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Autore Discussione: Come curare la malasanità  (Letto 2484 volte)
Admin
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« inserito:: Luglio 24, 2008, 03:58:03 pm »

24/7/2008
 
Come curare la malasanità
 
 
 
 
 
ALBERTO MINGARDI
 
Caro Direttore,
la ricostruzione di Pietro Garibaldi dei «rischi della sanità convenzionata» (sulla Stampa del 19 luglio) è di grande interesse. Con rigore analitico, Garibaldi individua uno dei nodi più problematici del sistema dell’accreditamento: i conflitti d’interesse. Rispetto alla sua lettura, però, è cruciale chiedersi (a) se il modello oggi contestato non abbia pregi oltreché difetti rilevanti, (b) se le «ricette» proposte siano effettivamente praticabili, (c) se non sia necessario un rimedio più radicale.

Riguardo al primo punto, è banale ricordare come la «malasanità» non sia un problema di oggi. La costituzione dell’Ospedale Maggiore a Milano fu voluta dall’arcivescovo Rampini per la «poca diligenza e cura degli amministratori» delle sedici istituzioni di cui prese il posto. Correva l’anno 1448.

Corsi e ricorsi storici a parte, il sistema attuale è meno governabile di altri? Sembrerebbe di no. Nel decennio 1995-2004 la spesa ospedaliera «convenzionata» è cresciuta del 66,91%, mentre la spesa sanitaria complessiva cresceva in ragione dell’80,79% (dati Aiop). Il fatto che si paghino le prestazioni e non le giornate di ricovero, ha contribuito a cancellare il concetto dell’ospedale come parcheggio per malati: cronici e no. La riduzione delle degenze medie suggerisce una maggiore appropriatezza nella somministrazione delle cure. E’ vero che il giudizio non può prescindere dagli scandali, ma neppure può basarsi solo su essi. Il «modello lombardo» di concorrenza regolata fra strutture pubbliche e strutture private ha garantito maggior efficienza e maggiore attenzione alle esigenze dei malati, e soprattutto ne ha esaltato la libertà di scelta (che dovrebbe essere un valore in sé).

Il ricorso a strutture private non ha, come suggerisce Garibaldi, il solo merito di snellire le liste d’attesa. C’è il tema del rapporto col paziente, della dignità del ricovero, della passione della cura. Realtà meno pesantemente «burocratizzate» di quelle pubbliche possono rivelarsi, proprio per questo motivo, più vicine al singolo malato. Quanto alle soluzioni, Garibaldi suggerisce di pensare ad un rimborso delle operazioni «direttamente ai medici piuttosto che alle case di cura», per «ridurre il potere oligopolistico dei manager privati della sanità». La proposta è innovativa ma scarsamente praticabile. Dopotutto, un ospedale è un’impresa. Se i problemi degli ospedali sono soprattutto problemi gestionali (sprechi...), perché pensare di risolverli minimizzando l’apporto manageriale? In qualsiasi impresa, diverse professionalità svolgono diversi mestieri: perché sovraccaricare il medico di mansioni amministrative? Se nel mondo della salute più concorrenza può produrre benefici, perché questo dovrebbe essere vero a livello di medici e non a livello di strutture ospedaliere?

Il punto è piuttosto che le tariffe corrisposte ai «signori delle cliniche» citati da Garibaldi, sono state determinate dal pubblico - cui resta in capo la responsabilità dei controlli. I rimborsi sono «tariffe» e non «prezzi»: pertanto non segnalano il valore di una prestazione, quale emergerebbe dall’incontro di domanda ed offerta, ma sono il risultato di una decisione politica. Il conflitto d’interessi è qui.

Le sue conseguenze sono rilevanti, perché la sanità pubblica avrà sempre più problemi di razionamento. Le dinamiche demografiche ci obbligano a fare i conti con una spesa sanitaria in crescita, e pertanto da controllare. Noi, oggi, pensiamo di farlo «a monte»: attraverso rimborsi e tetti fissati dal pubblico, per le sue strutture e quelle convenzionate, o riducendo le prestazioni. In questa situazione, comportamenti come quelli che si biasimano in questi giorni si ripeteranno con la frequenza di sempre. Non esiste il controllore perfetto.

Diverso sarebbe il caso di una riforma radicale, che «chiamasse» attori privati anche sul versante della domanda. Il razionamento non avverrebbe seguendo il tempo scandito dalla politica, ma con la responsabilizzazione dei fruitori del servizio. Un sistema, sia pure a copertura universalistica, finanziato attraverso assicurazioni private (sul modello di quello recentemente introdotto in Olanda, per esempio), avrebbe l’effetto di una «moltiplicazione» dei controllori. Tanti occhi vedono meglio di pochi. E il motivo del profitto spingerebbe le assicurazioni a usare metri di giudizio assai più rigorosi di quelli delle burocrazie spesso colluse coi «partner» privati, di cui scrive Garibaldi.

Si tratta certo di uno scenario lontano dalla nostra attuale sensibilità. Ma il servizio sanitario nazionale in Italia è una tradizione troppo recente, per chiudere gli occhi sulle ragioni che ne rendono improponibile la sopravvivenza, quantomeno nella forma attuale.

Direttore generale Istituto Bruno Leoni, Torino

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Concordo con Alberto Mingardi quando sostiene che, in generale, le riforme radicali «sono lontane dalla nostra attuale sensibilità». Nel caso della sanità, ritengo tuttavia che il sistema su cui puntare debba essere un misto pubblico-privato: in campo medico l’asimmetria informativa tra domanda e offerta è troppo rilevante affinché il mercato possa funzionare in modo efficiente. Invece di riforme radicali, occorre quindi puntare su riforme marginali. La proposta di rimborsare i medici piuttosto che le case di cure sarebbe una riforma che, mantenendo l’impostazione pubblico-privato, aumenterebbe la concorrenza nel sistema e ridurrebbe al tempo stesso il potere oligarchico di politici e case di cure. In aggiunta, i medici avrebbero gli incentivi a scegliere la casa di cura che più li assiste, anche dal punto di vista amministrativo e manageriale.

Pietro Garibaldi
 
da lastampa.it
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