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Autore Discussione: La riforma che uccide l'università  (Letto 3002 volte)
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« inserito:: Luglio 22, 2008, 02:09:42 pm »

22/7/2008
 
La riforma che uccide l'università
 
 
 
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
Le polemiche sulla giustizia hanno messo in secondo piano la discussione sulla sostanza della manovra finanziaria varata dal governo. Alcune misure riguardano il mondo dell’Università e della ricerca scientifica. In primo luogo, viene deciso un contenimento progressivo dei finanziamenti pubblici (fondo ordinario) per un totale di circa 1,5 miliardi nel prossimo quinquennio. Le università avranno la facoltà di trasformarsi in fondazioni private e ciò, nelle parole della ministra dell’Università, Mariastella Gelmini, dovrebbe favorire la raccolta di contributi e donazioni da parte dei privati. In secondo luogo, viene stabilito un blocco parziale del turn-over: fino al 2011 ogni 10 docenti che cesseranno il servizio ne saranno assunti due. Nel 2012, 5 ogni 10. Tenendo conto delle stime fornite dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario sulle uscite previste nel prossimo quadriennio (Rapporto 2007), ciò significa una riduzione di oltre 7.200 unità: quasi il 12% del corpo docente. La ministra ha presentato questi provvedimenti nei termini di una sfida positiva: «Le università, come il resto dello Stato, dovranno spendere meno, ma potranno spendere meglio». L’opinione dei rettori è, naturalmente, ben diversa: a loro avviso i tagli proposti dal governo sono di «portata (...) dirompente» e preannunciano un «progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato».

In realtà, quello che lascia più perplessi è la mancanza di lungimiranza di queste misure, tipiche di un Paese che sembra ormai incapace di pensare al proprio futuro. Negli ultimi anni il nostro sistema universitario è stato sottoposto ad un faticoso processo di riforma che ha coinvolto tutti i docenti. I frutti si iniziano ad intravedere e un sistema di valutazione nazionale - richiesto dagli stessi rettori - che collegasse i finanziamenti alle prestazioni dei vari Atenei, rappresenterebbe un significativo passo avanti. Quello che preoccupa è la mancanza di consapevolezza dello stato penoso in cui versa l’Università italiana, a causa di un cronico sotto-finanziamento e un deficit di ricambio del personale docente (tra i più vecchi d’Europa). Due difetti che la manovra va notevolmente ad aggravare, con risultati che rischiano di essere disastrosi per il nostro Paese. Nei nuovi scenari della competizione internazionale, lo sviluppo è legato a doppio filo agli investimenti nella ricerca e nella formazione.

Sotto questo profilo, l’Italia non soltanto è indietro rispetto alle altre economie industrializzate, ma rischia di aggravare ulteriormente il suo ritardo. Secondo l’ultimo rapporto Ocse (Education at a Glance 2007) spendiamo per l’università una quota pari allo 0,8% del Pil, contro una media dei paesi avanzati dell’1,3. Per ogni studente vengono impegnati mediamente 7.700 dollari (i dati sono riferiti al 2004 e calcolati a parità di potere di acquisto), contro una media Ocse di 11.100 (Spagna 9.400; Germania 12.200; Francia 10.700). Se è vero che i docenti di ruolo sono cresciuti nel corso degli ultimi 10 anni (del 26% tra il 1997 e il 2007: dati Miur), è però vero che siamo ancora molto distanti da un rapporto soddisfacente con il numero di iscritti. Nel 2005 in Italia c’erano 21,4 studenti per ogni docente universitario, contro una media dei paesi avanzati di 15,8 (Spagna 10,6; Germania 12,2; Francia 17,3). Peggio di noi fa soltanto la Grecia (30,2). In una recente intervista la ministra Gelmini - dopo aver rassicurato gli studenti che i tagli non si ripercuoteranno sulle tasse d’iscrizione - ha riassunto in quattro parole il futuro che si immagina per l’università italiana: internazionale, eccellente, meritocratica e trasparente. In poche parole, un sistema con pochi soldi ma ispirato da criteri di professionalità e competenza. Questi criteri, che condividiamo, dovrebbero però valere per tutti. A partire dalle più alte cariche di governo. Per il momento, per sognare, basta collegarsi al sito del governo spagnolo e scorrere la biografia della ministra dell’Università e dell’innovazione: dottore di ricerca in biologia molecolare, con un lungo curriculum di incarichi ai massimi livelli in prestigiose istituzioni pubbliche e aziende private che si occupano di ricerca e innovazione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 22, 2008, 11:07:03 pm »

Università, profondo rosso: «Con i tagli lezioni a rischio»

Luca Sebastiani


Università sul piede di guerra. A dir poco. Perchè quello che si sta per abbattere sugli atenei italiani è una finanziaria che per loro prevede molte lacrime e tanto sangue. Oggettivamente troppo, a sentire rettori, ricercatori, sindacato e opposizione, che esprimono seri dubbi anche sulla possibilità di trasformare le università italiane in fondazioni.

Il tutto è contenuto nel decreto legge 112, che in un colpo solo pratica un taglio orizzontale, cioè indefferenziato, di ben un miliardo e trecentomila euro per i prossimi cinque anni, di cui 462milioni per il solo 2009. Come faranno gli atenei a gestire l´ordinaria amministrazione già a partire dall´anno prossimo, è un mistero. E siccome il decreto, come dice il ministro ombra dell´Istruzione Maria Pia Garavaglia, è anche «molto confuso», le ricadute sono imprevedibili. Stipendi, borse di studio, assegni di ricerca, nessun capitolo di spesa è al riparo. Probabilmente per far fronte alle esigenze di funzionamento, gli atenei saranno costretti a far ricadere almeno in parte sugli studenti le conseguenze dei tagli della manovra scritta da Robin Hood Tremonti. È il documento approvato dalla Conferenza dei rettori italiani a dirlo, che in merito al provvedimento del governo, afferma che «determinerà inevitabilmente aumenti delle entrate proprie, ivi comprese le contribuzioni studentesche».

E non è finita qui, perchè le prime vittime della limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato al 20% del turn over, saranno proprio i giovani ricercatori «le cui possibilità di ingresso nel sistema universitario verrebbero drasticamente ridotte». Insomma, per la Conferenza dei rettori, con il provvedimento il governo porterà «inevitabilmente l´intero sistema universitario italiano al dissesto». Molte università sono già pronte alla battaglia, e se si pensa che per molto meno ai tempi della riforma Moratti i rettori minacciarono le dimissioni collettive, c´è da aspettarsi anche questa volta qualche protesta clamorosa. Già ieri l´assemblea generale straordinaria dell´Università la Sapienza di Roma ha chiesto al governo la sospensione delle misure, con alcune associazioni di docenti e ricercatori che hanno minacciato di non votare il bilancio preventivo per l´anno prossimo e, soprattutto, di bloccare l´anno accademico. Oggi stesso le misure di protesta verranno discusse a Roma in un´assemblea generale nazionale con rappresentanti di Università di tutto il Paese.

La mozione approvata ieri dalla Sapienza arriverà giovedì alla Conferenza dei rettori che contesta anche la possibilità prevista dal decreto di trasformare le università in fondazioni di diritto privato. Secondo la conferenza, infatti, «è impensabile che si possa trasformare responsabilmente un tema centrale e di valenza strategica come quello di un eventuale revisione istituzionale e organizzativa del sistema universitario sotto la minaccia di un tracollo annunciato». Ancora più duro su questo punto il sindacato, che ritiene anzi che sia proprio la privatizzazione il nocciolo del provvedimento del governo. I tagli, secondo Wolfango Pirelli, segretario nazionale della Flc-Cgil, «sembrano fatti apposta per spingere gli atenei verso la trasformazione in fondazioni». Il provvedimento lascia infatti alle università la possibilità di scegliere, ma per rimediare ai tagli, dice Pirelli, «è ovvio che vi saranno costretti». Il risultato sarebbe la scomparsa dell´università da interi territori. «Perchè se i grandi atenei riusciranno a trovare finanziamenti privati - dice la Garavaglia - molto più difficile sarà per quelli medio piccoli». Insomma, dice il ministro ombra del Pd, «tagli, confusione e nessuna prospettiva di sviluppo per un università come quella italiana che in Europa è già fanalino di coda». E mentre l´Università è al «collasso», fa notare Pina Picierno del Pd, il ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini sembra «disinteressarsene».

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.04   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 24, 2008, 06:47:53 pm »

Un colpo all’Università

Fabio Mussi


La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti. Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che sembrerebbe - sembrerebbe… - priva di senso, l’università e la ricerca scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona: costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma di investimenti.

Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore, ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica (era 1.4%anni fa).

Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10 miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India, a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente, clamorosamente meno delle loro sorelle europee. Nei venti mesi del governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro, norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento, ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre. Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata, accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti. Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza. Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli? Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera (che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei cittadini, mai e per definizione… Ma la trappola mortale per giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari, associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni, almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un emendamento: "Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e stampare la frase: fuga dei cervelli".

È evidente che tutta questa roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di Londra sul "Processo di Bologna" nel giugno 2007), e già molte università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura (anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli bighelloni). Si capisce l’idea del governo di destra: privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche otto per mille).

Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella scuola, nell’università, nella ricerca. Che qualità, merito ed efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come diceva Norman Mailer, un "fattoide", cioè una balla: Una balla di successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un valore. Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la conoscenza- non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è tornato il passato remoto con il "Lodo Alfano", un pezzo di diritto medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.

Pubblicato il: 24.07.08
Modificato il: 24.07.08 alle ore 10.24   
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