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Autore Discussione: "Mia sorella Oriana morta d'eutanasia"  (Letto 7661 volte)
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« inserito:: Luglio 24, 2008, 04:05:12 pm »

COver story / esclusivo - l'ultima Fallaci
Oriana e le ciliege
Nel romanzo-mondo le vicende di famiglia si intrecciano con la storia. E tutto parte da un cappello pieno di frutti

 
La copertina del «Magazine»
Alessandro Cannavò per «Magazine»

Dimentichiamo per un attimo l’11 settembre e quello che ne seguì. Dimentichiamo la donna furente che si prese il titolo di paladina dell’Occidente contro le minacce non solo terroristiche ma anche culturali di un islamismo incalzante; la scrittrice che con l’acume impietoso proprio dei pensatori liberi coniò il termine Eurabia e frantumò brutalmente alcuni tabù sulla convivenza. Rewind. Andiamo indietro nel tempo, ma non troppo. Non all’epoca della grande giornalista in Vietnam e sugli altri fronti caldi del pianeta, dell’autrice di memorabili reportage per l’Europeo ripresi da tutte le testate internazionali; o della donna che raccontò l’ossessivo legame politico-sentimentale con Alessandro Panagulis nell’epico ritratto di Un uomo; o della star di Lettera a un bambino mai nato che lacerò e commosse il mondo con una storia intimamente femminile.

C’è un periodo nella vita di Oriana Fallaci rimasto per sua volontà nella penombra dopo i decenni da ruggente protagonista. 1991: Oriana torna a New York a conclusione dell’ennesima prova di inviato di guerra, il conflitto nel Golfo scatenato dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Malgrado l’età non più verde, era salita su un aereo americano descrivendo per il Corriere una missione da brivido. Una cosa tipicamente da Oriana. Già 24 anni prima, in Niente e così sia, aveva raccontato con sgomento la sua esperienza in un raid al napalm per stanare i vietcong. Rientrata in America, la Fallaci scopre di essere malata di cancro. Lei lo annuncia l’anno seguente con clamore al Washington Post mostrando la solita tempra e un sentimento altalenante («Odio questo alieno che attacca la mia vita, vorrei sputargli in faccia, strangolarlo, distruggerlo. Ma sento che sono finita»). Rilascia, quindi un’intervista sulla carriera e sulla malattia a Gino Nebiolo per la Rai. Poi scompare. «Ma che si sa di Oriana? Dov’è finita la Fallaci?», erano le domande ricorrenti negli anni Novanta dentro le redazioni e tra i suoi cultori.

 
Oriana Fallaci fotografata da Angelo Cozzi nella sua casa di Greve in Chianti, nel giugno 1979
Oriana, dopo una vita sotto i riflettori, star tra le star, si era “garboizzata”. Niente piu articoli sui giornali, niente piu dichiarazioni. Rinchiusa nella sua casa sulla 61esima a studiare, esaminare documenti, fare ricerche, scrivere. E così anche nei periodi che trascorreva in Italia, nell’amato casale di Greve in Chianti. Andava a rovistare tra gli archivi, i mastri anagrafici. Ancora di più: lasciata l’attualità, presa da un fervore storico, cominciava a consultare i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum delle parrocchie. Che le era preso all’Oriana? Che le era saltato in mente? Di raccontare la storia della sua famiglia, di scoprire e mettere alla luce i personaggi impavidi, estrosi, indomiti che l’avevano preceduta e forgiata. Ed ecco il monumentale Un cappello pieno di ciliege (864 pagine) che la Rizzoli, editore di tutti i libri della scrittrice (tranne il primo) lancia il 30 luglio, giusto in tempo per mettersi in valigia una saga da gustare nelle vacanze.

Un prologo e quattro parti che possono essere considerati libri compiuti a sé perché ciascuno riguarda la famiglia di uno dei quattro nonni della scrittrice. Una cavalcata storica che parte da metà del Settecento, mentre in Europa si respirano i fermenti dell’Illuminismo e si prepara aria di Rivoluzioni, e si conclude nel 1889, anno di morte di Anastasìa, bisnonna dell’autrice, il personaggio più avventuroso del libro, donna autonoma, ribelle, coraggiosa che approda e si afferma in America. Ma il fulcro della vicenda è la Toscana, è il Chianti, è Panzano, “quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena” che due secoli e mezzo fa era una terra di contadini poveri ma dignitosi. Una terra che già serbava, però, il tesoro di un’agricoltura vinicola invidiata nel resto del mondo. Ed è così che la storia sin dall’inizio sfiora la Storia con la “s” maiuscola: nientemeno che Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza americana, possidente terriero in Virginia e appassionato agronomo. Jefferson propone al commerciante fiorentino Filippo Mazzei, suo amico, di impiantare oltreoceano un’azienda per la coltivazione della vite e dell’ulivo, chiedendogli di portare con sé una decina di contadini. Tra questi si offre per la spedizione Carlo Fallaci, secondogenito di Luca, mezzadro che nel podere di Vitigliano di Sotto lavorava per i Da Verrazzano, discendenti dell’esploratore che scoprì il fiume Hudson e la baia di New York.

Il microcosmo chiantigiano si confronta così con i vastissimi orizzonti del Nuovo Mondo ma non era ancora il tempo dell’America per i Fallaci: Carlo, biondo con gli occhi azzurri, proprio come l’Oriana, cede al suo carattere di toscanaccio orgoglioso: basta un disguido nel luogo dell’appuntamento per la partenza e decide di tornare al paese. «Nel 1773… corsi il rischio di non nascere», scrive Oriana nell’incipit. Perché Carlo è il primo tra gli “arcavoli” ritrovati in cui lei individua quei cromosomi di libertà e di ribellione che le appartenevano. Sarà così anche, e certamente di più, per l’indomita moglie di Carlo, la senese Caterina Zani (il titolo del libro è preso dal cappello da lei indossato nel primo incontro con il futuro marito) che Oriana fa scagliare, incinta di tre mesi, contro l’oppressore Napoleone in passerella a Firenze sulla carrozza degli Asburgo Lorena: «Accident’a te e alla troia che t’ha partorito! Che statue sei venuto a rubarci, che guerre sei venuto a portarci, uccellaccio rapace?». Una visita che la scrittrice associa, per gli onori tributati, a quella cui lei stessa assistette di Hitler e Mussolini a Firenze. Mentre la ribellione all’invasore rimanda alla lotta partigiana che vide il padre di Oriana in prima linea e lei coinvolta come staffetta.

 
Oriana Fallaci fotografata da Angelo Cozzi nella sua casa di Greve in Chianti, nel giugno 1979
Ed ecco che Oriana rivive, nel secondo libro, anche in Montserrat, la spagnola che per le nozze esibisce sulla parrucca un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta, in omaggio allo sposo Francesco Launaro, marinaio di lungo corso che deve vendicare la morte del padre ucciso da crudeli pirati algerini; o, nel terzo libro, in Giovan Battista (detto Giobatta) Cantini, attivista politico anarchico. E poi, nel quarto, nella bellissima Anastasìa, repubblicana che ha una figlia da un aristocratico piemontese rimasto per sempre l’Innominato, la lascia in un orfanotrofio per andare in America dove rischia di finire sposata a un mormone nello Utah e poi arriva a San Francisco dove apre (probabilmente) un redditizio bordello. Quando torna in Italia ritrova la figlia e la vicenda acquista un sapore di feuilleton per un finale da film. Ma sono una cinquantina i personaggi principali della saga: cinque generazioni unite dagli oggetti riposti in una cassapanca del XVI secolo appartenuta a un’altra antenata, Ildebranda, accusata di eresia e bruciata dall’Inquisizione perché cucinava l’agnello in tempo di Quaresima («la mia antenata strega», amava vantarsi Oriana).

In quella cassapanca, che sarebbe andata in fumo nei bombardamenti su Firenze del 1944, l’Oriana bambina aveva trovato, tra l’altro, un abbaco e un abbecedario del Settecento, la lettera di un prozio arruolato da Napoleone e poi morto nella campagna di Russia, una federa che riportava una scritta preziosa, un paio di occhiali, una copia di un libro del Beccaria. Altri oggetti che le erano rimasti: un liuto senza corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi dello Stato Pontificio e un vecchio orologio con i rintocchi di Westminster. Ma soprattutto insieme con questa Spoon River toscana c’erano le voci dei genitori Edoardo e Tosca, «divertita e ironica quella di lui», scrive nel prologo la Fallaci, «sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia». Ed ecco che da questi pochi indizi, dai flebili ricordi, comincia la ricerca frenetica dei luoghi, delle date, delle conferme. Materiale per formare un sostrato storico sopra il quale i grandi romanzieri scatenano la fantasia. «Fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile e all’inventato…». E la Fallaci mette al servizio di caratteri e situazioni la sua ammaliante scrittura passionale, arricchita da un sapore ironico e popolaresco: in fondo si tratta di un pezzo di storia d’Italia fatta da povera gente, per lo più indigenti e analfabeti.

«Mia zia è stata sempre affascinata dai racconti della famiglia», spiega Edoardo Perazzi, erede testamentario della scrittrice, il nipote che l’ha accompagnata fino alla morte. «Quando passavamo le estati nella casa del Chianti aveva il quaderno degli appunti sempre pronto per raccogliere ricordi, prendeva appunti non solo con i nonni ma anche con lo zio Bruno, giornalista di Epoca e del Corriere, e con altri parenti. Era la stessa ansia di trascrivere, per fare un esempio, lo struggente diario trovato a un vietcong morto in battaglia, finito poi integralmente in un capitolo di Niente e così sia. Eppure soltanto una decina di anni fa ci rendemmo conto che questo materiale stava per diventare un nuovo libro». Ma perché la storia si conclude nel 1889? «A dire il vero lei aveva cominciato a scrivere dal Novecento, inizialmente la saga si sarebbe dovuta fermare al ’44, alla cacciata dei nazisti da Firenze. Esistono molti appunti e un abbozzo della prima stesura. Ma poi le sembrò che quelle vicende vissute personalmente e raccontate un po’ in tutti i suoi libri, in questo caso intralciassero lo spirito romanzesco del libro. E si tuffò nel passato. Il materiale di ricerca accumulato per costruire questa saga è portentoso e spero che un giorno possa essere conservato in un fondo e utilizzato dal pubblico.

Dal costo del biglietto delle carovane del Far West agli eventi meteorologici di Radda e Greve in Chianti, Oriana è stata puntigliosa e sfiancante per chi le ha dato una mano. Ho trovato l’appunto di uno studioso dell’università di Boston che, esausto per la ricerca del nome di una certa nave che faceva la spola tra Plymouth e Livorno, la supplica di accontentarsi di quanto aveva trovato. Avrebbe voluto andare ancora più indietro nel tempo, Oriana: arrivare all’antenata bruciata o all’epoca in cui, secondo quanto detto da alcuni personaggi, il seme dei Fallaci era emigrato in Chianti dalla Firenze dell’epoca di Boccaccio, assediata dalla peste. Ma non aveva trovato documentazione di quei secoli e così è partita dalle prime notizie sicure». Perazzi ha lavorato con la redazione della Rizzoli per riportare nel testo le correzioni della quarta parte e ricostruire l’albero genealogico della famiglia allargata fallaciana che appare nei risguardi all’inizio del volume, mentre in coda si possono leggere le note del nipote e dell’editore in cui si evidenziano gli interventi e le piccole incoerenze non corrette. «Abbiamo mantenuto le imperfezioni da opera incompiuta per rispetto dell’autrice. Ma questa appendice, che comprende alcune pagine dattiloscritte con la scrittura di Oriana, sarà un altro motivo di interesse per i suoi ammiratori».

Ed eccoci nuovamente all’11 settembre. Oriana è sconvolta dall’attentato alle Torri, decide di rompere il suo silenzio decennale con un clamoroso articolo apparso il 29 settembre 2001 sul Corriere, intitolato La Rabbia e l’Orgoglio. Chiude la sua violenta invettiva con questa frase: «Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ora basta. Punto e basta». Ma poi non ce la fa a mantenere l’impegno e Un cappello pieno di ciliege non sarà più ripreso. «Superato il trauma mi dissi: devo dimenticare ciò che è successo e succede. Devo occuparmi di lui e basta. Sennò lo abortisco. Così stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano la pagina del giorno prima, cercai di riportare la mente ai miei personaggi. Creature di un mondo lontano, di un’epoca in cui gli aerei e i grattacieli non esistevan davvero. Ma durò poco. Il puzzo della morte entrava dalle finestre». La Rabbia e l’Orgoglio divenne così un libro, un successo da oltre un milione di copie. «Oriana si portò fino alla morte il cruccio di non aver messo la parola fine a quest’opera», continua Perazzi. «E forse non se lo perdonava. Nell’agosto 2006, nell’ultimo mese di vita, mi dava disposizioni di ogni genere ma non mi parlava del romanzo. Così un giorno presi coraggio. “Senti Oriana, io mi ritrovo anche questo tuo bambino (i suoi libri lei li chiamava così) ma cosa devo farne: pubblicarlo, chiuderlo in banca, bruciarlo?”. “Oh, ma che tu sei rincitrullito?!? Certo che lo devi pubblicare. Controlla che non ci siano puttanate e pubblicalo!”. Missione compiuta. Ma qualche berciata da Lassù è già stata messa in conto».


Alessandro Cannavò
23 luglio 2008(ultima modifica: 24 luglio 2008)

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« Risposta #1 inserito:: Luglio 24, 2008, 06:54:07 pm »

Magazine» / esclusivo 

«Un cappello pieno di ciliegie»

La prima parte dell'opera postuma di Oriana Fallaci



Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io. Naturalmente sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio. Espediente mai capito e mai accettato. Però non meno bene sapevo che le altre si nascondevano nella memoria di quel passato, negli eventi e nelle creature che avevano accompagnato il ciclo della formazione, e in un ossessivo viaggio all’indietro lo disotterravo: riesumavo i suoni e le immagini della mia prima adolescenza, della mia infanzia, del mio ingresso nel mondo. Una prima adolescenza di cui ricordavo tutto: la guerra, la paura, la fame, lo strazio, l’orgoglio di combattere il nemico a fianco degli adulti, e le ferite inguaribili che n’erano derivate. Un’infanzia di cui ricordavo molto: i silenzi, gli eccessi di disciplina, le privazioni, le peripezie d’una famiglia indomabile e impegnata nella lotta al tiranno, quindi l’assenza d’allegria e la mancanza di spensieratezza. Un ingresso nel mondo del quale mi sembrava di ricordare ogni dettaglio: la luce abbagliante che di colpo si sostituiva al buio, la fatica di respirare nell’aria, la sorpresa di non star più sola nel mio sacco d’acqua e condivider lo spazio con una folla sconosciuta. Nonché la significativa avventura di venir battezzata ai piedi d’un affresco dove, con uno spasmo di dolore sul volto e una foglia di fico sul ventre, un uomo nudo e una donna nuda lasciavano un bel giardino pieno di mele: la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio per la Chiesa del Carmine a Firenze. Riesumavo in ugual modo i suoni e le immagini dei miei genitori, da anni sepolti sotto un’aiola profumata di rose. Li incontravo ovunque. Non da vecchi cioè quando li consideravo più figli che genitori, sicché a sollevare mio padre per posarlo su una poltrona e a sentirlo così lieve e rimpicciolito e indifeso, a guardarne la testolina tenera e calva che si appoggiava fiduciosamente al mio collo, mi pareva di tenere in braccio il mio bambino ottuagenario. Da giovani. Quando eran loro a sollevarmi e a tenermi in braccio. Forti, belli, spavaldi. E per qualche tempo credetti d’avere in pugno una chiave che apriva qualsiasi porta. Ma poi m’accorsi che ne apriva alcune e basta: né il ricordo della prima adolescenza e dell’infanzia e dell’ingresso nel mondo né gli incontri coi due giovani forti e belli e spavaldi potevan fornire tutte le risposte di cui avevo bisogno. Superando i confini di quel passato andai in cerca degli eventi e delle creature che lo avevano preceduto, e fu come scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito. E il viaggio all’indietro perse ogni freno.

Un viaggio difficile in quanto era troppo tardi per interrogare chi non avevo mai interrogato. Non c’era più nessuno. Restava solo una zia novantaquattrenne che alla preghiera dimmi-zia-dimmi mosse appena le pupille annebbiate e mormorò: «Sei il postino?». Con la zia ormai inutile, il rimpianto d’una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli aveva custodito la testimonianza di cinque generazioni: antichi libri tra cui un abbaco e un abbecedario del Settecento, rarissimi fogli tra cui la lettera d’un prozio arruolato da Napoleone e sacrificato in Russia, preziosi cimeli tra cui una federa gloriosamente macchiata da una frase indimenticabile, un paio d’occhiali e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei. Cose che ero riuscita a vedere prima che finissero in cenere, una terribile notte del 1944. Con la cassapanca perduta, qualche oggetto salvato per caso: un liuto privo di corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi emessa dallo Stato Pontificio, un vetusto orologio che stava nella mia casa di campagna e che ogni quarto d’ora suonava i rintocchi della campana di Westminster. Infine, due voci. La voce di mio padre e la voce di mia madre che narravano le storie dei rispettivi antenati. Divertita ed ironica quella di lui, sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia. Ed entrambe talmente remote nella memoria che la loro consistenza appariva più tenue d’una ragnatela. A evocarle di continuo, però, e a connetterle col rimpianto della cassapanca o coi pochi oggetti salvati, la ragnatela si irrobustì. Si infittì, si fece un solido tessuto, e le storie crebbero con tanto vigore che a un certo punto mi divenne impossibile stabilire se appartenessero ancora alle due voci oppure se si fossero trasformate in un frutto della mia fantasia. Era esistita davvero la leggendaria arcavola senese che aveva avuto il coraggio di aggredire Napoleone, era esistita davvero la misteriosa arcavola spagnola che s’era sposata esibendo un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta sulla parrucca? Era esistito davvero il dolce arcavolo contadino che spingeva il fervore religioso fino a flagellarsi, era esistito davvero il rude arcavolo marinaio che apriva bocca solo per bestemmiare? Erano esistiti davvero i bisnonni maledetti cioè la repubblicana Anastasìa il cui nome portavo come secondo nome e l’aristocraticissimo signore di Torino il cui nome, troppo illustre e troppo potente, non si doveva nemmen pronunciare per ordine della nonna? E l’avevano davvero abbandonata in un ospizio di orfanelli questa povera nonna concepita dalla loro furibonda passione? Non lo sapevo più. Ma nel medesimo tempo sapevo che quei personaggi non potevano essere un frutto della mia fantasia perché li sentivo dentro di me, condensati nel mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituivano il mio Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e spavaldi. Le particelle d’un seme non sono forse identiche alle particelle del seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione, perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d’un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d’una miriade di genitori?

Esplose allora un’altra ricerca: quella delle date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare un lavoro incompiuto. E come una formica impazzita dalla fretta di accumular cibo corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati delle Anime. I registri nei quali, col pretesto di individuare i fedeli tenuti al precetto pasquale, il parroco elencava gli abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppandoli in nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli. L’anno o la data completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo di lavoro e il reddito, il patrimonio o l’indigenza, il grado di educazione o l’analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma. Scritti a volte in latino e a volte in italiano, con la penna d’oca e l’inchiostro marrone. L’inchiostro, asciugato con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al contrario s’era incollata alle parole rendendole sfolgoranti, così a raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che era un bruscolo di verità. E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri eran stati divorati dai topi o distrutti dall’incuria o mutilati dai barbari che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti. Quelli delle storie narrate dalle due voci c’erano, e li trovai dal primo all’ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. Sì, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me.

La saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, incomincia oltre due secoli fa: negli anni che preparano la Rivoluzione Francese e che precedono la Rivoluzione Americana cioè la guerra d’Indipendenza scatenata contro l’Inghilterra dalle tredici colonie sorte nel Nuovo Mondo tra il 1607 e il 1733. Parte da Panzano, un paesino di fronte alla casa in cui intendo morire e che prima della ricerca condotta dalla formica impazzita guardavo senza sapere quanto vi appartenessi, e avviandone il racconto mi pare giusto offrire qualche notizia a chi non conosce quel tempo o quel luogo. Panzano sta su un poggio del Chianti, a mezza strada tra Siena e Firenze, e il Chianti è la zona della Toscana che si stende tra il fiume Greve e il fiume Pesa: trecento chilometri quadri composti da montagne e colline di rara bellezza. Le montagne sono coperte di piante ed alberi sempre verdi, castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali, nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro, e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed immobili ondate. Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato. Due secoli fa Panzano contava duecentocinquanta abitanti tra cui lo speziale, il vetturale, il procaccia, il sensale di matrimoni, il cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire, ed eccetto quei cinque erano tutti contadini. Mezzadri o pigionali che lavoravano i latifondi del granduca o dei signori o degli enti ecclesiastici e il cui sogno era possedere un livello. Vale a dire, prendere in enfiteusi un podere e scrollarsi di dosso il padrone. Di solito, un despota al quale apparteneva ogni istante della loro giornata e senza il cui permesso non potevano nemmeno sparare a un fagiano o prendere moglie. La loro anima, invece, apparteneva al prete. E di preti a Panzano ve n’erano due: il vecchio don Antonio Fabbri e il giovane don Pietro Luzzi. Il primo, nella prioria di Santa Maria Assunta in Cielo: al centro del paese. Il secondo, nella Pieve di San Leolino: lungo la strada per Siena. V’era inoltre un grosso via-vai di frati in cerca di adepti da controllare o da aggregare al rigorosissimo Ordine dei Terziari Francescani, e ovunque trovavi oratori o cappelle o santuari o tabernacoli dove si svolgevano noiose processioni che insieme alla Messa e al Vespro costituivano il massimo svago d’un contadino. Insomma, nonostante la fede nel raziocinio e nel progresso che veniva predicata dall’Illuminismo, nonostante gli ideali di libertà e di uguaglianza che stavano prendendo corpo, nonostante i principii irreligiosi e i costumi epicurei che caratterizzavano l’epoca, in cima a quel poggio del Chianti la religione dominava spietata e la Chiesa imperava: somma regina e principale tiranna. La città era lontana, sebbene fosse geograficamente vicina. I ricchi vi si recavano col cavallo o con la carrozza, i meno ricchi col calesse del vetturale, i quasi poveri con il barroccio, e i poveri a piedi. Così i più morivano senza aver mai visto Firenze che da Panzano distava appena venti miglia, o Siena che ne distava appena diciannove.

Le strade eran strette e sconnesse, un acquazzone bastava a renderle impraticabili, e d’inverno succedeva spesso di restare isolati per settimane o per mesi. Le case, no: erano quasi sempre belle perché nelle regie fattorie il granduca aveva ordinato di ricostruirle su modelli architettonici pieni di grazia. Bei porticati, bei torrini e bei forni per cuocervi il pane. Ma contenevano le stalle, i porcili, gli ovili, i pollai da cui veniva un gran puzzo e come quelle di città non avevano acqua. L’acqua si prendeva alla sorgente, trasportandola a braccia coi secchi, e si serbava nei fiaschi o nelle brocche di rame dette mezzine. Infatti ci si lavava pochissimo, diciamo una volta al mese o una volta all’anno, e la latrina era un lusso costituito da un recipiente o da un buco chiuso da un coperchio. Il cariello. Era un lusso anche illuminare le stanze. Le lampade a olio costavano care e al calar del buio si accendeva una candela o si andava a letto. Altrettanto presto ci si svegliava. D’estate, alle quattro del mattino: per correr subito a lavorare nei campi. Si lavorava molto, a Panzano. In media, quindici ore al giorno. E, a parte lo svago delle Messe o dei Vespri o delle processioni, l’unica ricompensa erano le veglie. Cioè i raduni serali che la domenica si tenevano in una stalla o in cucina per raccontarsi le novelle popolate di streghe e di diavoli, di fate e di fantasmi. L’unico divertimento mondano, il mercato settimanale o la fiera stagionale di Greve e di Radda: i due paesi attigui. L’unico vero conforto, l’amore consentito dalla Chiesa cioè l’amore coniugale. (Il che non impediva frementi amplessi nei pagliai e scomode gravidanze da riscattare col matrimonio). Cos’altro? Bè, i figli davano del voi ai genitori, in segno di rispetto. Anche fra marito e moglie ci si dava del voi, in segno di riguardo, e le donne contavano poco. Non avevano diritto all’eredità, per sposarsi dovevano possedere una dote e un corredo, in mancanza di ciò finivano spesso in convento, e sfacchinavano di zappa o di vanga proprio come gli uomini. Gli ospedali in campagna non esistevano. Sebbene a Radda ci fosse un medico condotto, a Panzano bisognava accontentarsi del cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire. Quindi una ferita o una bronchite bastavano a spedirti nell’al di là. Non esistevano nemmeno i cimiteri. I morti si seppellivano sotto l’impiantito della Pieve di San Leolino o della prioria di Santa Maria Assunta in Cielo, con un po’ di calce e via. Tantomeno esistevan le scuole. Solo se il prete ti insegnava, imparavi a leggere un libro, compilare una lettera, far di conto. Ma don Fabbri non ne aveva voglia, don Luzzi lo faceva esclusivamente nei casi eccezionali, e tra i contadini della zona la percentuale dell’analfabetismo toccava l’ottantasette per cento. Eppure quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena era giudicato da chiunque un angolo benedetto da Dio, il Chianti era una delle contrade più ammirate e più invidiate d’Europa, e la sua fama giungeva fino alla Virginia: la prima delle tredici colonie che stavano per ribellarsi all’Inghilterra. Questo spiega perché la saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, includa all’inizio tre personaggi ai quali non mi lega alcuna parentela e che tuttavia furono coinvolti nel mio venire al mondo. Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza Americana e terzo presidente degli Stati Uniti che in Virginia viveva e possedeva molte terre cui si dedicava con l’entusiasmo di un agronomo. Benjamin Franklin, il geniale scienziato e scrittore e politico della colonia chiamata Pennsylvania che fra le altre cose inventò il parafulmine e la stufa a combustione. E il fiorentino Filippo Mazzei: medico, commerciante, memorialista, esperto di agricoltura, avventuriero di classe nonché amico di quei due. Coinvolgimento che induce a riflettere sulla comicità del destino e sull’inopportunità di prenderlo troppo sul serio.


23 luglio 2008(ultima modifica: 24 luglio 2008)

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 11, 2008, 10:03:10 pm »

11/8/2008 (7:32) - IL CASO

"Mia sorella Oriana morta d'eutanasia"
 
"Fu lei a chiederci di farla finita". La replica dell'ospedale: "Una falsità"


FRANCESCO OLIVO
TORINO


«Oriana è morta con l’eutanasia». Ne è sicura Paola Fallaci, sorella della giornalista scomparsa due anni fa. Lo dice senza giri di parole in un’intervista a Sky Tg24 e lo conferma alla Stampa: «Tornò a Firenze trasportata con una barella, era uno scheletro. A New York aveva subito terapie tremende. Soffriva molto e ha chiesto un’iniezione di morfina, sapendo benissimo che non si sarebbe più risvegliata, lo sapevano anche alla clinica».

Paola Fallaci dice la sua anche su «Un cappello pieno di ciliege» il libro postumo, uscito per Rizzoli da pochi giorni: «Non doveva essere pubblicato, è incompleto manca la parte relativa al Novecento, quella alla quale lei teneva di più». L’accusa è diretta al figlio Edoardo Perazzi, nipote prediletto ed erede unico di Oriana, con il quale Paola è in rotta: «Quando i parenti di un grande artista hanno in mano il manoscritto non resistono alla tentazione di guadagnarci un sacco di soldi».

Tesi che viene smentita da Gianni Vallardi, l’uomo che seguì la Fallaci per la Rizzoli: «Oriana voleva che fosse pubblicato - spiega Vallardi, oggi manager della Mondadori - Prima di morire mi disse “del libro fate quello che volete”, capisco lo stato d’animo di Paola, ma sono sicuro di quello che dico».

Si commuove Paola Fallaci quando ricorda gli ultimi giorni della sorella: «In clinica le chiedemmo se avesse voluto un’iniezione per porre fine a quelle sofferenze, lei rispose con un filo di voce, “no! Voglio continuare guardare dalla finestra il campanile di Giotto”. Poi però il dolore si fece insopportabile, il campanile non riusciva più a vederlo, così ci implorò: “fate qualcosa, aiutatemi”».

Quell’aiuto, secondo Paola, era la morfina, somministrata in dosi tali da mandarla in stato di incoscienza, «dite quello che volete ma per me questa pratica si chiama in un solo modo: eutanasia». Eppure contro la «dolce morte» la Fallaci si era scagliata duramente. Parlando della Corte Suprema che aveva concesso l’inerruzione dei trattamenti che tenevano in vita Terry Schiavo, aveva parlato di «giudici becchini».

«E’ vero - spiega la sorella - era contraria, ma a differenza della ragazza americana, lei era lucida quando chiese di farla finita». Il caso di Oriana non è il primo di questo tipo nella famiglia Fallaci: «Mia madre era malata terminale di cancro, fu proprio Oriana a chiedere di fare l’iniezione di morfina che la ridusse in stato di incoscienza. Lo stesso avvenne con il nostro babbo. Anche io ho il cancro, e quando sarà il momento farò la stessa scelta, la trovo una cosa giusta».

L’ultimo periodo della sorella continua a perseguitare Paola, «un giorno Oriana mi disse, “ho un tumore al cervello accompagnami a New York”. Io non me la sentii, intanto perché, anche se lei non lo sapeva, io stessa avevo il cancro, e poi perché temevo le sue sfuriate folli. Lei si offese tremendamente». Gli infermieri e i badanti che la seguirono nei giorni della malattia furono accolti con poco entusiasmo, «non li prese a calci solo perché era troppo debole. In effetti, stava malissimo, il console italiano andò a visitarla e la trovò a terra in fondo alle scale».

Le rivelazioni di Paola Fallaci sulla morte della sorella vengono smentite dalla direzione della casa di cura Santa Chiara di Firenze, dove la scrittrice fu ricoverata: «Un’assurdità. Certo che chiese di non soffrire più, ma non si è assolutamente fatto ricorso all’eutanasia - spiega Francesco Matera, amministratore delegato dell’istituto -, ricordo perfettamente quelle ore drammatiche, le abbiamo somministrato dei farmaci per alleviare il dolore, come la morfina o altri antidolorifici, nei casi dei malati terminali è una pratica normalissima».

da lastampa.it
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