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Autore Discussione: Putin: Europa e Usa riarmano, stop ai trattati sulle armi...  (Letto 10054 volte)
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« inserito:: Luglio 15, 2007, 09:31:11 am »

Putin: Europa e Usa riarmano, stop ai trattati sulle armi


Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato un decreto che sospende la partecipazione della Russia al Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (Cfe). In questo modo la Russia non avrà più limiti alla costruzione di armi convenzionali.

La Russia aveva già annunciato una moratoria sul Trattato accusando i paesi occidentali di non aver ratificato una versione emendata del Patto firmata nel 1999. Putin ha anche accusato i paesi della Nato di aver violato il Trattato sui missili balistici (Abm) con il progetto di scudo spaziale, cioé l'installazione di missili antimissili americani in Polonia e Repubblica Ceca.


La moratoria sul Trattato Cfe era stata annunciata da Putin il 25 aprile scorso. In un'intervista il presidente russo aveva in seguito sostenuto che Mosca ha «applicato in modo scrupoloso» gli accordi sulle forze convenzionali. «Che cosa abbiamo avuto in cambio?», si era chiesto il leader del Cremlino. «L'Europa si sta riempiendo di nuove basi, di nuove truppe, di nuovi radar, di nuovi missili». Nell'intervista, Putin aveva parlato polemicamente di «un disarmo unilaterale».

«Noi abbiamo firmato e ratificato l'accordo sugli armamenti convenzionali in Europa e i nostri partner cosa fanno? Riempiono con nuovi armamenti l'Europa orientale», aveva dichiarato il 31 maggio scorso il presidente russo. «Una nuova base in Bulgaria, un'altra in Romania, un sito per nuovi missili in Polonia e per un radar in Repubblica ceca, cosa dovremmo fare? Non possiamo stare a guardare e rispettare gli accordi in modo unilaterale», aveva sostenuto Putin.

Nessuna soluzione è stata trovata durante la recente conferenza straordinaria dei Paesi aderenti al Cfe, svoltasi a Vienna dal 12 al 15 giugno.

Sottoscritto per la prima volta a Parigi dagli Stati membri dell'Alleanza atlantica e del defunto Patto di Varsavia, l'accordo prevede una riduzione nello spiegamento di carri armati, artiglieria, mezzi blindati, aerei ed elicotteri da combattimento. Sulla base del testo originale, i blocchi politico-militari protagonisti della Guerra fredda si impegnavano a rientrare entro tetti concordati nel giro di cinque anni.

Dopo il crollo sovietico, il testo approvato nel 1990 ha subito varie modifiche. Superata ogni impostazione bipolare, la versione del 1999 fissa quote per ciascun Paese firmatario. Il documento è stato però ratificato solo da Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakistan.


Pubblicato il: 14.07.07
Modificato il: 14.07.07 alle ore 16.43   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 16, 2007, 12:08:04 am »

Finito l’idillio, rischio di nuova corsa al riarmo

Pietro Greco


Con il decreto firmato ieri da Putin, la Russia sospende la sua partecipazione al Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa (CFET) che regola il numero e la dislocazione dei carri armati, delle forze corazzate, dei pezzi di artiglieria, degli aerei e degli elicotteri che possono essere dispiegati nel Vecchio Continente. L’effetto tecnico immediato non è banale: gli ispettori della Nato, infatti, non potranno più andare in Russia a verificare sul posto il rispetto del Trattato. Ma è sul piano politico che ci si attende, nel medio e lungo periodo, effetti più profondi e, allo stato, non prevedibili. Il congelamento del Cfet è, infatti, la prova provata che il processo di disarmo in Europa, avviato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, non solo si è fermato, ma inizia - sia pure lentamente - a tornare pericolosamente sui suoi passi.

Il Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa era stato negoziato alla fine degli anni 80, nell’«era dell’idillio» tra il presidente Usa Reagan e quello dell’Urss Gorbaciov. Il mondo, allora, era ancora divisa in due blocchi contrapposti. Ma ormai l’Urss, non potendo più competere con gli Usa in una nuova corsa al riarmo, perseguiva con Gorbaciov l’idea di una pace globale. Il che significò un radicale mutamento della dottrina militare sovietica. Non più fondata sulla teoria della «parità strategica», ma sulla nuova teoria della «sufficienza strategica«. In pratica Gorbaciov riconosceva la superiorità militare americana e si riservava solo la capacità strategica di difendere gli interessi dell’Urss. È su questa base che Reagan accettò non solo di dialogare ma di iniziare un processo di sostanziale disarmo concordato con quello che, fino a qualche anno prima, aveva definito «l’impero del male».

Ed è su questa base, soprattutto, che si creò uno spirito di fiducia reciproco che, senza conseguenze traumatiche, in Europa portò tra l’altro al crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989) e poi alla riunificazione della Germania (3 ottobre 1990). Fu durante l’«era dell’idillio» che vennero negoziati i due trattati fondamentali per consolidare la pace globale. Uno, lo START 1, per accelerare il disarmo nucleare. Il trattato, firmato il 31 gennaio 1991, impose a Usa e Urss di tagliare rispettivamente del 29% e del 36% l’arsenale nucleare strategico.

Una riduzione senza precedenti, che non avrebbe potuto aver luogo se, prima, non fosse stata rimossa la principale causa di instabilità in Europa: la dislocazione delle armi convenzionali. Era stata la vera o presunta superiorità convenzionale dell’Urss nel Vecchio Continente a scatenare, a II guerra mondiale ancora in corso, una forte preoccupazione in Occidente e a determinare negli anni successivi la stessa corsa al riarmo atomico e la definitiva divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Gorbaciov e Reagan si resero conto che se volevano costruire la pace globale dovevano rimuovere quell’ostacolo. Per questo negoziarono, con successo, un sostanziale arretramento dai confini degli eserciti contrapposti e una minuziosa lista della qualità e della quantità delle armi convenzionali dislocabili regione per regione.

In pochi mesi gli eserciti arretrarono effettivamente. E per la prima volta nella sua storia l’Urss accettò ispezioni intrusive sul proprio territorio. Il Cfet venne firmato il 19 novembre 1990. Non era passato che un mese dall’unificazione della Germania. Un processo che fu reso possibile perché, proprio col CFET, lo stato tedesco riunito rinunciava non solo a ogni tipo di armi di distruzione di massa, ma anche di limitare il suo armamento convenzionale (l’esercito della nuova Germania non può superare i 370.000 effettivi).

I mesi successivi assistettero allo scioglimento del Patto di Varsavia e alla dissoluzione della stessa Unione Sovietica. E, pertanto, negli anni successivi il CFET è stato sostanzialmente riscritto. L’ultima, nel 1999.

Ma il venir meno delle ragioni politiche della guerra fredda non ha accelerato il processo di disarmo. Che, anzi, negli ultimi dieci anni si è come bloccato. Non tutti i paesi Nato hanno ratificato l’ultima versione del CFET. E da qualche mese i russi, eredi di gran luna principale dell’Urss, non cessano di farlo notare. Così come non cessano di far notare che costruire uno scudo spaziale non concordato ai confini della Russia non è percepibile da Mosca come un gesto amichevole. La Nato, da parte sua, vorrebbe che l’esercito russo lasciasse la Moldavia, la Georgia e anche la Cecenia, rientrando nel cuore profondo del Paese.

C’è una nuova incomunicabilità tra Mosca e l’Occidente. L’incomunicabilità nasce dal fatto che la Russia, forte di una indubbia crescita economica, intende recuperare un ruolo geopolitico forte in tutta l’Eurasia e, in particolare, in Europa. Mentre gli Usa, al contrario, negli ultimi anni hanno occupato molti vuoti (troppi, nell’ottica di Mosca) in tutta questa enorme area. L’incomunicabilità crea instabilità. Ed proprio l’instabilità il pericolo maggiore che si nasconde dietro il nuovo decreto di Putin. Non avere più, già da domani, propri occhi sul territorio di tutte le Russie e, magari vedere, a partire da dopodomani, l’esercito russo riavvicinarsi ai confini con i suoi carri armati, le sue artiglierie e i suoi aerei, potrebbe creare in Occidente la stessa insicurezza e la stessa paura che all’indomani di un altro tentativo fallito di costruire la pace globale, dopo la Seconda guerra mondiale, portò - senza che nessuno riuscisse a impedirlo - alla più grande corsa al riarmo di ogni tempo. Non è stato un caso se il portavoce della Nato ieri ha ricordato che il Trattato sulle Forze Armate Convenzionali è il fattore di massima stabilità in Europa. Per questo è urgente riaprire al più presto tutti i tavoli negoziali e riprendere a 360 gradi il processo di disarmo. Convenzionale e non.

Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.43   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 03, 2007, 10:41:42 pm »

Bandiera russa sul fondale del Polo Nord

Due batiscafi si sono immersi a oltre quattromila metri di profondità per piantare il vessillo in titanio

Mosca ha cercato di guadagnarsi così la pole position nella corsa al petrolio dell’Artico

Gabriel Bertinetto


Putin ha toccato il fondo. Due batiscafi russi sono scesi ad una profondità di 4261 metri sotto i ghiacci del Polo Nord, e una bandiera nazionale in titanio è ora saldamente piantata nei fondali marini artici. «È così bello laggiù», ha detto il capo della spedizione Artur Chilingarov, 67 anni, deputato, riemergendo in superficie. «Se fra cento o mille anni qualcuno andasse là dove siamo appena stati, vedrà ancora la nostra bandiera», ha aggiunto Chilingarov, prima di ricevere dal presidente Putin i complimenti per il successo dell’impresa, definita «un notevole progetto scientifico». Lo scopo dichiarato della missione è infatti quello di dimostrare la continuità geologica fra la piattaforma siberiana e il Polo Nord. Il ché darebbe a Mosca argomenti giuridici per sostenere il diritto di estendere la fascia considerata «zona economica esclusiva» oltre le 200 miglia nautiche di distanza dalle coste settentrionali della Russia.

È lo stesso disegno che coltivano Stati Uniti, Canada, Norvegia e Danimarca, cioè gli altri Stati i cui territori circondano l’Artide. Non è ovviamente una mira territoriale fine a se stessa, ma il modo per accrescere la propria influenza in una parte del globo che si ritiene ricchissima di petrolio, gas e altre risorse naturali nascoste in fondo al mare.

Uno dei rivali di Mosca nella corsa all’oro subacqueo, il Canada, ha irriso all’immersione del Mir-1- e del Mir-2, i sottomarini che per la prima volta nella storia dell’umanità sono scesi ieri sino a toccare il punto più basso degli abissi artici. «Non siamo nel quindicesimo secolo, non si può andare in giro per il mondo a piantare vessilli, e poi rivendicare i territori». Così si è espresso il ministro degli Esteri di Ottawa, Peter MacKay, liquidando l’impresa come uno «show». Il collega russo Serghei Lavrov gli ha subito risposto: «L’obiettivo non è marcare territori con i paletti, ma dimostrare che la nostra piattaforma continentale si estende sino al Polo Nord». Lavrov ha assicurato che comunque «la questione sarà risolta esclusivamente sulla base del diritto internazionale».

Gli Stati Uniti non hanno fatto grandi commenti, ma stando alla stampa russa, avrebbero seguito la spedizione con un aereo spia, e sarebbero segretamente impegnati per organizzarne una similare in un altro punto dell’Artico, la dorsale di Gakkel.

Sergei Balyasnikov, portavoce dell’Istituto russo per l’Artide e l’Antartide, ha evocato l’analogia con il viaggio spaziale dell’astronauta Neil Armstrong. «Può sembrare magniloquente da parte mia, ma è come avere piantato la bandiera sulla luna. Questa è davvero una conquista scientifica enorme». Stavolta però nessuno è sceso saltellando dalla navicella. A eseguire l’operazione è stato un braccio meccanico della Mir-1. A Mosca mezzogiorno era passato da otto minuti. Meno di mezz’ora dopo anche il Mir-2 ha toccato il fondo. A bordo erano l’imprenditore svedese Frederik Paulsen, che ha pagato tre milioni di dollari per partecipare al viaggio e l’esploratore australiano Mike McDowell. L’immersione è durata in totale otto ore.

«Abbiamo fatto un atterraggio morbido -ha comunicato dagli abissi Chilingarov, un veterano delle spedizioni artiche-. Toccare i fondali così in profondità è come fare il primo passo sulla luna (anche lui non ha mancato di citare in parallelo l’impresa spaziale americana). Il fondo era giallastro, ma non abbiamo visto alcuna creatura delle profondità marine».

Pubblicato il: 03.08.07
Modificato il: 03.08.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 23, 2007, 07:27:41 pm »

MOSCA, A EST DELLA UE ANCHE QUALCHE AMICO

Mentre Putin sgrida Praga sullo scudo antimissile, e proseguono gli screzi tra Mosca e gli ex fratelli polacchi, nella nuova Europa c'è chi dell'amicizia con Mosca fa un vanto: l'Ungheria, guidata da un governo di centrosinistra.

Chiave di tutto, ancora una volta, l'energia.

Lucia Sgueglia

Mercoledi' 22 Agosto 2007

Potrebbe cominciare dalla sperduta cittadina di Saransk, nella Mordovia russa, la controffensiva di Putin per recuperare terreno e credibilità in Europa, dopo lo scontro con Londra e quello con cechi e polacchi sullo scudo. Forse proprio grazie a un paese di quella Nuova Europa ex comunista che è diventata il maggior nemico di Mosca a ovest: l'Ungheria. Unica, nel gruppo di Vysegrad, ancora guidata da un governo di centrosinistra, erede del vecchio partito comunista locale, pur se irriconoscibile nella sua versione post-moderna. Il 20 luglio, Saransk ha ospitato il primo Festival Internazionale Ugro-finnico, omaggio ai legami culturali che uniscono alcune tribù russe a certe nazioni europee. A presiederlo c'era zar Vladimir in persona, che ha accolto con grandi onori, tra oltre 30 delegazioni, il presidente della Finlandia Halonen e il premier magiaro Ferenc Gyurcsany. Vistosa assente l'Estonia, pure ugrofinnica ma ai ferri corti col Cremlino dopo la rimozione del memoriale sovietico: Putin non l'ha invitata. Per Gyurcsany era il quarto incontro in un anno con il leader russo. Sigillo a una ormai consolidata amicizia che guarda alla cooperazione economica e che, manco a dirlo, si regge innanzitutto sull'energia.
Nell'incontro bilaterale serale tra Putin e il premier ungherese, si è tornati a parlare del progetto di estensione del gasdotto Bluestream (Gazprom) all'Europa sudorientale. Bluestream già porta fino in Turchia il gas dell'Asia centrale attraverso il Mar Nero. Nelle intenzioni russe, dopo aver toccato Bulgaria e Romania, il prolungamento avrebbe come snodo centrale proprio l'Ungheria: da dove conveoglierebbe il prezioso liquido in tutta la Ue. Se Budapest accettasse diventerebbe “il principale snodo energetico europeo” ha affermato Putin. Proponendole anche di ospitare depositi di stoccaggio del gas russo. Ma Bluestream è un rivale diretto di Nabucco, progetto Ue che con un analogo gasdotto (stesso percorso, ma snodo in Austria) mira a ridurre la dipendenza europea dal gas russo. Il Cremlino sta tentando insomma di portare dalla propria parte un pezzo d'Europa, premiando la fedeltà ungherese, tra l'altro, con la promessa di favorirne l'export verso Mosca e gli investimenti in terra russa. A partire dall'incontro con Putin nel marzo 2006 (prima visita di un leader russo in Ungheria dal 1992), Gyurcsany ha fatto intendere più volte di preferire il progetto Gazprom, pur tenendosi ufficialmente in bilico.

Prevedibili gli strali giunti da Bruxelles, da Varsavia, e soprattutto dall'opposizione ungherese di centrodestra: entrambe lo accusano il premier capo del Partito Socialista magiaro di spezzare la solidarietà energetica europea, mandando a monte la politica energetica comune. Per Viktor Orban, leader conservatore di Fidesz che come sempre rievoca il passato comunista per mettere in difficoltà l'avversario, il paese rischia di tornare sotto l'influenza del Cremlino. Critica irricevibile per il giovane 'miliardario di sinistra' Gyurcsany, che fa invece suo il pragmatismo neorusso spiegando che il progetto Nabucco è ancora in alto mare, quello russo molto più realistico e avanzato: „Bluestream è un opportunità che abbiamo sotto gli occhi“. Perché sprecarla, ha chiosato, se paesi come Francia, Germania, Italia e Bulgaria hanno già stretto accordi bilaterali energetici con Mosca infischiandosene della solidarietà europea?

Vero è che Budapest già importa da Mosca l'80% del suo fabbisogno di gas, e ora la sua dipendenza potrebbe crescere ulteriormente. La Russia inoltre avanza nell'economia ungherese in diversi settori: le stazioni di servizio Lukoil si moltiplicano, i russi si occupano della manutenzione della centrale nucleare di Paks sottraendola a francesi e tedeschi, la compagnia di bandiera Malev è finita in mano a un consorzio capeggiato dalla Russia. Mentre nascono centri di ricerca scientifica congiunti sulle nanotecnologie, e si parla di estendere la Trans-Siberiana fino al Ponte delle Catene, Budapest conserva un debito con Mosca per le attrezzature militari che ha continuato ad acquistare per tutti gli anni Novanta. Per Mosca, del resto, l'Ungheria è anche una porta d'accesso verso i Balcani, anch'essi affamati di energia e ancora aperti a investimenti a basso costo.

Superata la grave crisi dello scorso autunno, il governo di Gyurcsany sembra dunque voler cercare una “terza via” tra l'occidente e la Nuova Russia con le sue grandi opportunità economiche. In cambio, offre a Putin la propria intercessione in sede Ue: “Noi ungheresi capiamo la Russia”, va ripetendo. A Saransk ha persino proposto al presidente russo di far entrare la Federazione nella Ue, beccandosi un cortese no grazie. E a spezzare il fronte antirusso emergente in una parte della Ue, ora arriva anche la Slovacchia. Il cui premier Fico trova sempre più motivi d'intesa energetica e geopolitica con la Russia di Putin: contrapponendosi, tra l'altro, all'indipendenza del Kosovo.

da lettera22.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 03, 2007, 10:43:30 pm »

Putin, un uomo solo al comando

Adriano Guerra


Putin, che alle elezioni del prossimo 2 dicembre, si presenterà come capolista di «Russia unita», e dunque, a suo dire, come futuro capo del governo (o, a sua scelta, nel giro di pochi anni, come capo dello Stato) rimarrà ancora alla testa del Paese. Ma con quale Russia - qui sta il problema vero - il mondo avrà a che fare? Quel che si può già dire è che ci troveremo di fronte - anzi che già ci troviamo di fronte - ad una interruzione del processo, che pure era stato avviato, di costruzione di una Russia democratica. Certo le elezioni parlamentari saranno formalmente corrette. In una situazione, e con una legge elettorale, che favorisce però, e rende anzi di fatto inevitabile, la vittoria di una sorta di partito-Stato (e forse, se si pensa al carattere plebiscitario che la decisione di Putin di presentarsi come capolista può assumere, di un «partito unico di Stato») nonché l’uscita di scena di pressoché tutte le forze di opposizione. E questo perché portando dal 5 al 7% il quorum di sbarramento, e contemporaneamente vietando ogni tipo di collegamento fra le liste, si condannano preventivamente alla scomparsa pressoché tutti i partiti dell’opposizione democratica.

Certo se questo sta accadendo è anche per responsabilità di coloro che hanno consegnato il potere a Putin rendendo immediatamente debole e fragile la democrazia in Russia. È stato - non lo si dimentichi - Eltsin, al quale pure va riconosciuto il merito di avere, con la riduzione del potere centrale di Mosca, avviato la costruzione di un sistema democratico in Russia, a scegliere e ad imporre come suo successore l’ex ufficiale del Kgb di Leningrado. E lo ha fatto perché in Putin Eltsin ha visto l’«uomo forte» che avrebbe potuto, come è poi accaduto, liberarlo dal rischio di finire in un aula di tribunale per reati di corruzione. Ma l’«uomo forte» non si è limitato a dar prova di gratitudine verso il suo benefattore. Ha anche restaurato il potere centrale, annullato il diritto delle Repubbliche e delle regioni autonome di eleggere democraticamente i loro dirigenti, ridotto la liberà di stampa, dato a strutture e uomini del Kgb e ai suoi amici di Pietroburgo poteri enormi.

Accanto alle responsabilità che è giusto riconoscere a Eltsin vi sono poi quelle delle forze democratiche. In tanti anni esse non hanno saputo imboccare la via di un accordo politico anche soltanto elettorale. Mikail Kasjanov che a giugno aveva annunciato di candidarsi alle presidenziali alla testa dell’Unione Popolare democratica, ha invitato ieri Jabloko e l’Unione delle forze di destra a boicottare il voto di dicembre perché basato su di una legge elettorale anticostituzionale.

Sempre ieri l’ex campione del mondo di scacchi Garry Gasparov, che da tempo è schierato contro la politica di Putin, ha confermato la sua intenzione di continuare nella lotta: nel corso della stessa giornata è stato però abbandonato da almeno tre alleati. Si deve aggiungere che da tempo non si può parlare della presenza in Russia di una opposizione comunista col suo richiamo nostalgico ai tempi sovietici. Il partito comunista di Zjuganov, da tempo fortemente indebolito, e i vari partiti e partitini che operano ai suoi lati, non solo non hanno scelto per la loro battaglia il tema della difesa della democrazia e delle sue istituzioni, ma si muovono come forze di complemento di Putin. Si può dunque escludere che il cammino verso l’involuzione antidemocratica che caratterizza da tempo la situazione russa possa essere interrotto a tempi brevi. Anche perché il progressivo indebolimento della democrazia è stato accompagnato da una crescita di consensi attorno alla politica dell’«uomo forte».

Le ragioni dell’aumento della popolarità di Putin sono molte. C’è stato anzitutto il continuo e netto miglioramento della situazione economica determinato in massima parte, come si sa, dal fatto che il costo del petrolio ha continuato a mantenersi alto il che ha permesso da una parte il formarsi e il crescere di una classe media sempre più numerosa e dall’altra il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti poveri. Ma soprattutto c’è stato, nel vuoto determinato dalla debolezza delle forze democratiche, l’incontro fra la politica, e al di là della politica l’ideologia che sempre si accompagna all’«uomo forte», e le più nascoste aspirazioni delle grandi masse russe. Quei milioni di donne e di uomini cioè che hanno vissuto come una fase negativa della loro storia il declino del loro paese dal ruolo di grande potenza che ha accompagnato il crollo dell’Unione sovietica.

Ed è a queste masse frustrate, facendo appello al loro antico nazional-patriottismo, e in qualche modo al carattere imperiale del nazionalismo russo, che Putin si è rivolto. Dicendo ad esempio che i russi non dovevano guardare con vergogna alla loro storia (e giungendo lungo questa via sino a riproporre manuali di storia nei quali si parla di Stalin e dello stalinismo in termini che neppure nei manuali di Breznev si era osato utilizzare). Forse anche l’antioccidentalismo di Putin - con la moratoria del Trattato del 1999 sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa, le prese di posizione nei confronti della Gran Bretagna e degli Stati uniti, la decisione di riprendere i voli dei bombardieri strategici, il sostegno accordato all’Iran - è da leggere come strumento per allargare il consenso all’interno. È bene tenerne conto.

Non è certo il caso, mentre giustamente si afferma la validità della politica del dialogo parlando del Medio oriente, dell’Iran o della Corea del nord, di mettere in discussione la necessità, e non solo per il ruolo che continua ad avere il gas e il petrolio proveniente dalla Russia, di continuare ad avere rapporti con Putin. È bene però non dimenticare che, seppure dormiente, c’è anche la Russia della Politkovskaja. E c’è la Russia che è entrata in una campagna elettorale della quale si sa chi sarà il vincitore ma nella quale si muovono le ombre inquietanti di una «guerra di spie» che tutto fa prevedere non ancora conclusa.

Pubblicato il: 03.10.07
Modificato il: 03.10.07 alle ore 8.39   
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:05:44 am »

LA POLITICA ESTERA E IL GAS DI MOSCA

Relazioni pericolose


Perché il capo del governo italiano ha presenziato, giovedì scorso ad Ankara, alla firma di un accordo strategico-petro­lifero tra Turchia e Rus­sia? Lo ha spiegato lo stes­so Silvio Berlusconi nella conferenza stampa tenu­ta ieri a Palazzo Chigi: si è trattato di un successo della nostra diplomazia, che andrà a beneficio di tutta l’Europa.

Nelle parole del presi­dente del Consiglio convi­vono una verità (palese) e un grave problema (na­scosto). La verità è che l’Europa ha bisogno e avrà sempre più bisogno delle importazioni ener­getiche dalla Russia, e che il gasdotto South Stre­am cui la Turchia ha ora dato via libera consentirà di accrescere il volume di queste importazioni. Il grave problema è che il medesimo gasdotto (una joint-venture tra Eni e Gazprom) promette di consegnare definitiva­mente alla Russia la sicu­rezza energetica italiana, e si pone come strumen­to di boicottaggio nei con­fronti del progetto rivale Nabucco pensato da Euro­pa e Usa proprio per dimi­nuire la dipendenza ener­getica euroccidentale nei confronti di Mosca.

La «guerra dei gasdot­ti » è la vera partita geo­strategica del nostro tem­po. Dove si muovevano soldati e divisioni corazza­te, oggi si muovono tubi e permessi di transito. Ne risulta una mappa com­plessa, che ha però alcuni punti fermi. La Ue dall’at­tuale 30 per cento del suo fabbisogno arriverà a do­ver importare dalla Rus­sia il 45-50 per cento tra dieci anni, anche perché segnano il passo, soprat­tutto da noi, le energie al­ternative. La Russia è un fornitore affidabile, ma la fine del confronto tra i blocchi ha incoraggiato il Cremlino a fare del suo gas una potente arma po­litica che autorizza pru­denziali timori. Alla luce di questi elementi è in corso da anni un braccio di ferro tra Europa e Rus­sia sulla reciproca libertà di investimento nel setto­re energetico. Non solo: Bruxelles e Washington hanno messo in cantiere un gasdotto (il Nabucco) la cui caratteristica fonda­mentale dovrebbe essere di trasportare gas non rus­so e di non passare dal territorio russo.

Ed è qui che la batta­glia è esplosa. Benché Na­bucco e South Stream possano essere considera­ti complementari (lo ha detto ancora ieri un porta­voce della Ue), Mosca ha capito di dover procedere in fretta per strangolare in culla il gasdotto rivale. E gli Usa, forse ancor più dell’Europa, hanno capito che occorre trovare subi­to forniture di gas non russe se si vuole che il Na­bucco decolli e che buo­na parte del territorio Na­to eviti di finire sotto il potenziale ricatto energe­tico di Mosca. Ebbene, in questa corsa contro il tempo chi ha sistematica­mente aiutato la Russia pur senza rinnegare for­malmente il progetto al­ternativo? L’Italia, con il personale impegno di Berlusconi. Oltre alla nuo­va venuta Turchia, che con il suo doppio gioco (sì a Nabucco e sì a South Stream nell’arco di poche settimane) spera di diven­tare l’arbitro energetico di quell’Europa nella qua­le vuole entrare.

Si dirà che la Germa­nia, con il North Stream destinato a evitare l’incer­to transito dall’Ucraina, ha fatto con la Russia ac­cordi non dissimili da quelli dell’Italia. È vero, e sappiamo anche che l’ex cancelliere Schröder ha assunto importanti incari­chi nell’impresa.

Ma esiste una differenza fondamentale: il North Stre­am non affonda di fatto un progetto alternativo e geogra­ficamente contiguo pensato in termini di sicurezza occi­dentale.

Silvio Berlusconi, credia­mo, dovrebbe riflettere su questi aspetti. Noi per primi pensiamo che una Russia ami­ca (con qualche parola chiara sui diritti civili, sulla libertà di stampa, sull’amministra­zione della giustizia) vada il più possibile associata all’Oc­cidente. Obama fa benissimo a spingere il suo pulsante re­set. Ma tenere un piede di qua e un piede e mezzo di là per l’Italia non è una buona politica. Quali che siano gli in­teressi economici, che l’Eni giustamente persegue facen­do il suo mestiere. E quali che siano le ambizioni politi­che di «mediare» tra russi e americani, impresa di per sé improbabile ma che così di­venta impossibile.


Franco Venturini
08 agosto 2009
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da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 09, 2010, 09:04:34 am »

9/5/2010

Medvedev vuole anche gli alleati
   
ANNA ZAFESOVA

Saranno più di 10 mila a marciare oggi sulla Piazza Rossa, con una profusione mai vista di mezzi militari, dai carri armati d’epoca ai caccia di ultimissima generazione, e forse anche i missili intercontinentali sfoggiati in diretta tv. Ogni anno il Cremlino celebra con sempre più magnificenza l’unica data del calendario russo mai sottoposta a dubbi storici: la vittoria sul nazismo in quella «Grande guerra patriottica» che per i russi non è la seconda guerra mondiale, ma una faccenda tutta loro, l’atto più positivo della storia patria, comunista e non, la testimonianza della grande potenza, la giustificazione di tutte le sofferenze e umiliazioni. Il V-Day non è ancora storia, è politica di più scottante attualità, e dallo sfoggio di missili e dall’intensità degli slogan patriottici si può dedurre anche la linea dominante al Cremlino.

Qualche anno fa Putin in Piazza Rossa arrivò a paragonare velatamente gli Usa al Terzo Reich. Quest’anno Medvedev ha invitato a sfilare accanto ai soldati russi i militari americani, francesi e britannici, in ricordo dell’alleanza anti-Hitler. Invitati anche Obama, Brown, Sarkozy e Berlusconi, che non vengono per cause di forza maggiore, ma in compenso il presidente polacco ad interim Komorowski viene ricevuto al Cremlino dove Medvedev gli consegna i file segreti sulla strage di Katyn promessi pochi giorni fa. Da parte del presidente che aveva fondato un anno fa l’orwelliana «Commissione contro le falsificazioni della storia a danno della Russia», è un segnale importante. Come lo è stato anche il «niet» deciso del governo al progetto del comune di tappezzare Mosca per l’anniversario di ritratti di Stalin. In Russia la guerra non è ancora diventata storia, e la storia è ancora terreno di guerra.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7325&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 14, 2010, 03:20:32 pm »

14/6/2010 - LEADER RUSSI

Mosca divisa tra la copia e l'originale
   
MARK FRANCHETTI

Recentemente ho avuto a cena il più rispettato commentatore politico televisivo della Russia e un ex alto ufficiale del Cremlino. Quasi subito la conversazione si è soffermata sull’argomento politico più discusso nel Paese: chi sarà nel 2012 il prossimo presidente russo?

Reggeranno gli accordi tra il primo ministro Vladimir Putin e il suo protetto, il presidente Dmitry Medvedev o Putin, che è stato presidente per otto anni, rivorrà indietro il suo posto?

Non riuscendo a mettersi d'accordo, i miei due ospiti hanno fatto una scommessa. Uno ha puntato sul ritorno di Putin. L’altro era certo di un secondo mandato di Medvedev.

Premesso che non si tratta di un affare da poco e tenendo presente che i russi amano il buon vivere, i due ospiti hanno stabilito una posta adeguata. Il vincitore si prenderà sei bottiglie di Château Petrus. Il cosiddetto tandem Putin-Medvedev è senza precedenti in Russia. La gente qui è abituata ad avere un leader, non due. I primi ministri in Russia prendono ordini dal presidente. E’ lui a nominare e a licenziare il capo del governo. Il Parlamento deve appoggiare la sua scelta ma già da tempo questa è una semplice formalità.

In teoria è Putin a dover rendere conto a Medvedev. In realtà è ancora lui l’uomo forte della Russia, la figura più potente del Paese. Abbiate perciò un attimo di compassione per Medvedev.

Immaginatevi di aver lavorato per il vostro capo per oltre un decennio. Andate molto d’accordo, ma non ci sono dubbi su chi comanda. E per di più il resto dell’azienda idolatra il capo. Un bel giorno vi annuncia che siete voi il suo prediletto; vuole che gli diate il cambio. E lui farà tutto il possibile per assicurarvi l’appoggio dell’azienda. Ottimo. C’è solo una piccola clausola: lui resterà per farvi da vice. E naturalmente, può sempre decidere di riprendersi il posto che vi ha appena ceduto.

Inevitabilmente all’inizio pochi presero sul serio Medvedev. Bravo ragazzo ma non è lui a decidere, si diceva. Una marionetta, avevano concluso i media stranieri. Il rapporto tra i due invece è ben più complesso. Putin ha il massimo rispetto per il suo protetto. Non lo tiranneggia ed è sempre stato molto attento a non dare di lui un’immagine pubblica debole. Da tempo Putin cerca di concentrarsi sul suo ruolo di premier, tentando di evitare di interferire in argomenti che sono di stretta competenza presidenziale, come la politica estera ad esempio.

C’è di sicuro grande rivalità fra le squadre dei due leader ma, a mio parere, non tra i due uomini, che si conoscono da oltre 15 anni. Adesso l’ultima moda fra gli opinionisti è parlare dei tentativi che fa Medvedev per lasciare la sua impronta. Tutti concordano nel dire che il presidente sta diventando sempre più indipendente, sia nel suo stile che nelle decisioni. Alcuni illusi hanno persino interpretato alcune sue dichiarazioni come una critica a Putin.

E’ stato interessante osservare come Medvedev tenta di imporre la sua autorità, senza veramente scrollarsi di dosso l’ombra di Putin. Confesso che a volte è stato anche uno spettacolo bizzarro. In due anni Medvedev ha imparato perfettamente a imitare lo stile del suo predecessore. Il suo modo di parlare è cambiato così radicalmente che a volte è facile scambiare la sua voce per quella di Putin.

Di piccola taglia, indossa giacche attillate per apparire più atletico e copia la camminata da macho del primo ministro, facendo ondeggiare le spalle a ogni passo. Come Putin, agli incontri informali Medvedev indossa una maglietta nera attillata sotto una giacca, un abbigliamento da guardia del corpo più che da capo di Stato.

Quella di Medvedev è una buona imitazione, ma non convince. A differenza di Putin, il presidente russo non è per nulla macho. Sono entrambi laureati in legge ma da adoloscente Putin, come ha ammesso lui stesso più volte, aveva atteggiamenti da teppista. Ha anche lavorato per ben 16 anni nel temuto KGB. Per contro, Medvedev è nato in una famiglia di innocui accademici. Per riassumerla in modo semplice: Putin è cintura nera di judo. Medvedev invece ama lo yoga.

I due condividono una visione e sono una squadra ma è vero che il presidente, il leader più giovane che la Russia abbia avuto dopo lo zar Nicola II, sta cercando di lasciare la sua impronta. Più giovane di una generazione del suo mentore e appassionato utente di Internet, è molto più liberale e moderno di Putin. Ha condannato apertamente l’endemica corruzione del Paese e ha promesso di mettere fine a ciò che definisce come il «nichilismo giuridico» della Russia.

Ha anche dato il via ad una nuova tendenza, licenziando pezzi grossi della polizia e altri ufficiali coinvolti in scandali nazionali, ritenendoli perciò responsabili per le azioni dei loro subordinati, un concetto assolutamente alieno alla Russia.

Ha risposto ad appelli pubblici che gli sono stati rivolti direttamente, dimostrando molta più sensibilità di Putin all’opinione pubblica. Inoltre ha mostrato di essere a favore di una maggiore libertà di stampa.

La sua visione della Russia crede nella modernizzazione e la diversificazione. Non si basa solo sulla forza militare, il potere statale e la dipendenza esclusiva dal petrolio come invece fa quella di Putin. E per finire, in commenti che Putin non si sognerebbe mai di fare in pubblico, recentemente Medvedev ha definito l’Unione Sovietica uno Stato totalitario e ha fermamente condannato Joseph Stalin.
Parole, per lo più, non seguite da azioni, ma nondimeno incoraggianti. Sono un primo segno che la Russia si sta evolvendo verso una società più aperta e che Medvedev non è poi la marionetta che si pensava. Questo anche se il presidente non prenderebbe alcuna decisione di grande importanza senza prima consultarsi con Putin.

Il vero problema, tuttavia, è che pochi prendono Medvedev veramente sul serio. Il motivo è semplice. Finché Putin mantiene aperta l’opzione di un suo ritorno alla presidenza, l’enorme apparato statale russo continuerà a pensare a Medvedev come a un leader provvisorio. La maggior parte dei burocrati russi, le cui principali motivazioni sono l’autotutela e i propri interessi, ascolta quello che dice il presidente ma poi fa solo finta di agire. In realtà stanno a guardare e aspettano di vedere cosa porterà il 2012.

Molti stimano Medvedev ma il punto cruciale è che non lo temono. La gerarchia statale russa è basata sulla paura del proprio capo e questo è un Paese che ama essere guidato con il pugno di ferro. Putin il tosto, a differenza del suo prediletto successore, è temuto, spesso profondamente temuto. I burocrati russi hanno un sesto senso quando si tratta di capire chi è il capo. Finché Putin li tiene sul filo del rasoio, rifiutandosi di escludere un suo ritorno al Cremlino tra soli due anni, Medvedev non potrà che essere un leader frustrato.

E per quanto riguarda la scommessa fatta dai miei due ospiti, io per lo meno sarò soddisfatto qualunque sia il risultato. Gli ho fatto promettere che chiunque vinca, la prima bottiglia di Château Petrus sarà bevuta alla mia tavola.

*Corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 13, 2010, 10:13:23 am »

13/7/2010

Spie, l'onore ferito di Mosca

MARK FRANCHETTI*

Lo scandalo delle spie che ha tenuto col fiato sospeso il mondo nelle ultime due settimane si è concluso con il più grande scambio di agenti dalla fine della Guerra Fredda. La soluzione è stata concordata in tempi record, un chiaro segno del miglioramento delle relazioni tra Russia e America.

Washington ha buone ragioni per ritenersi soddisfatta. Gli americani sono riusciti a smascherare una rete di agenti russi sotto copertura, evitando un lungo processo nel quale sarebbero stati costretti a portare prove fragili, e assicurando in cambio il rilascio di quattro russi accusati di aver spiato per l’America e rinchiusi in carcere con condanne pesanti.

Cosa potrebbe dire la Russia invece? Durante la Guerra Fredda, gli agenti sovietici che fallivano in Occidente venivano accolti in patria come eroi. Quarantaquattro anni dopo la sua fuga dalla Gran Bretagna verso Mosca, George Blake, il più famoso doppio agente sovietico nel Regno Unito, vive a 87 anni un’esistenza tranquilla nella sua dacia e continua a godere di grande rispetto. Al contrario, Anna Chapman, l’attraente 28enne diventata il volto dello scandalo delle spie, e gli altri agenti hanno avuto un’accoglienza molto più gelida. La vicenda ha messo in grande imbarazzo il Cremlino e l’Svr, l’agenzia di spionaggio estero russa. La sua rete di agenti dormienti è rimasta sotto osservazione dell’Fbi per circa dieci anni. Le informazioni raccolte e inviate a Mosca dagli agenti erano per lo più disponibili su Internet, e finora non sono emerse prove di segreti su cui avessero messo le mani.

Si dice che Anna Chapman sia intelligente al pari di quanto è sexy, ma certamente non ha fatto un favore alla reputazione dello spionaggio estero russo quando ha accettato di incontrare e ricevere istruzioni segrete da un uomo che non aveva mai visto prima e che si è rivelato un agente dell’Fbi che si spacciava per una spia russa.

I media di Stato russi hanno preferito ignorare lo scandalo. I giornali hanno deriso l’«incompetenza» degli agenti, come è stata chiamata da qualcuno. Le spie non sono più quelle di una volta, si è lamentato un altro quotidiano, definendo la qualità delle informazioni raccolte dalla Chapman e dai suoi colleghi come «patetica». Su un altro giornale, un colonnello del Kgb in pensione ha liquidato il gruppo come «dilettanti». «Ovviamente, hanno inviato dei rapporti, ma di una qualità tale che, dopo sette anni sotto osservazione, non c’erano elementi sufficienti per costruire contro di loro un’accusa di spionaggio decente», ha ironizzato un altro giornale russo.

Una reazione di disappunto dovuta non solo all’orgoglio ferito. Due decenni dopo il crollo del comunismo, è vero che le spie russe non sono più quelle di un tempo, un fatto che preoccupa sia il Cremlino che la vasta comunità di intelligence russa. Ai tempi sovietici il Kgb reclutava i più bravi e motivati, soprattutto nello spionaggio estero. Venire selezionati nei ranghi del Kgb oltre a una buona paga e a privilegi speciali come la possibilità di viaggiare all’estero, era estremamente prestigioso. Gli agenti all’estero erano figure mitologiche, eroi nazionali che diventavano modelli da imitare per i russi comuni. Vladimir Putin, che ha trascorso nel Kgb 16 anni, di cui cinque come agente a Dresda, ha raccontato di aver avuto l’ispirazione a entrare nei servizi grazie a una serie tv cult dell’epoca sovietica su un doppio agente russo nella Germania nazista.

Ma con il crollo del comunismo il Kgb, come il resto del Paese, ha perso il principale impulso che lo animava: l’ideologia. Gli ideali che hanno ispirato generazioni di agenti sono stati ripudiati e denigrati in una notte. Il Kgb, da entità che incuteva paura e rispetto, è stato vilipeso.

Alexei Kondaurov, un generale del Kgb in pensione con 22 anni di servizio, mi ha raccontato della sera del 1991 in cui dal suo ufficio alla Lubianka, il famigerato quartier generale della polizia segreta, aveva osservato una folla di manifestanti nella piazza sottostante tirare giù la statua di Felix Dzerzhinsky, fondatore della Ceka, in seguito diventata il Kgb. «Quando hanno messo il cappio sul collo di Dzerzhinsky mi sono sentito come se la corda si fosse stretta sul mio collo», mi ha detto. «Mi sono sentito come se stessero per impiccarmi. Ho capito che tutta la mia vita era stata cancellata. E’ stato molto difficile psicologicamente. Gli ideali ai quali avevo consacrato una vita di lavoro stavano per venire distrutti».

Il Kgb, ribattezzato oggi Fsb, venne spezzato in diverse agenzie e patì massicci tagli. Migliaia di agenti vennero licenziati oppure lasciarono i servizi in cerca di lavori meglio remunerati nel settore privato. La fuga di cervelli ha portato a una grave crisi di reclutamenti. Perché mai un giovane russo avrebbe dovuto entrare nei servizi quando poteva guadagnare dieci volte tanto nel settore del business? L’ideologia venne rimpiazzata da una profonda crisi d’identità che alimentò la corruzione, l’abuso d’ufficio e perfino la criminalità all’interno dello stesso servizio.

«Tante persone di talento se ne sono andate», prosegue Kondaurov. «Trovare nuove reclute di qualità è stato difficile. Anche oggi, vent’anni dopo, non è molto chiaro quale ideologia servono quelli dell’intelligence».

In anni di lavoro come reporter in Russia ho visitato la Lubianka diverse volte, e in un’occasione mi venne riservata anche una sorpresa insolita: prima di andare a colazione con uno dei dirigenti più importanti del Fsb mi furono fatti vedere i denti di Adolf Hitler, tuttora conservati negli archivi sotterranei dell’edificio. Le persone che ho incontrato alla Lubianka restano piene di dedizione al loro lavoro. Ma basta fare qualche domanda in più per sentirsi dire che il livello di professionalità dei tempi sovietici era più alto. Gli agenti russi dello spionaggio estero che ho conosciuto, incluso il brillante «tutore» personale di Blake, erano tutti dotati di un intelletto scaltro e veloce quanto di modi soavi e cosmopoliti. Che vi piacessero o meno, non potevate non restare impressionati dalla loro abilità come agenti di intelligence.

Markus Wolf, il leggendario capo dello spionaggio estero della Germania dell’Est, educato e addestrato a Mosca, era specializzato nella preparazione dei cosiddetti agenti dormienti come quelli arrestati di recente a Washington. Li mandava in Occidente e manovrava le loro carriere nei decenni. Uno dei suoi uomini, infiltrato nella Germania Ovest, salì così in alto da diventare uno degli assistenti più stretti del cancelliere Willy Brandt. Utilizzava anche gli agenti «Romeo», ufficiali della polizia segreta che seducevano e perfino sposavano le segretarie degli uffici governativi a Bonn per poi reclutarle. Tremendamente cinico, certo, ma molto efficace. Durante una colazione a Berlino alla metà degli Anni 90 Wolf mi spiegò come i documenti top secret che i suoi agenti rubavano a Bonn si trovassero sulla sua scrivania a Berlino Est alle 8 del mattino dopo. Pianificava le sue mosse decenni in avanti.

Un uomo che certamente avrà seguito con grande rammarico l’ultimo scandalo delle spie è Viktor Cherkashin. Ex spia pluridecorata del Kgb che servì Mosca per 30 anni, Cherkashin era distaccato a Washington quando diventò il primo «tutore» di Aldrich Ames, l’alto ufficiale della Cia che spiò per Mosca ed è tuttora considerato uno dei peggiori traditori americani. Come Kondaurov e migliaia di altri alti ufficiali, Cherkashin si è dimesso dal Kgb nel 1991, per aprire una società di sicurezza privata. Quando lo incontrai più di dieci anni dopo, mi raccontò come fu lui ad escogitare alcune delle più efficaci misure di protezione create dal Kgb per impedire che Ames venisse scoperto dalla Cia.

Un giorno Cherkashin fece ad Ames la sorpresa di presentarsi al pranzo che l’agente Cia aveva organizzato in un ristorante di Washington con il diplomatico russo che veniva utilizzato come canale per passare denaro e informazioni. Ames si agitò appena lo vide. L’Fbi conosceva Cherkashin e lo pedinava ovunque, ed Ames temette che questo incontro a sorpresa potesse far saltare la sua copertura. «Sapevamo che la Cia spesso sottoponeva i suoi ufficiali a test di routine con la macchina della verità. Quello è sempre stato un problema», mi raccontò Cherkashin. «Ad Ames sarebbe stato chiesto se aveva avuto di recente contatti informali con ufficiali del Kgb. Era una domanda standard. Il trucco era creare la situazione, un incontro a sorpresa. Dopo, non avrebbe più avuto bisogno di mentire. Avrebbe potuto rispondere con assoluta sicurezza che, mentre cercava di reclutare un diplomatico sovietico, era stato avvicinato da me. La macchina della verità non avrebbe registrato nulla di strano». Ames superò almeno altri due test prima di venire catturato nel febbraio 1994.

Paragonate questo piccolo esempio di come si faceva la spia una volta con quello che avete letto sulla Chapman e sui russi arrestati in America e comincerete a capire perché il Cremlino e l’Svr hanno buoni motivi per provare nostalgia per i vecchi bei tempi della Guerra Fredda, quando le loro spie erano davvero tra le migliori del mondo.

*corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 19, 2015, 06:08:52 pm »

Putin tra crisi, Kiev e Nemtsov. Coen: “Zar ha fallito”. Chiesa: “Russia sotto attacco”
Mondo

Dalla crisi economica all'omicidio dell'oppositore, passando per un possibile ruolo nella crisi libica e la passione che il presidente suscita in Occidente sia tra le file dell'estrema sinistra che nella destra più nera. Giulietto Chiesa e Leonardo Coen, storici corrispondenti da Mosca per L'Unità e La Repubblica, si confrontano da due opposte prospettive sul momento che la Russia sta vivendo e sulle sfide che è chiamata ad affrontare

di F. Q. | 12 marzo 2015

Una Russia sotto attacco e travolta da una crisi economica causata dall’Occidente, secondo l’uno. Un Vladimir Putin accerchiato, responsabile delle difficoltà che attanagliano il Paese perché incapace di gestire al meglio le infinite risorse che amministra, secondo l’altro. Un presidente capace di aumentare la propria popolarità ribaltando il tentativo di Usa e Ue di metterlo in ginocchio, secondo il primo. Uno zar che tenta di nascondere le difficoltà interne mettendo il bavaglio ai media e risvegliando la mitologia della “nazione sotto attacco”, per il secondo. Ancora: il primo che sferza i commentatori occidentali che sollevano lo spettro di presunti complotti nazionalisti per spiegare l’omicidio di Boris Nemtsov; il secondo che cita Stalin: “Non c’è persona, non c’è problema”. Giulietto Chiesa e Leonardo Coen, storici corrispondenti da Mosca, si confrontano per IlFattoQuotidiano.it da due opposte prospettive sulle molteplici sfide che la Russia di Putin è chiamata ad affrontare, dalle conseguenze della crisi ucraina fino al possibile intervento della Russia nella crisi libica.

Sull’omicidio Nemtsov, Chiesa: “Vacue le teorie dei media occidentali”. Coen: “Come diceva Stalin: ‘Non c’è persona, non c’è problema”

CRISI ECONOMICA INTERNA
Giulietto Chiesa – Gli Stati Uniti hanno lanciato un’offensiva contro la Russia che modifica radicalmente il quadro post 1989 e non solo quello postbellico. Ciascuno dia l’interpretazione che vuole di questa scelta (non è qui il luogo per affrontarla), ma resta il fatto. La crisi economica russa è il risultato di quest’offensiva. L’uso dell’Ucraina come bastone ferrato, più le sanzioni, più l’abbassamento “politico” del prezzo del petrolio, più il blocco del Southstream è l’ingiunzione all’Europa di sostituire il gas russo con quello (molto aleatorio) americano: tutto questo ha colpito, e duramente, l’economia russa. Frenare la caduta del rublo è costato molto. La Duma e tutto il vertice politico, per dare l’esempio, ha dovuto ridursi gli stipendi, Putin e Medvedev inclusi. La Russia è stata colpita nei punti fragili, che derivano dalla sua integrazione nel mercato mondiale. In sintesi: presentare la Russia come “aggressore” è una falsa interpretazione. Su tutti questi fronti la Russia ha subito un’aggressione e si sta difendendo. L’Occidente non si rende conto che la Russia “non può arretrare”, perché ha già le spalle al muro. E da un avversario – un forte avversario – che è stato chiuso in angolo ci si deve aspettare una reazione dura. Vedi la Crimea.

Leonardo Coen – Rublo dimezzato. Crollo del petrolio. Ucraina, ossia sanzioni che cominciano a lasciare il segno. Fuga di capitali. Corruzione devastante. Le imposte sulle esportazioni di gas e petrolio rappresentano oltre la metà del bilancio statale: se si abbassa il prezzo del barile, si riduce di conseguenza la spesa pubblica e ciò nuoce sul tasso di crescita del reddito. Per anni, il corso favorevole del greggio ha permesso di saldare i debiti, l’accumulo di riserve ha difeso il rublo e favorito gli investimenti. Durante i primi due mandati presidenziali, Putin ha goduto di queste favorevoli congiunzioni, garantendo stabilità e benessere, col mercato interno in costante espansione e col Pil che è cresciuto in media oltre il 6 per cento l’anno sino al 2009: così si è smarcato dalla dipendenza finanziaria straniera. Ma la pacchia è finita. Le minori entrate fiscali comportano grossi sacrifici. La classe media, più del 20% della popolazione, pretende il passaggio da un’economia sostenuta prevalentemente dallo sfruttamento delle fonti energetiche ad un modello più diversificato: la crisi è dunque anche politica, dimostra il fallimento dell’amministrazione Putin. Il Cremlino dovrà ridefinire molti obiettivi, a cominciare dalle spese militari: la guerra in Ucraina costa, e mostrare i muscoli all’Occidente anche di più. Il premier Dmitri Medvedev ha già dovuto tagliare parecchio, per mantenere il bilancio in pareggio (per fortuna non ci sono debiti). Un grosso problema è rappresentato dal pagamento delle pensioni e soprattutto dal mantenimento del carrozzone pubblico, 18 milioni di dipendenti, cioè tra il 25 e il 30% della popolazione attiva e ormai metà dei salari se ne vanno per la spesa alimentare (ufficialmente l’inflazione ora è al 16%).

GESTIONE DEL DISSENSO E OMICIDIO NEMTSOV
Giulietto Chiesa – Washington ha scommesso su una presuntuosa certezza: mettere in ginocchio la Russia, e Putin (ormai degradato a dittatore con cui si possono usare perfino toni aggressivi e volgari). I calcoli di russologi americani (e dei loro seguaci europei) prevedono che, con due, tre anni di questa “cura”, Putin sarà rovesciato e sostituito da una nuova leadership almeno tanto succube agl’interessi dell’Occidente quanto lo fu il Quisling Boris Eltsin. Qui l’errore mi sembra evidente. Fino a questo momento il “rinculo” ha prodotto l’effetto contrario. Putin ha aumentato la sua popolarità. Chiunque conosca un po’ la situazione da vicino, non da Washington o da Bruxelles, sa che la vicenda ucraina ha prodotto in Russia una “rivolta nazionale” anti americana e anti occidentale che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. In una parola, dopo 20 anni di colonizzazione occidentale, è riapparso lo “spirito russo”. A chi, in occidente, scuote con sufficienza la testa o le spalle, incredulo o sarcastico, suggerisco la lettura di Arnold Toynbee (“Il Mondo e l’Occidente”). La russofobia è una malattia, che produce tre tossine molto pericolose: odio e presunzione, da un lato, e forti dosi di irrealismo. Qui in Occidente viviamo immersi in questi miasmi. Sospetto che, alla lunga, non ci gioveranno. Il dissenso – quello che esiste in questo momento in Russia – non ha nessuna possibilità di dare vita a una “rivoluzione colorata di massa” come quelle, ormai ben note, di Belgrado, di Tbilisi, di Kiev, ecc.. E’ sempre esistito un filo-occidentalismo russo. Perfino Pushkin ne scrisse, sferzandolo con sprezzanti parole. Sono quei russi che, per mille ragioni, s’identificano con l’Occidente. Ma non sono mai stati maggioranza e, meno che mai lo sono oggi. Eltsin e Gaidar li hanno già “assaggiati” e non vogliono ripetere la degustazione. Putin, dal canto suo, ha preso le sue contromisure. A Washington protestano, ma George Soros non potrà fare a Mosca e San Pietroburgo quello che ha fatto a Kiev, e a Belgrado. Tutti i partiti della Duma: dai comunisti di Ziuganov, ai seguaci di Zhirinovskij, al Partito Russia Giusta, sono compatti nel sostegno della politica estera di Putin. L’assassinio di Boris Nemtsov dev’essere collocato in questo contesto per essere capito. Quanto a presunti complottisti “nazionalisti” all’interno delle “strutture della forza” russe, nulla può essere escluso, ma non ci sono segnali di questo genere e le elucubrazioni in merito, fiorite sui media occidentali, brillano per la loro vacuità. La russofobia miete vittime tra gli analisti occidentali.

Leonardo Coen – L’economia malata fa zoppicare il modello di sviluppo putiniano ed ansimare il capitalismo di Stato. Tocchi soldi e interessi, incrini il regime. L’embargo finanziario ha infatti limitato la spregiudicata libertà d’azione degli oligarchi che hanno prosperato e spadroneggiato all’ombra del Cremlino. Il tempo delle vacche magre ha evidenziato le debolezze strutturali dell’economia russa, sempre più anatra zoppa: Putin deve affrontare il peggio. La fronda interna. E la recessione. Il Pil quest’anno arretrerà di almeno 4-5 punti. C’è carenza produttiva per fronteggiare la domanda dei consumatori. Manca la manodopera non qualificata, a causa delle dinamiche demografiche: nel 1989 i russi con meno di vent’anni erano 44 milioni, nel 2012 erano 30. Così la politica contro l’immigrazione si è trasformata in un boomerang. L’opposizione cavalca il malumore del ceto medio e le ansie della gente. Chi mette in discussione il sistema come Boris Nemtsov – con argomentazioni pericolosamente fondate su dati e circostanze ben precisate – va neutralizzato, secondo la nota formula di Stalin: non c’è persona, non c’è problema. E poi, c’è l’arsenale propagandistico studiato e praticato ai tempi del Kgb e della Guerra Fredda: la strategia del “complotto permanente”. Strategia che si avvale dell’indispensabile corollario patriottico. Il nemico è alle porta, ordiscono complotti contro la Russia, hanno orchestrato la svalutazione del rublo e il crollo del petrolio per sottrarci i ricavi delle nostre risorse. Non conoscono l’infinita capacità di sopportazione del popolo russo, quella che ci permise di sconfiggere l’invasore nazista. La Seconda Guerra Mondiale, in Russia, si chiama non a caso Grande Guerra Patriottica.

RAPPORTO DEL CREMLINO CON I MEDIA
Giulietto Chiesa – Il quadro “dittatoriale” che viene dipinto in Occidente è, come minimo, unilaterale e insincero. Il dissenso mediatico, a Mosca, esiste eccome: ci sono numerosi giornali di opposizione esplicita al governo e al Cremlino. Le televisioni private e le radio ostili a Putin esistono e trasmettono, i commentatori politici che fustigano la politica del Cremlino, interna ed esterna, sono numerosi. Non esiste nessuna censura sul web. E’ banale rilevarlo, ma è evidente che il Cremlino esercita la sua supremazia mediatica interna e domina soprattutto gli spazi televisivi. Non vedrei motivo di stupore al riguardo, specie in Italia, dove il coro mediatico è quasi interamente filo governativo e dove, nei confronti dei critici, si esercita senza cerimonie il sistema dell’esclusione. Ma il “pluralismo” dei media occidentali (negli Stati Uniti peggio che altrove) si è ormai da tempo trasformato in una grancassa unanime. Non basta essere “privati” per essere liberi e obiettivi. Sempre più spesso l’essere privati è diventato sinonimo di mercificatori dell’informazione. E questo lo capisce ormai una larghissima fetta di telespettatori e di lettori dei giornali. Tra l’altro si nota ormai una crescente inquietudine in Occidente per la “penetrazione” della “propaganda russa”. RT (in inglese) ha rotto il monopolio negli Usa, facendo infuriare John Kerry. E la signora Mogherini annuncia contromisure per fronteggiare gli evidenti successi dei canali tv russi in Europa, specie sul Baltico. L'”amica” Ucraina li oscura, semplicemente. Non stiamo dando un grande esempio.

Leonardo Coen – La propaganda presuppone il pieno controllo dei mezzi di informazione, dai giornali alle radio e televisioni, sino a internet. Lo Stato controlla direttamente, tramite il Gruppo Media Nazionale, alcune emittenti tra le più seguite, come Ren-tv e Quinto Canale. Il Cremlino ha in mano le principali agenzie di stampa, come Ria-Novosti che a sua volta finanzia Russia Today, un canale satellitare diffuso su tutte le piattaforme digitali a livello mondiale. Il resto dei media russi – nella quasi totalità – è in mano agli amici di Putin. Pochi resistono a quest’assedio, come il bisettimanale Novaja gazeta (tra gli azionisti, Mikhail Gorbaciov) e la Dozhd tv. Il cappio all’informazione indipendente si stringe sempre di più, i giornalisti scomodi rischiano la pelle, moltissimi sono stati uccisi, altri sono stati costretti a scappar via. In questo modo, si spiega la vastissima popolarità del presidente, un fenomeno di persuasione occulta che sconfina col culto della personalità. Putin ha curato e perfezionato la propria immagine di “macho”, a dispetto della sua figura non certo imponente. Pratica judo, pesca a torso nudo, abbraccia tigri, fa il top-gun, ama i bikers. Parla ai russi con la lingua del popolo, non con quella degli intellettuali, di cui diffida. Rievoca la grandezza imperiale. Dimostra rispetto e devozione nei confronti della Chiesa ortodossa, recupera il legame fiduciario che essa vantava con lo Stato prima dell’avvento sovietico. Si presenta addirittura quale salvatore della cristianità e dell’anelito indipendentista delle minoranze. L’annessione della Crimea ha scatenato un’ondata patriottica e innalzato i picchi dei sondaggi: “Senza la Russia non c’è Putin, e senza Putin non c’è la Russia”, è stata l’invenzione demagogica dello staff presidenziale.

CRISI UCRAINA E RAPPORTI CON USA E UE
Giulietto Chiesa – Per quanto concerne i rapporti con l’Europa, va detto che gli sviluppi della crisi ucraina, la sconfitta militare di Kiev nel Donbass, stanno aprendo una riflessione in Europa. Le contro-sanzioni russe hanno avuto un loro effetto, ma soprattutto l’ha avuto la costernata e ritardata constatazione che l’Europa non può inghiottire un boccone come l’Ucraina. Troppo grande e troppo disastrato, oltre che pericoloso. Il viaggio di Merkel e Hollande a Mosca, quello di Renzi, in solitaria, dicono che senza la Russia non si può eliminare il bubbone nazista in suppurazione a Kiev. Negli Stati Uniti sceglieranno di riarmare Kiev. Vedremo se l’Europa glielo permetterà. E’ evidente tuttavia che Putin è riuscito a incrinare la compattezza iniziale di Usa ed Europa.

Leonardo Coen – L’Occidente non ha mantenuto la promessa che era stata fatta a Gorbaciov, sostiene Putin e in questo ha ragione: cioè che la Nato non si sarebbe espansa ad est. Nella logica della Russia superpotenza (come ai tempi degli zar e dell’Urss), l’Ucraina non è nemmeno uno Stato, lo disse a Bush nel 2008, “parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l’altra parte, quella più importante, gliel’abbiamo regalata noi” (Le sciabole dello zar, editoriale del numero di Limes “Progetto Russia”, n.3/2008). L’uscita di Kiev dall’orbita di Mosca non è tollerabile, lede la sicurezza nazionale. Alla lunga, però, la guerra non guerra con l’Ucraina si è rivelata una trappola: europei ed americani hanno imposto sanzioni con ricadute non indifferenti sull’apparato militare-industriale (in Ucraina ci sono 400 aziende ucraine, russe e miste che lavorano per la Difesa e l’export russo, come hanno scritto il Sole 24-Ore e Analisi Difesa). Il danno strategico è notevole. A Mosca preme un ritorno alla normalizzazione, però coi confini spostati più ad ovest: che è poi ciò che ha ottenuto nell’accordo con Hollande e la Merkel, a Minsk poche settimane fa. Spera solo che l’Europa si ribelli al diktat sanzionatorio di Washington, perché il conto dell’embargo è quasi tutto sulle spalle dell’Ue: senza dimenticare gli aiuti finanziari all’Ucraina.

RAPPORTI CON LA GRECIA
Giulietto Chiesa – Un eventuale aiuto russo (e/o cinese) alla Grecia potrà esserci, ma sarà subordinato agli sviluppi sia della crisi ucraina, che all’evoluzione della politica europea in generale verso la Russia.

Leonardo Coen – Vista da Mosca, Atene è il “grimaldello” per scardinare la fortezza traballante di un’Unione Europea a due velocità e per mettere in crisi i soloni dell’austerità, perciò vanno aiutati i movimenti che si oppongono al centralismo di Bruxelles. Tradotto: intensificazione diplomatica con la Grecia, plateali dimostrazioni di volere comunque aiutare finanziariamente un Paese “fratello”, per cultura e religione. Tsipras è stato a Mosca, mentre in Grecia si è visto il barbuto Alexander Dugin, politologo e filosofo che ha grande ascendente tra i “falchi” dell’entourage di Putin. L’idea di Dugin, sposata dal Cremlino, è quella di finanziare i movimenti estremisti e populisti che agitano le acque politiche all’interno dell’Ue, con lo scopo di destabilizzare le situazioni interne, e di favorire il sedizioso disegno di un’Europa delle piccole patrie: “Presidente, i popoli d’Europa confidano in lei…”, gli disse Philippe De Villiers, un politico francese monarchico, vandeano e ultrareazionario.

POSSIBILE RUOLO NELLA CRISI LIBICA
Giulietto Chiesa – La Russia sta già svolgendo un suo ruolo importante per conto proprio. Mosca sostiene Bashar el Assad e favorirà ogni mossa per impedire che Damasco sia rovesciata. Ma, anche qui, sarà utile tenere presente che Mosca è un negoziatore globale. Che, cioè, tiene conto di tutti gli scenari simultaneamente. L’idea – di Obama – di “contenere” Putin è semplicemente ridicola.

Leonardo Coen - La proposta di Renzi che vorrebbe coinvolgere Putin quale partner “responsabile” nell’eventuale missione (armata o meno) dell’Onu in Libia è stata accolta favorevolmente dal Cremlino, assai meno dagli Stati Uniti che hanno messo le mani avanti: prima Mosca dimostri di rispettare gli accordi di Minsk-2. I dubbi americani sono legati all’opinione che hanno di Putin: uno che non rispetta i patti e che fa i comodi suoi (come del resto loro…). Per l’Europa, la Russia rimane un partner di primaria importanza: non soltanto per la dipendenza energetica, ma per le prospettive di sviluppo delle relazioni commerciali, oggi raffreddate dalla guerra ucraina e dall’annessione della Crimea. Il mercato russo fa gola, “sdoganare” Mosca significa consapevolezza della necessità di difendere gli interessi europei, e gestirne le criticità. La Libia è l’ultima spiaggia per obbligare Putin ad abbassare i toni anti occidentali.

PERCHE’ IN OCCIDENTE PUTIN PIACE SIA ALL’ESTREMA DESTRA CHE ALL’ESTREMA SINISTRA?
Giulietto Chiesa – Putin “piace” a destra, in Europa, perché è questa Europa che non piace a milioni di europei. E’ naturale che molti – che si trovano di fronte a un’Europa nemica, guardino alla Russia come a un possibile alleato e partner. Aggiungo che questa Russia, che vuole conservare la propria tradizione, i propri valori, la propria storia, appare a molti più amica che non la globalizzazione e l’omogeneizzazione selvaggia imposta in Occidente dal pensiero unico americano. A sinistra il panorama è variegato. C’è chi ha già assorbito il pensiero unico e quindi preferisce mettere l’accento sul “dittatore”. Per costoro c’è la magistrale risposta di Luciano Canfora: “Il problema vero è che il tiranno è un’invenzione, una creazione politico-letteraria. Quando il suo potere si dimostra durevole, si deve realisticamente riconoscere che il tiranno (termine impreciso e iperbolico) è qualcuno che ha dalla sua un pezzo più o meno grande, talvolta molto grande, della società”.

Leonardo Coen – Un giorno Putin, nell’imperiale salone di San Giorgio del Cremlino, davanti alla nuova nomenklatura del Paese, ai più potenti cioè dei siloviki, degli oligarchi e dei dirigenti di un apparato statale sterminato e onnipotente, spiega la ragione intrinseca della sua crociata per riconquistare gli spazi vitali (e virtuali) della Grande Madre Russia, spiegò che “o rimaniamo una nazione sovrana, o ci dissolviamo senza lasciar traccia e perdiamo la nostra identità”. Visione apocalittica, certo, ma lui intendeva spronare l’élite del potere e il popolo a contrastare le oscure trame di un Occidente che vorrebbe “smembrarci”, come successe con la Jugolavia, “se per qualche nazione europea l’orgoglio nazionale è da tempo un concetto dimenticato e la sovranità un lusso eccessivo, per la Russia la vera sovranità è assolutamente necessaria alla sua sopravvivenza!” (discorso del 4 dicembre 2014 all’assemblea federale). Parole forti, dall’afflato patriottico. All’estrema destra piacciono. Sono la bussola che indica sicurezza, indipendenza, patriottismo, ossia la difesa della patria dallo straniero; e che esaltano il militarismo. Putin il Conservatore. Anche all’estrema sinistra ci si affida a Putin per essere aiutati a combattere il potere sovranazionale dell’Ue, per affondare l’Euro, per rivendicare il potere dal basso, contrapposto al potere del capitalismo selvaggio che ha prodotto la malefica globalizzazione. Sanno che Putin li considera “utili idioti” (lo diceva Lenin) e che lui li strumentalizza per destabilizzare l’Europa. Corrono il rischio. Non importa il mezzo, ma il fine. Quello di Putin è indebolire l’Europa.
di F. Q. | 12 marzo 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/12/putin-crisi-kiev-nemtsov-coen-zar-fallito-chiesa-russia-attacco/1485923/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-03-12
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:00:18 pm »

IL VERTICE
Tsipras da Putin «per un nuovo inizio nei rapporti con Mosca»
Il premier greco: «Insieme, stabilità nella regione».
Il presidente russo evoca «radici spirituali comuni».

Ministro: «Verso alleggerimento embargo».
Giù la Borsa di Atene

Di Redazione Online

«Lo scopo della mia visita è cercare insieme di dare un nuovo inizio ai nostri rapporti per il bene di entrambi i popoli», ha affermato il premier greco, Alexis Tsipras, incontrando Vladimir Putin, al Cremlino. Il presidente russo ha sottolineato le «radici spirituali comuni» tra Russia e Grecia, accomunate dalla fede ortodossa. «Mi fa piacere - ha detto - incontrarla alla vigilia della Pasqua ortodossa», che è domenica prossima. «Questa è la nostra festa comune», ha spiegato Putin. E il capo del governo greco (che si è presentato all’incontro senza cravatta) ha sottolineato che lo sviluppo dei rapporti bilaterali favorirà «stabilità e sicurezza, in senso ampio, nella regione». E ha rimarcato i profondi legami tra i popoli dei due Paesi. In precedenza, fonti del governo greco avevano precisato che Atene non aveva chiesto a Mosca alcun aiuto finanziario, sostenendo che il Paese intende «risolvere le questioni del debito e finanziarie con l’Eurozona».

Il colloquio
«Dobbiamo trovare un modo per far avanzare le relazioni bilaterali», ha dichiarato il presidente russo all’inizio del colloquio. «La Grecia ha relazioni di lunga data con la Russia che oggi io sono qui per rinnovare», ha affermato il premier greco. L’agenda del colloquio include la cooperazione nei settori dell’energia, degli investimenti, commercio, turismo e agricoltura. Il quotidiano russo Kommersant ieri anticipava che in discussione ci sarebbe stata la possibilità di uno sconto del gas russo e nuovi prestiti in cambio dell’apertura di Atene a investimenti negli asset del Paese.

Gasdotto
Tra i dossier in agenda dell’incontro anche l’adesione di Atene al nuovo gasdotto russo-turco. La Russia, intanto, avrebbe preparato una serie di proposte relative al possibile alleggerimento dell’embargo alimentare nei confronti della Grecia, secondo quanto ha detto il ministro dello Sviluppo economico Aleksei Ulyukayev.

Borsa giù
Nei giorni scorsi Tsipras ha ribadito che la Grecia è contraria alle misure restrittive imposte alla Russia, che a sua volta potrebbe alleggerire il bando sulle importazioni di frutta dalla Grecia. La Borsa di Atene non scommette sulla visita del premier greco: l’indice Ftse Athex cede lo 0,76% a 231,25 punti, mentre il Composite cede lo 0,89% a 770,52 punti.

8 aprile 2015 | 15:14
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_08/tsipras-mosca-incontra-putin-3c0a50b0-ddef-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 18, 2015, 04:42:08 pm »

Grecia: Spiegel, Atene e Mosca verso un accordo miliardario su gasdotto
Il governo di Atene potrebbe ottenere 5 miliardi di euro per i diritti di transito del Turkish Stream.
In ballo anche un accordo da 10 miliardi con la Cina per il Pireo

18 aprile 2015

Mentre l'Unione Europea invoca riforme e rigore, la Grecia prova a rompere l'assedio e aspira ad incassare fino a cinque miliardi di euro attraverso un accordo con la Russia. E' quanto si legge sul sito della rivista tedesca 'Der Spiegel', secondo cui i soldi, fra i tre ed i cinque miliardi di euro, verrebbero anticipati a Atene per i diritti di transito del futuro gasdotto Turkish Stream, che la Russia intende costruire attraverso Turchia e Grecia per fornire gas all'Europa. L'operazione, sosterrebbe un alto rappresentante di Syriza coinvolto nei negoziati con Mosca, potrebbe cambiare radicalmente la situazione greca.

L'accordo tra la Russia e la Grecia, si legge ancora, sarà probabilmente firmato martedì prossimo. Del progetto si è discusso nei colloqui durante le recente visita a Mosca del capo del governo greco, Alexis Tsipras. In base ai piani, il gasdotto sarà operativo dal 2019.

Ma la strategia delle nuove alleanze avviata dal governo greco alla ricerca di nuove risorse porta anche verso la Cina.  Il settimanale Karfi, citando funzionari governativi, scrive che Atene spera in un prestito da 10 miliardi di euro da parte della Cina come pagamento anticipato per l'impiego futuro del porto del Pireo e per l'investimento nel sistema ferroviario nazionale. Se le operazioni dovessero andare in porto, i rapporti tra la UE e Atene andranno necessariamente rivisti.

 © Riproduzione riservata
18 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/04/18/news/grecia_spiegel_atene_e_mosca_verso_un_accordo_miliardario_su_gasdotto-112274198/?ref=HREC1-2
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:19:11 pm »

Primo piano Intervista con Vladimir Putin
Putin: «Stiamo mirando alla parità strategica con l’America»
«Svilupperemo il nostro potenziale offensivo e penseremo a sistemi in grado di superare la difesa antimissilistica degli Usa»

Di Paolo Valentino

Sono quasi le 2 del mattino quando arriviamo alla fine dell’intervista. Vladimir Putin ha risposto per poco meno di due ore alle nostre domande. «Presidente - chiede il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana - c’è una cosa della quale si rammarica più di tutto nella sua vita, quella che lei considera un errore che non vorrebbe mai più ripetere?».
Il presidente russo si aggiusta sulla poltrona, gli occhi sembrano farsi più brillanti. Resta per qualche secondo in silenzio, poi con la sua voce sottile e sempre a basso volume, dice: «Sarò assolutamente sincero con voi. Non posso adesso ricordare qualcosa. Evidentemente il Signore ha costruito la mia vita in modo tale che non ho niente da rimpiangere». Dopo più di quindici anni al vertice della Russia da presidente o primo ministro, dopo 5.538 giorni al potere, Vladimir Putin non si pente di nulla.

Due ragazze dello staff presidenziale ci hanno accolti all’ingresso della Torre Spasskaya, di fronte alla cattedrale di San Basilio, scortandoci dentro le mura del Cremlino fino al Palazzo del Senato, dove Putin ha il suo ufficio. Il luogo preparato per l’intervista era la Predstavitelskij Zal, la stessa sala di rappresentanza dove in marzo Putin ha ricevuto Matteo Renzi. È uno spazio ovale, le pareti color verde pallido, la volta a cupola, le decorazioni in stucco bianco e oro. Dalle nicchie poste agli angoli, le statue in bronzo di quattro imperatori russi dominano la scena: Pietro il Grande, Caterina II, Alessandro II e Nicola I. Previsto per le 19, l’inizio dell’intervista è scivolato di ora in ora.

Finalmente, alle 23:30, è arrivato il portavoce Dmitri Peshkov. Si è scusato per il ritardo, che ha attribuito a impegni di governo e ci ha detto che il presidente era pronto. Vladimir Putin è entrato dalla porta in fondo. Vestito di blu, camicia azzurra, cravatta blu con motivi stampati, fresco nonostante l’ora, il volto forse un po’ troppo levigato. Ha salutato cortesemente. Poi ci ha invitati a sedere.
Signor presidente, la Russia ha avuto con l’Italia rapporti sempre intensi e privilegiati sia sul piano economico che politico. La crisi ucraina e le sanzioni però hanno gettato un’ombra su queste relazioni. La visita in Russia del presidente del Consiglio Matteo Renzi, nonché quella sua del 10 giugno a Milano possono invertire in qualche modo questa tendenza e a quali condizioni?
«Non è stata colpa della Federazione Russa se i rapporti con i Paesi dell’Unione Europea si sono deteriorati. Non siamo stati noi a introdurre certe limitazioni nel commercio e nell’attività economica. È stato fatto contro di noi e siamo stati costretti ad adottare contromisure. Però i rapporti tra Russia e Italia effettivamente hanno sempre avuto carattere privilegiato sia in politica che nell’economia. Negli ultimi anni il volume dell’interscambio è cresciuto di 11 volte, toccando quasi 49 miliardi di dollari. In Russia operano 400 aziende italiane. Stiamo lavorando attivamente insieme nel settore dell’energia. L’Italia è il terzo acquirente dei nostri prodotti energetici. Ma cooperiamo anche nell’alta tecnologia, dallo spazio all’aeronautica. Quasi 1 milione di turisti russi sono stati in Italia l’anno scorso e vi hanno speso circa 1 miliardo di euro. Sul piano politico ci sono sempre stati rapporti di fiducia. Fu un’idea dell’Italia, allora il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, la creazione del Consiglio Nato-Russia, un organo di consultazione che è diventato fattore importante di garanzia della sicurezza in Europa. In questo senso l’Italia ha dato e dà un contributo notevole allo sviluppo del dialogo tra la Russia e l’Europa e anche con la Nato in generale. Tutto ciò crea rapporti speciali tra i nostri due Paesi. E la visita dell’attuale presidente del Consiglio italiano in Russia è stata un segnale molto importante della disponibilità dell’Italia all’ulteriore sviluppo di questi rapporti. Noi siamo pronti e disposti ad andare avanti tanto quanto lo saranno i partner italiani. Spero che anche il mio viaggio a Milano serva a questi obiettivi».

Lei ha conosciuto molti premier italiani: Prodi, Berlusconi, D’Alema, Amato, Monti, Letta, Renzi. Con chi di loro c’è stata più comprensione reciproca? E quanto incidono i rapporti personali nelle relazioni internazionali?
«Quale che sia la carica che ricopriamo, siamo prima di tutto esseri umani e la fiducia tra le persone è un fattore molto importante nel lavoro, nella costruzione dei rapporti fra gli Stati. Ma come mi ha detto una delle persone che lei ora ha menzionato, “lei probabilmente è l’unico ad avere rapporti di amicizia sia con Berlusconi che con Prodi”. Per me non è stato e non è difficile. Le spiego perché: tutti i miei partner italiani si lasciavano guidare dagli interessi dell’Italia e del popolo italiano e consideravano che per garantirli nel modo giusto bisogna mantenere buoni rapporti con la Russia. Noi lo capivamo. Era la cosa più importante. Ho sempre sentito il desiderio davvero sincero di costruire rapporti interstatali indipendentemente dalla congiuntura politica interna».

Vladimir Vladimirovic, il 10 giugno lei sarà a Milano in occasione della Giornata della Russia all’Expo 2015, il cui tema è «Nutrire il pianeta. Energia per la vita». Qual è il contributo della Russia a questa causa? E quale significato ha il tema dell’Expo per i rapporti tra gli Stati?
«È senza alcun dubbio una delle questioni chiave oggi davanti all’umanità e molto bene hanno fatto gli organizzatori a scegliere questo tema, attirando l’attenzione a ricercare i modi per risolverlo. La popolazione del pianeta cresce, nel 2050 raggiungerà 9 miliardi. Già oggi secondo i dati dell’Onu 850 milioni di persone nel mondo soffrono della mancanza di cibo, praticamente fanno la fame, fra queste 100 milioni di bambini. Da come sarà risolta dipenderanno tante altre questioni. Intendo l’instabilità politica di intere regioni del mondo, il terrorismo e così via, tutto è interconnesso. L’onda dei migranti illegali che sta investendo oggi l’Italia e tutta l’Europa è legata anch’essa a tutto questo. Quanto al contributo della Russia, noi spendiamo oltre 200 milioni di dollari per i programmi alimentari dell`Onu. Molti Paesi del mondo ottengono l’aiuto necessario usando risorse russe. Dedichiamo grande attenzione allo sviluppo dell’agricoltura. Nonostante tutte le difficoltà di oggi nell’economia russa, il nostro settore agricolo cresce a ritmi accelerati, l`anno scorso quasi del 3,4 -3.5%. La Russia è al terzo posto nel mondo per l’esportazione dei cereali. E infine il suo potenziale è colossale: abbiamo i campi arati più grandi del mondo e le più grandi riserve d`acqua dolce».

Circola l’opinione che la Russia si senta «tradita dall’Europa come da un’amante». Cosa non va oggi in queste relazioni? Cosa si aspetta dall’Europa sulle sanzioni?
«Se lei ha certi rapporti con una donna senza assumersi degli impegni, allora non ha alcun diritto di chiedere alla sua partner di assumersi a sua volta impegni nei suoi confronti. Noi non abbiamo mai trattato l’Europa come un’amante. Ora parlo molto seriamente. Abbiamo sempre proposto rapporti seri. Ma oggi ho l’impressione che sia l’Europa a cercare di costruire con noi rapporti puramente su base materiale ed esclusivamente a proprio favore. Parlo per esempio dell’energia, dell’accesso sui mercati europei negato alle nostre merci nel campo nucleare, nonostante i tanti accordi. Oppure della riluttanza a riconoscere la legittimità delle nostre azioni e a collaborare con le unioni di integrazione nello spazio post-sovietico. Mi riferisco all’Unione doganale che ora è diventata l`Unione economica euroasiatica. Perché quando si integrano i Paesi europei è considerato normale, ma se noi nello spazio post-sovietico facciamo lo stesso si cerca di interpretarlo come il desiderio della Russia di ricostruire una specie di impero? Non capisco questi approcci. Tempo fa ho parlato della necessità di creare uno spazio economico unico da Lisbona a Vladivostok. Nessuno pone obiezioni, tutti dicono: bisogna cercare di farlo. Ma in realtà cosa succede? Prendiamo ad esempio l’Ucraina. Nell’accordo di Associazione Ucraina-Ue non si richiede a Kiev di integrare i propri sistemi energetici all’Europa, ma questa possibilità per il futuro è prevista. Se ciò dovesse succedere, saremmo costretti a spendere tra gli 8 e i 10 miliardi di euro per costruire nuove linee elettriche per garantire la fornitura interna alla Russia. Perché farlo? Questo partenariato orientale dell’Ue vuole integrare tutto lo spazio post-sovietico nell’unico spazio economico con l’Europa, lo ripeto, da Lisbona a Vladivostok, ovvero creare nuove frontiere tra la Russia di oggi e la restante parte occidentale, comprese Ucraina e Moldova?».

Ma le vostre azioni in Ucraina sono all’origine di tutta la crisi nei rapporti con l’Occidente...
«Quali sono le origini della crisi in Ucraina? La causa, a quanto pare, non giustifica la tragedia di oggi, con un gran numero di vittime nel Sud-Est. Attorno a cosa è nata questa diatriba? L’ex presidente Yanukovich disse che aveva bisogno di riflettere sulla firma dell’Accordo d’associazione Ucraina-Ue, forse ottenere dei cambiamenti e consultarsi con la Russia, il partner principale dell’Ucraina. Sotto questo pretesto sono cominciati i disordini a Kiev, appoggiati attivamente dai nostri partner sia europei che americani. Poi è venuto il colpo di Stato, un’azione assolutamente anticostituzionale. Le nuove autorità hanno dichiarato di voler firmare l’accordo, rinviandone però l’applicazione al 1° gennaio 2016. Ma allora a cosa sono serviti il colpo di Stato, la guerra civile, la disfatta economica, se l’esito è stato lo stesso? Non eravamo contrari alla firma dell’accordo tra Ucraina e Ue. Però, certo, volevamo partecipare all’elaborazione delle decisioni finali, considerando che l’Ucraina fa parte della nostra zona di libero scambio e ci sono impegni reciproci che ne derivano. Come si può ignorare questo fatto e non rispettarlo? Lo chiedo a molti miei colleghi, inclusi europei e americani».

E che cosa le dicono?
«Che la situazione è andata fuori controllo. Il 21 febbraio 2014 è stato firmato un accordo tra il presidente Yanukovich e l’opposizione sul futuro del Paese, incluse le elezioni. Se ne doveva ottenere l’attuazione tanto più che tre ministri degli Esteri europei lo hanno firmato come garanti. Se americani ed europei avessero detto a chi compiva azioni anticostituzionali, “non vi sosterremo in alcuna circostanza se andate al potere con un golpe, andate alle elezioni e vincetele”, la situazione si sarebbe sviluppata in modo assolutamente diverso. Quindi io credo che la ragione di questa crisi sia completamente artificiale. E l’accompagnamento di questo processo è inaccettabile. Ripeto, non era nostra intenzione, noi siamo costretti a reagire a quanto sta succedendo».

Non le sembra che in Ucraina sia giunto il momento per la Russia di prendere l’iniziativa nelle proprie mani con un gesto di disponibilità?
«Lo stiamo già facendo. Considero il documento concordato a Minsk, il cosiddetto Minsk 2, l’unica via per la risoluzione del problema. Non l’avremmo mai concordato se non lo considerassimo corretto, giusto, equo. Noi facciamo e continueremo a fare tutto quanto dipende da noi per influenzare le autorità delle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e di Lugansk. Ma non tutto dipende da noi. Oggi i nostri partner, sia in Europa sia negli Stati Uniti, devono esercitare un’adeguata influenza sulle autorità di Kiev perché facciano ciò che è stato concordato a Minsk. Il punto chiave della soluzione politica è che bisognava nella prima fase cessare le azioni militari, ritirare le armi pesanti. In generale è stato fatto. Ci sono scontri a fuoco, purtroppo, anche vittime, ma non ci sono grandi azioni militari. Le parti sono separate. Ora bisogna cominciare a realizzare gli accordi di Minsk. Concretamente, bisogna fare una riforma costituzionale garantendo i diritti d’autonomia ai rispettivi territori delle Repubbliche non riconosciute. Poi si deve votare una legge per le elezioni municipali e una per l’amnistia. Tutto questo in coordinamento con Donetsk e Lugansk. Il problema è che le autorità di Kiev non vogliono nemmeno sedersi allo stesso tavolo negoziale con loro. E su questo non abbiamo influenza, solo i nostri partner europei e americani ce l’hanno. Non c’è bisogno di impaurirci con le sanzioni. Bisogna far partire la rinascita economica e sociale di questi territori, dov’è in corso una catastrofe umanitaria. Ma tutti fanno finta di nulla. La Russia è interessata e cercherà di ottenere una realizzazione completa e incondizionata di tutti gli accordi di Minsk, non esiste altra strada. Ricordo anche che i leader delle Repubbliche autoproclamate hanno dichiarato che, a certe condizioni, sono pronti a esaminare la possibilità di considerarsi parte dello Stato ucraino. Questa posizione dev’essere accolta come condizione preliminare per avviare serie trattative».

Ci sta dicendo che nei territori dell’Est dell’Ucraina non preparate uno scenario di annessione come in Crimea?
«Tutte le nostre azioni, incluse quelle di forza, non avevano come obiettivo di alienare la Crimea dall’Ucraina, ma di dare alla gente che vive lì la possibilità di esprimere la propria opinione su come vogliono organizzare la propria vita. Se questo è stato permesso agli albanesi del Kosovo ed ai kosovari perché vietarlo a russi, ucraini e tartari che vivono in Crimea? Credo che un osservatore in buona fede non possa non vedere che la gente ha votato quasi all’unanimità a favore della riunificazione con la Russia. La soluzione alla questione della Crimea è fondata sulla volontà del popolo. A Donetsk e a Lugansk la gente ha votato per l’indipendenza e lì la situazione è diversa. Ma più importante è rispettare umori e scelte della gente. E se qualcuno vuole che questi territori restino all’interno dell’Ucraina, bisogna dimostrare a questa gente che in uno Stato unito la vita sarà migliore, che sarà garantito il futuro dei loro bambini. Ma persuaderli con le armi è impossibile. Sono questioni che si possono risolvere solo in modo pacifico».

Parlando di pace presidente, i Paesi dell’ex Patto di Varsavia che oggi sono membri della Nato, come i baltici e la Polonia, si sentono minacciati dalla Russia. L’Alleanza ha deciso di creare una forza dissuasiva di pronto intervento per venire incontro a queste preoccupazioni. Ha ragione l’Occidente a temere di nuovo l’«orso russo»? E perché la Russia assume toni così conflittuali?
«La Russia non parla in tono conflittuale con nessuno e in queste questioni, come diceva Otto von Bismarck, “non sono importanti i discorsi, ma il potenziale”. Cosa dicono i potenziali reali? Le spese militari degli Stati Uniti sono superiori alle spese militari di tutti i Paesi del mondo messi insieme. Quelle della Nato sono 10 volte superiori a quelle della Federazione Russa. La Russia praticamente non ha più basi militari all’estero. La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa del mondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza. Le faccio degli esempi. Vicino alle coste della Norvegia ci sono i sommergibili americani in servizio permanente. Il tempo che ci mette un missile a raggiungere Mosca da questi sottomarini è di 17 minuti. E volete dire che noi ci comportiamo in modo aggressivo? Noi non ci muoviamo da nessuna parte, è l’infrastruttura della Nato che si avvicina alle nostre frontiere. E’ la dimostrazione della nostra aggressività? Infine, gli Stati Uniti sono unilateralmente usciti dall’Accordo sulla difesa antimissile, l’Abm, pietra angolare su cui si basava gran parte del sistema di sicurezza internazionale. Un’altra prova di aggressività? Tutto quello che facciamo è rispondere alle minacce nei nostri confronti. E lo facciamo in misura limitata, ma tale da garantire la sicurezza della Russia. O qualcuno forse si aspettava un nostro disarmo unilaterale? Un tempo avevo proposto ai nostri partner americani di costruirlo insieme in tre il sistema di difesa anti-missile: Russia, Stati Uniti, Europa. La proposta è stata rifiutata. Allora ci siamo detti, questo è un sistema costoso e ancora non ne conosciamo l’efficacia. Ma per garantire l’equilibrio strategico, svilupperemo il nostro potenziale offensivo e penseremo a sistemi in grado di superare la difesa antimissilistica. E abbiamo fatto notevoli progressi in questa direzione».

Nega le minacce alla Nato?
«Solo una persona non sana di mente o in sogno può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Forse qualcuno può essere interessato ad alimentare queste paure. Forse gli Stati Uniti vogliono evitare il riavvicinamento fra l’Europa e la Russia. Voglio dirvi: non bisogna aver paura della Russia. Il mondo è talmente cambiato, che oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».

Sull’Iran però collaborate con gli Usa. La visita di John Kerry a Sochi è stata un segnale di svolta, o ci sbagliamo?
«No, non vi sbagliate, avete ragione. Noi collaboriamo con gli Usa non solo sul programma nucleare iraniano, ma anche in altri settori molto importanti. Continuiamo il dialogo per il controllo degli armamenti. Siamo non solo partner, ma direi alleati nelle questioni della non-proliferazione delle armi di distruzione di massa e senza dubbio nella lotta contro il terrorismo. Ci sono poi altri settori di cooperazione. Ecco, il tema al quale è dedicata l’Expo di Milano è un altro esempio del nostro lavoro comune».

Vladimir Vladimirovich, il 9 maggio la Russia ha celebrato i 70 anni della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, che liberò il Paese e l’Europa dal nazismo. Nessun altro Paese ha pagato il prezzo di sangue pagato dalla Russia. Ma sulla Piazza Rossa insieme a lei non c’erano i leader occidentali. Ha considerato questa assenza una mancanza di rispetto verso il popolo russo? E cosa significa oggi per l’identità russa quella memoria?
«La guerra rappresenta una delle pagine tragiche della nostra storia. Noi nel commemorare tali giornate ovviamente pensiamo alla generazione che ci ha garantito libertà ed indipendenza, sconfiggendo il nazismo. Pensiamo anche che nessuno abbia il diritto di dimenticare questa tragedia, in primo luogo perché dobbiamo assicurare che non si ripeta più niente di simile. E non è un timore fondato sul nulla. Oggi per esempio c’è chi nega l’Olocausto. Si cerca di far diventare eroi nazisti o collaborazionisti. Il terrorismo di oggi in molte sue manifestazioni è simile al nazismo. I colleghi dei quali lei ha parlato semplicemente non hanno visto dietro l’attuale difficile congiuntura delle relazioni internazionali, cose molto più serie collegate non solo col passato, ma anche con la necessità di lottare per il nostro futuro comune. E’ stata una loro scelta. Ma la festa era soprattutto nostra. Capisce? Abbiamo ricordato in quei giorni non solo chi ha lottato contro il fascismo nell’Unione Sovietica, ma anche tutti i nostri alleati, i partecipanti alla Resistenza nella Germania stessa, in Francia e in Italia. Rendiamo merito a tutta la gente che non s’è risparmiata nella lotta al nazismo. Certo noi sappiamo che è stata l’Unione Sovietica a dare il contributo decisivo a questa vittoria, sacrificando più vite umane. Per noi non è semplicemente una vittoria militare ma anche morale. Quasi ogni nostra famiglia ha perso i propri cari. E’ impossibile scordarsene».

Lei è un leader molto popolare in Russia ma spesso, all’estero e nel suo Paese, viene accusato di essere autoritario. Perché è così difficile in Russia fare opposizione?
«Che c’è di difficile? Se l’opposizione prova che può risolvere i problemi di un distretto, una regione oppure del Paese penso che la gente lo vedrà sempre. Il numero dei partiti politici da noi è aumentato di parecchie volte, negli anni precedenti abbiamo liberalizzato le regole per la loro costituzione e la loro crescita sulla scena politica regionale e nazionale. Si deve solo essere validi e sapere lavorare con l’elettorato, con i cittadini».

Ma perché i principali canali Tv russi non fanno quasi mai interviste con i rappresentati dell’opposizione?
«Se sapranno attirare interesse, penso che saranno intervistati di più. A proposito della politica posso dire che, come sappiamo, nella lotta con gli avversari si ricorre a diversi mezzi. Basta ricordare la recente storia dell’Italia».

6 giugno 2015 | 07:23
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Da - http://www.corriere.it/
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:42:25 pm »

Putin all'Expo: "Italia grande partner"
Il presidente russo a Milano incontra il premier Matteo Renzi: "Tra i nostri Paesi esistono stretti rapporti da oltre 500 anni".
Il premier italiano: "Spero di darle un dispiacere ai Mondiali 2018"

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10 giugno 2015

MILANO - "Voglio ringraziare il presidente Renzi per aver partecipato al Russian National day qui all'Expo. Fra Italia e Russia esistono stretti rapporti da oltre 500 anni e insieme cooperiamo nell'arena internazionale, perseguendo il bene dei rispettivi Paesi". Il presidente russo, Vladimir Putin, a Milano per la giornata nazionale della Russia all'Expo, ha salutato il premier Matteo Renzi e ha parlato dei rapporti tra i due Paesi: "Siamo stati fra i primi a sostenere la domanda italiana di poter ospitare l'edizione 2015 dell'Expo - ha aggiunto il presidente russo - e siamo stati fra i primi a completare il nostro padiglione che è di oltre 4mila metri quadrati e mette in mostra il meglio del nostro Paese", ha proseguito, sottolineando che "L'Italia è un grande partner della Russia in Europa".

Terrorismo. "Dall'Expo tutti insieme dobbiamo far ripartire la tradizionale amicizia tra Italia e Russia, per affrontare le sfide in cui abbiamo posizioni divergenti e quelle dove siamo insieme. Il lavoro che possiamo fare insieme ha radici antiche", ha detto Matteo Renzi, accogliendo il presidente russo. Expo, ha ribadito Renzi, è anche un'occasione per "rendere giustizia ai prodotti alimentari italiani e quelli russi". È quindi "uno scambio che si gioca sui temi agroalimentari, ma non è solo questo", ha proseguito il presidente del Consiglio, ricordando l'intenso scambio culturale tra i due paesi che "ha fatto grande il rapporto tra Russia e Italia". In proposito il premier ha citato la frase di Dostoevskij secondo cui "è la bellezza che salva il mondo" e che è stata scritta proprio durante un soggiorno in Italia del grande letterato russo. Nel suo intervento, il premier italiano ha poi ribadito l'impegno che i due Paesi devono condividere l'impegno contro la minaccia del terrorismo: "Viviamo un quadro internazionale difficile, anche per questioni che non ci vedono uniti, ma che dovranno vederci sempre più dalla stesa parte, a cominciare dalla minaccia terroristica globale".

Mondiali 2018. Poi il premier italiano ha scherzato parlando di calcio, andando al di là delle polemiche che hanno colpito la Fifa in merito alle assegnazioni dei mondiali. Renzi, rivolgendosi al presidente russo, ha citato espressamente l'appuntamento con i mondiali del 2018 in Russia, ai quali ha detto che vorrà presenziare, sperando di dare "qualche delusione" sportiva al padrone di casa.

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/10/news/putin_in_visita_in_italia-116507047/?ref=HRER1-1
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 27, 2015, 10:40:40 am »

Putin chiama Obama per parlare di Ucraina, Is, Iran
Segnali di disgelo del Cremlino. Il presidente russo telefona alla Casa Bianca per affrontare i temi più caldi dell'agenda politica internazionale

26 giugno 2015

MOSCA - Vladimir Putin tende la mano a Barack Obama. Il presidente russo - fa sapere Washington - ha telefonato all'inquilino della Casa Bianca per discutere dei dossier più caldi a partire dalla crisi ucraina, che ha riprecipitato i rapporti tra Mosca e l'Occidente, Washington in primis, al clima della Guerra Fredda ma anche di Stato islamico e del programma nucleare iraniano, a 4 giorni dalla scadenza per l'intesa definitiva tra Teheran e i "5+1".

"Il presidente Obama ha ribadito la necessità che la Russia rispetti la parte di suoi impegni previsti dagli accordi di Minsk, incluso il ritiro di tutte le truppe e l'equipaggiamento di Mosca dal territorio ucraino", si legge in una nota. Putin e Obama hanno poi concordato sulla necessità di contrastare l'Is e sull'aggravarsi della situazione in Siria" (la Russia è uno degli ultimi alleati rimasti, insieme all'Iran, a Bashar Assad)".

Quanto all'Iran i due leader hanno "sottolineato l'importanza di continuare a dimostrare un fronte unito tra i "5+1" nei negoziati in corso per impedire che l'Iran acquisisca la bomba atomica". Al di là della prosa formale del comunicato ufficiale, la telefonata di Putin rappresenta un primo timido passo verso il disgelo, dopo giorni in cui i rapporti tra i due Paesi erano precipitati all'insegna di minacce di riarmo da entrambe le parti.

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26 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/26/news/putin_chiama_obama_per_parlare_di_ucraina_is_iran-117713618/?ref=HREC1-10
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