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Autore Discussione: Giochi senza pace  (Letto 5541 volte)
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« inserito:: Luglio 30, 2008, 09:13:18 am »

L'Europa rebus per la Cina

Washington e Pechino si intendono perché ragionano da potenze. Ma i cinesi non capiscono ingenuità e contraddizioni della Ue


Poco tempo fa ho incontrato a Bruxelles uno dei funzionari di più alto grado dell'Unione europea e nella nostra conversazione a quattr'occhi egli si è lamentato che la Cina sta "trascurando il suo cliente più importante" e non accoglie seriamente le preoccupazioni di Bruxelles. Qualche giorno dopo il nostro incontro, l'Irlanda ha espresso il suo 'No' al Trattato di Lisbona.

Questi eventi potrebbero a prima vista non sembrare in relazione tra loro, ma di fatto lo sono: ciò che accade nell'ambito dell'Unione Europea influisce senza alcun dubbio sulla reputazione internazionale della Ue. È difficile che Pechino possa accordare alla Ue lo status di 'potenza super-soft' se la Ue stessa non riesce ad agire in modo coeso in casa propria.

Non molto tempo fa le circostanze erano alquanto diverse: Cina e Ue vivevano una sorta di luna di miele. Nel 2005 a Parigi la Tour Eiffel si illuminò di rosso per festeggiare l''Anno della Cina' e Pechino definì una "partnership strategica" - qualsiasi cosa ciò possa significare - i suoi rapporti con l'Ue. Da allora, in effetti, i rapporti si sono raffreddati molto. L'Unione europea ha un deficit commerciale con la Cina che aumenta di 22 milioni di dollari ogni ora che passa e gli scontri commerciali vanno facendosi sempre più astiosi. Eppure, le cortesi esortazioni degli europei affinché Pechino cambi la propria politica valutaria e apra i suoi mercati non hanno prodotto risultati concreti.

Dopo che a Londra e a Parigi alla fine di marzo i manifestanti filo-tibetani hanno disturbato il percorso della fiamma olimpica, i sentimenti della Cina nei confronti della Ue si sono irrigiditi e deteriorati. In particolare, i cinesi si sono irritati quando il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ha ventilato l'ipotesi di boicottare la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino.


Ovviamente, l'annuncio del presidente Sarkozy di qualche giorno fa di voler assistere alla cerimonia di inaugurazione non può che rendere ancor più perplessi i cinesi.

L'incoerenza dell'Ue nelle sue relazioni con la Cina non è di sicuro una novità. Nel 2004 Bruxelles aveva indotto Pechino a credere che l'Ue avrebbe tolto l'embargo imposto alla Cina sulle importazioni di armi dopo la repressione di piazza Tienanmen del 1989, ma in seguito alle forti pressioni americane l'Ue già l'anno successivo abbandonò quel progetto, perdendo di credibilità a Pechino.

La mancanza di rispetto della Cina nei confronti dell'Ue nasce anche da due cause più profonde. La prima potrebbe essere definita uno scontro tra diverse filosofie di politica estera. I cinesi sono pragmatici e formali, credono nell'hard power e nella sovranità dello Stato e ciò spiega perché cinesi e americani si comprendano reciprocamente meglio, pur essendo rivali da lungo tempo; e perché Washington non abbia nei confronti di Pechino il medesimo grado di condiscendenza che ha Bruxelles. Gli europei, invece, sono liberal post-moderni, assertori del soft power e dell'obsolescenza della sovranità statale. Per i cinesi il concetto europeo di ordine mondiale è incomprensibile o addirittura inguaribilmente ingenuo.

La seconda causa è connaturata alla Ue stessa: i leader europei hanno ripetutamente mancato di restare uniti durante le crisi. Quando l'anno scorso Angela Merkel ha irritato Pechino ricevendo il Dalai Lama, nessuno l'ha appoggiata o difesa né a Londra né a Parigi. E quando, in seguito, Londra si è scontrata con Mosca, Gordon Brown si è ritrovato solo.

Una simile confusione politica in seno all'Ue - come ha confermato del resto anche la reazione internazionale all'esito del referendum in Irlanda del mese scorso - rende difficile per chiunque prendere sul serio l'Unione europea, tanto più una grande potenza come la Cina

traduzione di Anna Bissanti

(24 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:19:20 am »

5/8/2008
 
Lo sport non cambia la Cina
 
 
 
 
 
ROBERTO BECCANTINI
 
Il 13 luglio 2001, a Mosca, fu lo sport a scegliere Pechino: non un altro organismo, non con una pistola puntata alla tempia. Già allora si sapeva tutto di quello che non funzionava in Cina; e già allora si poteva immaginare - anzi: si doveva - che ben poco sarebbe cambiato. Sarà un’Olimpiade di regime, certo. Scoprirlo ora fa sorridere. Lo sport non ha mai avuto la pretesa di salvare il mondo. E nemmeno di educarlo, vista l’esplosione del doping. Al massimo, ha cercato di unirlo. Il boicottaggio è strumento democratico: ognuno si regola come meglio crede. Guai, però, a cadere nell’ipocrisia, a scivolare nell’ambiguità, a crogiolarsi nei sensi di colpa a scoppio ritardato (e interessato).

Se il Novecento è stato il secolo americano, il Duemila, assicurano gli esperti, sarà il secolo cinese. E dal momento che gli affari non puzzano, pretendere che tocchi al tribunale dell’Olimpiade giudicare un Paese a democrazia limitata mi sembra, francamente, troppo. I Giochi di Pechino costituiscono una tappa cruciale nella storia dell’agonismo e un gradino epocale nella gerarchia dei rapporti fra i signori degli anelli e il resto del mondo. Non un dettaglio che non fosse già di pubblico dominio: dallo smog al Tibet, dalla pena di morte, peraltro di casa anche nei civilissimi Stati Uniti, alla censura. Eppure la voglia di mercato spinse il Cio a scegliere la Cina. Al secondo e decisivo scrutino, ottenne 56 voti, contro i 22 di Toronto, i 18 di Parigi e i 9 di Istanbul. Votammo Pechino anche noi italiani.

A rammentare oggi la diplomazia del ping pong che, negli anni Settanta, aveva avvicinato le guardie rosse di Mao all’imperialismo americano di Nixon, si corre il rischio di passare per inguaribili nostalgici. «Citius, altius, fortius». Più veloce, più in alto, più forte. È il motto olimpico. Nessuno ci obbliga a prenderlo per oro colato, soprattutto a Pechino, là dove si respira ancora, in tutti i sensi, una brutta aria. Essere testimone del tempo, e non già suo complice: questo si chiede allo sport che l’Olimpiade, multinazionale a cinque stelle, porta in giro con tanto di corona, scettro e strascico interplanetari. E attenzione: senza i trucchi pro Sydney, Pechino avrebbe vinto addirittura nel 2000.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:37:05 pm »

Olimpiadi, il sangue e la vetrina

Gabriel Bertinetto


Un attacco terroristico nella lontana Kashgar. Una protesta popolare nel pieno centro della capitale. Quasi contemporaneamente, due avvenimenti di natura assolutamente differente l’uno dall’altro, irrompono nel clima festosamente febbrile che precede il grande debutto olimpico. E aprono crepe profonde nell’impalcatura della colossale impresa mediatica che il governo cinese sta cercando di costruire intorno ai Giochi.

Le autorità hanno puntato sulle Olimpiadi come su di una formidabile opportunità per offrirsi allo sguardo del mondo in uniforme di gala, e di illudere il mondo che quelli siano gli abiti comunemente indossati nella vita quotidiana. Un evento-vetrina. La cornice per presentare la migliore immagine di sé: organizzatori capaci, ospiti cortesi, perfetti conoscitori e manipolatori delle più moderne tecnologie.

Un’occasione, le Olimpiadi, che si vuole sfruttare anche per invitare gli stranieri a volgere lo sguardo sul «Paese di mezzo» e vedervi riflessi se stessi. Sullo sfondo l’esotismo delle pagode o del riso mangiato con le bacchette. In primo piano i grattacieli, i negozi alla moda, lo scintillare delle insegne nella notte non più cupa e silenziosa della Pechino ai tempi di Mao. Beijing come New York o Londra o Parigi. Non a caso proprio ieri il presidente Hu Jintao dichiarava di «sperare che attraverso i Giochi possiamo dimostrare al mondo la sincera aspirazione del popolo cinese a condividere i benefici dello sviluppo e ad unirci al resto del mondo nel costruire un futuro luminoso».

Voglia di omologazione, desiderio di salire sul treno in corsa della globalizzazione, pagando il biglietto ma avendo anche la garanzia di non rimanere stipati in piedi nel corridoio. Aspirazioni abbastanza logiche, se non fosse che nel viaggio verso la modernità la Repubblica popolare si trascina dietro un bagaglio di problemi irrisolti con cui fatica a fare i conti. E fatica proprio perché affronta quei problemi con strumenti inadatti, residuo di un passato che condiziona fortemente il modo in cui si proietta nel futuro.

L’attentato nello Xinjiang reca la firma dei separatisti ujguri, un’etnia turcofona di tradizioni musulmane. Pechino non ha mai accettato che gli abitanti di quella regione siano prima di tutto animati dalla volontà che siano rispettate la propria cultura, le proprie usanze, la propria lingua. E che per non sentirsi colonizzati dagli immigrati han, sia loro concessa autonomia amministrativa e una quota più consistente del reddito prodotto in loco. Abituati da decenni a metodi di governo centralisti ed autoritari, i dirigenti comunisti non sopportano l’idea del dialogo e della mediazione. Semplificano lo scenario entro i confini di uno scontro tra lo Stato e il nemico terrorista. Poiché, a differenza del Tibet che ha la fortuna di avere il Dalai Lama, nello Xinjiang non esistono leader carismatici riconosciuti dall’insieme della popolazionee locale, diventa più facile per Pechino rimodellare a proprio piacimento la realtà locale agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, e insieme togliere spazio ad ogni forma di opposizione non-violenta. Risultato: noi non sentiamo la voce degli ujguri, cui viene impedito di parlare, ma ci arriva purtroppo il fragore delle bombe.

Smog, ingorghi stradali, disordine edilizio, sovraffollamento. Pechino ha agganciato il progresso anche nei suoi aspetti più macroscopicamente negativi, e ripetendo il percorso delle megalopoli che l’hanno preceduta, comincia oggi a recitare il suo tardivo mea culpa. Progetta o promette misure per contenere l’inquinamento e razionalizzare gli aspetti più devastanti della crescita urbana. Ma fatica ad accettare come normale conseguenza di questi fenomeni, il moltiplicarsi dei conflitti sociali.

Il meccanismo è lo stesso che impedisce il dialogo con gli autonomisti ujguri e tibetani. Se un gruppo di famiglie, sfrattate per demolirne le case e edificarvi al posto un grande magazzino, si riuniscono e chiedono indennizzi adeguati, viene appiccicata loro l’etichetta di elementi sovversivi. È più facile essere arrestati che ascoltati. Ma in tempi di Olimpiadi, quando migliaia di giornalisti piombano sulla capitale, può anche accadere che le loro ragioni trovino il canale attraverso cui sfociare verso il mare dell’informazione pubblica.

Certo è uno smacco per chi vorrebbe tenere nascosti ai propri connazionali ed al mondo gli effetti collaterali dello sviluppo. E che proprio per questo, contradditoriamente, cerca di depurare la marcia verso la globalizzazione da alcune compomenti essenziali della medesima, come la comunicazione via Internet, sistematicamente censurata. Avere le Olimpiadi in casa comporta avere i fari del sistema mediatico internazionale impietosamente e costantemente puntati addosso. Inevitabilmente ne risultano messi a fuoco fatti e situazioni che i dirigenti cinesi preferirebbero lasciare ai margini dello spettro visivo.

A tenere nascosti drammi incancreniti come le tensioni etnico-religiose e nuovi problemi come quelli prodotti dagli arbitri e dalle ingiustizie che si accompagnano allo sviluppo economico, non basta avere mobilitato uno straordinario apparato militare e poliziesco trasformando la città in una gigantesca fortezza. Né basta avere missili terra-aria sistemati attorno agli stadi per prevenire minacce dal cielo. E non basta nemmeno dispiegare decine di migliaia di soldati, 74 aerei, 47 elicotteri e 33 navi agli ordini del Comando centrale di sicurezza olimpica. Non basta piazzare decine di migliaia di telecamere sui piloni stradali, nei bar, nei locali pubblici.

Pubblicato il: 05.08.08
Modificato il: 05.08.08 alle ore 15.03   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:11:57 pm »

Giochi, esibita la fierezza di un Paese che vuole occultare i suoi problemi

Roberto Cotroneo


Più i paesi sono totalitari, più si impegnano in operazioni di propaganda assolutamente sorprendenti. Più i paesi sono totalitari più cercano la propaganda.

La Repubblica popolare cinese ieri ha messo in scena uno spettacolo propagandistico migliore di quello delle Olimpiadi di Berlino del 1936: la storia è diversa, ma gli scopi sembrano gli stesso. Ovvero: mostrare un volto diverso, distrarre il mondo, ma soprattutto spiegare con chiarezza di quanta potenza sia capace la Cina che si affaccia al mondo attraverso questi giochi olimpici.

Lo sport aiuta molto da questo punto di vista, perché lo sport è portatore sano di una retorica grandiosa e stentorea assieme, alla quale è difficile resistere. Bisogna sfilare, gli atleti si giocano in un attimo sacrifici di una vita, teniamo fuori lo sport dalle polemiche della politica o dei diritti umani.

Tutte belle amenità che sono certamente vere e che hanno una loro logica e una loro spiegazione, ma che non spostano il discorso. Ieri, le immagini trasmesse in tutto il mondo erano spettacolari ed eloquenti assieme. I percussionisti con il count down facevano impressione, come facevano impressione le onde dei caratteri mobili fatte da più di ottocento cinesi, ed era tutto costruito non per stupire il mondo, divertirlo o emozionarlo, ma semmai per spiegare che la Cina è qualcosa di molto più potente di quanto si possa immaginare. Ed è potente perché sono in grado di mettere in gioco uomini, persone, masse vere e proprie.

È curioso come nell’era delle tecnologie più sofisticate i giochi di ieri siano stati aperti dal lavoro incessante e sorprendente di giovani cinesi, che hanno studiato in centinaia le decine di scenografie messe in campo.

È curioso come tutti i regimi totalitari amino mostrare con fierezza la loro storia, il loro passato, la loro tradizione. E lo fanno perché questo possa perlomeno un po’ spiegare, se non addirittura giustificare, quello che viene fatto ogni giorno in un paese che non rispetta i diritti e le libertà individuali.

Allora ieri tutto finiva per diventare un elemento di contrasto. Un elemento di contrasto il trionfo della tradizione. Un elemento di contrasto i 56 bambini, i soliti bambini usati per queste cose, di tutte le etnie cinesi riconosciute, che sfilavano sorridenti ma non troppo. Un elemento di contrasto gli artisti che disegnavano con il corpo e con i pennelli. Con quei colori leggeri, tutti sul verde, placidi e delicati, in un paese per nulla delicato, dove il livello di inquinamento è paragonabile alla Londra della prima rivoluzione industriale.

Un paese con una crescita industriale impressionante che ieri ha messo sul tappeto tutta la sua competitività e soprattutto tutta la sua aggressività.

Bastava un dettaglio: il pianista Lang Lang, soprannominato con ironia Bang Bang dai critici musicali di mezzo mondo, davanti a uno smisurato e pacchiano pianoforte bianco, che suonava con quell’enfasi inutile e sconsiderata che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Oppure il globo di non so quante tonnellate, che in cima vedeva esibirsi un cantante pop cinese e una inglese, in quei brani privi di senso e di emozione. E poi la celebrazione retorica non dei valori dello sport, ma di una tradizione millenaria, che non ha nulla a che fare con la Cina di oggi. Ma anzi: in un certo senso la nega.

E ancora: la solita retorica sportiva. In una sorta di decoubertismo rovesciato i cinesi vogliono vincere più ori di quelli che porteranno a casa gli Stati Uniti d’America. Una sfida che però di sportivo ha assai poco, e di rivalsa e di volontà di potenza ha tutto. Forse si potevano vedere dei giochi meno ossessionati dalla forza, dall’aggressività, dalla dimostrazione del ruolo e dello status. E non ci sono discorsi finti, occhi chiusi e politiche dello struzzo che tengano. Perché la realtà delle olimpiadi di Pechino ormai è chiara già dalla cerimonia di apertura. La realtà di un governo che utilizza un mezzo nobile per nascondere problemi assai meno nobili.

Capisco la gioia degli atleti nel vincere da domani in poi le medaglie d’oro, la gioia di salire sul podio e alzare la mano in segno di vittoria.

Ma ci sono podi e podi, e olimpiadi e olimpiadi, ci sono paesi democratici, e paesi totalitari che condannano a morte gli oppositori, impediscono la libera circolazione delle idee, schiacciano e reprimono le ragioni di popoli pacifici.

Curiosamente ieri, nella diretta televisiva, la Rai ha trasmesso lo spot della Lancia Delta girato dal testimonial Richard Gere, con il bimbo tibetano. Come tutti sanno Gere ha devoluto alla causa del popolo tibetano i guadagni che gli provengono da quello spot.

Ma «the show must go on» anche questa volta. E francamente non se ne sentiva davvero il bisogno. Abbiamo tenuto il fiato sospeso fino a ieri. Perché, e questo si sa, la forma, sempre, è sostanza. L’apertura dei giochi poteva essere, e mi si perdoni il gioco di parole addirittura doppio: giocosa, allegra, fraterna, entusiasta. Poteva essere un segnale per il futuro, come recitano troppo spesso molti ipocriti fingendo di non ascoltare - in nome di ipotetici valori dello sport che non dovrebbero essere dissimili dai valori con cui conduciamo abitualmente le nostre esistenze - le grida di dolore delle organizzazioni internazionali, ultima quella di Reporters sans Frontières.

Da domani la Cina non sarà più aperta di prima. E questi giochi non saranno un punto di partenza. Da quel che si è visto, e si è letto tra le righe di questa cerimonia di apertura, da domani la Cina sarà più forte e sicura. E anche più tranquilla.

Dalla fine dei giochi si ricomincerà a protestare per il popolo tibetano, e per i ragazzi cinesi condannati a 20 anni di carcere per aver visitato un sito internet? Si potrà ancora fare dopo essersi meravigliati da tanta potenza? Dopo aver gareggiato, esultato, sospeso il giudizio, per il tempo che basta, per il tempo di questi giochi olimpici.

A questi atleti, bravi, rigorosi, che sono lì con i nostri colori, per cui facciamo il tifo e di cui andiamo fieri, vogliamo umilmente ricordare, soprattutto dopo l’apertura di questi giochi, che non ci sono due morali, e che i diritti umani, in ogni caso e comunque, non possono attendere.

www.robertocotroneo.net



Pubblicato il: 09.08.08
Modificato il: 09.08.08 alle ore 9.46   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 10, 2008, 10:08:32 am »

9/8/2008
 
Potenza senza storia
 
 
ANDREA ROMANO
 
Ci sono tanti modi per riscrivere la storia. Uno di questi è aggiudicarsi l’organizzazione delle Olimpiadi e allestire una portentosa cerimonia d’inaugurazione priva di qualsiasi cenno alle vicende dell’ultimo secolo. È il metodo scelto dalle autorità cinesi, che con la liturgia solenne offerta ieri a quasi quattro miliardi di telespettatori hanno voluto celebrare l’anima antica e la potenza moderna del proprio Paese. Uno spettacolo ovviamente grandioso, impressionante, monumentale.

Etuttavia questa volta è stato più scomodo del solito abbandonarsi all’inganno volontario che ogni celebrazione nazionale porta con sé. Perché nella geniale sequenza delle scenografie dirette dal regista Zhang Yimou mancava persino la più piccola traccia del secolo cinese che il mondo ha conosciuto nel Novecento, delle sue molte pagine tragiche tanto quanto di quelle segnate dall’eroismo delle rinascite.

Non che fosse cosa semplice rendere festosamente i lutti colossali del maoismo o il senso del cammino ritrovato dopo i traumi della rivoluzione culturale. Ma nel metodo cinese di gioiosa obliterazione del passato c’è qualcosa di profondamente diverso, ad esempio, dalla capacità della Russia post-sovietica di riassorbire dentro un’unità di contrari il secolo del comunismo. Se nella Mosca di Putin e Medvedev si celebra il genio militare di Stalin accanto all’eroismo antistaliniano di Solzenicyn, nella Pechino olimpica tutto scompare nella magnificazione dell’unico protagonista del racconto ufficiale: l’orgoglio di una grande potenza millenaria ma senza storia. Sono due metodi di digerire un passato che non passa, entrambi lontani dalla capacità di affrontare a viso aperto il peso del Novecento. Quello che abbiamo visto ieri a Pechino è il metodo di un grande Paese che ci sorride di un sorriso inquietante perché del tutto fasullo, almeno nella sua versione ufficiale, nonostante i vertiginosi tassi di crescita grazie ai quali è riuscito ad allestire un’Olimpiade destinata comunque a stupirci.

«Il momento storico che abbiamo a lungo atteso è finalmente arrivato», aveva detto il giorno prima Hu Jintao ai leader mondiali presenti al banchetto d’onore. Ed effettivamente quella olimpica è già diventata, come ci ha mostrato la cerimonia inaugurale, l’occasione tutt’altro che mancata per raccontare al mondo la doppia uscita della Cina dal feudalesimo e dal comunismo. Le antiche giunche di Zheng He e le fascinose tappe della via della seta per dimenticare il «Grande balzo in avanti»? Forse non era tanto articolata la sceneggiatura ideologica vista ieri a Pechino. Ma certo è che l’esibizione di potenza a cui abbiamo appena assistito è destinata ad accompagnare l'immagine ufficiale cinese ancora per molti anni a venire.

Quanta sostanza vi sia sotto quell’immagine è poi il vero punto interrogativo. Perché non può sfuggire la coincidenza tra gli splendori propagandistici della cerimonia olimpica e la notizia dell’ennesimo conflitto post-imperiale venuta ieri da Mosca. «La guerra è iniziata»: il tono lapidario con cui Vladimir Putin ha annunciato l’attacco alla Georgia dovrebbe essere messo a confronto con il volo del ginnasta Li Ning, l’ultimo tedoforo cinese. E spingerci a riflettere sulla differenza che passa tra la promessa di grandezza vista ieri a Pechino e l’implacabile freddezza della potenza russa: una potenza assai meno fastosa, molto meno ridondante di tassi di sviluppo ma non per questo minimamente intenzionata a farsi sfuggire il ruolo che le spetta nella sua fetta di mondo.
www.lastampa.it/romano 
 
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 10, 2008, 10:12:29 am »

9/8/2008
 
Giochi senza pace
 
 
 
 
 
MASSIMO GRAMELLINI
 
Era già accaduto che una guerra non si fermasse per l’Olimpiade. Mai però che cominciasse in concomitanza con la cerimonia inaugurale. E’ un altro record stabilito dall’umanità: i russi che invadono l’Ossezia nelle stesse ore in cui i loro atleti sfilano a Pechino sotto lo sguardo benedicente di un Putin in maniche di camicia che si dichiara molto preoccupato: non per i morti, ma per gli arbitraggi. Se Pindaro fosse vivo, morirebbe di crepacuore.

I vivi, molti dei quali non sanno chi sia Pindaro, continuano invece tranquillamente a campare, come se «questo» sport e la violenza potessero coesistere benissimo e addirittura procedere appaiati. Difficile dar loro torto. L’idea che l’Olimpiade degli antichi fosse un rito sacro che sanciva la sospensione di ogni conflitto armato è qualcosa di suggestivo che poteva emozionare giusto i lirici greci. Eppure anche l’Olimpiade moderna di De Coubertin era nata con un’anima: retorica finché si vuole, ma reale. Pace, giovinezza, lealtà, fratellanza, solidarietà. Parole oggi quasi grottesche, se applicate all’Esibizione Mondiale del Muscolo Gonfiato. Diventa patetico, lo ammetto, scandalizzarsi per il mancato rispetto che in Ossezia hanno manifestato nei confronti di un evento che non ne merita più alcuno, spolpato com’è di qualsiasi dimensione spirituale.

Durante la guerra fredda le grandi potenze usarono l’arma del boicottaggio per svilire l’Olimpiade organizzata dall’avversario. Nel 1996 l’edizione del centenario venne assegnata ad Atlanta anziché alla Grecia, come sarebbe stato ovvio, per accontentare una nota marca di bibite che comincia per Coca e finisce per Cola. E già dalla metà degli Anni Ottanta gli atleti avevano cominciato a doparsi in modo scientifico: fino alla realtà attuale, venti bombati estromessi dai Giochi ancor prima che si cominci e chissà quanti altri regolarmente in gara, anche se prodighi nel rilasciare commenti scandalizzati contro i colleghi beccati con le mani nel sacco. Da rito della fratellanza, l’Olimpiade è diventata trionfo della volontà di potenza: del Paese organizzatore che vuole mostrare al mondo quanto sia bravo e quanto sia bullo, degli sponsor che tutto possono e muovono, degli atleti che sono disposti a qualsiasi compromesso morale e farmacologico pur di dare un valore economico ai sacrifici compiuti in tanti anni di allenamenti feroci.

Il nuovo spirito olimpico è stato colto alla perfezione dalla cerimonia inaugurale di Pechino. Bella senz’anima. Stupefacente ma poco emozionante. Potente ma piatta. Epica nelle scene di massa ma totalmente priva di quel linguaggio muto di simboli e miti che ogni cerimonia inaugurale - a Mosca come a Barcellona, a Sydney come a Torino - aveva tramandato. In un contesto simile è probabile che gli eserciti d’Ossezia non si siano proprio posti il problema di un accavallamento del calendario. Ed è difficile fare la morale a loro quando non si riesce più a farla nemmeno a noi, che da domani ricominceremo a lucidare la trappola del tifo nazionalista per appassionarci alla medaglia di bronzo di qualche compatriota che dal giorno dopo ricominceremo serenamente a ignorare.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 11, 2008, 09:58:33 pm »

Fine dei Giochi

Oliviero Beha


Venerdì scorso, giornata inaugurale delle Olimpiadi, sui giornali titoli e foto in evidenza da prima pagina erano in buona parte dedicati alla fantasmagorica edizione numero 29 dei Giochi Moderni. Sabato quello spazio già si divideva tra la cerimonia inaugurale di Pechino e la guerra in Ossezia. Ieri, fatti salvi i giornali sportivi che ne sono il logico indotto di marketing, la prima giornata olimpica cedeva a immagini strazianti del conflitto e dei civili uccisi o soccorsi.

Sempre ieri l’Italia ha vinto il suo primo oro cinese nella spada individuale con Matteo Tagliariol, un fuoriclasse di Treviso di 25 anni. Gioia dell’olimpionico, della famiglia, dei dirigenti sportivi italiani presenti, i soliti Petrucci e Carraro, del team azzurro, degli sportivi italiani, degli italiani innamorati del tricolore che non fanno gestacci all’Inno di Mameli,etcc. Mondi separati dunque? Che si deve fare?

Chiedo lumi a Brecht, a una sua poesia in tempo di guerra intitolata «A quelli nati dopo di noi»: «...Che tempi sono questi in cui/ un discorso sugli alberi è quasi un reato/ perché comprende il tacere su così tanti crimini!...». Una volta c’era la cosiddetta “tregua olimpica” di ellenica memoria, per cui si sospendevano le guerre per le gare. Adesso i tycoon del Cio, a partire dal suo presidente Rogge, da Pechino esplicitamente affermano «non è affar nostro, ci pensi l’Onu» e implicitamente ratificano che la tregua olimpica è una panzana retorica e quel che conta è il denaro, negli stadi, negli studi tv come nel massacro in Ossezia dove in ballo c’è molto di più il petrolio e il suo mercato occidentale che non “diversità di vedute” sull’identità nazionale osseta.

Per carità, già nel 1936 la torcia olimpica ardeva per iniziativa di Hitler e dei suoi sodali, e sulla prima torcia berlinese simbolo di fratellanza tra i popoli c’era il marchio Krupp poi tristemente noto nella fabbricazione delle armi belliche. Ma stavolta, sul pianeta evoluto di cui ci vantiamo di far parte, dopo una marea di polemiche più o meno sincere (meno, più ipocrite) sui diritti umani e civili nebulizzati dalla Repubblica di Cina addirittura si è passato ad uno start contemporaneo delle gare e della guerra. Non ricordo personalmente una simile simultaneità. Evidentemente ci si evolve. Dai tempi di Hitler e della sua torcia ne abbiamo fatta di strada sulla via della modernità...

Intanto in una con le bombe a casa loro sfilavano a Pechino gli atleti georgiani che si erano detti pronti a tornare in patria per cambiarsi di divisa. Intanto il presidente georgiano se ne usciva con l’assurdità del monito «rimanete ma vincete». Serve altro per domandarci se siamo alla fine delle Olimpiadi? Aiuta a porsi una domanda simile il fatto che nel frattempo dopo gli attentati di Kashagar di lunedì,ieri ci sono stati altri otto morti nella regione del Xinjiang? Sempre di Cina, dell’immensa Cina si tratta. Della Cina olimpica, dico. Di questa Cina sotto gli occhi tecnologici del pianeta.

Ci stanno rubando - se non ci hanno già rubato - le Olimpiadi, questo è il punto. Ce le mostrano a condizione che ci dimentichiamo di tutto il resto (cfr. Brecht), con il ricatto psicologico pseudorealista e in realtà supercinico che tanto il mondo è questo, e quindi “perché privarci di un fenomenale spettacolo?”. Sarebbe una rinuncia in perdita. Come se la fine delle Olimpiadi, ovvero il loro snaturamento, la loro mercificazione, la simonia in terra di Olimpia dipendessero da noi e non da loro, che hanno usato i Giochi per tutt’altro, con il “collaborazionismo” di tutto il mondo sportivo.

Facciamo un esempio ancora più chiaro. Si dice che a Pechino ci sia tantissimo smog, nel senso letterale e non metaforico di un inquinamento mostruoso che rende difficile respirare e camminare, figuriamoci gareggiare. Non viene misurato credibilmente. Voglio dire che se la percentuale di inquinamento fosse troppo alta, manifestamente troppo alta, le autorità locali scientifiche o politiche (coincidono) fornirebbero certamente numeri diversi. Più bassi. Tollerabili. Non lo fanno solo i cinesi, il giochetto delle centraline di monitoraggio usate a proposito è cosa nota anche da noi, Europa, Italia ecc. Ebbene, la domanda è: quanto smog possono sopportare gli atleti? C’è un limite? A che punto si dovrebbe arrivare per dire basta? Trasferite questo interrogativo dando allo smog politico tutto l’ampio significato che deve assumere. Quanto smog politico, in termini di diritti umani e civili nella Cina ospitante, dei morti periferici relativi, della guerra contemporanea in Georgia e forse non solo in Georgia, nei prossimi giorni, quanto smog politico può sopportare un’Olimpiade e il cosiddetto spirito olimpico? Non siamo già oltre il tollerabile mentre si manomettono nemmeno troppo metaforicamente le centraline di monitoraggio? Forse le fotografie dall’Ossezia vicino alla faccia giustamente sorridente di Tagliariol possono contribuire a una risposta.
www.olivierobeha.it

Pubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.09   
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