LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: LIDIA RAVERA.  (Letto 29436 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 19, 2009, 06:36:38 pm »

L'ultima goccia di sinistra

di Lidia Ravera


Se c’è un’attività in cui la gente di sinistra riesce bene è la mortificazione collettiva. Si critica, ci si critica, si dichiara che davvero, che mai avremmo pensato, detto, creduto, mai, neppure negli incubi, neppure da piccoli, neppure negli anni peggiori... C’è sempre una goccia che fa traboccare l’ipotetico nostro interno vaso. Questa volta è stato il risultato delle elezioni in Sardegna, la goccia. E alla goccia sono seguite le dimissioni di Walter. Lo chiamo per nome perché lo conosco e perché simpatizzo con lui in questo momento difficile.

Lo so che lo sport nazionale è accanirsi su chi prende uno scivolone e si trova, momentaneamente, a terra, cioè in condizioni di non nuocere. Lo so, ma non mi piace. Quindi mi astengo. E poi, diciamoci la verità: un uomo politico che rassegna le dimissioni, in Italia, è “rara avis”. Non si dimettono gli inquisiti, i condannati, gli sputtanati, quelli che nessuno vuole (Villari docet),i noventenni... figuriamoci se si dimettono quelli che pensano di aver fallito, di non essere riusciti a portare a buon fine un’operazione di ingegneria politica non delle più semplici. Bene: Walter l’ha fatto e a lui va tutto il nostro rispetto.

Detto questo, e ridotta al minimo la fase della mortificazione, sarebbe utile ripensare tutto quanto. Per esempio: siamo sicuri che la fusione fra certi cattolici oggettivamente allineati con la destra e gli eredi di una visione del mondo laica e comunista sia possibile? E, ove possibile, che sia desiderabile? È meglio andare avanti per tigna o, umilmente, tornare indietro? Da 16 mesi noi, elettori fedeli e disponibili a tutto, veniamo presi a calci nella coscienza politica, costretti a digerire ondeggiamenti e patteggiamenti, pur di tenere in piedi un partito neonato e già incurabile: non si potrebbe smettere e chiedersi, tanto per fare una domanda di sinistra: «Che fare»?

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19 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 27, 2009, 12:02:29 am »

La piazza e la festa


di Lidia Ravera


Faceva freddo eppure c’era un certo calore, a piazza Farnese, sabato scorso. La folla era così fitta che non si riusciva ad attraversarla. C’era attenzione e un silenzio teso. Gli applausi erano applausi-commento, si applaudivano i concetti, certi passaggi dei discorsi dal palco, che erano discorsi, per l’appunto, non comizi. Si parlava, dal palco, della vita, della morte, della libertà, della laicità, dell’anima, della coscienza. Del dolore, condiviso da tutti i mortali, di dover morire, di veder morire.

Strani argomenti, per una manifestazione di piazza. Strana piazza: neppure una bandiera, partiti assenti o umilmente fusi con la piccola folla. Si manifestava contro il ddl berlusconiano che vorrebbe idratazione e nutrizione coatta per tutti i morenti. Indipendentemente dalla loro volontà e dalla loro disperata condizione.

Contemporaneamente, alla nuova fiera di Roma, l’assemblea costituente del Partito Democratico celebrava l’ultimo atto della sua democrazia sperimentale: far nominare un segretario da 2800 delegati eletti dal popolo degli amici del centrosinistra. Come due anni fa a Milano, quando si acclamò, con una fretta un po’ bulgara, leader massimo Walter Veltroni. Erano un po’ meno, i delegati, questa volta. Ma la fretta c’era di nuovo.

Questa volta per votare Franceschini. Qualcuno, fra i partecipanti alla festa, avrebbe voluto le primarie, invece dell’investimento del vice. Ma per sviluppare uno sforzo muscolare come il coinvolgimento dei cittadini elettori, bisogna essere sani. Scoppiare di salute. Quando le difese sono basse e i tempi difficili, ci vuole una cura ri-costituente. Per esempio, prima del congresso, si potrebbe fare un’altra bella festa e invitare i simpatizzanti a esprimere le loro preferenze. Magari, a ‘sto giro, anche gli antipatizzanti pentiti.

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26 febbraio 2009

da unita.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:03:00 am »

Alle donne date fiducia


di Lidia Ravera


"Le donne sono forti nelle avversità, ma sanno vivere anche in tempo di pace. Gli uomini in tempo di pace finiscono ubriachi". L'ha detto una scrittrice vietnamita, ieri l'altro, ad Hanoi, nel corso di un incontro dal titolo: il ruolo delle donne artiste in Vietnam e in Italia. Ieri, insieme alla celebre Madam Ninh, ex parlamentare, già presidente dell’Unione delle donne vietnamite, ex ambasciatrice presso l'Ue, s'è discusso il tema delle donne in politica. "Le donne sono eterni numeri due", ha detto lei, "Di diventare il numero uno, non riescono neanche a desiderarlo. Per poterci arrivare, al vertice della piramide, bisogna lavorare sulla base, aumentare il peso delle donne dal basso”.

La sala era gremita di ragazze, qui l'età media è 26 anni, il 70% della popolazione ne ha meno di 30. Applaudivano. Sono rimaste incredule quando l'interprete ha tradotto le mie poche parole: " voi avete il 27% di donne in Parlamento, da noi siamo sul 17%". Ma non eravate i famosi occidentali, così avanzati, così progrediti? "Ci confondete con gli svedesi: noi siamo ottantatreesimi nel rapporto sulla disparità di genere a livello economico, peggio del Burkina Faso".

Istruttivo, festeggiare l'8 marzo lontano dalle mimose di casa nostra, mai come quest'anno ipocrite, vista l'impennata delle persecuzioni contro le femmine (dall'incremento degli stupri all'innalzamento dell'età della pensione). Nei miseri villaggi del delta del Mekong, è alla madre di famiglia che consegnano il "microcredito", non è molto, 120 dollari. Ma basta per comprare un mucca. E una mucca basta per sconfiggere la povertà. In tutto il mondo, le donne meritano fiducia. Bevono meno, sgobbano di più, non si sono ancora usurate. Dateci un po' di soldi, un po' di potere da gestire e non avremo più bisogno di concessioni e fiori. Più mucche e meno mimose.

05 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:03:56 am »

Padri, madri, fratelli e amici.

Tessere la vita con i disabili

di Lidia Ravera


L’amore, questo sentimento di cui si parla molto e si capisce poco, è protagonista assoluto di questo libro duro e, in un suo misterioso modo, esaltante, che nominerò prima dal sottotitolo: «A filo doppio con persone fragili». E poi dal titolo: Amore caro. Si tratta di una non casuale raccolta di lettere, dolorose e lucide, scritte da persone fisicamente «integre», con tutti i parametri vitali nella norma, a persone che, per un incidente sugli sci o perché si sono gettate dalla finestra in preda alla depressione, perché sono nate così o perché qualcuno ha sbagliato qualcosa mentre venivano al mondo, integre non sono, non corrispondono al modello standard, non hanno l’equipaggiamento minimo necessario per percorrere la vita senza farsi notare, senza portare handicap alla partenza, di quelli gravi, che ti impediscono di gareggiare, avendo le stesse chance degli altri.

Sentire l’amore
Sono belle lettere, e sono lettere d’amore. A scriverle sono fratelli, padri, sorelle, amiche, madri. L’amore che raccontano non è, però, quello ovvio dei rapporti fra consanguinei, è quello difficile di chi condivide una barricata ideale (la lotta per il diritto alla vita), una condizione di intelligenza estrema (la costante percezione del limite, della mortalità, senza possibilità di distrarsi troppo, di distrarsi come tutti facciamo) e una gioia incomunicabile, quella di essere intimamente legati a chi ha bisogno di noi, di lavorare tutti i giorni per impedire che quel bisogno sopprima il desiderio, e riuscirci e «sentire l’amore», nella sua primitiva intensità. Basterebbe la forza di queste lettere a consigliare la lettura. Ma si tratta soltanto della metà del libro. C’è l’altra metà. Ci sono le lettere di chi quest’amore lo riceve e lo ricambia, ma senza considerarlo né un atto dovuto, né un ingiudicabile regalo. Lorenzo Amurri, Paula Free Martin, o Barbara Garlaschelli che scrive: «Essere su una sedia a rotelle e avere una disabilità fisica del cento per cento significa aver bisogno sempre di qualcuno che ti aiuti. Significa che chi ti sta vicino si sente addosso la responsabilità della sua vita e della tua».

Non è facile né ricevere né dare, quando la situazione è asimmetrica. E non è facile raccontare.
Come dichiara Giovanni Maria Bellu, che scrive di non voler scrivere, ma scrive, e, in letteratura veritas, smaschera le sue stesse difese stilistiche: «Si trattava soltanto in fondo di metter giù qualche cartella. Sarebbe stato sufficiente individuare una piccola storia attorno alla quale far ruotare un po’ di considerazioni non troppo scontate. Quanto al tono, avrebbe dovuto essere cautamente emotivo, non troppo appassionato, amaramente ironico». Non eseguirà il compitino che si è prescritto, ma, padre di Ludovico, dieci anni, affetto da «disturbo pervasivo dello sviluppo», riuscirà, in poche pagine, a centrare il problema e decretarne, con un coraggio che riesco soltanto a definire poetico, l’irresolvibilità. Il problema, quando si ama una persona non conforme, è: l’imbarazzo del prossimo, l’ottusità della burocrazia, il pietismo peloso. In positivo ci sono: le persone meravigliose, le prodezze di Ludovico, le piccole cose che semplificherebbero la vita. Sull’imbarazzo non c’è niente da fare, così come sulla pietà pelosa.

Lo descrive magnificamente Clara Sereni nel suo Manicomio Primavera (una raccolta di racconti che ho letto vent’anni fa) e non l’ho più dimenticato: con tutte le migliori intenzioni chi non ha un figlio schizofrenico non può capire che cosa vuol dire avere un figlio schizofrenico, può soltanto ammettere la sua ignoranza e offrire in silenzio, per quel che vale, la sua empatia.

I diritti alla Fondazione
Le «piccole cose che semplificherebbero la vita», invece, si possono fare. E una di queste è anche comprare Amore caro. Innanzitutto perché i diritti vanno alla Fondazione «La città del sole» (come l’opera omonima di Tommaso Campanella, «descrizione di un’utopia che cercava di tenere insieme i dettami del cattolicesimo e le speranze di uguaglianza», scrive la Sereni curatrice del volume e presidente dell’Onlus) che si occupa di costruire percorsi di vita possibile per le persone più fragili, al di là degli sforzi di chi li ama e per alleggerire il peso della loro responsabilità assoluta (l’amore, purtroppo, solo nelle favole rende immortali). E poi perché «A filo doppio con persone fragili», in fondo, siamo legati tutti, a partire da noi stessi. Anche se preferiamo non rendercene conto.

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05 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 12, 2009, 05:10:54 pm »

Spendete italiani spendete

di Lidia Ravera


Sui giornali si parla di "una recessione senza precedenti, che in Europa potrebbe causare 6 milioni di disoccupati". Bene: il capo del Governo Italiano invita i cittadini a non leggere i giornali, mentre il capo di uno dei Partiti di Governo invita a favorire i cittadini italiani, quelli che non leggono i giornali, rispetto a quelli stranieri, che se se ne vanno è meglio. La domanda è: come facciamo, anche animati da buona volontà, a essere come ci vorrebbero i nostri leader di maggioranza?

Dobbiamo, per essere ospiti graditi del nostro stesso paese, diventare ignoranti e egoisti. Dobbiamo chiudere gli occhi di fronte all'evidenza di una crisi tanto grave e diffusa che sta mettendo in allarme tutto il pianeta. Dobbiamo rinunciare all'informazione, perché sapere fa male, si campa meglio con la testa ben affondata nella sabbia. Dobbiamo far fuori i più deboli, quelli che nel nostro paese hanno cercato una possibilità di sopravvivenza o di riscatto. In una parola: vivere sgomitando. Fuori lo straniero: l'Italia è stretta, basta appena per noi.

"Vadino" (esortativo di maggioranza) nel Darfur che lì c'è lavoro, possono fare i raccoglitori di lacrime. Noi abbiamo da tener fede alla nostra "mission": spendere, perché se smetti di spendere, si ammoscia il Pil e diventi comunista. Cupo, informato e barboso. "Chi non compra comunista è, è…".

Saltate, italiani. Ridete, restate fessi. Riempirsi di debiti è "in", risparmiare è "out". Ridete, restate nel mercato. Fuori dal mercato abitano soltanto quelli che continuano a leggere il giornale, ma tranquilli: non contano niente. L'Italia siamo noi, che mordiamo la vita come la carne di una ragazza e al diavolo il futuro. Dovesse mancarci il necessario, possiamo sempre riconvertire il superfluo e, quella coscia giovane, mangiarcela cruda.
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12 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 16, 2009, 05:06:45 pm »

Dalle coppie di fatto alle ronde


di Lidia Ravera

Non si concludeva niente, ma se ne parlava, dei Pacs, delle coppie di fatto, della possibilità, per gli omosessuali, di sposarsi, adottare bambini, andare a trovare il partner in rianimazione, ereditare contratti d’affitto, anche senza la benedizione del matrimonio, così, soltanto perché due esseri umani si sono amati per vent’anni, nella buona e nella cattiva sorte, ma senza carte bollate. Se ne parlava e, parlandone, si finiva per chiacchierare di diritti civili, di valori condivisi, di solidarietà e d’amore.

Eravamo nell’era del governo Prodi, discutibile, per carità, ma non priva di rapporti con la democrazia. Ora non se ne parla più, di Pacs, nessuna sigla si incarica di ricordarci che la società si evolve e le leggi dovrebbero adeguarsi a tale evoluzione, invece di ignorarla, oppure, addirittura, contrastarla. Oggi, se si parla di omosessuali, è per dare notizia di qualche raid squadristico in qualche gay street, tutti insieme a spaccare le vetrine dei locali frequentati dai non conformi alla nuova regola etero: il maschio vuole la femmina e se la femmina non vuole si può sempre stuprarla.

Oggi, se scopri che tuo figlio è innamorato del suo vicino di banco è meglio che lo mandi a studiare ad Amsterdam. E senza dirlo in giro, perché, nella terza era Berlusconi, il discorso non piace. Ad ogni giro, il nostro ineffabile premier, si sposta un po’ più a destra. Il linguaggio, come è logico, si adegua: niente «Dico» né «Pacs», misteriosi al turista e bruttini sul piano poetico, però progressisti nelle intenzioni e, una volta sviluppati in concetti, utili per vivere tutti un po’ meglio. L’unico «patto» che ci propone questa nuova cultura è quello che ha come collante, la paura. Le parole sono «ronda» e «branco», come escludere è il «topic» del momento. Ma le leggi possono aspettare, i diritti li esercita il più forte. Eventualmente a bastonate.

16 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 26, 2009, 06:39:49 pm »

Se i giovani prendono partito


di Lidia Ravera

La parola d’ordine è: svecchiare. Così un quattordicenne apre un congresso politico. Una trentottenne fa breccia nel cuore stanco del Partito Democratico. Un quarantenne si impone alle primarie ed è candidato sindaco. Tutti applaudono. Tutti approvano. Facce nuove, facce nuove! Parole semplici, parole semplici! Ma che simpatici, ma che carini, ma che spigliati! Giuliano Ferrara dedica ai “giovani” all’assalto del Pd una puntata dell’Elefante su Radio 24. Interviene una rappresentanza dei “nati per ultimi”. Dicono: noi non siamo ex. Né ex-democristiani, né ex-comunisti.

Quanto all’essere o non essere cattolici, è un fatto privato. Non rappresentano, anagraficamente, la maggioranza degli italiani, perché la maggioranza degli italiani ha una certa età (i baby boomers stanno fra i 50 e i 65 anni). Ma la loro aspettativa di vita li rende rassicuranti: dovranno occuparsi delle vere emergenze, perché quando si scioglieranno ghiacci, o i poveri del mondo marceranno sull’occidente per annientarci, saranno ancora su questa terra. È un sollievo, la loro comparsa. Per le anime dei simpatizzanti, ma anche dei “neo-antipatizzanti”. È un sollievo per chi non ha più voglia di sentirsi ripetere che D’Alema “però è tanto intelligente” e Veltroni “però è tanto una brava persona”, per quanto entrambi i giudizi non siano privi di riscontri reali.

Così la fervida immaginazione del democratico incomincia a produrre filmetti dove si vede, al vertice del partito, una ragazza coi capelli lunghi, non bellissima perché quello fa “destra di governo” ma ben insediata nella dura vita delle trentenni normali: precarietà, voglia di maternità, sindrome premestruale, capacità di emozionarsi e di emozionare, flessibilità anche mentale e predisposizione a sperare.

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26 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 23, 2009, 10:12:47 pm »

La squadra dl cuore del premier Letteronze ed ex attrici a Strasburgo

di Lidia Ravera


Leggo sui giornali: «In campo troniste, veline e letteronze, arrivano i volti nuovi di Silvio». Guardo la fotografia a colori che correda il testo: quattro signorine scollacciate con sorrisi standard, pose sexy, carni in mostra, spalle gambe decolté. Sono ex-attrici di «Incantesimo». Ex star del Grande Fratello, letteronze (mi sembra una parolaccia ma forse no, forse invece è una qualifica pregiata e soltanto io non lo so, non mi aggiorno mai abbastanza).

Leggo, l’articolo di Francesco Bei che parla di una «tre giorni di formazione politica» in cui, insieme ad alcune «deputate collaudate», le giovanotte vengono iniziate ai misteri della politica. Saranno alcune di loro, pare, a rappresentare il nostro Paese al Parlamento europeo, proposte dal partito di maggioranza in quanto «volti giovani, facce nuove». Lo scopo sarebbe di «dare un’immagine rinnovata del Pdl in Europa». Parole di Berlusconi.

Leggo, guardo. Provo a buttarla a ridere, come s’è fatto tante volte, tutte le volte che abbiamo commentato, in pubblico,in privato, la weltanschaung del Presidente del Consiglio: uomini potenti e competitivi, con molti soldi e senza troppi principi a intralciare il meccanismo dell’accumulazione più donne di complemento, ornamentali da esibire, sexy da possedere, giovani da comprare. Donne come oggetti effimeri (quando i requisiti estetici richiesti appassiscono vengono defenestrate) di corteggiamenti narcistici: più te ne ronzano attorno più sei «arrivato». Donne come yacht, come ville miliardarie, come Ferrari Testa Rossa, status symbol di una classe dirigente che non ama i libri, non capisce l’arte, non conosce la musica, ma la F…sì, quella la onora sempre.

Lei, la «sacra sineddoche» (una parte per il tutto), che, unita alla squadra del cuore, popola l’immaginario e il tempo libero di quella nuova borghesia raccogliticcia e senza storia che governa l’Italia. Provo a convincermi che devo buttarla a ridere, che non è grave, questa ennesima «carica delle soubrettes». Mi dico: ma dai, non ti sei fatta due risate il 26 aprile del 2007, quando B. alla cerimonia per la consegna dei Telegatti disse alla signorina Yespica «con te andrei dovunque» ( si discettava, mi pare, di ritirarsi in isole deserte) e, nel giro di pochi indimenticabili minuti, sentenziò «la Carfagna...guardatela, se non fossi già sposato me la sposerei»? Hai riso no? E adesso perché non ridi più, ti è peggiorato il carattere? Che sarà mai se qualche Elena Russo, Evelina Manna o Camilla Ferranti sono state raccomandate, sostenute o imposte da B. e dai suoi... non lo sai che da alcuni millenni le donne possiedono soltanto quella forma (transitoria) di potere lì, il potere della bella ragazza, capace di frullare l’ormone testicolare maschile e promettergli soddisfazione in cambio di solidi vantaggi?

Lo so, ma il problema non è la chimica dell’accoppiamento, o il libero mercato del desiderio. Il problema è che B., invece di sposarsela, la signorina Carfagna l’ha fatta Ministro. Il problema è che , cito da intercettazione telefonica, nello spingere il prodotto Manna Evelina, ha detto: «io sto cercando di avere la maggioranza in senato e …questa Evelina Manna può essere…perché mi è stata richiesta da qualcuno con cui sto trattando». Il problema è che, noi, noi donne, vecchie o giovani, belle o brutte, colte o ignoranti, intelligenti o oche, tristi o giulive siamo stanche di essere valorizzate soltanto come merce di scambio, di esistere soltanto in quanto corpi da calendario, di vederci passare avanti, secondo un copione che pare inevitabile, quelle che ci stanno, quelle che lo fanno, quelle che hanno le misure giuste e l’ opportuna avidità, o presunzione o cinismo o disprezzo per le istituzioni.

Possibile che non ne esista una, una sola, fra le giovanotte di coscia lunga, brave a ballare e a cantare, che, alla proposta di un posto in qualche Parlamento europeo o mondiale, dica, per una volta: «No, grazie»? Alla lunga è avvilente. È avvilente non che le liste elettorali del centro destra pullulino di belle figliole, ma che, costoro, siano state, compattamente, rimorchiate nel retropalco del Gran Varietà televisivo.

Anche Debora Serracchiani è giovane e ha un bel musetto,ma si è messa in luce facendo politica, ha convinto con le sue parole, ha avuto il coraggio di attaccare la dirigenza del Pd, ha in testa un progetto, vuole che questo progetto si affermi. Si rinnova così, l’immagine di un partito. Accettando le critiche, valorizzando le intelligenze femminili, spesso più concrete e meno coinvolte negli opportunismi del potere. Non si rinnova l’immagine di un partito ingaggiando un tot di figuranti di bell’aspetto, come se al Parlamento Europeo dovesse andare in scena una commedia. E il Pdl fosse una compagnia di giro e Silvio Berlusconi l’impresario. O il capocomico.

23 aprile 2009
da unita.it
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 06, 2009, 03:48:04 pm »

Il calendario del popolo

Escort, professione pstmoderna di antica tradizione

di Lidia Ravera


L’escort è una scorta, un accompagnatore, uno «chaperon». Eventualmente un convoglio (DeAgostini: inglese/italiano).

La scorta, se è di maschi,protegge lo scortato, se è di femmine, lo intrattiene.

La scorta di femmine è, in genere, composta da un elemento solo. A fronte delle sue prestazioni essa riceve una quantità di denaro direttamente proporzionale alla sua avvenenza e professionalità, alla qualità e quantità delle operazioni intraprese al fine di soddisfare ogni esigenza sessuale dello scortato, ghiribizzi e perversioni incluse.
Alcuni pericolosi anarchici, renitenti a qualsiasi modernizzazione dell’antico patrimonio linguistico, si ostinano a ridurre la portata dell’incarico di «scorta», usando parole desuete come prostituta, meretrice. Altri, affiliati al movimento dei moralisti vernacolari, alludono a quella che è, oggi, una delle professioni remunerative, addirittura con «veterologismi» dal significato blandamente peggiorativo, quali mignotta, zòccola, puttana, troia e altro.

La «escort» essendo, nella maggioranza dei casi, oltroché anglofona, accondiscendente, non si lascia condizionare dalla sfumatura aggressiva di tali epiteti.

Lei, alla sua professione, ha dedicato sacrifici e investimenti economici di una certa entità: mastoplastiche additive, extensions di capelli veri, silicone e altre sostanze atte a gonfiare labbra e zigomi, tacchi a spillo, abitini corti e stretti ma neri, lingerie coordinata, ciglia e unghie da applicare sulla dotazione naturale, diete, palestre, personal trainer, «date make» (leggi: fornitore di appuntamenti per così dire amorosi), miniregistratori e bobine perché, non si sa mai, certe volte mille euro mancati possono fruttare una fortuna.
La escort si differenzia dalla prostituta perché ha una mentalità strategica, non si limita a eseguire il compito richiesto, è duttile, e creativa. Non si intestardisce sul danaro come quei soldati semplici della grande armata del sesso mercenario che stanno in piedi a bordo strada e aspettano clienti comuni.

La escort sa chiedere, ed eventualmente pretendere, «fringe benefits» che vanno dalla licenza edilizia alla «visibilità» televisiva, per arrivare fino al Ministero degli Affari Privati e all’Oscar per la migliore rianima-attrice di virilità affaticate.

La professione di «escort» unisce alla moderna sensibilità post-femminista il fascino di una lunga tradizione.

05 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 13, 2009, 04:06:50 pm »

La rivoluzione interrotta delle donne

di Lidia Ravera


Ho provato una vera gioia, leggendo la «conversazione» con Nadia Urbinati, ieri, su questo giornale. Quando dice: «c’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità collettiva». Ho pensato: ha messo, come si dice, “il dito nella piaga”. E mai frase idiomatica fu più opportuna. Qui si parla proprio di piaghe: indicarle è necessario, anche se sarebbe più elegante voltarsi dall’altra parte. Toccarle fa male. Ma attraverso il dolore, passa l’unica speranza di guarigione.

Dunque diciamolo: è morta la dimensione collettiva. Il “noi” che rafforzava i tanti “io” di cui era composto, latita. Era onnipresente, la prima persona plurale. Ora è scomparsa. Non è mai stata facile da declinare: includere l’Ego degli altri, sistemarlo accanto al proprio, non è mai naturale, tocca smussare angoli, reprimere individualismi, concedere generalizzazioni, perdere qualcosa di sè. Però si può fare, anzi: si deve.

Soltanto una massa di “io” ordinati in un “noi”, che li sovrasta e li protegge e li rappresenta, nel corso della storia, ha saputo abolire lo schiavismo, difendere il lavoro, conquistare diritti uguali per tutti, combattere il fascismo. L’individuo, da solo, può regalare all’umanità soltanto il godimento dell’arte. È necessaria, l’arte, ma non è sufficiente. Non oggi e non qui, in Italia.

Ha ragione la Urbinati quando dice: «Quel che fa questo governo non è ridicolo...è tragico». È tragico usare la paura e la fragilità psichica dei cittadini, aggravate entrambe dalla crisi economica, per disegnare una società che esclude e divide, che radicalizza le differenze e governa col ricatto milioni di solitudini. Poco più di metà degli italiani ha votato qualche anno di fiducia all’attuale Premier e alla sua “weltanschaung”. Poco meno di metà degli italiani ha cercato, votando il centrosinistra, di segnalare il proprio “no”.

Si tratta di milioni di donne e di uomini, dispersi e quindi condannati alla dimensione privata del dissenso: il lamento. Per le donne è una sorta di revival: ve la ricordate la rivolta “da camera” delle nostre madri? Erano donne che avevano vissuto la giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano, mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore ad un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento.

Ci dava ai nervi. Giurammo che noi no, noi non ci saremmo sacrificate. Giurammo che avremmo imposto nuove regole, saremmo state parte attiva, a letto, al lavoro, in casa, in piazza. Lì per lì ci illudemmo di aver vinto. Non era così. La rivoluzione delle donne non è stata né vinta né persa. È stata interrotta.

Interrompere una rivoluzione è pericoloso: non riesci a imporre nuove valori, a radicarli, a estenderli a tutti, come quando vinci. Non vieni travolto dalla restaurazione del vecchio, come quando perdi. Quando lasci una rivoluzione a metà la restaurazione è lenta e strisciante. Incominciano a bombardarti con l’icona della “ragazza tette grandi/ cervello piccolo”, non ci fai caso. Occupa i teleschermi (anche quelli del servizio pubblico) per vent’anni. Spegni la televisione. Diventa protagonista della scena pubblica, corpo in vendita, carriera, oggetto di scambio, trastullo stipendiato di un modello di maschio potente/impotente che era già vecchio quando eri ancora giovane. Ti scansi, spegni l’audio, non vuoi sentire.

Finché ti accorgi che, nel silenzio/assenso generale, si è tornati indietro. Come prima e peggio di prima. Devi di nuovo essere complemento, protesi, utensile del piacere. Madre se proprio ti va, come lato B della carriera. A tua figlia regalerai “Miss Bimbo”, il gioco elettronico che insegna a diventare Velina, Escort o moglie di miliardario. Sei di nuovo povera.

Possiedi, come anticamente i proletari, soltanto il tuo corpo e quello devi far fruttare. E sbrigati: hai meno di 20 anni di tempo. Qualcuno dice che qualche ragazza ha trovato, per lo più all’estero, riconoscimento ai suoi talenti. Qualcun altro rimprovera “le femministe”, queste ormai mansuete streghe in prepensionamento, di tacere. Ma non è vero.

Tutte noi, noi poche, abbiamo, in questi anni, parlato. Sole davanti allo schermo dei nostri computer, come si usa oggi. Abbiamo confezionato tristi arringhe, abbiamo segnalato, puntuali come Cassandre, rischi e degenerazioni. Non è successo niente. Le parole delle donne non pesano un grammo. Per questo bisogna ricominciare daccapo. Portare i nostri corpi in piazza, occupare spazio, farci vedere, farci sentire. Contarci, per ricominciare a contare.

13 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:27:01 pm »

Due donne accusate di lesa maestà

Lidia Ravera


Bionde, più volte madri, ereditiere. Di bell’aspetto, di mezz’età. Sobrie rispetto al ruolo (donne vip), poco smaniose di apparire, rinchiuse in ville gigantesche cintate da parchi smisurati, difese da un’attitudine scarsamente ciarliera, di quelle che ti aiutano a non fare passi falsi e ti guadagnano la fama di «originale», poiché è certamente orginale, in una società dove «è la sensazione del privilegio a rendere felici le persone che contano» (Z. Bauman), non esibirsi in continuazione, per godere dell’invidia degli altri.

L’una  Margherita Agnelli, nel privilegio ci è nata: suo padre, Gianni, era Signore Assoluto dell’unica dinastia plutocratica italiana, il Casato Fiat. L’altra, Veronica Lario, è nata povera ma bella, e il privilegio l’ha conquistato, sposando un «Homo faber», povero ma furbo, e sposandolo quando era già ricco sfondato. Eppure, le due signore, in qualche modo, si rassomigliano e, in un certo senso, stanno subendo lo stesso brutale trattamento.

Margherita, per difendere i diritti ereditari di cinque dei suoi otto figli (quelli del secondo matrimonio), ha accusato il suo defunto padre di aver messo al sicuro, all’estero, una ragguardevole quantità di danaro, fregando in primo luogo tutti noi (leggi: lo Stato) e in secondo luogo lei. Veronica, per difendere i diritti dei suoi tre figli a fronte dei già acquisiti privilegi del fratellastro e della sorellastra, non ha esitato a definire il Cavaliere suo marito: un uomo malato, così come Margherita non ha esitato a ritoccare la memoria dell’Avvocato, suggerendo che era un tantino ladro, poiché questo sono gli evasori fiscali.

Al Palazzo del padre di Margherita il marito di Veronica era invitato per obbligo: senza erre blesa, senza folti capelli bianchi, con le scarpe rialzate e, al fianco, una bellezza troppo forte di seno per essere davvero elegante, non era certo omogeneo. Quelli che non lo gradivano più per snobismo che per altro, ed erano pronti a giurare sul binomio signorilità-onestà, sono sotto schock. I due esemplari della classe dirigente del nostro paese, il selfmade man e il capitalista dinastico, sono stati sottoposti ad un brutale processo di omologazione. E da due donne. Nessuno, ovviamente, le ha ringraziate.

Anzi: a Veronica, «velina ingrata», è stato rinfacciato il suo passato di bellezza in vendita. Margherita, che a seno nudo su un palcoscenico non si è vista mai, è stata demonizzata come le riccone avide e sgabbiate delle «soap». Tutte e due, avendo raggiunto l’età in cui le donne, anche se hanno taciuto a lungo, si sentono libere di parlare, subiscono, nel retrobottega del potere maschile, la stessa diagnosi: isteriche, strambe, matte.

È così che, nei secoli, si sono rimesse in riga le femmine ribelli. Dai processi per stregoneria a quelli, più subdoli, che vedono nel climaterio, fine simbolica della dipendenza reciproca fra i generi (almeno a scopo procreativo), un pericoloso momento di libertà di quella «metà del cielo» con cui tutti hanno ancora una gran paura di fare i conti.

19 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 17, 2009, 10:12:55 am »

Avanti sorelle d'Italia

Lidia Ravera.


Ci si chiede, con qualche timore: voteranno le donne alle primarie? Le donne, che hanno avuto diritto di votare in ritardo rispetto agli uomini. Le donne, che hanno decretato il successo della Dc nel primo dopoguerra perché in molte credevano in Dio e della sinistra nei primi anni settanta perché il femminismo dialogava con la sinistra (faticosamente) ma non certo con il centro. Voteranno alle primarie del Pd anche se non c’è una donna fra i candidati? Il messaggio è chiaro: il femminile di segretario, è “segretaria”: una che scrive sotto dettatura, prende gli appuntamenti, risponde al telefono. Le passo il Capo. Eppure voteranno. Presumubilmente voteranno Ignazio Marino, perché, candidato maschio per candidato maschio, almeno Marino si batterà perché le donne possano continuare a scegliere se diventare madri o no, con un legale intervento chirurgico oppure con la RU 486. Perchè possano diventare madri con l’aiuto della scienza. Perché la loro serenità non sia immolata sull’altarino occulto degli scambi di indulgenze con i padroni del “voto cattolico”. Perché l’onorevole Binetti si ricongiunga, finalmente, ai suoi. Che non sono “i nostri”. Se vincerà Marino e si scoprirà che la maggioranza dei suoi sostenitori appartiene al “secondo sesso” sarà un bel segnale. Per esempio che le donne contano. Di nuovo, come quando hanno scoperto, trent’anni fa, che potevano contare. Sarà una prova generale. In vista della sera della prima. Alle prossime elezioni politiche. Quando tutte le donne di sinistra, di centro e anche di destra, tutte le donne che si sono sentite offese, discriminate, ridotte alle deprimenti categorie di “scopabili” e “non scopabili” si riverseranno sulle urne come un’onda in piena e travolgeranno Silvio Berlusconi, liberando il nostro Paese. Avanti, Sorelle d’Italia!

15 ottobre 2009
da unita.it
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« Risposta #42 inserito:: Ottobre 17, 2009, 10:13:40 am »

Il senso degli italiani per l'Italia

di Ldia Ravera.


Questo antiberlusconismo», ha detto Massimo D’Alema, «sconfina in una sorta di sentimento anti-italiano». Poi, logicamente, ci ha ripensato (non ha smentito, perchè quello è un tic del centrodestra) e ha precisato: «C’è un antiberlusconismo che sconfina eccetera eccetera». Verrebbe da chiedersi: qual è? Quale marca di antiberlusconismo è anche anti-italiano? Ma soprattutto: che cos’è l’antiberlusconismo? Una fissazione? Un partito preso? Una malattia contagiosa? Un gioco di società?
Secondo me, l’antiberlusconismo, per esempio, non esiste, è una paranoia di Berlusconi medesimo. Ma anche, e questo è più grave, il tentativo (non certo casuale) di ridurre a tifoseria, a moda, un dissenso politico e una critica morale sulla quale io, personalmente, sarei stufa di perdermi in puntualizzazioni. Il “gossip” , di cui il Presidente del Consiglio giustamente si lamenta, è prodotto e distribuito dai rotocalchi di sua proprietà e dal suo Giornale, fa parte della sottocultura che sta rovinando la qualità della vita nel nostra Paese, non della nostra. Noi (vedete un po’ voi che cosa infilare sotto questo pronome... l’èlite di sinistra che deve andare a morire ammazzata?) noi, dicevo, non siamo pettegoli e non ce ne frega niente dei Vip e dei loro festini coca&sesso. Noi pensiamo che il capo di un governo debba adottare uno stile di vita adeguato alla sua alta carica, mettere gli interessi del Paese in testa alla sua scala di priorità e rispondere alle domande poste dai cittadini e dalla stampa, invece di farfugliare maledizioni. Chi la pensa così è “anti-italiano”? E i “pro-italiani” chi sarebbero? Quelli che si ostinano a fingere che va tutto bene? I deficienti che lo credono davvero? Quelli che, questo Paese magnifico, forte di duemila anni di storia, benedetto da un patrimonio artistico ineguagliabile, ricco di una tradizione culturale sontuosa, e abitato, ancora, da una certa quantità di persone per bene, riescono a guardarlo morire senza fare una piega?
Perché è questo, che sta succedendo: l’Italia si sta trasformando in un pantano. Vischiosa e torbida. Rissosa e vacua. Ferma. Soffocante. Percorsa da uno scontento crescente e senza sbocco, divisa dall’antagonismo e unita dalla rassegnazione. L’Italia è un Paese che sta tornando indietro. E Berlusconi è, se non l’unico, il massimo responsabile di questa involuzione. Contestarlo, criticarlo non è un vuoto esercizio di radicalismo pessimista o, peggio, nostalgia dei beati anni del conflitto. Non è un vezzo esterofilo. È un obbligo patriottico.

25 settembre 2009
da unita.it
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« Risposta #43 inserito:: Ottobre 17, 2009, 10:14:46 am »

Il voto dei senza tessera

Lidia Ravera.


A “congressi dei circoli” conclusi, si aprono le danze per i non allineati: simpatizzanti, antipatizzanti con forte motivazione al dialogo, delusi decisi a fare pesare ogni lacrima versata e illusi decisi a collaborare col Partito Democratico, anche soltanto per segnalare certi rischi di frattura, dovuti a una debolezza dello scheletro umano e politico, inevitabile quando non si è più giovani e ci si è già riciclati quattro volte. Se i tesserati hanno espresso il loro gradimento soprattutto per il Bersani, che cosa diranno i non più tesserati, i mai tesserati e i non tesserabili? Il Bersani anche loro? Lo escludo, se non altro per differenziarsi. Il Franceschini, che è sostenuto da due “ex-segretari pesanti” (la definizione è del mitico “Aprile on line”) come Rutelli e Veltroni? Non credo, perché Rutelli ha scritto «A sinistra no. È una strada senza uscita» nel suo libro e Veltroni (che ha scritto «Noi» nel suo, ma non vuol dir niente perché è un romanzo) ha detto che non bisogna rifare un partito socialista. Resta soltanto Ignazio Marino, visto che Grillo, il predicatore incazzato, è stato escluso per indegnità (e paura). Marino ha le carte in regola per accaparrarsi il gradimento dei non tesserati. La prima carta è la laicità: convinzione profonda, prevedibile impegno a non patteggiare coi Padroni delle Anime (né quelli esterni, né i loro infiltrati). La seconda è la sua appartenenza al mondo reale: Marino non si è “formato nel partito”, come ha detto lui stesso e quindi somiglia, ben più degli altri due, al famoso popolo delle primarie. La terza è lo stile, il timbro vocale: l’uno è chiaro e conciso, l’altro pacato e concreto. La domanda è: se verrà incoronato dai non-tesserati che cosa accadrà? Diventerà segretario del partito? Riceverà un incarico di consolazione? Oppure gli tireranno fra i piedi qualche multa non pagata e addio?

01 ottobre 2009
da unita.it
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« Risposta #44 inserito:: Novembre 07, 2009, 09:54:31 pm »

Par condicio

Mr. Lodo


di Lidia Ravera

Gira una foto di Angelino Alfano, detto Lodo, piuttosto compromettente. L’hai guardata con una sorta di materno sgomento. Il ministro vi compare aggrappato al suo telefonino: le palpebre calate, le labbra sollevate a mostrare due splendide arcate dentarie strette in una morsa di disappunto. Un ventaglietto di rughe d’impressione (son tempi duri per chi governa sulle carceri) marchia precocemente lo zigomo sinistro e l’impeccabile cravatta porpora a losanghe gialline è scentrata rispetto ai bottoni della camicia. Qualcosa nella postura rigida, nelle sopracciglia stupefatte, nella faticosa ampiezza della fronte corrucciata, segnala il disagio del giovanotto. Benché una morbida peluria occulti appena una pelata di potenza bersaniana, Angelino è nato nel 1970. Secondo gli standard italiani dovrebbe ancora rispondere, da precario, in un call center. E non sempre dicendo: «Sìssignore».

06 novembre 2009
da unita.it
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