spesso quasi degli aforismi, ce lo mostrano, ce lo fanno vedere. Per questo Susan Sontag ha sempre tenuto in sospetto la fotografia, su cui ha scritto uno dei libri più importanti degli ultimi cinquant’anni: Sulla fotografia (Einaudi), libro inimitabile. Le fotografie – parla spesso di fotografie al plurale – ci aiutano a vedere il mondo e al tempo stesso lo ottundono, “identificano gli eventi” e nel contempo li anestetizzano. Banalizzano tutto. Lo dice in Fotografia: una breve summa, compresa in Nello stesso tempo. Eppure lei stessa ha raccontato che è stato proprio vedendo delle fotografie negli anni Quaranta, subito dopo la guerra, in una libreria in California, che ha avuto il primo shock della sua vita, da adolescente. Erano le foto dei Lager nazisti, dei sopravvissuti allo sterminio ritratti dai reporter americani al seguito delle truppe vincitrici: mucchi di cadaveri accatastati. Un rapporto complesso quello con la fotografia, lo stesso che ha avuto John Berger, anche lui autore inimitabile, suo amico e complice in questa sintesi pratica di moralità ed estetica. Amare la fotografia e al tempo stesso diffidarne. Bisognerebbe fare così con tutto? Anche con la letteratura?

Susan Sontag non ha una risposta unica o semplice, per questo è affascinate. Non ci lascia tranquilli. Problematizza tutto, perché la prima problematica è lei stessa. Ripete con forza: scrivere è necessario, perché è una forma di resistenza al mondo delle immagini. Una lezione. Ama le immagini ma ne diffida, le esalta, ma si difende dalla sua stessa esaltazione. Questa è la sua moralità, questa è la sua estetica. Ma qual è in definitiva il fondamento della sua opera e anche della sua persona? Qui cade una questione fondamentale. Non facile da capire, non facile da dire. Ci aiuta un libro apparso qualche mese fa: Odio sentirmi una vittima (il Saggiatore). Si tratta di una lunga intervista con Jonathan Cott, un collaboratore del New York Times e del New Yorker, giornalista scrittore. Di lui si ricordano due altri libri: le conversazioni con John Lennon e Yoko Ono, e quella con Glenn Gould. Nel 1978 Cott ha pubblicato sulla rivista Rolling Stone una lunga intervista con Susan Sontag. Non era apparsa completa, solo una riduzione dei nastri registrati tra Parigi e New York in anni precedenti. Tre anni fa la versione integrale è stata finalmente pubblicata in America, ora tradotta in italiano. Sulla copertina figura un’immagine di Susan Sontag. Una bellissima immagine, perché Susan è sdraiata. Ha le mani dietro la testa, sembra sorridere, ma non lo fa davvero. L’hanno scattata il momento prima che lo faccia, o che non lo faccia. Le ridono gli occhi, non le labbra che sono grandi e carnose: serrate. L’ha scattata nel 1975 Peter Hujar. È stata presa negli anni della malattia.

Tra il 1974 e il 1977 Susan Sontag si era sottoposta a un’operazione chirurgica e alla chemioterapia: tumore al seno. In questa foto conserva ancora qualcosa della ragazza. Ha poco più di quarant’anni, ed è bella. Proprio in questa intervista da cui emerge sin dalla copertina nella sua fisicità, Susan Sontag affronta una delle questioni che sottendono il suo scrivere: il rapporto tra pensiero e sentimento. Qui sta la chiave di volta, l’arco che congiunge etica ed estetica. Lei sta dalla parte di entrambe, come spiega, “nello stesso tempo”. C’è, dice, nel pensiero occidentale una concezione anti-intellettualistica: “cuore e testa, pensare e sentire, immaginazione e giudizio…”. Lei non crede che queste contrapposizioni siano vere. Continua: “Abbiamo più o meno gli stessi corpi, ma i nostri pensieri sono molto diversi”. Sta parlando degli uomini e delle donne. Ma dice anche una cosa che va ben al di là del genere. Trascrivo le frasi: “Credo che per pensare ci serviamo molto più degli strumenti forniti dalla cultura che di quelli offerti dal corpo, e nasce qui la grandissima varietà che esiste al mondo. Ho l’impressione che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero”. Una bellissima frase, che fa riflettere. Il pensiero non solo nasce dal sentimento, ma ne è una forma. Sentire è pensiero; meglio, una “forma”. La forma è il problema di chi scrive, e si scrive perché si sente: sentimento. Per non lasciare dubbio alcuno, fa un affondo al riguardo. Quello che lei fa – scrivere o girare un film –, spiega, sono “trascrizioni di qualcosa”. Quando ho letto questa frase ho pensato a Pasolini. Anche lui non ha fatto altro: trascrivere. Poi il discorso scivola verso una zona fondamentale per la scrittrice americana, quella che riguarda l’amore. Cosa c’entra l’amore con il pensare? Susan Sontag prova a spiegarlo. Quello che faccio, dice ancora, non è il risultato di un processo puramente intellettuale. Amare qualcuno, specifica, presuppone la comprensione e “amare qualcuno implica pensieri e giudizi di ogni sorta”. Qui cade la frase chiave di Susan Sontag, quella che ci spiega in cosa consiste il suo pensare e il suo scrivere: “esiste una struttura intellettuale del desiderio fisico, sessuale”. Per comprendere la sua opera, i saggi che ha scritto, come i romanzi, i film girati come gli allestimenti teatrali, bisogna considerare la natura sessuale del suo intelletto, e anche la struttura intellettuale del suo desiderio fisico. Senza questo non ci sarebbe alcun vigore, alcuna “forma”. Questa frase, l’intero passo, è illuminante. Perché non pone questioni riguardanti il genere: non separa pensiero-maschile da sentimento-femminile. Scambia le due cose. Crea un chiasmo. Le due cose sono intrecciate. Leggendo le sue pagine, libri come Contro l’interpretazione o Sotto il segno di Saturno, o ancora Stili di volontà radicale, si è colpiti dalla “struttura intellettuale” delle sue argomentazioni e insieme si capisce che sono pieni di desiderio.

Scrive usando il desidero, pur mantenendolo in stretta connessione con quella struttura di pensiero. Di più: la struttura intellettuale è solo l’impalcatura su cui si arrampica il desidero, prende forma. Il desiderio fisico. Chiunque li legga non può non accorgersi di questa forza. La moralità e l’estetica sono tenute unite da quel desiderio fisico, che è desiderio sessuale. Può sembrare un paradosso, dal momento che siamo abituati a pensare la moralità come desessualizzata e l’estetica erotizzata. Susan Sontag fa ruotare di 180 gradi le due cose: sessualizza la moralità e desessualizza l’estetica. Le riesce proprio perché non abbandona mai il campo del desiderio, ma lo istituisce dentro una struttura intellettuale. Una griglia. In un passaggio della intervista con Cott, la scrittrice ricorda un dettaglio della sua infanzia: da bambina era molto irrequieta. Un’irrequietezza che trovava origine dal fastidio di essere ancora una bambina. Questa irrequietezza la comunicano ancora ai suoi scritti. Irrequietezza dell’Eros che attraversa tutta la sua opera; è alimentata dal desiderio fisico, e lo alimenta anche in chi legge. L’irrequietezza fa parte delle manifestazioni senza oggetto – come l’angoscia, che è legata al sesso, oltre che alla morte: alla morte perché lo è al sesso. Non si sa mai perché si è irrequieti. Nessuno conosce la ragione della propria irrequietezza. Susan Sontag ci fa capire che il desiderio è la sua fonte primaria. Con quel desiderio ha alimentato la sua struttura mentale. E la nostra. Non possiamo che dirle: grazie!
       
Susan Sontag
16 Gennaio 2017
       
Da - http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201701/susan-sontag-nel-campo-del-desiderio
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