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Autore Discussione: LIDIA RAVERA.  (Letto 32532 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Luglio 10, 2008, 05:15:46 pm »

La bella piazza e le voci stonate

Lidia Ravera


Leggo sul Corriere della Sera: «La piazza che doveva segnare l’apoteosi dell’opposizione di Antonio Di Pietro gli ha regalato un brutto autogol». Leggo ancora: «Finisce con Furio Colombo, veemente, che contesta Grillo e chiede una standing ovation per Napolitano... e con Mara Carfagna che querela Sabina Guzzanti». Potrei leggere ancora ma preferisco smettere. Mi viene il sospetto di non essere stata presente, dalle ore 18 alle ore 21 e 30, alla stessa manifestazione di cui parlano i giornali. Certo, ci sono alcune bizzarre somiglianze... anche nella Piazza Navona dove ero io c’erano le opere del Bernini e del Borromini e c’erano Sabina Guzzanti e Antonio di Pietro.
E Antonio di Pietro aveva portato le sue bandiere, il che, per uno che “aderisce” è un po’ troppo. E Sabina Guzzanti era stranamente stridula e sboccata, mentre in genere è saggia e divertente. C’era Beppe Grillo che, come era prevedibile, ha mandato tutti affanculo, che è un messaggio totalmente inutile oltrechè dannoso. Però c’era anche molto altro. C’erano migliaia di persone, senza “logo” né bandiera.

Immobili, in piedi, parossisticamente attente, per tre ore e mezza. C’era Rita Borsellino, in collegamento e c'era Pancho Pardi, c’era Ascanio Celestini e c’era Moni Ovadia e c'era Paolo Flores D’Arcais che, con il semplice elenco di tutti i reati che resterebbero impuniti se il trucco blocca-processi dovesse essere messo in opera, ha fatto correre a tutti i presenti in piazza, me inclusa, un brivido nella schiena. Era la stessa manifestazione di cui parlano i giornali, o era un’altra? Mi sono persa e sono finita in una piazza Navona duplicata appositamente per confondere l'opposizione, magari dal nuovo sindaco Alemanno? Oppure abbiamo vissuto la stessa piazza da due punti di vista un po’ diversi. Io vi racconto il mio, visto che tutti gli altri, da pulpiti ben più potenti, vi racconteranno, l’altro.
Io ero sotto il palco, e ascoltavo la descrizione del nuovo round di un lungo “incontro” dal titolo: Silvio Berlusconi contro le regole democratiche. Tutti gli interventi vertevano, ciascuno con il suo timbro, su questo tema. Erano discorsi nuovi ed erano discorsi vecchi. Mi tornava in mente la manifestazione organizzata da Nando dalla Chiesa nel 2003, stessa piazza stesso mare di folla, sotto lo striscione: «La legge è uguale per tutti». Anche allora c’erano migliaia di persone, sul palco c’erano anche Fassino, D’Alema e Rutelli. Poi, a un certo punto, Nanni Moretti saltò su dalla platea e disse: «Con questi qui non vinceremo mai». E la piazza esplose in un applauso addolorato quanto liberatorio.
È successo anche ieri. Applausi e fischi hanno sottolineato ogni affondo contro l’opposizione di governo. Era inevitabile. Cioè: si sarebbe potuto evitare soltanto appoggiando la manifestazione, sfottendo meno, partecipando anche senza partecipare, perché gli obbiettivi erano (sono) comuni. Perchè, vedete, nessuno si diverte a urlare, se si parlasse tutti insieme con voce chiara e forte, non ci sarebbe alcun bisogno di sgolarsi. E l’efficacia sarebbe maggiore. È così difficile da capire? Ma certo... io sono stata ad una manifestazione diversa, non ero alla “manifestazione di Di Pietro”. E tanto meno a quella di Beppe Grillo. Ero ad una manifestazione auto-organizzata, promossa da una rivista cui collaboro volentieri, Micromega, e da due uomini che stimo: Pancho Pardi e Furio Colombo, due politici recenti, espressione della società civile, un ex professore universitario e un ex direttore di giornale (questo). Peccato essersi persa quell’altra, manifestazione, pare che si siano divertiti un sacco, fra un insulto e un fescennino... E, a proposito di divertimento, se vi volete consolare, procedete nella pagine de la Repubblica fino a «Hippy-chic: lusso e privilegi anni ‘70», ove si legge: «la crisi non sfiora neppure da lontano l’universo miliardario dei ricchissimi».
Ad avvisarci è «una delle 50 donne più potenti del pianeta». Angela Merkel? Hillary Clinton? No, Frida Giannini, direttore creativo di Gucci. «Mai come in questa stagione - sorride - si è visto tanto lusso, chi ha grandi possibilià economiche entra nei nostri 200 negozi e compra proprio quello che costa di più» . Cioè: caftani fluttuanti, fantasia di conchiglie ricamate, capricciosi disegni rococò. Come la «ricca e privilegiata dama hippy-chic anni ‘70». Ma dov’era, la dama hippy chic, negli anni Settanta? Io non l’ho vista. Forse, anche all’epoca, avevo sbagliato piazza.
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Pubblicato il: 10.07.08
Modificato il: 10.07.08 alle ore 9.35   
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:37:42 pm »

Il pericoloso giovane di Rifondazione

Lidia Ravera


Se non l'avessi letto sulla prima pagina del quotidiano "La Repubblica" non ci avrei creduto.

E dire che non sono mai stata un'ottimista: ho sempre pensato che mi toccava vivere in un paese premoderno, un tantino feudale, facile al razzismo, rassegnato al malaffare e moderatamente orientato a destra… però che si arrivasse a questo punto, no, non me l'aspettavo. Cito il titolo: "Sedicenne tolto alla madre perché milita in Rifondazione". A tutta prima equivoco e penso che la "colpevole di comunismo" sia la madre e già mi innervosisco: anch'io sono stata, finché ho potuto, comunista, ed ero, vi assicuro, un'ottima madre. Niente gulag, tanta discussione, niente Keghebè, libertà vigilata dal buon senso, rispetto reciproco, valori condivisi, patti chiari ed educazione all'esercizio della critica. Perché a questa signora di Rifondazione levano la tutela dei figli? Ero pronta ad armare una volante rosa (ma anche un po' rossa) e marciare su Catania, dove è avvenuto il fatto, quando ho letto anche l'occhiello. "Il giudice lo affida al padre: tra le motivazioni anche quelle politiche". Dunque "il comunista", mi dico, è il ragazzino. Leggo tutto l'articolo e scopro che è stata prodotta come prova a carico dell'irresponsabilità materna "La tessera d'iscrizione a un gruppo di estremisti". Il gruppo di estremisti dove "è diffuso l'uso di sostanze alcooliche e psicotrope" (come in tutte le discoteche del mondo, anzi, sicuramente meno) si chiama "Tienanmen". Se lo ricordano quelli del Tribunale di Catania che cosa è stato "Piazza Tienanmen"? La piazza in cui centinaia di migliaia di studenti sono scesi a manifestare per strappare un po' di democrazia alla Cina comunista. Sono stati massacrati i protagonisti di quella rivoluzione civile che ha smascherato le derive totalitarie del comunismo e solo un genitore tonto o disinformato può non essere fiero che suo figlio frequenti un circolo intitolato agli eroi di piazza Tienanmen. E poi: un ragazzo di 16 anni che, in questa Italia di tifoserie armate e solitudini elettroniche, si interessa di politica, suona il basso e la chitarra e ha una "passione per il teatro" a me pare il massimo che si può desiderare in fatto di figli. La signora Agata (medico ospedaliero) può essere fiera di sé, anche perché, pur lavorando, ne ha cresciuti tre, di ragazzi. E speriamo che la sentenza venga ridiscussa. Resta una triste sensazione: a trent'anni dalla fine della Guerra Fredda, si continua ad agitare il babau comunista, fingendo di non sapere che un adolescente innamorato dell'idea comunista è solo un ragazzo più sensibile degli altri al tema della sperequazione economica, dell'ineguaglianza. I giovani migliori, come sempre, stanno nei gruppi del volontariato cattolico e nei centri sociali permeati di cultura antagonista, a sognare la bontà o la rivoluzione. È triste che, mentre i ragazzi cattolici hanno un sacco di padri potenti e plaudenti, i ragazzi di sinistra, ormai, sono soli… e possono perfino essere tolti alla propria madre. Che brutto periodo, quello che stiamo attraversando! Come si fa a uscirne? Da che parte si comincia? Tornando a scuola e restando a scuola tutta la vita, sembrano pensare al Comune di Genova, dove propongono per i dipendenti: "una pagella, ogni anno. E chi non prende almeno sette può dire addio all'incentivo" ("La Stampa"). Si tratta di una delle inziative tese a valorizzare gli impiegati scrupolosi e ad emarginare i fannulloni. In linea di massima, sarebbe anche giusto e, come Massimo Gramellini (sempre su "La Stampa"), anch'io "saluto con entusiasmo l'ondata di meritocrazia che sta per infrangersi sulle aride spiagge del Moloch pubblico" però, purtroppo, in un Paese permeato dalla cultura del raccomandazione, dello scambio di favori, dell'appartenenza familistica, di partito o di clan, è inevitabile una domanda: siamo sicuri che i premi li riceveranno davvero i migliori, e non, come da copione, quelli che è più utile premiare?

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Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.09   
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:35:22 pm »

Dove la migliore vince davvero

Lidia Ravera


L´Italia, paese martoriato da un vastissimo campionario di crisi (da quella economica a quella politica passando per quella della voglia di lavorare e dei valori condivisi), si sta, tutto sommato, facendo onore sul palcoscenico mondiale dello sport.

Dal televisore, sempre acceso ma muto, vedo giubilare o, brevemente, disperarsi, le belle facce pulite e i corpi magnificamente espressivi degli atleti e delle atlete. È uno spettacolo consolante. È consolante vedere la Pellegrini (oro nei 200 stile libero) che si bacia la medaglia. La Vezzali (oro nel fioretto) che guarda il suo bambino mentre le manda baci immortalati dalle telecamere. La Quintavalle che nessuno se l´aspettava (oro nel judo), nemmeno lei. La Cainero (oro nel tiro a volo) che vuole dividere il premio coi compagni della squadra. È consolante che le ragazze d´Italia abbiano conquistato 4 medaglie d´oro e i maschietti 3. Corrado Sannucci su "La Repubblica" parlava di "un ribaltamento epocale". Ora le percentuali si sono riequilibrate: su 25 medaglie, 10 le hanno conquistate le donne e 15 gli uomini. Ma le donne hanno un oro in più. Come dire: l´eccellenza è femmina, e l´equilibrio di genere è rispettato. Metà donne e metà uomini, sul podio. Come dovrebbe essere ovunque: in Parlamento, al Governo, ai vertici delle aziende, degli enti pubblici, delle televisioni e dei giornali. Come potrebbe essere se il merito valesse anche quando in gioco sono la competenza professionale, la qualità intellettuale, il talento artistico, la creatività, l´intuizione scientifica, la preparazione culturale.

Purtroppo non è così. Nella vita vera, fuori dalla simulazione di realtà che contraddistingue i giochi tutti, anche quelli olimpici, le ragazze non godono il privilegio di una gara pulita, dove ciascuno parte senza vantaggi pregressi e può contare solo su sé stesso e le regole sono uguali per tutti e se bari sei squalificato e se sei più forte, se hai lavorato più duro, se sei più dotata, vinci. Ma se non vinci, va bene lo stesso, perché ha vinto una più brava di te. E allora non c´è umiliazione, c´è ammirazione. Non ha vinto una che è andata a letto con l´onorevole Porcello, col Potente Arrapato di turno e ne ha tratto gli ovvii vantaggi. Ha vinto una che è più veloce di te e tu devi soltanto ricominciare ad allenarti, e la prossima volta andrà meglio. È questo il bello del sport. Ed è per questo che milioni di italiani restano inchiodati allo schermo televisivo per ore a godersi mondiali, europei, campionati nazionali, olimpiadi, incontri di boxe, di biliardo, gare di golf, maratone… e tutto lo sport che passa il palinsesto e che è parecchio, ogni anno di più. Davanti allo spettacolo dello sport si ridiventa bambini perché si può di nuovo credere alla più bella delle fandonie: "vince il migliore". Nella ruvida realtà non è così. Vince il più furbo, quello che ha capito come si gioca: allineati e coperti, obbedienti, al servizio di chi conta, senza recare disturbo, meglio se un tantino mediocri, abili nell´uniformarsi, come camaleonti, al colore dominante.

Se si ha un corpo di donna, poi, l´affare si complica: finchè si è giovani è d´obbligo offrirlo, innanzitutto, al desiderio maschile. Meglio se qualificato a imprimere una svolta decisiva alla carriera di Bella Ragazza (consultare l´elenco delle intercettazioni telefoniche per credere). Quando non si è più giovani, poiché è sul corpo-oggetto-di-desiderio che si viene discriminate, si può anche scomparire, dato che abbastanza raramente, le "nate in un corpo di donna", riescono a raggiungere, usando altri attributi, posizioni di rilievo nel nostro paese (in altri paesi europei la situazione è meno avvilente, per esempio la Spagna, o la Scandinavia).

Alle Olimpiadi, femmine e maschi non gareggiano insieme, perché i maschi hanno gambe più lunghe, muscoli diversi, un´altra conformazione. Ma le medaglie hanno lo stesso peso. È una sorta di rispetto della differenza sessuale. Ciascun genere ha i suoi record. Alle Olimpiadi essere una donna non è un handicap, essere un uomo non è un vantaggio. Per eccellere ci vuole talento, volontà, sacrificio. E l´umiltà di sottoporsi, ogni volta, per ogni prestazione, ad un esame. Quest´anno, per la prima volta, le ragazze stanno andando meglio dei ragazzi. A Londra, nel 2012, questa tendenza sarà confermata. Non ho dubbi. Sono più abituate a soffrire, le femmine della specie, a impegnarsi, a investire 100 per avere 10, a sgobbare. E, quando i giochi sono puliti, è come avere in mano una carta in più.

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Pubblicato il: 23.08.08
Modificato il: 23.08.08 alle ore 10.53   
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 24, 2008, 11:03:59 pm »

Il diritto di scegliere

Lidia Ravera


Una coppia milanese va dal giudice e chiede di poter dare, al proprio bambino appena nato, il cognome della madre. Il giudice rifiuta. Un secondo giudice ratifica il rifiuto. I figli devono portare il nome del padre. Perché? Perché si è sempre fatto così, da tempo immemorabile. La coppia non cede e ricorre in Cassazione. E la Suprema Corte acconsente. C’è una carta dei diritti dell’Unione Europea che vieta «ogni discriminazione fondata sul sesso» e, soprattutto, c’è il buon senso comune che considera il patronimico «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non più in sintonia con l’evoluzione della società».

E soprattutto c’è anche il fatto, incontrovertibile, che i padri non sono più quelli di una volta. Quelli che, per intenderci, mantenevano la famiglia per tutta la vita, al servizio di matrimoni indissolubili contratti con fanciulle totalmente dedite alla procreazione e alla cura del nido, condannate innocenti a scontare un perpetuo stato di minorità. Il cognome dell’uomo veniva, all’epoca e fino a ieri, assunto dalla donna che, le piacesse o no, perdeva il suo, in una spoliazione simbolica per la quale non nutriamo alcuna nostalgia. Il cognome dell’uomo veniva imposto al bambino come un marchio di proprietà. I bambini erano messi al mondo dalle donne e educati dalla assoluta autorità degli uomini. Oggi non è più così. Le donne, è vero, continuano a mettere al mondo i bambini, poiché soltanto nel loro corpo si nasconde il dispositivo che consente la procreazione, però, sempre più spesso, si trovano anche a educarli, mantenerli, crescerli, concedere o negare permessi, reprimere o premiare eccetera eccetera. I matrimoni, non più indissolubili, si dissolvono con una certa frequenza. Gli uomini vanno, fanno altri figli con altre donne, o trovano donne che non vogliono figli o ne hanno già e sono disposte a fermarsi. Possono continuare a frequentare i bambini nati dal loro seme o sparire, possono contribuire al mantenimento e imboscarsi. Del resto: finchè una donna non li avverte, gli uomini non hanno alcuna possibilità di scoprirlo, che sono sul punto di diventare padri.

La paternità è una scelta culturale, la maternità è un fatto fisico. Possono fare il padre o non farlo più, gli uomini. Le donne restano sempre lì, accanto ai loro figli, restano madri. Per vocazione, per natura, per istinto, per convenzione, per tradizione... non so, comunque non scappano, non mollano. Le madri sono madri per sempre, non esistono le ex madri, come non esistono gli ex assassini: se hai dato la vita, se hai tolto la vita farai sempre i conti con quello che hai fatto. Nel bene, nel male. Dolorosamente, felicemente, nel profondo. Quindi: era ora, certo che era ora, si è insistito anche troppo a lungo, nell’imporre il nome del padre a bambini che possono perderlo da un momento all’altro, il padre, e allora il nome si svuota come il carapace di un granchio abbandonato sulla battigia. Naturalmente, se è la donna a chiederlo, se ci tiene, se, magari, si sente più protetta, va bene anche il “patronimico”. Diciamo che il passo avanti, anche in questo caso come nel caso dell’interruzione di gravidanza, è aver sancito il diritto di scegliere.

Peccato che le leggi non si fanno in Corte di Cassazione.

Ratificherà, il governo di centrodestra (il nostro centrodestra, non un centrodestra qualsiasi) con una opportuna modifica del diritto di famiglia, la saggia decisione dei giudici? Non credo. No, non perché dal Governo non mi aspetto niente di buono, ma perché il diritto di dare ai figli il proprio nome è anche un segno di rispetto verso le donne, un riconoscimento del loro essere cittadine a pieno titolo. E questo centrodestra, finora, di rispetto per le donne, ne ha dimostrato davvero poco.

Va da sé, come sempre, che sarei ben felice di sbagliarmi.

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Pubblicato il: 24.09.08
Modificato il: 24.09.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 06, 2008, 12:07:37 pm »

La lezione di Obama e le donne


Lidia Ravera


Fra i molti meriti di Barak Obama, con quella bella faccia di colore, con quel nome così lontano da ogni tradizione wasp, c'è anche questo: ci ha fatte svegliare di buon umore, noi femmine della specie. Come tutti i democratici, certo, come tutte le persone per bene che aborrono il razzismo. Ma con un valore aggiunto: l'effetto tetto di cristallo. Ha dato un bella zuccata, Obama, al limite invisibile che vuole al potere sempre lo stesso animale: maschio e bianco, di razza dominante. Così ci siamo svegliate sentendo il dolce tintinnio dell'esplosione, frammenti di vetro dappertutto. Brillavano come pietre preziose. Yes, we can, ci siamo dette.

Possiamo. Anche noi. Noi donne. In fondo, la dinamica del razzismo è la stessa dell'antifemminismo: il bianco ha sempre discriminato il nero (anche) perché sessualmente più dotato, no? E ha sempre tenuto le donne lontano dal potere perché nutre il fondato sospetto che siano, complessivamente, più dotate. Non tutte, ovvio, ma intanto si fa fuori metà del mondo e si riduce, drasticamente, la concorrenza. Per scoraggiarle senza ucciderle, ha costruito una cultura della disistima per cui ogni donna è diventata la peggior nemica di se stessa e delle sue simili. Così ha fatto con i neri, che, rabbiosi e rassegnati, non andavano neanche a votare. Questa volta ci sono andati e una ventata di vera novità ha scosso il pantano dell'occidente. Il messaggio è: bisogna osare. Un'amica mi ha detto: ma non sarebbe stata meglio Hillary, per spingerci a osare? No. Hillary era troppo interna al gioco, non veniva "da fuori". Non rompeva gli schemi. E' "il negro" ch è in noi, che deve vincere. La nostra diversità.

Il mondo ha bisogno di altri punti di vista, altre culture, sensibilità diverse, altri stili, altre storie. Abbiamo toccato il fondo. Da oggi si comincia a risalire. E noi, che siamo diverse, dobbiamo prenderci, finalmente, le nostre responsabilità.


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Pubblicato il: 06.11.08
Modificato il: 06.11.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:04:33 pm »

Difendere la cultura dalla crisi

di Lidia Ravera


Il 19 dicembre "Il manifesto" costerà 50 euro. Cioè: chiederà 50 euro, consapevole di chiedere una testimonianza di stima, un gesto d'affetto, una dichiarazione d'amore per la sua storia, la storia di un giornale intelligente, libero da servitù di partito, senza padroni. Un giornale nato dalla ribellione di alcuni autorevoli intellettuali del secolo scorso ad un Partito comunista forte, rigido e filosovietico. Un giornale che è stato anche una forza politica. Un giornale forse un tantino snob, ma certo mai allineato, superficiale o in vendita. Glieli daremo, questi 50 euro?
Certo che sì. Con la certezza che è cosa buona e giusta. E che non risolve il problema. Il Manifesto morirà, come sta morendo "Liberazione". Gli altri, pur boccheggianti, vengono sostenuti, tenuti in vita artificialmente. Non questi. (I motivi sono ovvii, non spreco le poche righe concesse da l'Unità-bonsai, per ricordarli). In realtà:tutti i giornali sono in crisi. Lo sono i libri, il teatro e il cinema e la musica. I prodotti culturali, subiscono la crisi come nessun altro settore. Sono il superfluo, di cui si crede di poter fare a meno. Risultato: un'altra povertà, accanto a quella materiale: la povertà emozionale. Saremo più freddi, più annoiati e più tristi. Alla mercè di una tv sempre più vacua e lottizzata. Eppure, se dici, oggi, che la cultura è necessaria, ti guardano come la vecchia mandarina pallosa, sempre lì a rimpiangere i bei tempi andati. Pane,latte, calcio, cellulari e psicofarmaci…è questo il necessario,oggi! E la felicità no?
Senza leggere, senza stimoli per pensare, senza quel breve cortocircuito di gioia che ti provoca l'arte, nessuna felicità è umanamente possibile.Abbassiamo i prezzi, dei libri dei cinema dei teatri. Sovvenzioniamo la cultura, ma non costringiamo gli italiani a farne a meno.

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11 dicembre 2008     

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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 30, 2008, 05:37:13 pm »

Un partito nuovo con volti vecchi. È possibile?

di Lidia Ravera


L’anno scorso, fra novembre e febbraio, trepidante come una bambina ammessa finalmente a scuola , ho partecipato alla commissione Codice Etico del Partito Democratico. Mi hanno eletta senza consultarmi e, secondo quelli che sono rimasti a Milano, alla prima Assemblea Costituente, fino alla fine (io sono ripartita per Roma alle quattro), senza consultare granché neanche loro. Erano 2000 ottime persone, è stato un peccato. Ma forse non si poteva fare altrimenti. Dalla Presidenza qualcuno ha letto tre liste di nomi. Cento per stendere una "Carta dei Valori", cento per partorire una bozza di Statuto, cento per stilare, appunto, un codice di comportamenti e regole condivise per "Un partito nuovo, non un nuovo partito". Questo lo slogan.

Le prime riunioni erano affollate. C'era un gran felicitarsi l'un l'altro. Noi della Società Civile, quasi inavvertitamente, si sedeva vicini. Moni Ovadia, Giovanni Bachelet, Iacopo Schettini, Gad Lerner… I pezzi da 90 come Violante, venivano, parlavano, andavano via. C'erano molti assessori, consiglieri comunali, qualche sindaco, dirigenti sindacali. Ci si scaldava parecchio. Io prendevo appunti. Volavano parole importanti. Alla presidenza c'erano una donna e un uomo, per democrazia di genere, uno dei proponimenti virtuosi poi disatteso nelle liste elettorali. La donna, Marcella Lucidi, raccoglieva spunti da tutti gli interventi (alcuni davvero interessanti, altri un po' inutili, un po' per marcare il territorio, per dire «ehi, ci sono anch'io») poi tesseva, riunione dopo riunione, il codice da proporre al Partito.

Ricordo alcuni titoli: "requisiti e cause ostative per candidature, incarichi istituzionali e di partito", "rapporto fra politica e interessi privati", "leale collaborazione, correttezza dei comportamenti, rispetto delle regole". Provai anch'io , invitata a dare il mio contributo, per così dire, stilistico, a buttar giù una ipotetica introduzione (se l'Unità fosse ancora big size, ne citerei qualche frase). Non ebbe successo: troppa distanza fra il mio, pur brillante, italiano e la lingua della politica. Non me ne ebbi a male. L'importante erano i concetti. E i concetti c'erano. C'era, soprattutto, la determinazione a frenare le derive della partitocrazia. L'occupazione del potere, le rendite di posizione, l'oblio dello spirito di servizio, l' accoglienza offerta a inquisiti e condannati in nome di una morale"separata", l'accumulo di cariche e così via.

È stato inevitabile, per me, dal caso Ottaviano del Turco in avanti, chiedermi: fare un "partito nuovo" con le stesse persone che stavano in due partiti vecchi è possibile? E se uno dei due, poi, ha raccolto l'eredità di un partito vecchissimo, come la Dc, che si fa? Codice etico retroattivo e fuori dai piedi?

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30 dicembre 2008

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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:24:11 am »

Fermiamo il capitalismo selvaggio

di Lidia Ravera


Ha detto Giorgio Napolitano, anche se in altre parole: facciamo silenzio tutti, silenzio per un attimo.
Silenzio e sobrietà. Sarà, il prossimo, un anno duro. Per molti vorrà dire mancare del necessario, per altri vorrà dire mancare del superfluo. Per pochi, questo lo aggiungo io, non vorrà dire niente. Hanno i conti all'estero. Hanno le società nei paradisi fiscali. Un po' di nervosismo in borsa, ma il patrimonio è tale, che la sofferenza sarà minimo. Bene: anche a "quei pochi", ci permettiamo di chiedere un po' di sobrietà.

Meno barche ancorate a farsi ammirare, meno Billionaire, meno tette comprate, meno animali morti sul dorso delle signore,meno vulcani finti, meno gorilla a guardare le spalle di ometti ricchi e inutili, in una coreografia ormai troppo consueta: il ballo del privilegio esibito. Non è una richiesta punitiva, a parte il fastidio estetico, che il geniale "Cafonal" di Roberto D'Agostino illustra con repellente obbiettività, è un' urgenza culturale ( esistono? Sì, esistono). E' un'urgenza culturale perché, per obbedire al Presidente, occorre attuare una piccola rivoluzione nell'immaginario collettivo: prendere di peso il modello "soldi, lusso, potere", così perfettamente evocato dagli stili di vita dei vip, e buttarlo in qualche efficiente discarica, ove possa essere ridotto in poltiglia e incenerito.

E' dagli anni ottanta che, con continuità, ci viene proposta una felicità posticcia, ritagliata sulle misure anguste di una crescita esponenziale dei consumi, oggetti proposti ossessivamente, al solo scopo di far sentire chi li acquista, unico, diverso, superiore. Si tratterebbe, ahimé, di cambiare tendenza, di sostituire il messaggio, di licenziare l'eroe "furbetto" e truffaldino, grande accumulatore di prebende e astuto mercante di carni fresche femminili, a scopo di libidine o in cambio di vantaggi collaterali. Sarebbe il caso di trovare qualche volto nuovo, da offrire all'emulazione delle masse: qualcuno che legge libri ( uno dei passatempi meno costosi), che sa guardare (un tramonto, un quadro, gli occhi di una donna), che ascolta anche le parole degli altri, che è capace di conversare ( altro piacere gratuito), che cerca di migliorare, intellettualmente, moralmente, non soltanto di fare fortuna, non soltanto di fare i soldi.
I soldi, per praticare la sobrietà, sarà il caso di rimetterli al loro posto. Lo slogan potrebbe essere: guadagnare per vivere, non vivere per guadagnare.
Se riusciremo a provare un po' di sano disprezzo per le derive del capitalismo selvaggio e i suoi rumorosi adepti, se riusciremo a ritrovare l'eleganza austera di chi sa spogliarsi degli accessori obbligati dalla moda e godersi l'essenziale, forse, la crisi ci renderà, sì, tutti un po' più poveri. Ma anche un po' più belli.

(www.lidiaravera.it)


03 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:36:24 pm »

Il partito della pietà

di Lidia Ravera


Basta un morto per dire: No. Ma anche le proporzioni contano», così scrive Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento Europeo, in «Gaza, lettera aperta ai politici italiani». Scrive che dal 2002 a oggi, per i razzi degli estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. E sono certamente troppe. Ma a Gaza, nello stesso periodo, sono state distrutte migliaia di case e uccise più di 3000 persone. Centinaia erano bambini. Facile: sono la maggioranza della popolazione a Gaza. E non tirano razzi. Al di là di qualsiasi ragione o torto di entrambi i contendenti, la sproporzione è evidente.

Una delle tante asimmetrie? E fino a quando dovremo sopportarle, le guerre asimmetriche? A Gaza capita che una donna partorisca in un campo, che il marito le debba tagliare il cordone ombelicale con un sasso, perché le impediscono di raggiungere l'ospedale. Capita che gli scolari debbano camminare un'ora per arrivare a scuola, la via più breve non la possono percorrere. Vita quotidiana di un popolo braccato. A Gerusalemme, una scrittrice mi ha detto: «mandi i tuoi figli a scuola al mattino e non sai se torneranno a casa». Si soffre al di qua e al di là del confine.

Ma i carrarmati sono la soluzione? Molti israeliani pensano che servono solo a perpetuare l'odio e non lo sopportano più. C'è, nello stato democratico di Israele, chi condanna l'aggressività bellica del governo, nonostante la paura con cui convive da decenni. Ci sono soldati che rifiutano di andare a sparare sui vicini di casa, e si lasciano incarcerare per questa nobilissima disobbedienza. C'è, anonimo, timido, eppure in continua espansione, un incorporeo partito transnazionale della pietà. È forse l'unico a cui varrebbe, qualora prendesse corpo, la pena di iscriversi. L'unico partito da votare, in questi anni di confusione e di dolore.

(www.lidiaravera.it)


08 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 15, 2009, 06:45:44 pm »

Restare umani a Gaza

di Lidia Ravera


Vittorio Arrigoni, volontario a Gaza, nonostante un periodo di detenzione e un foglio di via delle autorità israeliane, conclude i suoi articoli quotidiani, pubblicati su "Il manifesto" e sul blog "Guerrilla Radio", con la stessa frase. "Restate Umani". Che cosa vuol dire restare "umani"? Vuol dire, innanzitutto, non abituarsi al dolore degli altri, non bruciare tutta la propria pietà sulle fotografie dei primi bambini insanguinati, ma continuare a soffrire e a protestare, anche dopo 18 giorni di guerra, anche dopo 970 morti. Vuol dire non prendere partito ciecamente, consolando sé stessi con la convinzione che il torto, il male, l'odio sia tutto dall'altra parte.

È difficile, restare umani, di fronte alla politica delle bombe. Non tutti lo sanno compiere, quest'esercizio.
Non è "restare umani" palleggiarsi le vittime, usare un lutto per giustificare altri lutti. Non lo è nascondere un arsenale sotto un ospedale, ma neppure bombardare l'ospedale perché è un obbiettivo militare e chi se ne frega se è pieno di feriti.
Non è " restare umani", invitare al boicottaggio "dei negozi appartenenti a membri della comunità israeliana", come, secondo Bernard Henry-Levy, è accaduto in Italia (e speriamo che non sia vero).
E non è "restare umani" brandire, come un'arma di distruzione psicologica di massa, il ricordo della Shoah, con tutto il suo irripetibile orrore, per chiudere la bocca a chiunque esprima le sue critiche nei confronti della politica d'Israele, della spietatezza con cui sta trasformando in genocidio una, pur lecita, operazione di polizia contro frange terroriste di Hamas. Quello degli ebrei è un popolo ferito, martoriato. Ha diritto, per sempre, alla nostra pietà. Non alla nostra incondizionata approvazione.

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da unit.it

15/01/2009
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 26, 2009, 09:48:14 pm »

Stuprate e offese

di Lidia Ravera


Pare che, alla maggioranza degli italiani, Berlusconi risulti simpatico soprattutto per la sua verve veteromaschilista: mentre calpesta, con metodo, la dignità delle donne, libera, con l’esempio, da qualsiasi senso di colpa o inadeguatezza, da qualsiasi censura o vergogna, ogni maschietto di bassa statura (morale e culturale, ma, già che c’è, anche fisica) in vena di pacche sul culo e commenti sporcaccioni sulle femmine (con particolare accanimento verso quelle che non li prendono in considerazione). Non c’è signora che non abbia subito i suoi commenti, o perché bella e giovane o perché non abbastanza bella e non più giovane.

Ci siamo sforzati di buttarla a ridere, ma adesso non ne abbiamo più voglia: gli agguati a scopo di violenza sono in crescita, incominciamo ad avere davvero paura e Berlusconi, nel commentare la proposta, demagogica, di usare l’esercito per scoraggiare le aggressioni, ha detto: «Dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle donne in Italia».

Difficile buttarla a ridere, anche se a chiedercelo è il Presidente del Consiglio. Anzi, proprio perché è Lui a chiedercelo: una battutaccia detta da un Presidente è più pericolosa della stessa battutaccia detta da un pirla qualsiasi. Fine della ricreazione, quindi, che Berlusconi taccia e si scusi. Credeva, il simpaticone, di fare un complimento alle vittime? Voleva invitarle a considerare lo stupro come un omaggio estremo alla loro avvenenza (un militare per ogni bella, le brutte chi se le stupra)?
O, magari, giustificare gli aggressori, sistemandoli nella grande famiglia dei maschietti a cui le belle ragazze danno un po’ alla testa: un’allegra banda di sociopatici di cui, almeno a parole, sembra far parte anche lui. Il Capo del Governo di questo Paese.

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26 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 05, 2009, 11:38:31 pm »

Il Paese dei bravi ragazzi

di Lidia Ravera


Decidono di marinare la scuola, prendono in mezzo una ragazzina di 14 anni, la ubriacano «fino a farle sfiorare il coma etilico». La stuprano, peggio: la deflorano. Puliscono il sangue e tornano a casa. Compagni di banco, compagni di branco. L’edificante storiella salta fuori un mese dopo, perché la vittima vuota il sacco con la sorella, dopo settimane di silenzio e anoressia. Tre adolescenti vengono arrestati. La madre di uno dei tre dichiara: «Mio figlio? È impossibile. Probabilmente lei ci stava».

Complimenti, signora. Difenda sempre suo figlio, sempre e comunque, anche se ammazza qualcuno. Si allinei pronta al più becero maschilismo, quello che vede in ogni donna violentata una puttana potenziale. Non si interroghi mai, per nessun motivo. Si tenga strette le sue modeste certezze, prima fra tutte quella su cui si basa la degenerazione italiana: la famiglia prima di tutto, la famiglia nepotista e amorale, tesa a difendere i suoi membri dal giudizio degli altri. I figli sono sempre dei santi, no? Cattivi sono i figli degli altri. È applicando questa italianissima regola mafiosa che si educano i nuovi mostri. Sono ragazzini incensati e ignorati, che crescono con la certezza della loro automatica innocenza. Mamma li assolve sempre, papà difficilmente si prende il disturbo di inculcare nelle loro fertili teste vuote un paio di principi. Per esempio il rispetto degli altri. E tutti sono “gli altri”: perfino le donne e gli immigrati.

Purtroppo nella moderna famiglia “il prossimo tuo”, quello che dovresti amare “come te stesso”, è un pallido ectoplasma senza identità. O è nella tua banda/famiglia o è nemico. E la tua banda che obbiettivo ha? Sfangare il sabato sera. Per riuscirci bruci vivo un uomo o rovini una ragazza? Pazienza. Grazie alla Gelmini, avrai zero in condotta. Tanto mamma non si arrabbia.

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05 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:27:39 pm »

Eluana, Beppino e il sequestro della volontà

di Lidia Ravera


In margine al dolore, condiviso da tanti, per i diciassette anni in cui Eluana ha continuato a morire, in margine al malinconico sollievo per la fine dell’esposizione del suo corpo martoriato, mi assalgono pensieri apparentemente scollegati. Per esempio penso: certo il fatto che gli alti prelati, il Sommo Pontefice e i suoi vicari, non abbiano figli, c’entrerà pur qualcosa, influirà, almeno un po’ sulla loro durezza implacabile. Chiunque abbia cresciuto una figlia sa quanto è insopportabile vederla soffrire, veder calpestata la sua dignità, vederla trattata come un corpo, come un simbolo, come un’anima. Una figlia è un pezzo di te.

Se lei soffre tu soffri. Se le mancano di rispetto tu senti vergogna. Se l’hai provato, questo tipo particolare d’amore, non intralci il faticoso cammino di un padre, che ricorda sua figlia ragazza, sua figlia viva, sua figlia com’era prima dell’incidente che l’ha uccisa (perché è l’incidente che l’ha uccisa) e quanto orrore le provocava l’ipotesi di essere mantenuta artificialmente in una sorta di vita meccanica, inerte, inerme.

Poi penso: perché con gli animali siamo naturalmente pietosi, tutti? Perché i cani non hanno l’anima o perché non possono volere? Noi possediamo, pare, sia l’anima che la volontà. L’anima è un privilegio che si paga perdendo il diritto a esercitare la propria volontà. L’anima è di Dio, quindi decide lui. Vogliamo abortire? Non possiamo, perché l’embrione che portiamo dentro ha l’anima anche lui. Vogliamo un figlio e, poichè la natura non ci aiuta, ci deve assistere la scienza. Possiamo attrezzarci per metterlo al mondo? No, perché i figli sono, anch’essi, proprietà di Dio, e la legge divina impone di produrli naturalmente, nel corso di un atto d’amore in età fertile fra marito e moglie. Ogni altra ipotesi è out.

Nostra figlia, nostra madre, una creatura che amiamo è in coma irreversibile. Vogliamo poterla seppellire, poterla piangere. Possiamo? No. Perché nel suo corpo morto, grazie a una miriade di santi tubicini, pulsa l’anima. E l’anima la gestisce il Vaticano. Ho pensato: ma perché quando ci sono di mezzo la vita, la morte o l’amore la Chiesa Cattolica pretende di assumere il comando, promuove a universali le sue regole particolari, impone la sue opinioni a tutti, e non soltanto, come è giusto, ai cattolici? Ho pensato: meno male che, di tanto in tanto, una persona gravemente ammalata (per esempio Welby, per esempio Coscioni) oppure il padre di una persona mantenuta in vita con terapie invasive quanto inutili, mettono a disposizione di tutti noi la loro terribile esperienza, così siamo tutti costretti a riflettere, a prendere posizione. A opporre l’empatia laica alla raggelante normatività cattolica.
Ho pensato che c’è qualcosa di eroico nel trasformare un dolore privato in una battaglia di tutti quando si vorrebbe soltanto fare presto, fare in silenzio. Per questo io lo vorrei ringraziare, Beppino Englaro.

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10 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 12, 2009, 07:03:18 pm »

Il Vangelo secondo Maroni

di Lidia Ravera


Il soffio ringhioso di una politica miope e xenofoba che spira nelle osterie padane è stato sdoganato nell’aula del Senato», questo il duro giudizio di Famiglia Cristiana sulla simpatica proposta di vincolare i medici, con apposita legge, a denunciare i propri pazienti, qualora immigrati e clandestini, al fine di poterli prontamente espellere, benchè malati feriti o moribondi, dal nostro accogliente Paese.

Se, per obbiezione di coscienza (sarà prevista anche in questo caso o la stimolano soltanto i diritti del feto?), un eventuale dottor Animabella si rifiuta di indossare la livrea dello spione, ci penseranno apposite ronde di cittadini armati di forconi, a far rispettare il pogrom. I cattolici del noto settimanale si sono, logicamente, ribellati: dar da bere agli assetati, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, ama il prossimo tuo come te stesso, chiedete e vi sarà dato... i sacri testi parlano chiaro.

I cattolici incastonati nella maggioranza di governo, al contrario, si ricordano della pietà soltanto quando si tratta di impedire gli sforzi umanitari dei poveri laici per porre termine all’idratazione coatta di una donna ridotta a vegetale, o per consentire a una donna non fertile di diventare madre, o per impedire che un bambino nasca non voluto.

Ai cattolici incastonati nella maggioranza di governo i malati interessano soltanto se irreversibilmente in coma e italiani.
Ma la pietà può essere selettiva? Vivere da cattolici prevede una rigorosa disciplina morale. Laddove noi “non credenti” arranchiamo con il solo supporto della nostra coscienza, fra mille dubbi, cercando di far bene, i cattolici hanno addirittura Dio come azionista di maggioranza e Maestro. A Lui devono rendere conto, ma da Lui possono farsi guidare. Perché non lo fanno? Perché non voltano le spalle al ministro Maroni?

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12 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 16, 2009, 11:44:25 pm »

Violenza anche se è Pirelli

di Lidia Ravera


La fotografia è bella ed è bella la fotomodella: una ragazza di colore dai grandi occhi truccati e terrorizzati. I neri capelli attraversano un viso dai lineamenti inesorabilmente armoniosi. Turgida è la bocca aperta in un grido, tondi i seni nudi che le braccia, artigliate da mani maschili, alzano ed espongono. Tutto perfetto, roba di qualità. Ovvio: l’immagine appare sul Calendario Pirelli, distinta pubblicazione dedicata ai top manager del mondo occidentale e alle legittime necessità di una libido esigente.

Da decenni la “natura morta” su cui si lustrano gli occhi è il corpo svestito di donne viventi. Va bene.

La bellezza è la bellezza, non si censura. In questo caso, però, qualcosa non quadra: la fotomodella, trascinata via con forza, è nella inequivocabile posizione della vittima. La narrazione che sottende l’immagine è, senza alcun dubbio, una delle stazioni del martirio femminile: stupro, violenza carnale.

I responsabili dell’Ufficio delle Relazioni esterne della Pirelli specificano, scocciati, che si tratta della citazione recitata di “un rito buscimano”, che è un frammento e non si può giudicare. Fosse anche, nelle intenzioni, la Vergine Maria alle prese con una versione postmoderna dell’Annunciazione, resta il fatto che è una ragazza sopraffatta e che, dato il contesto, il suo terrore coincide con il massimo dello chic: il calendario Pirelli fa tendenza, da anni fissa i canoni del gusto, laurea le primatiste del fascino, impone modelli. Se stabilisce che la donna nuda non eccita più e ci vuole la donna massacrata, se lancia la moda del “patinato violento”, perché un branco di ragazzetti sfigati non dovrebbe infilare il manico di una vanga fra le gambe di una quattordicenne e fotografarla col telefonino? Ci mancava solo l’estetica dello stupro!


16 febbraio 2009
da unita.it
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