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Autore Discussione: LIDIA RAVERA.  (Letto 32572 volte)
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« inserito:: Luglio 13, 2007, 11:21:55 pm »

Chi picchia le donne

Lidia Ravera


La prima frase era veramente carina: «Nessun Dio autorizza un uomo a picchiare la donna». Sacrosanta, ben detta (io avrei usato l’articolo indeterminativo, nessun dio autorizza un uomo a piacchiare una donna, ma sono sfumature). La seconda frase era - nelle intenzioni - umoristica: «È una tradizione siculo-pachistana, che vuole far credere il contrario», e lì il ministro dell’Interno è scivolato in una trappola. Voleva dire che l’Italia non è la Svezia, che fino a qualche decina d’anni fa se un uomo tradiva la moglie erano fatti suoi se una donna tradiva il marito era la galera, voleva dire che in Sicilia se una ragazza veniva rapita a scopo di libidine poi doveva lasciarsi sposare se no era disonorata, voleva dire che ancora oggi gli uomini godono di libertà, rispetto, potere ben maggiori di quelli di cui godono le donne.

Voleva dire che se un uomo è scapolo è desiderato e conteso, se una donna è zitella è disprezzata e derisa, voleva dire che anche nel nostro sud, trent’anni fa, vent’anni fa, si usava la copertura della religione per discriminare le ragazze. Casta, pura, illibata, scortata dalle zie, condannata, condizionata oppure velata, infibulata, lapidata.

Sono variazioni significative ma sono variazioni di una stessa musica: Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, la donna, invece, è uguale sputata al demonio, sotto forma di Eva tentatrice. L’uomo ha il peccato originale che poverino non era poi neanche colpa sua, la donna è titolare di tutti i duplicati: è corrotta e corrompe, se ha il ciclo fa appassire i fiori, se sgarra la fai nera, se la sposi diventa roba tua.

Subisce, la donna, ancora oggi, buona parte degli effetti collaterali del suo statuto di oggetto, di cosa rosa, puttana e graziosa, di essere inferiore alla persona. Da noi, fra pizza tanga e chiese, come da loro, fra montone stufato burka e moschee.

Voleva dire tutto questo, il dottor Sottile? Certo che no. Voleva dire molto meno, ma ha commesso l’errore di nominare una regione. E questo, nell’Italia disunita delle suscettibilità locali, non si può fare. Non puoi dire falso e cortese a un piemontese, come non puoi dire che abita una terra di mafia a un siciliano. Ci sarà sempre un torinese che si dichiara sincero e cafone e un siciliano che si dichiara onesto e legalitario. E avranno assolutamente ragione. Peccato che, negando la base di realtà che corre sotto le barzellette (l’umorismo per questo è crudele), rinuncino a prendere atto del problema e a darsi da fare per risolverlo. Così è con le donne, ahimè. Tutte insorgono, attrici e politiche, damine e ministre, su base locale e sessuale, ma nessuna dice che lo specchio dell’Islam più integralista e arretrato riflette una tendenza ancora operante anche nel primo mondo: discriminare le donne con l’alibi della religione. Anche cattolica. Basta prestare ascolto a Benedetto sedicesimo, che le donne le vuole al servizio della specie, senza diritto di interrompere una gravidanza indesiderata come di farsi aiutare dalla scienza per ottenere una gravidanza desiderata e impossibile per vie naturali.

Le grandi religioni monoteiste non amano le donne. Gli interpreti integralisti di tutte le grandi religioni monoteiste non amano l’amore. Sono, gli integralisti, quei personaggi così certi di essere nel giusto e così bisognosi di coltivare questa certezza, che, di regola, finiscono di essere chiusi all’altro da sé, nemici di chiunque sia diverso, intransigenti, sordi per scelta e volontariamente ciechi, sepolti nella loro presunzione di innocenza, immodificabili. Una battaglia collettiva, bipartisan e cattomusulmana, contro gli integralismi, farebbe un gran bene a tutto il nostro paese, da Bolzano a Siracusa. Una battaglia contro quelli che picchiavano le donne e non le picchiano più, ma vorrebbero picchiarle ancora. Contro quelli che continuano a picchiare le donne ma non lo dicono più. Contro quelli che picchiano quelli che picchiano le donne, pur di picchiare qualcuno.


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Pubblicato il: 13.07.07
Modificato il: 13.07.07 alle ore 7.49  
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« Ultima modifica: Ottobre 17, 2009, 10:15:02 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 25, 2007, 04:29:30 pm »

Lo scatto della paura

Lidia Ravera


Due grandi occhi azzurri, lineamenti regolari, un naso delicato, la fronte alta, i capelli biondi, la bocca ben disegnata, il collo fermo della piena giovinezza: è il viso di una ragazza molto bella, quello che fissa l’obiettivo, ma il corpo su cui sembra appoggiato è il corpo di una vecchia emaciata, di un’internata nei campi di sterminio, una di quelle per cui la liberazione è arrivata troppo tardi. I seni sono due piccole sacche vuote, le gambe non hanno muscoli, i glutei non hanno carne, il pube è glabro, il ventre magro, le mani e i piedi sproporzionati.

L’immagine è sconvolgente per questo: è la bellezza orribile, un ossimoro. Per un attimo, quello in cui Oliviero Toscani scatta la fotografia, la ragazza (una modella, che sa come si sta in posa) prova ancora a sedurre.

Subito dopo, è evidente nello sguardo sbigottito e già assente, nello stato di avanzato impoverimento della persona, subito dopo prevarrà il brutto, il malato, il decrepito. E sarà finita. L’ho vista, come tanti, in una doppia pagina centrale, su La Repubblica, l’ennesima opera «provoc-artistica» del noto fotografo. Sono rimasta ferma a guardarla, smettendo di leggere il giornale. L’ho guardata a lungo e mentre la guardavo, il fastidio , il disagio di avere sotto gli occhi una nudità deforme, diminuiva, mentre prevaleva l’ammirazione per la precisione chirurgica dell’aggressione alle nostre coscienze. «No, anorexia», lo slogan scritto grande. «No-lita», il marchio, che richiama l’eccitante adolescente «Lolita» e la umilia con la «no» di nonna.

Ho pensato a Giovanna Melandri e alla sua campagna contro la taglia 38. Ho pensato a una «pubblicità progresso» particolarmente azzeccata. Ho pensato: «bravo governo, soldi ben spesi», se è il ministero dello sport e delle politiche giovanili che l’ha commissionata a Oliviero Toscani (che fosse lui l’autore materiale dello scatto non avevo dubbi, riconosci i suoi ritratti come riconosci un Van Gogh).

Ho pensato: l’unica immagine che può scoraggiare le ragazze dal progetto di praticare la denutrizione per essere belle è mostrare una ragazza che la denutrizione ha reso brutta. Come dire: non è questa la strada, sorelle. Non fatelo. Ho pensato: vale più di qualsiasi reprimenda materna, di qualsiasi moralismo sul prevalere del progetto-bellezza a scapito di qualsiasi altro piano di studi per il futuro. Il messaggio è: non fatelo perché non funziona. Non è elegante, non è elevato, ma non importa. Insomma, ero contenta. E sono rimasta contenta anche quando ho scoperto, guardando il giornale da vicino, una scritta piccolina, sul lato sinistro: Gruppo Flash&Partners spa. Con tanto di numero telefonico, oltre all’immancabile sito.wwwnolita.it.

Ho pensato: dunque non è il Ministero, è un’iniziativa privata, un’azienda che lavora nell’ambito della moda e che, dopo avere venduto per una vita i suoi prodotti mediante esibizione di anoressiche vestite, ne spoglia una... perché? Perchè pensa di venderli meglio? Perché l’ufficio furboni ha consigliato qualcosa di forte? Certo, siamo talmente bersagliati da immagini che per colpire la nostra attenzione assuefatta occorre aumentare la dose del dolore , dell’orrore, del grottesco. Che cosa venderà la Flash&Partners? Jeans o abiti da cerimonia? Felpe o falpalà? È una mascalzonata farsi conoscere dando pubblicità alla malattia? È cinismo usare una sacrosanta campagna contro i disordini alimentari per veicolare il proprio marchio?

Tutte domande lecite. Resta il fatto che l’immagine è efficace, perché fa spavento. Non importa se i modaioli fingono di avere i sensi di colpa, perché sono le loro supermagre mannequin ad aver dato il cattivo esempio alle ragazze, e invece ne hanno così pochi che, dopo aver fatto il danno, lo esibiscono pure. Non importa se hanno appeso per trent’anni i loro costosi stracci su corpi femminili ridotti a ossute grucce, boicottando pane e carboidrati, latte formaggio e torte alla panna, riducendo centinaia di citrulle in fin di vita, spingendo le loro madri a liposucchiarsi, perché per le donne non c’è rispetto, non c’è rispetto per la loro persona, devono sempre assomigliare a qualcun’altra, a qualcos’altro... non importa. Importa soltanto il risultato. Strappare una ragazza al suo delirio. Mostrarle che cosa rischia. Farle paura.

Pubblicato il: 25.09.07
Modificato il: 25.09.07 alle ore 9.21   
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 19, 2007, 06:37:32 pm »

Divorzio all’Eliseo, dalla parte di Cecilia
Lidia Ravera


Nella fotografia che li ritrae insieme (lei che lo guarda ironica ma affettuosa come la madre di un discolo sorprendente, lui di profilo, intento a ridersela da solo) Cecilia e Nicolas Sarkozy, hanno due facce veramente simpatiche.

Si vede che non si amano, ma in quel modo solido e sereno in cui non ci si ama a cinquant’anni, essendo marito e moglie.

Si vede anche che, entrambi, possono permettersi il lusso di qualche giro di tango fuori dalla coppia: sono “grandi borghesi”, e vivono in Francia.

Un paese che guarda con commossa tolleranza alle trasgressioni dei potenti (valga per tutte la storia di Mitterand e delle sue irregolarità coniugali). Nei giorni bollenti della campagna elettorale, nel momento in cui il povero Sarko doveva vedersela con una signora già abbastanza impegnativa (Sègoléne), Cecilia c’era e non c’era. Brindava e spariva, insomma: faceva casino. E’ stato chiaro da subito che non aveva intenzione di mettersi in posa, un passo dietro il marito, sorriso di circostanza, cappellino, tailleurino, sguardo compito, sguardo ammirato, bimbo (l’unico piccolo e figlio di entrambi) strigliato, ben pettinato, in un trionfo di "moglitudine" e maternità. E’ piuttosto il tipo dell’amazzone patinata, Cecilia. Alta, mora, sicura di sé fino alla tracotanza, attraente come era impensabile fino a trent’ anni fa, fra quelle della sua fascia anagrafica. E già questa è una bella conquista: oggi, una signora in età da essere moglie di un Presidente della Repubblica (non anziano come i nostri, ma neppure ragazzino), è ancora una donna desiderabile e desiderata, ma soprattutto una che desidera, che si innamora, che se ne va a New York perché lì c’è un uomo che le piace di più. E pazienza se non è il numero uno di Francia, avrà altre doti. Una che è capace di rinunciare alla posizione di First lady, procedendo dritta per la sua strada, quella del divorzio. La mia prima reazione è di riconoscenza: grazie Cecilia per l’inconsapevole contributo alla nostra lotta sotterranea per la riqualificazione dell’immagine della cinquantenne: né nonna né moglie né zitella, libera forte e bella, se vogliamo girarla in slogan. La seconda, più seria e meno personale, è una riflessione sul rapporto delle donne col potere: spesso se ne infischiano allegramente. La domanda è: perché è un potere collaterale e le donne sono pronte per conquistarsi quell’altro, quello vero, vedi Hillary Clinton, oppure proprio perché non sono interessate? Per esempio: Cecilia, dopo aver attivamente collaborato per vent’anni alla scalata politica del marito, avrebbe potuto tenersi il suo amante americano, così come Sarko si sarà senz’altro conservato la sua presunta innamorata còrsa, e godersi il ruolo di primadonna della Repubblica Francese. Nicolas, che si è permesso di esecrare i sessantottini perché hanno contestato la famiglia come valore assoluto, gliene sarebbe stato grato. Invece no. Con selvaggia coerenza, ha portato a termine il suo progetto di divorzio. Intendeva dire: "se con tuo marito non funziona più, non è un suo scatto di carriera, anche clamoroso, che può salvare la situazione. Possono farlo anche Papa, ma con me ha chiuso"? Oppure è il ruolo di complemento, quello che ha deciso di snobbare? C’è da chiedersi se i francesi si offenderanno per questo rifiuto: ci sarà una flessione di credibilità per il Sarkozy uomo di destra, che predica l’unità della famiglia e non riesce a tenere insieme la sua, oppure, proprio vestendo la malinconia dell’abbandonato e maledicendo l’emancipazione femminile, riuscirà ad aumentare il suo fascino mediatico? Personalmente propendo per la seconda ipotesi. Il gusto degli elettori è formato sullo schema della "soap opera". Lì c’è sempre una linea narrativa "pubblica" con gli intrighi del danaro e del potere e una sottostoria "privata" con gli amori le separazioni le riconciliazioni le gravidanze indesiderate e i ricatti sessuali. I protagonisti devono essere belli e ricchi, potenti e dolenti. Se hanno, come i Sarkozy, cinque figli, (due dell’uno, due dell’altra e l’ultimo prodotto insieme) tutti rigorosamente biondi e ancora più belli dei genitori, è garantita una lunga e felice serialità.

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Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.50   
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 08, 2007, 06:56:55 pm »

Picchiano il diverso? Questione di clima

Lidia Ravera


«Dopo avergli gridato “sei marocchino” i compagni l’hanno pestato, colpendolo alla testa e procurandogli ferite alle mani». L’ho letto su La Repubblica, in prima pagina. Bullismo fra quattordicenni, così è stato rubricato. Non sono d’accordo. I giovani aggressori sono dei criminali, non dei monellacci. Dei criminali giovani, d’accordo. Quindi, forse, recuperabili. Forse.

L’età non li giustifica, l’età, semmai, impone un mea culpa collettivo. A quindici anni la vita non ti ha ancora incattivito, non sei ancora rabbioso, sconfitto, in bilico fra aggressività e rassegnazione, non hai ancora bisogno di aver qualcuno sotto di te, qualcuno da vessare per sentirti meno peggio.

A quindici anni hai tanto di quel futuro che puoi ancora sperare qualsiasi cosa per te stesso. Non puoi essere ancora carico d’odio. Come può succedere, allora, che si aggredisca in gruppo un compagno d’origine straniera? Come si può isolare un altro essere umano, perseguitarlo, usargli violenza prima di essere diventati infelici? È l’aria che si respira, è la cultura che si assorbe, è il luogo comune che si impone, che condiziona. È colpa delle parole degli adulti. È, per dirla, uno dei tanti danni collaterali di un cortocircuito nefasto fra criminalità e immigrazione. Per essere proprio chiara, farò un esempio: il disgraziato che ha assassinato Giovanna Reggiani, rumeno, sta alla dolcissima badante di mio padre, Floricica Varvarica, rumena, come Totò Riina (siciliano) sta a Paolo Borsellino (siciliano).

Ci sono quelli buoni e quelli cattivi, fra i siciliani come fra i rumeni, fra i piemontesi, fra gli albanesi, fra i maghrebini fra i nostri concittadini... Il ragazzo che ha picchiato a morte una donna sola, è rumeno, d’accordo, ma è rumena anche l’ottima persona che ha chiamto la polizia, l’ambulanza, che ha denunciato, che ha prestato soccorso, che ha permesso di inchiodare l’assassino alle sue responsabilità. Perché nessuno le dà una medaglia? Non è da tutti rischiare per aiutare, farsi carico invece di tirar via, zitti, per non avere rogne. È veramente pericolosa questa crociata, questa caccia all’immigrato. È pericoloso questo clima di sospetto. Pesa su tutta la brava gente che è venuta qui ad aiutare, a lavorare, a curare i nostri vecchi, a badare i nostri bambini, a pulire le nostre case. Floricica Varvarica, che è diventata una delle mie migliori amiche, mi ha raccontato che alcuni bravi ragazzi, suoi compatrioti, sono stati licenziati dal posto di lavoro, senza motivo. Così, perché erano rumeni.

Vi sembra giusto? Vi sembra giusto minimizzare quando una banda di adolescenti discrimina un compagno di origine marocchina, in una scuola del centro, in una via piena di turisti, vicino a san Pietro, neanche in una periferia deprivata.

Io ho paura di questi ragazzi che agiscono in branco, che stabiliscono chi è il capo e chi sono le vittime, che infieriscono sui non conformi. Se a 14 anni sono così, come saranno a 40, quando io sarò una vecchietta dal passo incerto? Ho paura. Ho paura di una generazione che cresce respirando odio e individualismo, discriminazione e angoscia. Però non propongo un pogrom contro i quattordicenni. Ce n’è di buoni, le mele marce sono una minoranza. E io lo so.

Non si può generalizzare. Come per i rumeni. È così difficile? No, non credo.

Quello che invece è difficile è non farsi venire un attacco di irritazione quando si legge, sul Corriere della sera, un colonnino sullo stile di vita della signorina Britney Spears. Dunque: guadagna 737 mila dollari al mese. Spende 16 mila dollari di vestiti, 102 mila dollari in divertimenti (ma che fa? Tutte le volte che va al cinema si affitta tutta la sala?), 4758 in ristoranti. A fronte di : «zero spese culturali e 500 dollari di beneficenza». Ah, il capitalismo...

Pubblicato il: 08.11.07
Modificato il: 08.11.07 alle ore 15.06   
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« Ultima modifica: Novembre 08, 2007, 06:59:53 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 09, 2007, 11:15:48 pm »

Perugia, quei bravi ragazzi

Lidia Ravera


Belli, giovani e benestanti. Di scolarizzazione medio alta. Nel decòr di una delle più preziose città d’arte d’Europa (cioè del mondo, visto che le città d’arte stanno quasi tutte in Europa), Perugia. Benedetti da un vita allegra e gratificante: musica, amici, libertà, studio, soldi, nessuna responsabilità, le famiglie (lontane) che, senza pesare con la loro presenza, rendono possibile la bella vita. Si può tirar tardi, si può fare sesso, si può tirare il sesso oltre i limiti del, già probabilmente consumato fino alla noia, rapporto tra «fidanzatini». Le orgette, gli scambi. Le ammucchiate. La studentessa della porta accanto non ci sta?

Meglio, capace che è anche più divertente. La metti sotto, le fai il mazzo, «niente sesso siamo inglesi» non era il titolo di una commedia? Un po’ di violenza è un eccitante mai provato. Meglio se fa la riottosa, c’è più gusto. Poi qualcosa va storto. E la studentessa della porta accanto muore.

Una specie di «caso Montesi» senza adulti di potere, orizzontale, fra principianti? È uno scenario possibile, per la morte di Meredith. Come è possibile anche l’altro, più classico, che piacerebbe ai leghisti: Patrik Lumumba, di anni 37 secondo alcune fonti, secondo altri 47, congolese e musicista, anche lui d’alto lignaggio (esistono, anche fra i neri), nonché gerente di un locale alla moda: con la sua brutta faccia schiacciata (giudico dalle fotografie) e i capelli annodati di ricci vuole fare sesso con la bella ragazza inglese. Lei non vuole. Lui, in un impeto di rabbia al testosterone, la prende a coltellate.

È una reazione, di questi tempi, sciagurata e conosciuta. Fidanzati che non vogliono essere mollati, ex mariti, innamorati respinti, stupratori a vari titolo convinti di essere ben accolti... non siamo ancora arrivati al getto di acido solforico in faccia come in Pakistan, in Nepal o in Bangladesh, ma certo l’epilogo di sangue è diventato sempre più frequente, anche nel nostro civilizzato paese. Il terzo scenario, quello che vede presunto assassino protagonista (pare che a colpire sia stata una mano maschile) un laureando in ingegneria decisamente bello, decisamente ricco (basta guardarlo) e fidanzato con una specie di Sharon Stone bambina, è una vera ghiottoneria mediatica, in quanto, per i più, sorprendente.

Possibile che, avendo tutto quel ben di Dio, si voglia altro? Possibile che si diventi anche cattivi? A guardare la fotografia dei due fidanzati, Amanda Knox (un nome da top model) e Raffaele Sollecito (un nome da romanzo sulla provincia meridionale), lei di profilo, lui di tre quarti, mentre la macchina della polizia li porta in Questura, quasi sprezzanti nel freddo sguardo assorto dei quattro occhi azzurri, c’è di che interrogarsi sulle nostre adulte fantasie di felicità, sulle nostre nostalgie.

Nessuna condizione, nessun privilegio ci mette al riparo dalla violenza, dalla sopraffazione. Non c’è spiegazione sociologica che valga per tutti. Non ci sono colpevoli collettivi, categorie di comodo che disinneschino la sensazione brutta di un degradarsi progressivo delle relazioni fra donne e uomini, fra ragazze e ragazzi. Non si può dire «i rumeni sono violenti» o «gli albanesi sono cattivi». Non si può dire: «togliamoci dai piedi i Rom». Cioè, si può, ma è inutile. Non ci libererà dal male.

Una seducente studentessa nata e cresciuta a Washington non è l’immagine che ci viene in mente quando sentiamo la parola «extracomunitario», è una straniera di qualità, di quelle coccolate dalla nostra esterofilia. Una turista dai paesi ricchi. Una che ci onora con la sua augusta presenza. Che sia, come già Erika de Nardo (la graziosa biondina sedicenne colpevole d’aver assassinato sua madre e suo fratello nel 2001), una piccola amorale che mente come respira, non ridurrà il suo appeal. Ha inanellato bugie per quattro giorni? Non importa, ci sarà sempre un sito che raccoglie per lei lettere di innamorati: perché è bella, perché è bionda, perché è giovane. Nella nostra società l’immagine è tutto. Ha preso il posto del sacro, della fatica, del sacrificio, del talento, della bontà. L’immagine, e il sangue. Quando i due ingredienti si mescolano l’attenzione si fa spasmodica. Corrono fiumi di parole, si ricostruisce, si analizza, si commenta, si chiosa. Anche se c’è ben poco da dire. Nei primi sei mesi del 2007 le donne uccise in Italia sono state 57. Quasi dieci al mese. Nei primi sei mesi del 2007, 141 donne sono state vittime di tentato omicidio, 10 383 di lesioni, 1805 di stupro o abuso sessuale. Dovremmo parlare di questo, dovremmo cercare di capire quale disordine profondo, quale terremoto inconscio, produce questo fall out di dolore, questa aggressività fra consanguinei, fra amanti, fra coniugi, fra compagni. Dovremmo cercare di capire perché, a trent’anni dalle lotte femministe che ci hanno conquistato il diritto di esistere emotivamente, di desiderare invece che essere soltanto oggetto di desiderio, ancora oggi, una ragazza, come ai tempi di Maria Goretti, successivamente ordinata santa, non può dire di no, non può opporre un rifiuto a chi vuole servirsi del suo corpo.

Che cosa ci sta succedendo?


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Pubblicato il: 09.11.07
Modificato il: 09.11.07 alle ore 13.16   
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 03, 2008, 11:03:57 pm »

Una ciclica ossessione

Lidia Ravera


Dispiace dirlo, pare esagerato o indelicato, ma l’avversione verso la legge che sancisce per le donne il diritto di decidere se il proprio corpo e la propria psiche (anima?) sono pronti per il difficile compito di dare la vita e poi crescere ed educare un essere umano, è diventata una forma ossessiva, un tormentone di centrodestra che da trent’anni, come una malattia nervosa, minaccia l’equilibrio della nostra società. A ogni cambio di stagione politica qualcuno la estrae, la legge 194, dal panierino delle nostre, non poi così numerose, conquiste di civiltà e prova a buttarla nella grande discarica dei nostri fallimenti.

Proprio là dove giacciono buone regole per accedere alla procreazione assistita, ovvie estensioni dei diritti civili a omosessuali e coppie di fatto, licenza di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico, permesso di porre fine alla propria vita qualora condizioni disperate rendano questa decisione necessaria.

Come mai? Che cos’ha di così terribile il principio tanto semplice che sta alla base della legge per l’interruzione di gravidanza? Proviamo a ripeterlo per la milionesima volta: le donne e soltanto le donne, in quanto tocca a loro prestare carne e sangue alla procreazione, possono valutare se portare a termine o no una gravidanza. Lo faranno con coscienza, cercheranno in tutti i modi di non doversi avvalere del diritto d’aborto, ma devono sapere che possono farlo. Non sono macchine, sono persone. Non sono proprietà né della Chiesa né dello Stato, sono libere cittadine, le donne. Sanno bene che saranno loro e i loro figli a pagare per tutta la vita un errore di valutazione.

Il mondo è pieno di infelici, ne volete degli altri? Volete altri neonati avvolti nel cellophan e abbandonati a morire di freddo nei cassonetti dell’immondizia? No, naturalmente. Voi volete delle belle famiglie, coese e responsabili, dove circolino affetto e cura. Le volete voi, cari avversari della nostra buona legge 194, ma le vogliamo anche noi. Noi: femministe, progressisti laici e cattolici, democratici illuminati dalla ragione e non da preconcetti e/o supersitizioni.

Che cos’è, allora, che ci divide? La diversa valutazione dell’età del feto, il fatto che per noi sia materia grezza e per voi «bambino non nato»? Oppure la diversa valutazione della madre: il fatto che per noi sia una persona e per voi un divino strumento in cui Domineddio soffia quando gli pare i suoi ordini? Forse tutte e due le cose. O forse nessuna delle due e l’anima dei bambini, come l’autodeterminazione della mamme, viene tirata in ballo soltanto quando serve, per il cinico gioco della politica.

Quando Giuliano Ferrara, materialista pentito, assimila la pena di morte, barbarico residuo di culture precivili, all’interruzione di gravidanza, il sospetto dell’uso strumentale di un dilemma etico si rafforza. Quando Papa Ratzinger definisce l’aborto «un delitto abominevole» si sente risuonare sinistra l’antica crudeltà della Chiesa, quella che metteva certe donne al rogo con l’accusa di stregoneria, che torturava e ammazzava in nome dell’amore di Cristo chiunque le si opponesse, chiunque credesse ad altro o avesse l’umiltà di non credere a niente di non dimostrabile, o osasse coltivare l’intelligenza del dubbio.

Delitto abominevole: che insulto per le donne che non ce l’hanno fatta a prendersi la responsabilità d’essere madri! Le troppo giovani, le troppo fragili, le malate, le instabili, le abbandonate, le troppo povere. Ma non si prova vergogna a chiamarle assassine? È veramente difficile, con tutta la buona volontà, mantenere aperto un dialogo con i cattolici, quando il loro Pastore Massimo si esprime con frasi così dure. È difficile e forse c’è chi non lo vuole veramente. Non lo vuole Ratzinger che continua a rifilare le sue scomuniche “urbi et orbi” come se tutta la società italiana facesse parte della sua Ecclesia. Non lo vuole Ruini, non lo vuole Giuliano Ferrara, il neofita entusiasta. Non lo vogliono quelli che non rispettano la libertà di coscienza e pretendono di imporre la loro fede come se fosse l’unica visione del mondo accettabile. Non lo vuole chi ritorna, ciclicamente, instancabilmente, a mettere in discussione tutte le battaglie vinte trent’anni fa (quando ancora avevamo la forza di vincere qualche battaglia) nel tentativo di adeguare l’Italia ad altri «Paesi avanzati», dove si può divorziare, procreare con l’aiuto della scienza o non procreare con il permesso dello Stato, sposarsi anche se si è pastori d’anime, pagare le tasse per il bene di tutti, sostenere i più deboli con le tasse dei più ricchi, farsi una famiglia anche se ci si ama fra persone dello stesso sesso e così via.

Cari lettori de l’Unità, e cari anche voi che leggete l’Unità solo per criticarla, confesso che questo ritorno di crociata antiabortista, mi ha messo addosso una certa tristezza e, oltre alla tristezza, anche una gran paura.

Ho paura per il Partito Democratico, quel coraggioso tentativo di mettere insieme, per una volta, cattolici e laici, credenti e non credenti, quelli del Vangelo e quelli dell’utopia di una società libera ed egualitaria. Ho paura che non ce la facciano. Scusate: che non ce la «facciamo». Noi, laici di buona volontà e loro, cattolici capaci di rispettare la libertà di tutti.

Pubblicato il: 03.01.08
Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.12   
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 08, 2008, 06:41:18 pm »

Se fosse capitato a Ségolène

Lidia Ravera


Affascinanti, slanciati,occhiali scuri e abbigliamento sportivo, sembrano usciti vincitori da un opportuno patteggiamento col diavolo, Nicolas Sarkozy e Carla Bruni, nella fotografia che occupa la prima pagina di Le Journal de Dimanche. Lei, a quarant’anni, sembra una ragazza e lui, a cinquantaquattro, un quarantenne di quelli eterni, appena appena appannati di grigio, uno di quelli che riescono a dimostrare quarant’anni fino a un passo dalla sepoltura. Al modello «forever young» mancava un bambino (il drappello di ventenni biondi generosamente offerti da Cecilia e il ragazzino prodotto insieme, seppur anch’essi avvenenti, non bastavano) ed ecco che Carla fornisce il piccolo Aurelien, e Nicolas, nella foto, se lo carica sulle spalle, con le mani gli tiene i piedini, forte come un toro, dolce come si portano i patrigni nelle favole moderne.

Mezza Francia è deliziata dall’immagine del Presidente con la fidanzata. L’altra metà è scandalizzata dalla rapidità con cui si è consolato della perdita della precedente Madame Sarkò.

E magari è scandalizzata anche dalla fama di mangiatrice di uomini che accompagna la futura Madame Sarko. Tutte e due le metà dei francesi sono unite nell’inevitabile invidia: sono, i due promessi sposi, l’incarnazione del modello eterosessuale dominante. Il più ovvio. Quello cui tutti, sapendolo o inconsciamente, non possiamo fare a meno di aspirare. Lei è bella, piena di grazia, canta come un angelo ed è famosa quanto basta perché tutti sappiano che è bella e piena di grazia. Lui è forte, determinato, ricco e potente. Un uomo di successo. La fiaba è una sorta di sequel di Cenerentola: anche se la nostra bella non è mai stata povera, neanche da bambina, il più piazzato è certamente lui. Una ex-mannequin neo-chanteuse conta, comunque, meno di un Presidente. Quindi lo schema del sogno eterosessuale è rispettato: lei conferisce valore a lui nella misura in cui accende il desiderio degli altri uomini. Lui premia il valore di lei, mettendole a disposizione il suo regno. Si sposeranno, pare, a febbraio. La mamma di lei benedice le nozze dalle pagine di quotidiani e settimanali, le vacanze e i weekend dimostrano che l’uomo di potere non trascura le gioie private.

Tutto perfetto. Auguri e figli maschi... Sì, proprio figli maschi, perché nascere maschi, ancora oggi, anche qui in occidente, continua ad essere una bella botta di fortuna. Provate per un attimo a immaginare, sempre restando in tema di presidenti francesi, che Sarko avesse perso le elezioni e le avesse vinte, invece, Ségolène Royal, anche lei di bell’aspetto, anche lei cinquantenne, anche lei madre, anche lei non proprio perfettamente felice col marito. Ci siete? La vedete passeggiare da padrona per i saloni dell’Eliseo? Bene. Ora immaginate che Francois Holland, scocciato dall’idea di fare il «first lady», abbia deciso di divorziare due giorni dopo il trionfo della moglie. Verosimile no? Agli uomini le posizioni vicarie sembrano, in genere, piuttosto imbarazzanti (perfino quando hanno parecchio da farsi perdonare come Bill Clinton), non hanno la libidine dell’accompagno. Quindi: immaginate Ségolène neopresidente e neodivorziata, un po’ triste, un po’ smarrita e immaginate che, con sospetta rapidità, un grandissimo pubblicitario amico suo (magari lo stesso, Jacques Séguela, che ha fatto la campagna elettorale di Mitterand e ha fatto incontrare Carla Bruni a Sarko), le abbia appena presentato un bellissimo esemplare della nostra razza, un italiano di fascino, chennesò... Kim Rossi Stuart... Raul Bova... immaginate che Ségolène lo corteggi e lui si lasci corteggiare. Li vedete? Lei è più vecchia, ma è una bella donna. Lui la ammira. Insieme sono una bella coppia.

Eppure... eppure, la fotografia di loro due, Ségolène e Kim, Segolene e Raul, non piace. Lei non è invidiata, perché la bellezza di lui, a lei, non conferisce valore. Lui non è invidiato, perché il potere di lei annulla il suo, e lui è maschio, e i maschi devono essere più potenti delle donne. Di lei si direbbe: se l’è comprato, guarda lì, che schifo, una donna di cinquant’anni che si piglia su un bell’ometto. Di lui si direbbe: ma che uomo è? Vuole vivere all’ombra di una donna Presidente della Repubblica. Ma ce l’ha una dignità? Ma ce l’ha le palle?

Esagero? No, siate onesti, ho ragione. L’uomo «con le palle» è quello che acchiappa Carla Bruni, non quello che acchiappa la prima donna Presidente della Repubblica, anche se un o una Presidente della Repubblica conta più di una/un cantante, di una/un fotomodello, di un attore o di un attrice. Del resto, basta la recente polemica sulle rughe della povera Hillary Clinton a dare la misura di quanto, per le donne, qualunque sia il risultato delle loro ambizioni, sia cambiato, a livello profondo, ben poco. L’immaginario collettivo vuole il Principe Maschio e Cenerentola Femmina. L’«ordinary people» continua a considerare un uomo che ha molte donne, invidiabile. Una donna che ha molti uomini un po’ puttana. E ciò che rende l’uomo più forte anche in amore, il potere, alle donne continua a costare caro. Ségolène non c’è l’ha fatta, per quanto ci sia andata vicino. Hillary, se ce la farà, dovrà tenersi ben stretto il marito, si innamorasse chennesò... di Brad Pitt, il poveretto verrebbe retrocesso a «stagista» nonostante la carriera hollywoodiana.

È un fatto: il potere, per noi donne, non è eroticamente utile. Sarà per questo che, in fondo, continua ad essere piuttosto limitato il numero di quelle che provano a conquistarlo?

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Pubblicato il: 08.01.08
Modificato il: 08.01.08 alle ore 8.44   
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 27, 2008, 04:38:29 pm »

Quando l'orrore cancella la politica

Lidia Ravera


«Ecco, i resti dei fratellini nelle bare qui a fianco. Sono praticamente in stato di mummificazione. La loro, quasi sicuramente, è stata una morte orribile. Ecco: potete sentire la folla che applaude al passaggio del carro funebre, in segno di rispetto. In segno di partecipazione...». Il cronista, la mano stretta attorno al microfono, appare mesto, le facce rotonde dei ragazzini del paese di Gravina in Puglia premono per entrare nell’inquadratura. Forse conoscevano Ciccio e Tore, forse provano un senso di smarrimento e di pena, ma sono , in qualche modo, contenti di essere lì, di essere in televisione. La gente che passa per caso accanto ai luoghi dove succede una disgrazia diventa, se la disgrazia è eccezionale, comparsa in un telefilm dagli ascolti debordanti. Prime time, roba forte.

Ho appena finito di registrare una punta di fastidio (perché battono le mani? Non sarebbe più consono tacere e andare a casa?) che mi piomba addosso la seconda notizia del telegiornale: «Una mamma e le sue tre figlie, una ragazza di 15 anni sono morte travolte da un’auto che procedeva a folle velocità». Stavano alla fermata dell’autobus, a Fiumicino. No, non un autobus qualunque, uno scuolabus. Ci sono feriti gravi, fra la folla inerme. Quattro in “codice rosso”. Le immagini mostrano lamiere contorte, lenzuoli a coprire corpi e sangue. I carabinieri, i necrofori, il personale delle ambulanze, si muovono lentamente. I passanti, con un senso di scampato pericolo, entrano e escono dall’inquadratura, indolenti. Il servizio è breve, il fatto è successo da poco.

Il servizio seguente, invece, è accurato, è la puntata più recente di una telenovela che va avanti da un pezzo: il delitto di Erba.

È il giorno della deposizione dell'unico scampato alla strage, Mario Frigerio, un uomo magro dall’andatura incerta, che si appoggia ad una stampella. Il cronista riporta la sua testimonianza: «Non me la dimenticherò mai quella faccia finchè vivrò», ha detto. Poi si è rivolto al suo assassino: «È inutile che mi guardi disgraziato».

Terribile. È finita? No. C’è ancora un’altra notizia: sono stati ritrovati alle porte di Montecatini i corpi senza vita di una madre e di una figlia. La madre era una poliziotta di 49 anni. Ha sparato prima alla figlia e poi a sé stessa. La figlia aveva 9 anni. Pare che l’omicidio suicidio sia «nato dal dissidio con l’ex coniuge». Le immagini mostrano una macchina, una periferia. C’è poco da vedere. Ma le parole pesano.

Mi accorgo che ho subìto il notiziario, fino a questo punto, quasi dieci minuti, in stato di apnea. Trattenevo il fiato. Una valanga di dolore allo stato puro. Bambini morti in fondo a un pozzo, vite stroncate nella situazione più quotidiana, bambine ammazzate dalla mamma, famiglie sgozzate dai vicini di casa. Come quinta notizia, per fortuna, ritorna la politica: con sollievo mi accorgo che posso ricominciare, dolcemente, ad annoiarmi. È davvero strano ritrovarla in fondo al telegiornale in tempi di campagna elettorale. In genere è lei, la protagonista dei tiggì. «E ora veniamo alla politica», dice il conduttore. E senti, nettissimo, un senso di straniamento. La notizia riguarda il vertice del centro-destra. «Il partito della libertà è arrivato al dunque» notifica il cronista. Ah sì? E quale sarebbe “il dunque”? Ma le candidature, ca va sans dire! Quanti di Alleanza Nazionale, quanti della Mussolini, quanti della Lega e quanti di Forza Italia, saranno messi in lista in modo da essere eletti? Probabilmente è in corso uno scannamento collettivo (nel nostro Paese, nel nostro Palazzo, nessuno fa niente per niente). Ma il sangue non scorre, rosso e visibile, come nel teatro di un’incidente stradale.

La notizia seguente è di nuovo “politica”: Veltroni presenta il prefetto Serra, supercandidato nel Pd. Dichiara che Laici e Cattolici possono convivere. Senza morti e feriti, semmai qualche contusione mentale o morale. Finisce l’anomalo telegiornale del 26 febbraio, a meno di due mesi dal prossimo confronto elettorale. Spengo il televisore frastornata. Che cosa sta succedendo? L’irruzione della cronaca nera ha scansato la centralità dei soliti maneggi e magheggi. È apparsa particolarmente fatua la vita quotidiana dei partiti, dopo tutto quel dolore, tutta quella disperazione. La temperatura emotiva, salita alle stelle con la scoperta dei resti di due bambini, è ridiscesa violentemente quando di nuovo siamo stati ragguagliati sullo stato di salte dei due principali contendenti e sulle chances di tutti gli altri. Ce la farà Mastella a piazzarsi dopo che quasi tutte le porte gli sono state sbattute in faccia? Che cosa riceverà in dono Gianfranco Fini per essere tornato all’ovile scodinzolando? Improvvisamente, tutto questo tessuto di dichiarazioni e confutazioni, appare per quello che è: parole. Di questo vive la politica. Parole. La politica vive di parole. Ma non sono le parole durevoli della letteratura che raccontano storie e scavano dentro la vita, sono le parole effimere, le invenzioni lessicali di comodo, il gergo autoreferenziale degli addetti al governo.

A schermo spento, mi accorgo che stavano proprio bene, le ultimissime sulla sfida elettorale, giù giù in fondo al tiggì, penso che dovrebbe essere sempre così. Prima la vita dei cittadini, i problemi reali, la descrizione delle condizioni di lavoro, i grandi e piccoli temi che coinvolgono le donne e gli uomini di questo e di altri Paesi, poi la politica, se ha da proporre qualcosa per risolvere, migliorare, rilanciare, riformare, rivoluzionare lo stato di cose presente. Un telegiornale che informa e non deforma, che dà la parola a tutti quelli che hanno qualcosa da segnalare, anche se non sono portavoce o voce solista, del rutilante mondo della politica. Non sarebbe male, sarebbe una bella novità.

Sarebbe una bella novità ascoltare, in televisione, voci di gente che non parla per professione, che chiede invece di promettere, che spiega e racconta invece di promuovere se stesso o il proprio schieramento, perpetuamente in ansia, sempre costretto ad esibire la certezza della vittoria. Invece, per mandare i maneggi elettorali in seconda posizione, bisogna, evidentemente, finire morti ammazzati, farsi scannare in massa, farsi vittime. Possibile che siamo protagonisti del tele-giornale soltanto nel settore della cronaca nera?

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Pubblicato il: 27.02.08
Modificato il: 27.02.08 alle ore 9.25   
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 21, 2008, 12:17:03 am »

Il vitellone di Arcore

Lidia Ravera


È più forte di lui, non si trattiene, è come il cane davanti all’osso, il mulo con la carota, il toro col drappo rosso, Silvio Berlusconi, messo a contatto con qualsiasi esemplare di genere femminile, di qualsiasi tipo, attiva i motori di virilità e deve dire la sua: se l’esemplare è di bell’aspetto e giovane età, ci prova, allude al fatto che potrebbe provarci (e ovviamente riuscirci) o al fatto di aver già consumato l’atto, con viva soddisfazione della cliente e del fornitore (cioè lui).

Se l’esemplare è di bell’aspetto ma di età più avanzata, cavallerescamente, allude al fatto che una bottarella la si potrebbe ancora dare prima che la signora scompaia nel viale del tramonto, e chi, se non lui, può compiere quest’azione positiva? Se, infine, ahimè, l’esemplare è di aspetto non conforme alle regole estetiche dell’acchiappa-maschi, o per personalità sua o per qualche disarmonia aut dismisura nella relazione fra i primitivi oggetti del desiderio (tette e culo), oppure, e qui la situazione è più grave, per sorpassati limiti d’età, il nostro Silvio non può fare a meno di alludere al fatto che lui, a quella, una bottarella non gliela darebbe proprio mai, neanche per sogno. L’elenco delle battute sarebbe lungo e comunque incompleto, perché ogni giorno porta seco nuove occasioni di incontro con femmine di tutte le categorie e la geometrica potenza del machismo berlusconiano si dispiega in tutta la sua forza. Con questa nuova moda, poi, di aumentare la rappresentanza rosa in Parlamento, tocca anche amarle e candidarle se sono tue, sopportarle e attaccarle se sono candidate per quegli altri.

A Berlusconi non piace attaccare le donne, perché qualsiasi relazione di parola, se non prelude all’atto di sdraiarle, gli pare una bizzarria o una perdita di tempo. Però adesso deve, perché Veltroni ne ha infilate un sacco e, mannaggia, anche giovani e carine, finchè ci hanno “un’età”, come la Rosy Bindi o la Finocchiaro, okay, puoi anche far finta che siano uomini, e prenderle a zuccate, ma alla ventisettenne precaria capolista nel Lazio, con tutti quei capelli e tutte quelle belle cosine, che cosa si fa? La si invita sul panfilo a “parliamo parliamone”? Le si offre la conduzione di un telegiornale? No, quello no, perché alla ragazza un buon lavoro già gliel’hanno dato, meglio prendere su una precaria ancora precaria e farla tirar dentro in qualche lista da uno dei miei (ormai le liste elettorali sono quello che una volta erano le boutique, “le apro un negozietto di intimo”), o farla sposare a Piersilvio che, se non si sposa, poi pensano che è frocio e che figura ci faccio io, dovessero mai credere che è una malattia ereditaria. Eh già, perché questa è la vera ossessione del povero Berlusconi, che qualcuno possa pensare in calo, non la sua popolarità o la fiducia degli italiani nella sua politica, ma la sua potenza fallica, la capacità del suo arnese di introdursi nei corpi delle donne come nel corpo elettorale e mimare all’infinito la fiaba della conquista del territorio. Io non perdo un colpo, è il sottotesto di ogni esternazione. L’ansia di dimostrare la sua sempiterna virilità (anche dopo i 70, anche con la prostata incasinata) è, presumibilmente, alla base della sua scelta, ormai vecchia di quasi vent’anni, di “scendere in campo” e di quella, più attuale, di restarci, vincendo nuovamente vecchie battaglie. La crescita esponenziale delle battutacce è sintomo, probabilmente, di una accresciuta insicurezza di fondo che, ben lungi dal provocare la nostra prevedibile indignazione, ci trova intenerite e solidali. Dev’essere successo qualcosa di simile anche a Veronica che, dopo aver rintuzzato le uscite triviali del consorte con una certa puntualità nel passato anche recente, nel presente tace con sobrietà, come se il ruggito del leone, inflazionato e stanco, non mettesse più a repentaglio nulla, neppure la sua dignità di donna.

Del resto, a quanti invece ancora si impennano, perché il candidato premier del Pdl non riesce a unirsi al coro dei benintezionati in materia di uguaglianza di genere, vorrei ricordare che, ancora una volta, ha ragione lui, se la ragione è, come spesso in politica, del più furbo: Silvio Berlusconi dà voce, con le sue scontate facezie, al maschio medio nazionale della sua generazione, quello che aveva vent’anni negli anni Cinquanta e che oggi è in pensione ma vota e, nella stragarande maggioranza, non si è nemmeno accorto che ormai le donne, pregi e difetti, appartengono alla categoria delle persone. Per lui, per loro, esse sono sempre collocate in una delle tre “emme”: moglie mamma mignotta. La prima “emme” va sopportata anche se dopo un po’ non ti piace più, la seconda va venerata perché ha prodotto te e la terza è quella che serve per sopportare la prima, in quanto la prima è la più utile. In questo brodo primordiale, Silvio Berlusconi continua a tenere a bagnomaria il suo elettorato, di tanto in tanto lo scalda con qualche frizzo, ma sempre lo mette a suo agio con la sua stessa medietà, gli consente di rispecchiarsi e assolversi, di sentirsi forte anche se non intelligente, vincente anche se non moderno, sessualmente potente anche se vecchio solo e sottoposto al tormento dell’offerta massiccia di carni femminili esposte che costituisce lo stile Mediaset (e per contagio da tempo anche lo stile Rai).

Non è un risultato da poco, per un politico.

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Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.29   
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:18:25 pm »

Violenza sulle donne: l'uso politico della paura

Lidia Ravera


Un’altra ragazza vittima della violenza di un disgraziato. Uno che voleva imporre il suo sesso, uno che voleva fare male. Ioan Rus, detto «il fantasma» perché non si sa bene dove abitava e di che cosa viveva. Ioan Rus, una faccia da foto segnaletica, violenta e vagamente ebete. Ioan Rus, con sostanziosi precedenti penali, tre volte condannato e incarcerato nel suo Paese, la Romania. E la ragazza? Anche lei straniera, di colore, di buona famiglia, una che frequenta un master in economia, che è venuta a Roma per studiare, non per cercare di sopravvivere. La scena: la solita stazione buia, la solita periferia occupata da poveri, senza sovrastrutture adeguate a renderla davvero abitabile, una sorta di Zeta-erre-i (zona a rischio illimitato). Le chiacchiere del giorno dopo: le solite. La sicurezza, i rumeni, gli immigrati.

Le cifre: «Il 35% dei reati in Italia sono stati commessi da cittadini stranieri», «nei primi mesi del 2007 sono stati arrestati 32.468 cittadini rumeni». Moltiplicatore di chiacchiere: il ballottaggio per l’elezione del sindaco di Roma. Alemanno usa la vicenda per attaccare Veltroni, predecessore e sponsor di Rutelli: «dobbiamo liberarci dei cretini al comando». Rutelli replica, ricordando che Berlusconi “sanò” 141 mila rumeni. Chi sono, allora, «i cretini al comando?». Il centro sinistra aveva proposto un braccialetto luminoso, le ragazze lo tengono al polso e serve per chiamare soccorso. Alemanno difende le ragazze dalla “umiliazione” di dover indossare questa manetta salvavita ed è un vero peccato, perché a me, invece, sembra una buona idea, quantomeno un’idea nella linea giusta, che è quella di difendere le donne, non di bruciare in piazza i rumeni. I rumeni: sono la comunità straniera più numerosa, oggi, in Italia. Sono una società nella società. La crescita numerica porta con sé una maggiore percentuale di crimini, una maggiore necessità di prevenzione. Nella povertà, nel degrado, nell'isolamento culturale e sociale, più facilmente le personalità più fragili vengono contaminate dalla violenza. È vero per i rumeni, per i senegalesi, per gli egiziani, per i polacchi... è vero anche per gli italiani.

I rumeni non sono peggio degli altri: molti sono qui da tanti anni, lavorano duro, se ne hanno l’opportunità , lavorano come noi italiani non ci sognamo più di lavorare dai tempi difficili del dopoguerra. Le femmine allevano i nostri figli, curano i nostri vecchi, puliscono le nostre case, lavano i nostri panni, i maschi costruiscono ristrutturano dipingono le nostre case, curano i terrazzi, i giardini. Sono gente brava e operosa, con una sapienza manuale e uno spirito di servizio ormai molto difficili da trovare fra gli italiani. Non oso neppure pensare a che cosa sarebbero le nostre vite senza l’aiuto dei rumeni e delle rumene. Perché dobbiamo sempre minacciarli di espulsione? Non si possono più espellere gli stranieri. Noi abbiamo bisogno di loro e loro hanno bisogno di noi. Il mondo ormai va così, nessuno può arroccarsi nel Paese dove è nato e chiudere le porte. L’Italia, piaccia o no alla Lega, è, ormai, un Paese multietnico. La brutta storia da cui prende spunto questa riflessione è una storia multietnica. La vittima è una ragazza africana, che è venuta da noi a studiare. Il colpevole è un uomo dell’Europa dell’est, che è venuto da noi perché a casa sua non riusciva a vivere. Una era una brava ragazza, l'altro un mascalzone. E mascalzoni ce ne sono parecchi. La violenza contro le donne è in crescita esponenziale. È colpa dei rumeni? O è colpa di una subcultura diffusa che alle donne manca continuamente di rispetto. Le continue, reiterate, ossessive esposizioni di corpi femminili a scopo commerciale. Il mercato delle vacche che, a cadenza fissa, affiora da intercettazioni e scandali fra vip, quello scambio di favori che passa attraverso la fornitura di sesso, di carni femminili, di povertà morali e fioriture giovanili. Le labbra, le pance, le tette che ci si parano davanti come un arredo urbano, dalle fiancate degli autobus, dai cartelloni, dalle edicole... e, per contro, il silenzio femminile, lo scarso ascolto, la scarsa presenza di parole femminili autorevoli in televisione, in politica. La fissazione del sesso che ha sostituito, per puro consumismo, la repressione di cinquant’anni fa, sempre senza offrire alle donne una vera dignità, una parità sostanziale, che potrebbe, forse, incominciare a disarmare tante mani protese a prendersi con la forza quello che una ragazza non vuole dare…tutto questo non viene mai considerato. Una studentessa si prende una coltellata nel fianco, patisce l’angoscia della violenza carnale e il dibattito, indignazioni più proponimenti, verte tutto sulla necessità di cacciare i rumeni, come se bastasse per consentire alle ragazze la tranquillità di rincasare tardi, di attraversare una strada buia, di muoversi liberamente, come è suo diritto, in una città come Roma, capitale di un paese civile.Gli italiani hanno paura, si sentono minacciati dalle povertà con cui un' immigrazione sempre più massiccia ci impone di convivere. La paura viene strumentalizzata da chi vuole una società arroccata in difesa, armata, orientata al rifiuto dell'altro, intollerante e non solidale. Io credo che la paura vada rispettata: spesso sono i più socialmente deboli fra gli italiani, quelli che ne soffrono. Mi piacerebbe però che la paura diventasse il carburante per mettere in moto la macchina del welfare, delle infrastrutture, a sostegno di chi vuole una società più giusta, dove, magari chiedendo ai più ricchi e ai più forti di rinunciare a qualcosa, i più deboli fra gli italiani e i migranti, venissero aiutati a trovare un posto sicuro per vivere.

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Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.37   
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 30, 2008, 11:30:48 pm »

Meno male che c’è il Primo Maggio

Lidia Ravera


Mai Primo Maggio è caduto in un momento meno adatto a far festa, a celebrare e celebrarsi, a far sventolare le bandiere rosse, squillare le trombe e scorrere la retorica sulle magnifiche sorti dei lavoratori. Con il ritmo assunto, negli ultimi anni, dagli incidenti sul lavoro, si potrebbe gemellare con il 2 novembre, il Primo Maggio. Tre al giorno, è la media. Tre operai morti ogni 24 ore. Infatti è dedicato a loro, a quelli che rischiano la pelle per 1000 euro al mese, il tradizionale concerto di Piazza San Giovanni. Che cosa diranno, dal palco, fra un cantante e una band, che cosa dirà il segretario della Cgil, che cosa potrà promettere?

La destra è al governo del Paese e, da pochi giorni, anche della Capitale. La destra, non un centrodestra, non una sinistra moderata, non una rinata democrazia cristiana, no, una coalizione di partiti di destra.

Si farà carico del problema delle morti bianche? Molte delle vittime sono immigrati, spesso precari, indeboliti dal non conoscere le regole, dall’essere gli ultimi arrivati.

A trionfare, quindici giorni fa, alle elezioni politiche nazionali, è stato un partito, la Lega, che sull’immigrazione ha elaborato soltanto un progetto: buttarli fuori, il più presto possibile, il più possibile radicalmente. Non farne entrare altri. Lo festeggeranno, il Primo Maggio, quelli, fra gli operai, che hanno votato Lega? Oppure opteranno per un sobrio raduno padano, a bere ampolle di acqua benedetta da Federico Barbarossa?

Mai il Primo Maggio è stata una festa così poco scontata, così lontana dalla riposante ritualità.

Viene da chiedersi, come per le occasioni mondane, chi ci sarà: quelli che ci sono sempre andati per abitudine e continuano per scaramanzia?

Quelli che siccome era diventata un abitudine non ci andavano più? O, magari, quelli che non ci sono mai andati e che, quest’anno, decideranno di andarci, per l’insopprimibile desiderio di rispondere, da una piazza gremita, allo sconcerto di questo lungo “day after”.

Piazza San Giovanni faticherà a contenerci tutti.

Lì per lì, la botta ci ha tramortiti, riuscivamo a scambiarci soltanto messaggi di incredulità. Di perdere il primo incontro, quello nazionale, i più accorti se lo aspettavano. Di perdere anche quello simbolico, romano, dopo 15 anni di buon lavoro amministrativo, se lo aspettavano soltanto militanti e simpatizzanti della corrente Cassandra, i compagni del bicchiere mezzo vuoto, gente che se tutti fanno il coro non canta, se si aprono le danze e si promettono poltrone, resta seduta sul suo strapuntino, a sorseggiare meditabonda l’amaro calice dell’autocritica. Io ho inoltrato regolare domanda per essere ammessa, in questa énclave di realisti, voglio imparare a prevedere le sconfitte, eventualmente ad evitarle, e, nel caso siano inevitabili, a farle fruttare in termini di consapevolezza degli errori, coscienza dei ritardi e percezione dell’ipotetico protrarsi di illusioni datate. Non so se passerò l’esame, ma intanto mi applico con zelo. Per esempio ho incominciato ad ascoltare con molta umiltà quelli che hanno vent’anni e trent’anni. Non “i giovani” comparsi, per decisione unanime delle segreterie, nelle liste dei Partiti politici, che sbandierano la loro età come se fosse un diploma di eccellenza, no, non loro. Io ho incominciato ad ascoltare i giovani che vivono vite reali, precarie ma appassionate, che danno vita a giornali on line (come il bellissimo «Crak»), che si riuniscono e discutono e leggono Latouche e si interrogano sulla necessità della decrescita e sull’equilibrio ecologico e sulla povertà d’acqua nel pianeta, che lavorano a un progetto di televisione libera, che si sbattono per aprire nuovi canali di circolazione delle idee e dell’informazione... sono questi i giovani che hanno qualcosa da dire. Sono, e ancora si sentono, “di sinistra”, ma non sanno neppure che cos’è l’ideologia. Non si riconoscono nei partiti ma non si riconoscono nemmeno nel vaffa-day. Infatti sono andati a votare. Hanno votato Veltroni e hanno votato Rutelli, controvoglia ma disciplinatamente. «Qui non si tratta di tapparsi il naso, noi stavamo proprio in apnea», mi ha detto uno di loro. Ma è lo stesso che mi ha telefonato in preda alla disperazione per la vittoria di Alemanno. Beh, ho detto, tanto a voi Rutelli non piaceva. Li per lì non ha risposto, poi ci ha ripensato: «Adesso sarà tutto più difficile, ma bisogna farlo lo stesso, bisogna che ci diamo una mossa». Non ho indagato oltre, ma, per la prima volta in quindici giorni, ho percepito un alito di vento tiepido, un po’ di ottimismo. Forse il tanto implorato ricambio generazionale doveva passare proprio per l’amara radicalità di questa sconfitta. Dovevamo percepire, con dolore, la fine dell’epoca in cui siamo cresciuti, veder scomparire le varie rifondazioni comuniste, veder barcollare le nuove formazioni, ancora incerte nelle loro identità moderne. Dovevamo sentir dire a un leader politico “è una sconfitta” e a un giovanotto sconosciuto “è il momento di fare qualcosa” per farci tornare la voglia di festeggiare il “Primo Maggio”, di andarci, tutti insieme, non per partecipare al gran gala del sindacato, ma per guardarci in faccia, per contarci, per mettere in comune, sia la tristezza che la determinazione, sia la pazienza che l’ironia. Come ogni “buon rivoluzionario” deve saper fare, soprattutto in assenza di rivoluzioni.

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Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.13   
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:38:23 pm »

Marcelletti, quando il medico è onnipotente

Lidia Ravera


Concussione, truffa, peculato: in Italia non è un novità. Pare che fra chi possiede un qualche potere sia maledettamente frequente, la tentazione di usarlo, per incrementare ulteriormente il proprio capitale. Anche la detenzione di materiale pedopornografico, imputazione ancora non del tutto chiarita, allude a un vizio ormai abbastanza diffuso: l’estetica deviata del consumismo che vede belli soltanto i minorenni, più la certezza di poter prevalere, necessità tipica dei vigliacchi. Il professor Marcelletti Carlo, quindi, non sarebbe che uno dei tanti, e la sua vicenda l’ennesima deprimente conferma dell’immoralità diffusa che avvelena il nostro Paese.

Ci sono due dati che, tuttavia, accrescono il tasso medio di sconcerto, fanno lievitare l’indignazione abituale verso qualche scomoda domanda. Il primo dato riguarda il potere particolare che Marcelletti esercitava: era un cardiochirurgo, specializzato nella cura dei bambini, spesso molto piccoli. Sempre molto malati. Era ai loro genitori, assediati dall’angoscia, disposti a tutto pur di veder tornare il sorriso sul volto dei loro figli, di vederli di nuovo giocare con gli altri, di strappare, per loro, il lungo futuro cui avevano diritto, era a padri e madri affranti, che il professore spillava tremila o cinquemila euro. Prometteva “comfort particolari”, illudeva che il loro bambini non sarebbero stati “trattati come tutti”. E come vengono trattati quelli che non possono comprarsi un privilegio nella sanità Pubblica Italiana? Male. Sono costretti a lunghe attese. E chi ha un figlio cardiopatico una lunga attesa non se la può proprio permettere. Non è questione di fretta, non salta la vacanza o il ponte di carnevale... è questione di vita o di morte. Chi di noi, noi che abbiamo figli, direbbe “no, guardi, io quei cinquemila euro non glieli do”. Nessuno. Chiunque si venderebbe casa e se non ce l’ha andrebbe a chiedere prestiti agli strozzini, a umiliarsi con i parenti e gli amici, a rubare. E gli darebbe quei maledetti soldi.

Per fortuna non va sempre così: mio figlio, a 32 giorni di vita, fu ricoverato al Policlinico Umberto Primo, per una grave forma di polmonite, il virus che l’aveva colpito si chiamava “sinciziale”, quell’anno, il 1979, ne erano già morti alcuni bambini. Avevo poco più di vent’anni ed ero terrorizzata. L’incubo durò soltanto nove giorni. Mio figlio fu ricoverato subito, gratuitamente, e guarito. Se mi avessero chiesto dei soldi, sarei stata capace di tutto per procurarmeli e li avrei consegnati a chiunque. A una “onlus” nobilmente intestata alla cardiopatia pediatrica, ma anche, direttamente, nelle tasche del medico che me li avesse proposti come soluzione ai disservizi della pubblica sanità.

E con ciò arriviamo al secondo fattore di sconcerto di questa storia italiana: il fatto, incontrovertibile, che i genitori dei piccoli pazienti del professor Marcelletti, pur vittime di un odioso ricatto, difendono il loro ricattatore. Rifiutano di accusare. Minimizzano. Sperano che non se ne parli più, che il polverone si posi e l’indagato torni, sereno e con la mano ferma come prima, a operare. Se chiedesse loro altro danaro, ormai apertamente per le sue vacanze e le sue cene di lusso, glielo darebbero. A costo di vendersi un rene. Vogliono, le madri e i padri di bambini malati, che i loro bambini guariscano. E non c’è spazio per altro. Né giudizi morali né calcoli economici.

Sarebbe lo stesso se Carlo Marcelletti curasse gli adulti? Se fosse un endrocrinologo, un bravo internista, un otorino, un gastroenterologo? No, non proprio lo stesso. Ma, secondo me, non sarebbe poi molto diverso. Viviamo immersi in una cultura dell’immanenza. Siamo, chi più chi meno, tutti convinti di avere una vita sola, questa che corre via, giorno dopo giorno, anno dopo anno, usurando i nostro organi e assottigliando la nostra pelle. La nostra unica religione è il benessere. Vogliamo godere e quindi dobbiamo star bene. La malattia è diventata, rapidamente, il più temibile dei nemici. Una mattina ti svegli con un dolore al petto e addio viaggi, vacanze, carriera, cene luculliane, illusioni di giovinezza, fitness e eros. Nessuno è più disposto a vedere nella sofferenza la strada che porta al paradiso, nessuno se ne frega più granchè del Paradiso. Non di quello promesso come eterno riposo dopo la morte. Vogliamo tutti vivere, il più a lungo possibile, essendo, nei limiti del possibile, al nostro meglio.

Ecco che, allora, una delle malattie più diffuse diventa l’ipocondria, seguita a ruota dalla frenesia analgesica (una sorta di orrore del dolore, fino alla dipendenza da farmaci e droghe dell’oblio). Ed ecco che il medico, dispensatore di soluzioni al problema dell’ammalarsi/usurarsi/invecchiare, diventa l’unico “padre nostro”, quello che, da solo, può “liberarci dal male”. Non è uno e trino. Ma di certo è onnisciente. E, se può strappare nostro figlio dalle grinfie della morte, non ce ne importa niente se è disonesto.

Del resto, i cinquemila euro richiesti come incoraggiamento ad operare per il bene degli umani, non potrebbero essere l’offerta votiva, l’obolo che, nella superstizione popolare, rende il Dio benevolo verso di noi, poveri mortali?
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Pubblicato il: 08.05.08
Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.43   
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 01, 2008, 04:29:21 pm »

Strani «eroi» di quartiere

Lidia Ravera


«Er Che Guevara der Pigneto» ha i capelli bianchi, tatuaggi sulla pelle e rapine sulla fedina penale, ha un passato da orfanello e un presente da precario, conserva gelosamente ed espone con piacere tutta la mitologia di chi si nutre di fumetti o di B-movie violenti. Concetti tipo: io so’ bbono e caro ma quanno m’incazzo sfascio tutto. Io per mia madre, mia sorella, mia figlia, mia nonna, la mia donna, il mio quartiere sono capace di fare qualunque cosa, anche la peggiore. Sottotesto: e faccio benissimo a farlo (anche se poi mette in guardia dall’imitarlo), in quanto esercito il punto primo del diritto selvaggio applicato.

Cioè: menare e sfasciare chi, a suo insindacabile giudizio, si comporta male è come pisciare ai quattro angoli del proprio territorio, delimitandolo.

Nel territorio detto «il Pigneto», «Ernesto», al secolo Dario Chianelli, ci è nato, ci è vissuto e ci morirà, nessuno deve pestargli i piedi, perché quelle quattro strade, quei bar, quelle botteghe sono casa sua. Quelli che sono arrivati dopo, sono degli ospiti. E gli ospiti devono comportarsi bene, sono in casa di Dario, perché tutti lo conoscono, perché chi lo conosce lo rispetta, perché chi non lo conosce ancora imparerà a conoscerlo e a rispettarlo, cioè ad aver paura di lui.

Perché lui è buono e caro ma i senegalesi, i bengalesi, i marocchini, i tunisini devono rigare dritto. Come tutti gli altri.

Perché lui può «rubare per fame» e non lavorare («E che uno nato il 1° maggio po’ lavora’?») e restare un santo, ma loro se rubano un portafoglio lui li gonfia. Perché nel quartiere suo non si deve rubare, ci vuole «rispetto». C’è quasi da invidiarlo il Che Guevara del Pigneto per le sue incrollabili certezze, in un momento in cui noi, nutriti da altri film e da altre letture, abbiamo il cuore pesante e la testa piena di dubbi. C’è da invidiare lui e i «pischelli» che gli ronzano attorno perché l’ignoranza e il bisogno di scaricare la rabbia per una vita grama, conferisce loro un’identità collettiva, un sentimento comune, una sorta di epos delle loro loro giornate sgangherate.

C’è da invidiarli perché si sentono eroi del cartone animato che hanno in testa. Per questo rifiutano di etichettare come razzista la spedizione punitiva contro il negozio del nemico. «Razzista» è un aggettivo che non sta nel linguaggio del fumetto. Devi essere proprio un naziskin per accettarlo e gloriartene. Ne ho sentiti tanti (anche certi politici che hanno sempre qualcosa di verde addosso) e tanti ne posso immaginare che, appena finito di dare fuoco a una ipotetica Moschea , già dichiarano al telegiornale che loro rispettano tutti, ma quando è troppo è troppo: questi sono barbari, addirittura pregano col sedere per aria! Fascista io? Ma per carità… Solo perché ho sfasciato il negozio di un bengalese che non mi ha fatto ritrovare il portafiglio di una mia amica? Ma per carità: il nonno della mia ex moglie era socialista, il mio tatuaggio preferito è Che Guevara… come fate a dire che sono fascista? Soltanto perchè mi vendico personalmente dei torti subiti invece di rivolgermi alla giustizia? Solo perchè esercito la violenza e la sopraffazione, mi vendico da me senza disturbare «le guardie», solo perché non credo nelle istituzioni? Solo perché faccio la voce grossa e impongo il rispetto con la forza? Sì, solo per quello. Basta e avanza.

Esistono comportamenti «fascisti» , e chiunque abbia qualche consuetudine con la storia può documentarsi in merito. Non è un’attenuante che le squadracce del presente non abbiano alibi ideologici. È un’aggravante. Se nel ventennio poteva esserci qualche povero gonzo che davvero credeva in Mussolini e si comportava male di conseguenza, oggi, che nessuno crede più in niente e se ne vanta, non ci sono giustificazioni, per assalti, aggressioni, incendi e persecuzioni.

È la nuda e pura responsabilità individuale. È un atto criminale, punto e basta. E, personalmente, riterrei opportuno un giudizio severo anche nei confronti di un eventuale manipolo di giovanotti «di sinistra» , se andassero a randellare in giro questo o quello, a scopo di ritorsione.

Quando, nei tardi anni settanta, alcune teste marce di «Prima Linea» (terroristi e di sinistra) decisero di andare a gambizzare e intimidire a colpi di pistola , qui a Roma, sospetti spacciatori di quartiere, per salvaguardare la peggio gioventù e per continuare a scrivere col sangue la loro stupida epopea, ricordo bene, benchè fossi una ragazzetta, la vergogna che provai per loro e la repulsione, per il fatto che si conclamavano «comunisti». Oggi il comunismo è defunto e la parola «sinistra» è stata pensionata a forza.

Che Guevara, pace all’anima sua, abita stabilmente sulle T-shirt di chiunque, pochi sanno qualcosa del suo pensiero e delle sue azioni, ma molti conoscono la sua barba e la sua motocicletta.

Oggi, forse, se vogliamo provare e tracciare un discrimine fra «noi» e «loro», fra i buoni e i cattivi, è meglio ripartire dai fondamentali, è meglio metter giù, nero su bianco, pochi princìpi, da condividere e, soprattutto, da mettere in pratica. Uno potrebbe essere, se i cattolici mi consentono questa incursione nel loro territorio, questo: «Non fate agli altri quello che non vorresti fosse fatto a voi».

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Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.17   
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:29:44 pm »

Brava Bonino, ci hai pizzicati

Lidia Ravera


Dunque Emma Bonino, che non è arrivata alla politica dal concorso di miss Gambe né dall´onorata carriera di valletta, ha un innamorato. E questo innamorato non è Marco Panella (ma va?). E inoltre la Bonino, non per offendere, ha pure 60 anni, eppure... La notizia piccante era su tutti i quotidiani più autorevoli che, come capita sempre più spesso, l´avevano pescata dal rotocalco Diva e Donna (il secondo più gettonato è Chi Diva e donna a concedere un´intervista sul tema della fame nel mondo in occasione della conferenza mondiale della Fao, la competente Emma avrebbe deciso di inserire un po´ di gossip sentimentale per dimostrare la fatuità del giornalismo italiano. Una cosa tipo: scommettete che se rivelo cifre terribili sulla quantità di bambini morti per fame, critico e propongo e analizzo, non una parola sarà ripresa, se invece faccio un accenno alla mia vita privata, sui cui non ho mai intrattenuto né l´Italia né l´Europa e meno ancora il Terzo Mondo, tutti daranno spazio a quello e soltanto a quello? Naturalmente ha avuto ragione, dimostrando tre piccole verità, ormai ovvie, ma non per questo meno gravi. Primo: i giornali "seri" imitano quelli popolari in una corsa al ribasso che caratterizza il cosiddetto "libero mercato" in modo uniforme (per qualche copia in più, per qualche spettatore in più, per qualche indice di gradimento in più peggiora tutto, dalla televisione alla letteratura, dalla stampa allo spettacolo). Secondo: della terribile sperequazione fra chi è satollo e chi crepa di fame non frega niente a nessuno (almeno finché la fame degli altri non minaccerà molto da vicino le nostre tavole imbandite). Terzo: gli esseri umani di sesso femminile, indipendentemente dalla loro competenza, dal loro valore, dal loro impegno e dalla loro posizione nella piramide sociale, devono sempre e comunque rendere conto della loro situazione sentimentale, della loro avvenenza o mancata avvenenza, della loro età e dei loro rapporti con l´altro sesso. Se riescono a innamorarsi e far innamorare, quello sì che è un risultato. Tutto il resto è roba da maschi o sublimazione, puoi anche diventare Presidenta della Repubblica, ma come femmina sei fallimentare.

Uffa, è l´unico commento che mi sento di aggiungere. Se, invece, Emma Bonino si è davvero lasciata andare ad una allegra confidenza e, scocciata dal polverone suscitato, ha deciso di inventarsi, a posteriori, la provocazione, allora, come si dice: chapeau! Complimenti! È la più spiritosa e intelligente di tutte le ritrattazioni. Dovrebbe brevettarla.

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Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.13   
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 10, 2008, 09:56:16 am »

CRONACA

Prima nascosto, oggi ostentato

Sessualità matura tra luci e ombre

di NATALIA ASPESI


 Sino a mezzo secolo fa nessuno avrebbe osato importunare gli anziani chiedendo quante volte la settimana e con che soddisfazione, tanto pareva ovvio che il sesso fosse un ingombro giovanile a cui molto prima dei 50 ci si sottraeva volentieri per dedicarsi alle più alte cose dello spirito. Si citavano come bizzarrie, cose da artista, certi fenomeni come Picasso, che ultraottantenne faceva perdere la testa a poco avvedute signore, mentre nel 1950, in "Viale del tramonto" Gloria Swanson, a 53 anni, era diventata l'esempio della disgustosa ingordigia sessuale di una donna ormai decrepita. I binomi sesso e giovinezza, o ancora meglio, sesso e procreazione, secondo i dettami religiosi soprattutto cattolici, avevano convinto che era naturale l'esclusione dalla pratica erotica delle persone oltre l'età fertile, per non parlare di Freud che aveva peggiorato il tutto descrivendo piccini rovinati per sempre dalla famosa "scena primaria" dei genitori copulanti, anche giovanissimi.

Il silenzio su una vita sessuale canuta riguardava soprattutto le donne, che del resto per secoli neanche ci arrivavano oltre la cinquantina, morendo spesso dopo qualche parto e arrivando raramente addirittura al decimo. Sino agli inizi del secolo scorso per gli uomini si chiudeva un occhio, quando dopo ogni vedovanza sceglievano spose sempre più giovani, ma anche per loro c'era un limite, oltre il quale non c'era che la castità. Apparente, ovvio, perché della realtà erotica loro ma anche di irreprensibili dame, mai nessuno avrebbe osato parlare; chissà quante belle storie i vecchi del passato si sono portati nella tomba! Adesso invece è ovvio che tutti siano desiderosi di raccontare le loro vigorose prestazioni: anche perché non si parla d'altro, e le università di Goteborg o di Tubinga o di Ottawa non hanno di meglio da fare che studiare i vecchi scoponi, e gli spot televisivi reclamizzano il gelato con il deliquio di una delirante fellatio e i profumi con un giovane in mutande che si distende su una signora in abito da sera mentre una voce da seduzione orgasmica balbetta in francese; e il mercato della terza e quarta età non lancia solo colle per dentiere e scivoli per le scale ma anche festose crociere dette "azzurre" e intimo civettuolo se pur giustamente coprente. Insomma, come i giovani sono costretti dalla pressione consumistica a portare l'orecchino e a ciondolare all'happy hour, i vecchi non si sentono solo in dovere di fare l'amore (cosa che hanno sempre fatto, di nascosto) ma di parlarne e di esibirlo. Diciamo però che non sono sempre rose e fiori. Le vistose e ottimistiche cifre che ci vengono da Svezia, Finlandia, Canada, Inghilterra, Stati Uniti segnalano fortunatamente che c'è una bella differenza tra vecchi in coppia e vecchi soli.

Le coppie anziane che ancora si amano oppure appena si sopportano, lo fanno con soccorrevole abitudine, spesso anche solo come "remedium concupiscientiae", o per nostalgia, magari anche per imperituro amore; però si conoscono anche dei lui ma soprattutto delle lei che si rifiutano energicamente a qualsiasi bisogna e allora sia i lui che le lei tempestano di lettere le poste del cuore per esprimere la loro desolazione. E per esempio la maggior parte delle ultrasessantenni che improvvisamente piantano il marito (più spesso cacciandolo di casa) lo fanno per sottrarsi al tran-tran del dovere coniugale diventato insopportabile. La situazione dei single è più complicata, anche prima di entrare nella quarta età. Pare che spasimando sia gli uomini che le donne ritornati soli per ritrovare un facsimile dell'anima gemella, anche tra i 40 e i 50 anni abbiano poi in realtà grande difficoltà ad abbinarsi. Gli uomini hanno la scorciatoia delle prostitute a meno che abbiano la fortuna dell'incontro fatidico con l'ukraina, la rumena o la russa, che li prendono a scatola chiusa accogliendoli in paradisi mai conosciuti.

Le signore, quasi sempre con figli, si addestrano ancora giovani a farne a meno o a fruirne saltuariamente con antichi spasimanti o conoscenti momentaneamente distratti. Più dolorosa è la situazione delle donne mature che certe che per essere una buona moglie basta saper fare il ragù, si ritrovano oltre i sessanta con un marito che ha perso la testa per una signora assatanata, non necessariamente molto più giovane, ma che sa sostituire il domestico ragù con ben altre leccornie. Però capita anche che improvvisamente le donne rimaste sole e ormai rinunciatarie da anni, pensionate e nonne se non bisnonne, si sentano rivivere e si mettano a chattare indefessamente, scoprendo la generosità fisica anche gratuita di bravi ragazzi avventurosi ma anche la parsimonia sentimentale di loro coetanei: quasi sempre, consigliano le signore, da evitare come la peste, dopo qualche accoppiamento di poca soddisfazione.

C'è però un problema nei quattro sondaggio degli autorevoli ricercatori svedesi: il primo è avvenuto nel 1970-71, l'ultimo è di questi anni. C'è un dubbio: ammesso che la ricerca prosegua e arrivi mettiamo al 2058, di quale vita sessuale potranno parlare i vecchi di allora, quelli che oggi hanno meno di trent'anni e risultano essere già adesso i maggiori consumatori di Viagra e persino della vecchia papaverina?

(10 luglio 2008)

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