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Autore Discussione: GAD LERNER  (Letto 8191 volte)
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« inserito:: Luglio 11, 2008, 04:15:03 pm »

POLITICA IL COMMENTO

L'urlo del populismo

di GAD LERNER


LA pasquinata di martedì pomeriggio in Piazza Navona non basterà a smontare un'idea nefasta ma ricorrente. L'idea che l'Italia di Berlusconi conceda spazio efficace solo a leadership alternative di natura ugualmente antipolitica e populista. A guidare l'opposizione, cioè, nel paese in cui politica e televisione tendono a coincidere, e perfino il gossip diviene strumento di potere, sarebbero predestinati Antonio Di Pietro e Beppe Grillo, Sabina Guzzanti e Marco Travaglio. I coraggiosi, gli unici che le cantano chiare, evasi finalmente dalla gabbia del "politically correct".

Delusa ogni speranza di partecipazione democratica alla vita dei partiti, i cui dirigenti ci credono talmente poco da preferire blindarsi in fondazioni tecnocratiche, la passione politica dovrebbe giocoforza trasmutarsi in ghigno furioso per comunicare - orribile metafora, non a caso in voga - con la "pancia" del paese.

Se il premier è un attempato signore espertissimo in soubrettes e attrici esordienti, non sarà una rivolta di professioniste dello spettacolo lese nella loro dignità a metterlo in difficoltà, ma piuttosto un altro seduttore che dopo aver frequentato pure lui i bagaglini televisivi, da bordo del suo trattore, gli scaraventa addosso la parola magnaccia. Dando la stura a quel che ne seguirà: in fondo, non sono stati forse Berlusconi e Bossi a introdurre la licenza nel linguaggio istituzionale? Perché dovremmo essergli da meno?

A chi già si era già allontanato dalla militanza, constatata l'impossibilità di incidere sulle decisioni politiche, viene offerto il ruolo di mero consumatore di spettacolo: tra una presentazione di libri, uno show al Palasport e un raduno di piazza, al massimo potrà improvvisarsi fans, o seguace di un raggruppamento dalla leadership insostituibile, bisognosa solo di voti e di un plebiscito ogni tanto.

Piazza Navona serve così a capire che anche nell'indignazione più che giustificata contro le norme "ad personam", gli attacchi alla magistratura, i tentativi di ricatto esercitati sul Quirinale, al populismo d'opposizione riesce impossibile manifestare un volto del tutto diverso dal populismo di governo. Perché nel populismo possono fronteggiarsi leadership alternative, ma le matrici culturali non si differenziano: dal maschilismo all'ostilità nei confronti del diverso, dal disprezzo per le istituzioni a una visione caricaturale dei "poteri forti".

Prendiamo l'ultimo mostro generato dall'intreccio italiano fra televisione e potere, cioè il luogo fatidico con cui gli oratori di Piazza Navona intrattengono un rapporto di amore-odio. A partire di lì, la cosiddetta pornopolitica ha definitivamente imposto come senso comune una visione oltraggiosa dell'universo femminile diviso in due: le cortigiane pronte a offrirsi come merce; e le consorti mute per analoga convenienza. Non a caso ciò si è verificato nel paese occidentale che detiene i record della rappresentanza politica più maschile e della tv più guardona. C'è da stupirsi se in Piazza Navona gli avversari di Berlusconi hanno riproposto il suo medesimo stereotipo maschilista?

La corrività si manifesta altrettanto sulle politiche della sicurezza. Come dimenticare che nell'ottobre 2007 fu Beppe Grillo il primo ad aizzare i suoi seguaci contro "l'invasione dei romeni", sostenendo che in Italia non c'era posto per loro e che meglio avremmo fatto a respingerli con una (impossibile) moratoria? Il distinguo culturale nei confronti delle norme discriminatorie varate dal governo contro gli immigrati e i rom è rimasto così sullo sfondo, impopolare, troppo poco maneggevole per chi preferisce esibire sintonia con i gorgoglii della famigerata "pancia".

Ben più redditizio gli è parso additare al popolo l'esistenza di un non meglio precisato partito unico nel quale combinerebbero affari insieme tutte le altre forze parlamentari, con la complicità del Quirinale. Deformazione grottesca del sistema, cui peraltro viene contrapposto un fronte degli onesti che - guarda caso, come sempre nel linguaggio antipolitico - rifugge alle categorie di destra e di sinistra. C'è da scommettere che anche la più recente invenzione del populismo governativo - lotta senza quartiere contro l'odiosa e misteriosa "speculazione" - diventerà presto terreno di contesa fra opposti demagoghi.

La modesta riedizione 2008 dei girotondi non si prefigge più un ricambio dei dirigenti della sinistra, come sei anni fa. Immagina semmai di costruire, con i girotondini professionalizzati come dirigenti politici, una leadership alternativa a Berlusconi sul suo stesso terreno, per quando Berlusconi non ci sarà più. E' un disegno velleitario, ma a preoccuparmi è il suo retropensiero implicito. Quasi che l'arretratezza strutturale e culturale del paese imponessero una sorta di adeguamento, o di rassegnazione. Tra il cinico e lo scettico, in troppi hanno smesso di credere alla possibilità di un antidoto democratico, e si stanno convincendo che l'Italia sia in grado di ascoltare solo le voci licenziose o infuriate del populismo.

(11 luglio 2008)
 
da repubblica.it
« Ultima modifica: Agosto 29, 2010, 11:07:16 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 12, 2009, 03:55:56 pm »

L'ANALISI

Quando Wojtyla si fece giudeo tra i giudei

di GAD LERNER


Ora che Benedetto XVI ha dissipato a Yad Vashem ogni possibile equivoco sull'interpretazione della Shoah, sarebbe ingeneroso sottoporre il suo viaggio in Israele a un confronto col pellegrinaggio giubilare di Giovanni Paolo II.

Tanto più che l'impressione postuma che di quell'evento straordinario conserviamo, ha rimosso dalla nostra memoria i sentimenti di diffidenza e scetticismo con cui l'opinione pubblica israeliana accolse lo stesso Karol Wojtyla nel marzo del 2000, salvo poi esserne conquistata.

Capire gli ebrei, di più, apprendere l'amore per Israele pure quando Israele sembra incurante di essere amato: per riuscirvi il papa polacco si fece promotore di un duplice riconoscimento. Salutò il presidente del giovane Stato come "rappresentante della memoria del popolo ebraico nei secoli e nei millenni", onorando così il ritorno alla Terra Promessa degli esiliati. E poi si fece egli stesso "giudeo fra i giudei" deponendo il suo mea culpa nella fessura del Muro del Pianto, cioè rivolgendosi al Signore col linguaggio spirituale degli ebrei. Con il cuore e l'umiltà del credente, come sapeva fare lui, saltò l'ostacolo della teologia. Difficile pretendere che il papa teologo, votato a conciliare fede e ragione nella dottrina, replichi l'empito del papa mistico.

Lo sforzo intrapreso da Joseph Ratzinger anziché sentimentale è teorico, dunque per certi versi più arduo. Per questo egli ha usato il freno oltre che l'acceleratore, faticando e oscillando nella difficoltà di formulare una definizione del dialogo interreligioso compatibile con la tradizione cattolica. Mettendo "la fede tra parentesi", e dunque autolimitandolo, come gli chiedono i propugnatori di una visione identitaria del cristianesimo? Oppure riconoscendolo come sforzo comune tendente all'"Unica Luce", come si è corretto pochi mesi dopo? Insistendo sulla necessità di un'"illuminazione" degli ebrei - come recita di nuovo la sua preghiera latina del Venerdì Santo- oppure accettando come provvidenziale il mistero della persistenza ebraica, non solo sopravvissuta a millenni di persecuzioni ma rifiorita nella terra di Gesù proprio quando la storia vi ha quasi cancellato la presenza dei suoi seguaci?

Sospinto da un pessimismo accresciutosi nelle tensioni mondiali del dopo 11 settembre, Benedetto XVI ha coltivato la separazione prima dell'unione. Ciò ha provocato non pochi incidenti di percorso, fino a minacciare in taluni momenti la stessa prosecuzione del dialogo ebraico-cristiano che pure egli riconosce essenziale al recupero di un autentico spirito evangelico. Così anche a Yad Vashem, in un discorso veemente contro il razzismo e il negazionismo della Shoah, egli ha preferito ignorare i riferimenti autocritici, coraggiosamente introdotti dal predecessore, sulle responsabilità della Chiesa nell'incubazione dello sterminio novecentesco di cui si macchiarono tanti battezzati.

A complicare una situazione già politicamente deteriorata - non s'intravedono oggi soluzioni ravvicinate del conflitto mediorientale - vi è la consapevolezza di non poter escludere l'islam dalla prosecuzione di questo dialogo. Né in Terra Santa, né sul resto di un orbe terrestre predestinato ormai alla convivenza delle religioni nei medesimi territori. L'incontro spirituale fra i monoteismi di matrice abramitica è presupposto ineludibile alla pace mondiale. Esso implica il riconoscersi nella fede per l'Unico Dio senza metterla " tra parentesi". E senza pretendere che l'islam resti tagliato fuori dal dialogo, quasi che la sua genesi successiva alla comune radice biblica lo condanni al rango di deviazione satanica.

Le vie della fede sono misteriose e tali restano anche quando intersecano dolorosamente la storia delle religioni. Ciò impone al teologo Ratzinger di porsi domande temerarie, oltrepassando i confini della tradizione. Su questo cammino impervio lo conduce il pellegrinaggio a Gerusalemme.

(12 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:38:04 am »

IL COMMENTO

La corona longobarda

di GAD LERNER


Se nel giorno di Sant'Ambrogio, vescovo e patrono di Milano, la Lega ha lanciato una sfida pubblica contro il suo successore Dionigi Tettamanzi, paragonandolo prima a un imam musulmano e poi a un prete siciliano mafioso, è perché si sente forte, molto forte.

La volgarità degli argomenti scagliati contro l'"Onorevole Tettamanzi", delegittimato così nel suo ruolo pastorale, additato come un nemico degli interessi del popolo, non deve trarre in inganno: c'è del metodo nella provocazione architettata nel dì festivo. Quasi una contro-predica rivolta al gregge della diocesi più grande del mondo, puntando dal trono del governo alla conquista dell'altare in Duomo.
La Lega vuole la corona longobarda, che sia cristiana o pagana non le importa. Si erge a potere costituito che ripristina la tradizione perduta. Sente venuto il suo momento e punta al bersaglio grosso. Perciò esercita violenza verbale, scagliandosi contro il cardinale: deve dimostrarci che nulla la potrà fermare, non ha paura di nessuno. Perfino il Vangelo può subire un'interpretazione alternativa, dal "Bianco Natale" razzista fino ai bambini rom da ricacciare in mezzo alla strada, ora che la nuova teologia in camicia verde s'impone come energia scaturita dalla volontà popolare.

Di fronte al sopruso, a una calcolata volontà intimidatoria, l'arcivescovo Tettamanzi ha profetizzato ieri il pericolo dei lupi. L'eresia dei forti disposti a tutto, perfino a uccidere e esiliare i pastori delle chiese, ha detto, citando Ambrogio. Egli sa bene di trovarsi di fronte una forza politica candidata alla successione del potere berlusconiano nel Nord Italia. Un'eventualità sempre più probabile da quando la Lega può scommettere su un argomento storico e su un argomento contingente che, entrambi, la favoriscono.
L'argomento storico è il riemergere di uno spirito reazionario, pre-illuministico, anti-risorgimentale, nostalgico della cristianità lombarda della Controriforma nelle nostre contrade settentrionali. È questo spirito dei tempi che incoraggia tradizionalismo leghista a proclamarsi erede perfino di San Carlo Borromeo, il missionario della "conquista delle anime", in contrapposizione ai vescovi contemporanei. Bossi scommette su un cattolicesimo più antico e chiuso di quello conciliare. Sui legami del sangue e del suolo opposti alla Chiesa universale. Si compiace di come le parole d'ordine xenofobe assecondino e liberino una spinta oscurantista. Ambisce a rappresentare il passato che ritorna e s'impossessa della modernità, come portavoce non più solo degli interessi ma delle coscienze stesse: perché vergognarsi di desiderare il bene per sé, non per tutti?

L'altro argomento, di natura contingente, che favorisce la Lega nella sfida al cardinale di Milano, è la totale remissività della destra cattolica da decenni al governo in Lombardia. Comunione e Liberazione, la Compagnia delle Opere, il sottobosco del potere di Roberto Formigoni, non hanno mai ritenuto conveniente erigere un argine che li differenziasse dalla politica e dai valori propagandati dalla Lega. Si sono contraddistinti ben più negli affari che nella solidarietà. Oggi, certo, vivono con estremo disagio, quasi come un tradimento inaspettato, gli insulti della "Padania" e del ministro Calderoli al vertice della chiesa ambrosiana. Ma fino a ieri prevaleva in loro la malcelata insofferenza nei confronti di pastori spiritualmente lontani dall'integralismo e dalla spregiudicatezza che li caratterizzano. Questa destra cattolica lombarda già sopportava con fatica il cardinale Carlo Maria Martini, predecessore di Dionigi Tettamanzi.

Formigoni e i suoi seguaci, preoccupati di consolidare la loro influenza nella sanità, nell'urbanistica, nel business delle bonifiche, in Fiera e ovunque possibile, hanno lasciato che anche il loro elettorato diventasse arrabbiato, sospettoso, reazionario. Oggi un cittadino di destra lombardo, ma anche veneto o piemontese, non sta certo a fare distinzioni culturali. Per lui sarà indifferente votare un presidente della Lega o del Pdl: sul piano ideale non sono più ravvisabili diversità significative.

La Lega e il Pdl hanno condotto insieme campagne elettorali contro "la società multietnica". Parola di Silvio Berlusconi al comizio conclusivo di Milano, nel giugno scorso, quando aggiunse il lamento: "Camminavo nel centro di Milano e mi pareva di trovarmi in Africa". Umberto Bossi, lì al suo fianco, applaudiva. Poi con l'inverno a Milano è tornata la stagione degli sgomberi dei campi rom. Inutili, propagandistici, spesso crudeli nelle conseguenze su poche centinaia di persone di cui erano in corso faticosi tentativi di integrazione.

La Chiesa milanese non poteva accettare questo stravolgimento dello spirito evangelico, perpetrato oltretutto dagli stessi che inneggiano alla Tradizione e alla Croce. L'arcivescovo ha denunciato la blasfemia. Lo aspettavano al varco. Accusarlo di essere un musulmano o un mafioso, nell'accezione incivile dei leghisti, è la stessa cosa. Conta lo sfregio, conta la prossima tappa: l'altare del Duomo. Intanto il sindaco di Milano, timorosa di non essere ricandidata, ha ritenuto di non avere nulla da dichiarare. Era più importante la prima della Scala.

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« Risposta #3 inserito:: Aprile 03, 2010, 10:58:16 am »

L'ANALISI

Le maschere del carroccio

di GAD LERNER


La Lega di Umberto Bossi detiene un peso elettorale quasi identico al Front National di Jean-Marie Le Pen, che alle regionali francesi del 14 marzo scorso ha conseguito l'11,42% dei voti (2.223.800 elettori). Ma Le Pen non può aspirare a nessuna alleanza con i gollisti di Sarkozy perché la distanza culturale fra loro viene considerata incolmabile. La Lega, invece, partecipa da anni in posizioni chiave al governo nazionale e ciò l'ha favorita nel conquistare la guida di due regioni importanti come il Veneto e il Piemonte. Tanto che oggi il leghismo è in grado di proporsi credibilmente come approdo e baricentro culturale della destra italiana post-berlusconiana, scommettendo sul fatto che per difendere il suo insediamento sociale essa resterà altra cosa dal Partito Popolare europeo. Bossi non indica traguardi d'eccellenza alla sua comunità. Conosce gli handicap che la rendono sempre meno competitiva nelle sfide globali. Offre dunque la semplicità del suo linguaggio come garanzia per chi cerca protezione visto che la concorrenza gli è poco propizia.

Dal successo di questa offerta nasce il mito del radicamento territoriale della Lega, magnificata come nuovo partito ideologico di massa, sul modello delle formazioni organizzate di mezzo secolo fa. Nulla di più falso. La militanza leghista è altra cosa dall'interclassismo democristiano e dalla vertenzialità comunista. Si manifesta nella predicazione capillare di "valori" e nell'indicazione di "nemici" molto più che nel riformismo locale.
Chiunque abbia seguito gli ultimi comizi di Umberto Bossi (affiancato negli appuntamenti più importanti da Giulio Tremonti, quasi che il ministro dell'Economia fosse ormai un dirigente della Lega e non del Pdl) se n'è reso conto. Sui palchi elettorali il senatur si concentra sul profilo identitario, esalta l'appartenenza a un popolo "sano": vagheggia di pedofilia come insidia estera; denuncia i pericoli della "famiglia trasversale" con allusioni gestuali agli omosessuali; proclama il sempre efficace "padroni a casa nostra"; rivendica di aver sbarrato il passo allo straniero. Altro che concretezza programmatica, altro che piattaforme di territorio. Bossi incanta la folla descrivendo una missione quasi religiosa della Lega, esasperandone la natura tradizionalista: forza antica, interprete di uno spirito conservatore antiliberale radicato da secoli nel cattolicesimo popolare che già visse come eventi minacciosi l'esportazione della Rivoluzione francese, il Risorgimento "massonico", la Resistenza egemonizzata dai comunisti.

Come un rabdomante, Bossi sintonizza la sua politica con questa energia sotterranea reazionaria. Confida di storicizzare il leghismo mettendolo in relazione con le vandee anti-bonapartiste, con l'opposizione cattolica allo Stato unitario nei suoi primi decenni di vita, col rifiuto a un tempo degli ogm e dei minareti. Non a caso l'esordio dei nuovi presidenti di Veneto e Piemonte, Luca Zaia e Roberto Cota, è un annuncio simbolico di carattere spirituale, non economico: il boicottaggio della pillola Ru486, legalizzata dallo Stato italiano ma osteggiata dalla Chiesa cattolica. E quindi additata come diavoleria moderna.

È opinione diffusa, anche nella comunità finanziaria, che i dirigenti leghisti siano dotati di notevoli virtù pragmatiche. Soprattutto viene apprezzato che non chiedano niente per sé, semmai per il partito, e mantengano gli impegni. Ciò è tipico dei movimenti fortemente ideologizzati, dove si apprende la dimestichezza nell'esercizio del potere dentro i ruoli istituzionali man mano conquistati. Più problematico sarebbe descrivere realizzazioni sociali o economiche tipicamente leghiste nei territori amministrati.

Prima di tutto viene dunque il partito. La sua struttura centralistica valorizza la gerarchia interna, esclude il dissenso e coltiva la fedeltà al leader carismatico. Requisiti che avvantaggiano i quadri leghisti nel confronto con gli alleati del Pdl sempre in lite fra loro. Ma questa divisa comune obbligatoria  -  se non è più la camicia verde, sia almeno la cravatta o il fazzoletto  -  ha una finalità "totalitaria" raffinata che va ben al di là della disciplina. Il popolo cui si rivolge il messaggio della Lega identifica da sempre il principio d'autorità con la tradizione. Aspira a un "noi" contrapposto all'élite, disprezzabile perché nell'élite non si distingue la cultura dal privilegio. Questo è il popolo che per contrasto apprezza la saggezza del leader autodidatta, meglio se un po' rozzo; l'intraprendente che non ha studiato ma si è fatto da sé.

L'antropologa francese Lynda Dematteo ricostruisce, sotto un titolo che si presta a equivoci di snobismo sprezzante "L'idiotie en politique" (Cnrs éditions), questo capolavoro semantico di Bossi. Descrive come i dirigenti leghisti hanno saputo trasferire in politica le maschere della commedia dell'arte e del teatro dei burattini. Così mascherati, si sono atteggiati lungamente a finti sciocchi, come tali autorizzati a profferire verità altrimenti indicibili. La Dematteo cita per esempio il gozzuto Gioppino, folkloristico valligiano bergamasco la cui idiozia era valorizzata come "un dono di natura"; e sostiene che, al pari di Gioppino, pure i dirigenti leghisti camuffano la loro astuzia avvolgendola nella grossolanità. Avete presente il ministro Calderoli con scure e lanciafiamme mentre dà fuoco agli scatoloni della burocrazia? Di nuovo è la commedia dell'arte a illuminarci: il finto sciocco gratifica il suo pubblico perché gli consente di riconoscere in lui la rivincita dell'umile sull'arrogante.
Non c'è comizio o dibattito televisivo in cui il leghista non ostenti ironico distacco nei confronti dell'avversario, descrivendolo come intellettuale lontano dai problemi del popolo, al quale viceversa lui appartiene. Il compiacimento mostrato nell'inciampo sintattico, nel dialettismo e nella battuta sessista servono a lanciare il messaggio decisivo: "Siamo come voi, difetti compresi, solo un po' più coraggiosi".

Il tratto caricaturale e l'immediata riconoscibilità popolana del leghista godono oggi di un tale appeal, da richiamare imitatori perfino ai vertici dell'establishment. Venerdì 26 marzo al Teatro Nuovo di Torino, parlando dopo Bossi e Cota, l'erudito ministro professor Giulio Tremonti si è sentito in dovere di vantarsi: "Noi siamo gente semplice, poche volte ci capita di leggere un libro...". Solo un modo di dire, certo, ma esprime bene lo spirito dei tempi. L'"idiotismo politico" può essere adottato con maestria anche dai borghesi.

L'imponente travaso di voti dal Pdl alla Lega verificatosi alle regionali 2010 conferma che il fenomeno conservatore degli "atei devoti"  -  vogliosi di credere in Dio, patria e famiglia a prescindere dalla coerenza delle scelte di vita  -  ha dimensioni di massa ed è solo una presenza intellettuale. Nel profondo Nord il partito dei credenti nella Tradizione è destinato a durare più del partito personale di Berlusconi. Lo congloberà, probabilmente. Mentre già oggi la Lega gode della benevolenza dell'"Osservatore Romano" che gli attribuisce improbabili somiglianze organizzative con Democrazia cristiana e Partito comunista; e pazienza se su temi evangelicamente imbarazzanti come il rapporto con lo straniero Zaia e Cota entreranno magari in frizione con i vescovi locali.

Il problema semmai riguarda Gianfranco Fini, perché il leghismo che si offre come linguaggio esplicito e approdo organizzato alle incertezze del Pdl, confida di lasciare ben poco spazio alla nascita di una destra liberale in Italia. Qui da noi Le Pen rischia di mangiarsi Sarkozy, il viceversa pare impossibile.
 
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:06:18 am »

MEETING

L'attacco a Eco e l'indulgenza col potere

Parte la crociata di Cl contro i moralisti

Per i discepoli di don Giussani, ormai giunti alla terza generazione, lo scandalo è "Famiglia cristiana" quando se la prende con Berlusconi

di GAD LERNER


RIMINI - Sono venuto al Meeting di Rimini per capire cos'è questo detestabile "moralismo" che tanto fastidio suscita nei cattolici moderati di Comunione e Liberazione. Per i discepoli di don Giussani, ormai giunti alla terza generazione, lo scandalo è "Famiglia cristiana" quando se la prende con Berlusconi.

E perciò stesso va disdegnata come "L'Unità" o "Il Fatto", a detta di Maurizio Lupi; merita viceversa indulgenza il degrado nei comportamenti dei politici al comando: non siamo forse tutti peccatori? Chi di noi ha il diritto di scagliare la prima pietra? "Sia proibita la vendita di 'Famiglia cristianà sul sagrato delle chiese!", invoca lo storico di Cl, monsignor Massimo Camisasca.

La parabola evangelica viene declinata in forme sorprendenti da una folla entusiasta nel tributare applausi indistinti: da Geronzi ai missionari in America Latina. E rivela una sensibilità talmente particolare di questo popolo, reso compatto dall'intimità delle sue liturgie, da configurarlo quasi come una Chiesa privata, ben sintonizzata con gli umori più profondi della destra italiana. Parlo di Chiesa privata perché Cl non solo si contrappone, come e più di sempre, al cosiddetto cattolicesimo democratico. Ma si distanzia dal giudizio critico sulla classe dirigente pronunciato dalla Cei e che perfino il portavoce dell'Opus Dei, Pippo Corigliano, nei giorni scorsi ha consegnato in un'intervista al "Manifesto": "Al momento politici che abbiano una struttura morale tale da interpretare i valori cattolici non se ne vedono. Il punto è che i politici proprio quei valori tentano poi di strumentalizzare". Un atto d'accusa del tutto assente dal Meeting di Rimini.

Proverò a raccontare l'antipatia di Cl per il "moralismo" attraverso alcune istantanee di una festa dominata, come tutti hanno notato, dall'affettuosa confidenza instaurata da Cl con banchieri e imprenditori, pur senza rinunciare, in particolare i giovani, alla centralità degli appuntamenti religiosi, alla politica ecumenica e alla visione internazionale promosse da Carron, del tutto disinteressato alla politica italiana, che resta appannaggio della generazione precedente. I ciellini hanno dato in abbondanza a Cesare quel che è di Cesare, e forse al governo in carica pure qualcosa di più, riservandosi il primato spirituale.


E' Giancarlo Cesana, responsabile laico di Cl divenuto presidente del Policlinico di Milano, a introdurre l'appuntamento più atteso, la lectio del Patriarca di Venezia, Angelo Scola. Tema: "Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità". Saranno diecimila, non vola una mosca. Cesana estrae un foglietto per spiegare in due esempi il vizio della post-modernità. Racconta dello studente universitario cui chiese un giudizio sull'aborto: "Ognuno la pensa come vuole", fu la risposta che ancora lo indigna. Del resto, aggiunge, nella Russia comunista, "è lo stesso" non divenne forse l'intercalare più comune?
Preparato il terreno, Cesana vibra il fendente decisivo. Una citazione di Umberto Eco dalle pagine conclusive de "Il nome della rosa", allorquando Guglielmo di Baskerville contempla l'incendio della biblioteca e della chiesa. Eccola.


"Temi i profeti e coloro che sono disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro (...) Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla morbosa passione per la verità".
Applauso scrosciante di riprovazione. Per Cesana quella frase di un romanzo pubblicato trent'anni fa resta, in perfetta buona fede, più grave di qualsiasi misfatto commesso da un politico arraffone della giunta lombarda di Formigoni. Sorriderà distaccato di fronte alle tentazioni umane di un assessore - cosa volete che siano - mentre denuncia implacabile l'agnosticismo dello studente di fronte all'aborto. Colpevole, lui sì. O vittima di Umberto Eco?
Con il patriarca Scola la conversazione si eleva, costellata magistralmente di citazioni cinematografiche e generazionali, come l'"on the road" di Kerouac, richiamo affascinante sebbene gli astanti restino ben lungi dal suo ideale libertario. Neppure il cardinale più amato dai ciellini, difatti, rinuncia alla polemica con i moralisti, i più insidiosi fra i peccatori perché abuserebbero del richiamo a comportamenti esemplari, cioè alla testimonianza.


Ecco come li attacca Scola: "Diventa allora necessario liberare la categoria della testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale". A chi si riferisce Scola? Forse a coloro che s'illudono di praticare la virtù senza riconoscere la sua implicazione successiva, secondo cui "la Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio", diventa cioè il luogo "che rende possibile la testimonianza". Come? "Anzitutto, attraverso l'Eucarestia e la liturgia".
Il percorso è chiaro: se la testimonianza si manifesta nell'osservanza religiosa, chi siamo noi per criticare i peccatori osservanti la pratica religiosa nella Chiesa che resta "santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale"?


Così vengono "sistemati" i moralisti. E per gradire, poco più tardi, intervenendo di nuovo al Caffè letterario del Meeting, lo stesso Scola rivolgerà un pubblico encomio a Renato Farina: "Sono pochi i giornalisti bravi come lui". Come volevasi dimostrare.
Sbaglierò, ma ho colto perfino un pizzico di compiacimento quando il Patriarca sottolineava con voce sofferta quel "terribili", riferito a certi peccati degli uomini di Chiesa. Perché chinandosi amorevole sul frammento d'anima penitente, il testimone disciplinato susciterà in lei nuovamente il desiderio di Dio, la fede che ci è donata nella Chiesa.
Particolarmente ricercati, non a caso, fra gli ospiti del Meeting primeggiano i figliol prodighi che vengono a raccontare il loro avvicinamento a questa idea di Chiesa (privata?). Come il sottosegretario Eugenia Roccella che si dilunga sul suo passato radicale, femminista, anticlericale. O l'assai più tormentato filosofo Pietro Barcellona, sospinto in depressione dal fallimento del comunismo, verso un approdo cristiano.
Aggirandosi fra gli stand non si trovano solo le aziende in rapporto di business con la Compagnia delle Opere o con i politici ciellini. Bisogna fare la fila per visitare la mostra sulla scrittrice cattolica americana Flannery O'Connor, così come vivacissimi sono i dibattiti critici sulla tecnoscienza. E' nel linguaggio di un conservatorismo moderno che si esprime questa strana indulgenza ciellina per i malfattori, contrapposta alla severità con cui additano i moralisti. Al centro dell'installazione dedicata a don Bosco, per esempio, trovo gli stessi luchetti resi popolari fra i giovani da Federico Moccia: reggono nastri devozionali: "O Maria Vergine potente", "Tu nell'ora della morte accogli l'anima in paradiso". L'imprinting di un movimento cresciuto nella contrapposizione all'Utopia del Sessantotto, compare perfino stampato sulle t-shirt: "Non ho nulla per cui protestare, solo da ringraziare".


Ricordo a Roberto Formigoni il nostro incontro di dieci anni fa, all'indomani di una sua trionfale vittoria elettorale in Lombardia. Dopo aver concesso a Comunione e Liberazione "il merito storico di avere generato me, che sono però dotato di una forza politica autonoma ben maggiore", prometteva un prossimo trionfale sbarco a Roma: "Questo nostro modello conquisterà l'Italia". Non è andata così e oggi lo trovo più cauto. Si accontenta di rivendicare una riuscita "fecondazione di idee". I politici ciellini radunati in Rete Italia contano su Maurizio Lupi, pupillo di Berlusconi, e su Mario Mauro al parlamento europeo; ma patiscono nella loro culla lombarda il fiato sul collo della Lega, da cui non sono riusciti a distinguersi più che tanto sul piano culturale e religioso. Quanto ai politici affaristi con cui militano fianco a fianco nel Pdl, la linea resta sempre la stessa: no al moralismo.
Per difendere la loro Verità dalle insidie del moralismo, dunque, scelgono di prendersela con il "potente" Umberto Eco. Peccato che Giancarlo Cesana non abbia riferito anche la frase che l'autore de "Il nome della rosa" mette in bocca al suo protagonista, subito prima di quella incriminata: "L'Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall'eccessivo amor di Dio o della verità, come l'eretico nasce dal santo e l'indemoniato dal veggente".

(28 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/28/news/la_crociata_di_cl_contro_i_moralisti-6564200/
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 29, 2010, 11:00:58 am »

MEETING

L'attacco a Eco e l'indulgenza col potere

Parte la crociata di Cl contro i moralisti

Per i discepoli di don Giussani, ormai giunti alla terza generazione, lo scandalo è "Famiglia cristiana" quando se la prende con Berlusconi

di GAD LERNER


RIMINI - Sono venuto al Meeting di Rimini per capire cos'è questo detestabile "moralismo" che tanto fastidio suscita nei cattolici moderati di Comunione e Liberazione. Per i discepoli di don Giussani, ormai giunti alla terza generazione, lo scandalo è "Famiglia cristiana" quando se la prende con Berlusconi.

E perciò stesso va disdegnata come "L'Unità" o "Il Fatto", a detta di Maurizio Lupi; merita viceversa indulgenza il degrado nei comportamenti dei politici al comando: non siamo forse tutti peccatori? Chi di noi ha il diritto di scagliare la prima pietra? "Sia proibita la vendita di 'Famiglia cristianà sul sagrato delle chiese!", invoca lo storico di Cl, monsignor Massimo Camisasca.

La parabola evangelica viene declinata in forme sorprendenti da una folla entusiasta nel tributare applausi indistinti: da Geronzi ai missionari in America Latina. E rivela una sensibilità talmente particolare di questo popolo, reso compatto dall'intimità delle sue liturgie, da configurarlo quasi come una Chiesa privata, ben sintonizzata con gli umori più profondi della destra italiana. Parlo di Chiesa privata perché Cl non solo si contrappone, come e più di sempre, al cosiddetto cattolicesimo democratico. Ma si distanzia dal giudizio critico sulla classe dirigente pronunciato dalla Cei e che perfino il portavoce dell'Opus Dei, Pippo Corigliano, nei giorni scorsi ha consegnato in un'intervista al "Manifesto": "Al momento politici che abbiano una struttura morale tale da interpretare i valori cattolici non se ne vedono. Il punto è che i politici proprio quei valori tentano poi di strumentalizzare". Un atto d'accusa del tutto assente dal Meeting di Rimini.

Proverò a raccontare l'antipatia di Cl per il "moralismo" attraverso alcune istantanee di una festa dominata, come tutti hanno notato, dall'affettuosa confidenza instaurata da Cl con banchieri e imprenditori, pur senza rinunciare, in particolare i giovani, alla centralità degli appuntamenti religiosi, alla politica ecumenica e alla visione internazionale promosse da Carron, del tutto disinteressato alla politica italiana, che resta appannaggio della generazione precedente. I ciellini hanno dato in abbondanza a Cesare quel che è di Cesare, e forse al governo in carica pure qualcosa di più, riservandosi il primato spirituale.


E' Giancarlo Cesana, responsabile laico di Cl divenuto presidente del Policlinico di Milano, a introdurre l'appuntamento più atteso, la lectio del Patriarca di Venezia, Angelo Scola. Tema: "Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità". Saranno diecimila, non vola una mosca. Cesana estrae un foglietto per spiegare in due esempi il vizio della post-modernità. Racconta dello studente universitario cui chiese un giudizio sull'aborto: "Ognuno la pensa come vuole", fu la risposta che ancora lo indigna. Del resto, aggiunge, nella Russia comunista, "è lo stesso" non divenne forse l'intercalare più comune?
Preparato il terreno, Cesana vibra il fendente decisivo. Una citazione di Umberto Eco dalle pagine conclusive de "Il nome della rosa", allorquando Guglielmo di Baskerville contempla l'incendio della biblioteca e della chiesa. Eccola.


"Temi i profeti e coloro che sono disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro (...) Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla morbosa passione per la verità".
Applauso scrosciante di riprovazione. Per Cesana quella frase di un romanzo pubblicato trent'anni fa resta, in perfetta buona fede, più grave di qualsiasi misfatto commesso da un politico arraffone della giunta lombarda di Formigoni. Sorriderà distaccato di fronte alle tentazioni umane di un assessore - cosa volete che siano - mentre denuncia implacabile l'agnosticismo dello studente di fronte all'aborto. Colpevole, lui sì. O vittima di Umberto Eco?
Con il patriarca Scola la conversazione si eleva, costellata magistralmente di citazioni cinematografiche e generazionali, come l'"on the road" di Kerouac, richiamo affascinante sebbene gli astanti restino ben lungi dal suo ideale libertario. Neppure il cardinale più amato dai ciellini, difatti, rinuncia alla polemica con i moralisti, i più insidiosi fra i peccatori perché abuserebbero del richiamo a comportamenti esemplari, cioè alla testimonianza.


Ecco come li attacca Scola: "Diventa allora necessario liberare la categoria della testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale". A chi si riferisce Scola? Forse a coloro che s'illudono di praticare la virtù senza riconoscere la sua implicazione successiva, secondo cui "la Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio", diventa cioè il luogo "che rende possibile la testimonianza". Come? "Anzitutto, attraverso l'Eucarestia e la liturgia".
Il percorso è chiaro: se la testimonianza si manifesta nell'osservanza religiosa, chi siamo noi per criticare i peccatori osservanti la pratica religiosa nella Chiesa che resta "santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale"?


Così vengono "sistemati" i moralisti. E per gradire, poco più tardi, intervenendo di nuovo al Caffè letterario del Meeting, lo stesso Scola rivolgerà un pubblico encomio a Renato Farina: "Sono pochi i giornalisti bravi come lui". Come volevasi dimostrare.
Sbaglierò, ma ho colto perfino un pizzico di compiacimento quando il Patriarca sottolineava con voce sofferta quel "terribili", riferito a certi peccati degli uomini di Chiesa. Perché chinandosi amorevole sul frammento d'anima penitente, il testimone disciplinato susciterà in lei nuovamente il desiderio di Dio, la fede che ci è donata nella Chiesa.
Particolarmente ricercati, non a caso, fra gli ospiti del Meeting primeggiano i figliol prodighi che vengono a raccontare il loro avvicinamento a questa idea di Chiesa (privata?). Come il sottosegretario Eugenia Roccella che si dilunga sul suo passato radicale, femminista, anticlericale. O l'assai più tormentato filosofo Pietro Barcellona, sospinto in depressione dal fallimento del comunismo, verso un approdo cristiano.
Aggirandosi fra gli stand non si trovano solo le aziende in rapporto di business con la Compagnia delle Opere o con i politici ciellini. Bisogna fare la fila per visitare la mostra sulla scrittrice cattolica americana Flannery O'Connor, così come vivacissimi sono i dibattiti critici sulla tecnoscienza. E' nel linguaggio di un conservatorismo moderno che si esprime questa strana indulgenza ciellina per i malfattori, contrapposta alla severità con cui additano i moralisti. Al centro dell'installazione dedicata a don Bosco, per esempio, trovo gli stessi luchetti resi popolari fra i giovani da Federico Moccia: reggono nastri devozionali: "O Maria Vergine potente", "Tu nell'ora della morte accogli l'anima in paradiso". L'imprinting di un movimento cresciuto nella contrapposizione all'Utopia del Sessantotto, compare perfino stampato sulle t-shirt: "Non ho nulla per cui protestare, solo da ringraziare".


Ricordo a Roberto Formigoni il nostro incontro di dieci anni fa, all'indomani di una sua trionfale vittoria elettorale in Lombardia. Dopo aver concesso a Comunione e Liberazione "il merito storico di avere generato me, che sono però dotato di una forza politica autonoma ben maggiore", prometteva un prossimo trionfale sbarco a Roma: "Questo nostro modello conquisterà l'Italia". Non è andata così e oggi lo trovo più cauto. Si accontenta di rivendicare una riuscita "fecondazione di idee". I politici ciellini radunati in Rete Italia contano su Maurizio Lupi, pupillo di Berlusconi, e su Mario Mauro al parlamento europeo; ma patiscono nella loro culla lombarda il fiato sul collo della Lega, da cui non sono riusciti a distinguersi più che tanto sul piano culturale e religioso. Quanto ai politici affaristi con cui militano fianco a fianco nel Pdl, la linea resta sempre la stessa: no al moralismo.
Per difendere la loro Verità dalle insidie del moralismo, dunque, scelgono di prendersela con il "potente" Umberto Eco. Peccato che Giancarlo Cesana non abbia riferito anche la frase che l'autore de "Il nome della rosa" mette in bocca al suo protagonista, subito prima di quella incriminata: "L'Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall'eccessivo amor di Dio o della verità, come l'eretico nasce dal santo e l'indemoniato dal veggente".

(28 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/28/news/la_crociata_di_cl_contro_i_moralisti-6564200/
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 31, 2010, 03:37:38 pm »

LA POLEMICA

La velina islamica

di GAD LERNER

CI MANCAVA la velina islamica, dopo la donna tangente. Degna commistione fra due paesi mediterranei diversamente retrogradi, ma entrambi contraddistinti dall´abitudine a trattare la femminilità come ornamento del potere. Naturale quindi che anche la velina islamica sia vincolata alla consegna del silenzio, come il suo corrispettivo che va in onda a ogni ora del giorno e della notte sulle tv del belpaese. Il silenzio è requisito della sottomissione, e come tale lo impone la zelante agenzia Hostessweb, pena il mancato pagamento delle centinaia di ragazze scritturate a modica tariffa, confidando sul loro bisogno di lavorare.
La religione, com'è ovvio, non c'entra nulla. Nessun buon musulmano prende sul serio Gheddafi, né il suo appello alla conversione islamica dell'Europa. Se davvero la suprema Guida della Jamahiriyya fosse mosso da intenti di proselitismo, avrebbe convocato intorno a sé un pubblico misto di interlocutori, non si sarebbe rivolto a un'agenzia di hostess precisando che servivano signorine bella presenza, provocanti ma non troppo, secondo il gusto maghrebino.

C'entra invece, eccome, il bisogno di dimostrare che la grazia e la sensualità possono essere comprate col denaro. Il dittatore libico si rivolge al suo popolo prospettandogli la meraviglia delle belle donne da marito di cui l'Italia è percepita anche laggiù come il giacimento. Lui può permettersele, i suoi sudditi vedremo.
Nessuna altra capitale europea avrebbe tollerato il ripetersi, per tre volte in un anno, di una simile esibizione. Ma l'Italia è la patria delle veline, dove d'estate è normale che un sedicente rivoluzionario autore televisivo impieghi pure anziane signore nella parodia ossessiva dell'avanspettacolo, e dove perfino il capo del governo rincorre il mito dello sciupafemmine per sentirsi amato. Perché negarci dunque l'eccesso fantasioso della velina islamica?

Nonostante gli oltre quarant'anni ininterrotti al potere, in fondo Muammar Gheddafi resta pur sempre meno anziano rispetto al nostro presidente del consiglio. Hanno in comune la maschera patetica di chi insegue la longevità con camuffamenti giovanilistici. Da questo punto di vista, sono leader intercambiabili.
Se oggi Berlusconi minimizza di fronte allo squallore dei raduni di giovani femmine italiane sottomesse, che Gheddafi non oserebbe mai convocare in un santuario di preghiera islamica, e si limita a definirli "folklore", non è solo per imbarazzo diplomatico. Lui che per anni ha esercitato un indubbio potere seduttivo sulla maggioranza delle donne italiane, soffre di una vera e propria mutilazione culturale: vittima del suo stesso anacronismo, gli è preclusa la sensibilità necessaria anche solo a figurarsi le donne al di fuori di una dimensione subalterna. Gli verrebbe più facile parlare arabo che notare un evidente problema nazionale come la dignità femminile calpestata.

Ora Gheddafi, aspirante colonizzatore di Roma, viene a dirci che in Libia le donne sono più libere che in Occidente. Immagino che lui e il nostro premier scherzeranno, in privato, di tale fandonia. Per quanto tempo ancora?

(31 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/31/news/la_velina_islamica-6641549/?ref=HREA-1
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 17, 2010, 03:52:48 pm »

L'ANALISI

Il valore del lavoro e la politica distante

di GAD LERNER

L'ingiustizia plateale di cui è vittima il lavoro dipendente nel nostro paese  -  rimossa dal governo, trascurata dalla sinistra - si sta riprendendo da sola l'attenzione che le spetta.

Solo un establishment miope, che ha lucrato per decenni sulla crescita delle disuguaglianze sociali senza peraltro compensarla con alcun vantaggio per l'economia, può liquidare la piazza romana gremita di lavoratori metalmeccanici come una manifestazione di estremismo politico. Da trent'anni una distribuzione squilibrata del reddito  -  che a differenza da altri paesi neppure la fiscalità e il welfare riescono a correggere - provoca un'imponente decurtazione della quota di ricchezza nazionale destinata alle buste paga. E come se questo non fosse un problema, ogni rara volta che viene ipotizzato un nuovo investimento nell'apparato industriale, esso viene preceduto dalla richiesta di concessioni normative a vantaggio dell'impresa. Quasi non provenissimo da decenni di moderazione sindacale e di concessioni rimaste senza contropartita alcuna per i lavoratori.

Può sembrare antico il simbolo della Federazione Impiegati Operai Metalmeccanici della Cgil fondata nel 1901, con la ruota dentata e il martello affiancati alla penna e al compasso - ma chi lo irrideva alla stregua di un anacronismo ormai disgiunto dal malcontento operaio, ha perso la sua scommessa.

Ancora una volta si è confermato poco saggio confidare sulla divisione sindacale per edificare nuove relazioni industriali.
Sono caduti nel vuoto perfino gli avvertimenti del vecchio "duro" Cesare Romiti. Peggio ancora, il ministro Maroni ha additato irresponsabilmente come pericolo pubblico la manifestazione promossa da una grande organizzazione democratica che merita il rispetto di tutti, compreso chi non ne condivide la linea sindacale. Mentre il suo collega Sacconi, novello apprendista stregone, ha sproloquiato vaneggiando di un inesistente "clima da anni Settanta".

La compostezza della protesta operaia ha fatto giustizia della linea di un governo che punta a stringere accordi con la Cisl e la Uil negando il ruolo decisivo della Cgil. Speriamo che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, dopo aver dato in questa circostanza il cattivo esempio, riveda il proprio errore.
Toccherà ora ai sindacati di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ritessere un rapporto unitario con la nuova leader della Cgil, Susanna Camusso, contribuendo a sopire le tensioni che hanno dato luogo purtroppo a intimidazioni gravi nei loro confronti. Nessuno tra coloro che rifiutano calcoli politici di breve periodo, neanche la Confindustria, ha convenienza a fronteggiare la gestione della crisi economica con due piazze sindacali contrapposte. Tanto più dopo la giornata di ieri che ha evidenziato rapporti di forza diversi da quelli su cui forse anche Cisl e Uil facevano affidamento.

L'argomento secondo cui la Fiom Cgil mobilita grandi numeri solo perché intorno a lei si radunano forze radicali, precari della scuola e studenti estranei al mondo della fabbrica  -  il "nuovo antiberlusconismo" di cui parla Nichi Vendola - denota una visione politicista che elude la sostanza del problema: chiedere deroghe ai dipendenti in materia di malattia e diritto di sciopero, addirittura disdettare un contratto nazionale prefigurando ovunque normative svantaggiose, viene percepito come un'ingiustizia da chi molto ha già dato senza ricevere nulla in cambio.

Certo, dalla nuova posizione di forza acquisita, anche la Fiom Cgil dovrà avvertire la responsabilità di operare per una nuova unità sindacale, sedersi di nuovo ai tavoli delle trattative, vincendo la tentazione di un isolamento dorato.

Il Partito Democratico soffre più di chiunque altro questa divisione sindacale e paga il prezzo di non aver saputo delineare un suo impegno politico diretto nel mondo del lavoro, influenzando anche le dinamiche interne alle tre confederazioni. L'assenza di Bersani in piazza San Giovanni è dovuta al fatto che il segretario del Pd non può oggi permettersi di scegliere: difatti non aveva partecipato neppure alla manifestazione di Cisl e Uil, la settimana prima, a piazza del Popolo.

Magari fosse solo una questione diplomatica. La verità è che l'intera classe politica del centrosinistra, qualunque sia la sua matrice culturale, si è macchiata di un'inadempienza storica. Rescisso il legame esistenziale con gli operai, interrotto il circuito virtuoso per cui la rappresentanza delle classi subalterne si tramutava anche in leadership espresse direttamente dal mondo del lavoro, non ha allontanato solo il suo tenore di vita e la sua sensibilità dal popolo delle formiche. La classe dirigente del centrosinistra si è autoconvinta che un'adesione acritica alla cultura neo-liberale fosse il requisito indispensabile per candidarsi al governo del paese, supportata dal consenso di un establishment che nel frattempo si arricchiva spogliando risorse, anziché promuovere lo sviluppo.

Saranno necessari un cambio di mentalità, drastiche correzioni organizzative e di comportamenti, affinché l'attenzione al reddito e alla condizione operaia riacquisti il giusto peso nella politica del centrosinistra.
Non è un ritorno all'antico, ma un'adesione moderna alla vita quotidiana di chi fa fatica, il messaggio urgente che piazza San Giovanni rivolge a una politica distante.   

(17 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/17/news/valore_lavoro-8141061/?ref=HRER1-1
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 14, 2011, 04:55:07 pm »

L'ANALISI

La tentazione dei leghisti

di GAD LERNER


Ma siamo proprio sicuri che i leghisti milanesi, turandosi il naso, si recheranno compatti alle urne per votare Letizia Moratti? Lo sapremo fra quarantotto ore. Nel frattempo il dubbio serpeggia fra i clan rivali di un Pdl trascinato a forza su posizioni estremiste da Berlusconi, non appena intuito il rischio di rompersi l'osso del collo proprio nella sua capitale; a presidio della quale s'è ritrovato una sindachessa più fragile e impopolare del previsto.

Le perplessità di Umberto Bossi sulla ricandidatura della Moratti furono sempre dichiarate in pubblico. E nei giorni scorsi sono state ribadite con un duplice avvertimento al partner di governo: sia ben chiaro che, presentandosi capolista a Palazzo Marino, Berlusconi ha scelto di legarsi mani e piedi alla sorte di lady Mestizia; dunque il mancato conseguimento di quota 50% al primo turno, determinerebbe una "situazione difficile". La Lega, con ragione, descrive il ballottaggio a Milano come una grave incognita; non solo per l'incertezza del suo esito, ma anche per il deterioramento nei rapporti interni alla coalizione che ne conseguirebbe.

Nel frattempo, il candidato del Carroccio alla carica di vicesindaco, Matteo Salvini, accusa la Moratti di avere indirizzato un messaggio fuorviante ai milanesi con il suo attacco a Pisapia, e, peggio ancora, di aver "detto una bugia". Pesante. Se ci aggiungiamo le critiche di Calderoli al condono edilizio promesso da Berlusconi ai napoletani, e le ripetute attestazioni di stima al presidente Napolitano con cui la Lega ha voluto
distinguersi dal premier, ne emerge uno smarcamento plateale. Una somma di indizi tale da caricare di significati premonitori le parole pronunciate da Roberto Maroni a Gallarate, dove la Lega ha deciso di presentarsi da sola in contrapposizione al Pdl: "Correndo da soli torniamo alle origini. Questo è un esperimento interessante di ritorno al futuro".

Ritorno al futuro? Il calcolo della Lega è evidente. Confida di usufruire a tempo debito della crisi del berlusconismo, incassando pure in Lombardia e in Piemonte un massiccio travaso di elettori come già avvenuto in Veneto. Così raggiungerebbe il suo vero obiettivo: diventare il partito di maggioranza relativa del Nord Italia. Il trauma di una mancata vittoria della Moratti al primo turno delle elezioni milanesi, se gestito da Bossi con la dovuta enfasi, potrebbe accelerare questo processo. Da qui il sospetto, niente più che un sospetto: i dirigenti del Carroccio non starebbero facendo tutto il necessario per vincere l'ostilità culturale della loro base milanese nei confronti della Moratti. Sensazione che innervosisce assai il Pdl milanese, già allarmato da un'altra circostanza: per la prima volta da molti anni, Comunione e Liberazione non ha dato un'esplicita indicazione di voto ai suoi militanti.

È questo insieme di fattori che sta determinando la sconcertante inversione di ruoli in atto fra i due partiti della destra italiana: oggi la Lega riesce a presentare di sé, con disinvolta messinscena, una fisionomia moderata; approfittando dell'estremismo di Berlusconi che modifica i connotati del Pdl strattonandolo fin sulle posizioni estremistiche dei Lassini, dei Sallusti e delle Santanché. Assecondate infine maldestramente dalla Moratti.

Con la sua astuta presa di distanze dalla campagna forsennata contro i magistrati e il presidente della Repubblica, il partito di Bossi (che pure in passato sparò sui medesimi bersagli) intravede un nuovo spazio da occupare e mira a offrirsi come alternativa ragionevole per l'elettorato conservatore del Nord. Tremonti se ne compiace in silenzio. E pure Formigoni cerca uno spazio autonomo, profittando delle difficoltà della Moratti e di La Russa. Gli stessi clan affaristici milanesi finora subalterni a Berlusconi si guardano intorno preoccupati, in cerca di nuovi protettori per il dopo. La rottura già sfiorata sulla guerra di Libia, ma soprattutto lo sconcerto determinato nell'opinione pubblica di destra dal fallimento della politica di contenimento del flusso migratorio dei nordafricani, potrebbero sollecitare il gruppo dirigente leghista a forzare i tempi. Bossi è prudente. Subodora il prossimo disfacimento della galassia berlusconiana, ma l'esperienza lo induce a non sottovalutare le risorse e la capacità di ricatto del suo partner. Da stratega navigato dell'antipolitica, inoltre, sa bene che per raccogliere l'eredità del berlusconismo non gli gioverebbe il ruolo del sicario. Meglio attendere che il Cavaliere finisca di farsi male da sé. A meno che un eventuale fallimento della Moratti gli consenta di presentare il conto in anticipo.
 

(14 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/14/news/
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:42:32 pm »

   
Tav, viaggio nei cantieri di Susa tra entusiasti e resistenti. E l'incubo sabotaggi

Lunedì la "talpa" inizierà a scavare il tunnel delle Alpi. E in queste valli si scontrano oggi due visioni alternative dell'economia e del rapporto uomo-natura. E serpeggiano cupi presagi

di GAD LERNER


CHIOMONTE (TORINO)  - Scena prima, al cantiere Tav di Chiomonte. Lunedì sarà il gran giorno. La bianca, enorme talpa d'acciaio lunga 240 metri penetrerà la montagna che finora minatori e carpentieri hanno scavato "a mano", senza mai ricorrere alla dinamite perché in Val di Susa un deposito di esplosivo attirerebbe personaggi sbagliati. E ce ne sono già abbastanza.

Una volta posizionato nella galleria, fra meno di un mese il cilindro gigante della Robbins comincerà a ruotare i suoi taglienti, divorando la roccia a una velocità variabile fra i 7 e i 20 metri al giorno. Per gli uni è l'orgasmo della tecnologia più avanzata del mondo, e pazienza se a proteggerla non basta il filo spinato: ci vogliono l'esercito e la polizia. Per gli altri è lo stupro di una montagna che ne ha già subiti troppi.

Due visioni alternative dell'economia e del rapporto uomo-natura si fronteggiano in cagnesco, fino alla militarizzazione del territorio e al sabotaggio eversivo. Così, un presagio cupo ha preso a serpeggiare per la valle: che adesso ci scappi il morto, perché questi meravigliosi panorami alpini, come denuncia il Procuratore torinese Gian Carlo Caselli, rischiano di trasformarsi nell'epicentro dell'antagonismo di tutto il continente europeo.

E chissà, forse ai sostenitori della Grande Opera potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al MoVimento 5Stelle percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa. Al cantiere di Chiomonte provano la soddisfazione del fatto compiuto: nessuno la fermerà più, la talpa, immenso trapano teleguidato da una cabina di comando degna di un’astronave. Nel giro di due anni sarà completato il tunnel geognostico che poi dovrebbe diventare una galleria d’emergenza perpendicolare al colosso: il tunnel profondo di 12 km in territorio italiano, sui 54 km totali necessari alla Torino-Lione per correre sotto le Alpi. Manteniamo il condizionale, dovrebbe, perché nonostante la sicurezza manifestata dal capoprogetto, Mario Virano, c’è chi immagina che la Tav possa finire come il Ponte sullo Stretto di Messina. Cioè che tra qualche anno a Roma il governo accampi ragioni di forza maggiore –la crisi si prolunga, i soldi non ci sonoper dire che non se ne fa più nulla. «Impensabile — replica Virano — siamo confermati fra le priorità della Ue. E la linea ferroviaria attuale andrà comunque a morire, se non la rifacciamo con standard adeguati».

Virano oggi si compiace: i No Tav non sono riusciti a replicare al cantiere di Chiomonte la spallata riuscita nel 2005 a Venaus, dove le recinzioni furono travolte da una grande manifestazione popolare e i lavori non ebbero mai inizio. Ma resta da chiedersi, mentre la talpa scava, se potrà andare liscia pure a Susa quando, fra non molto, verranno espropriate le aree su cui deve sorgere la stazione dell’Alta Velocità. Per garantire i lavori qui si sono dovuti cintare 7 ettari di vigneto in cui si produce l’ottimo rosso Avanà: le forze dell’ordine filtreranno chiunque partecipi anche alla prossima vendemmia. Tanto basta perché fra i No Tav prenda piede la tentazione di radicalizzare le forme di lotta. La parola che fa paura, perché ciascuno la intende a modo suo, è: sabotaggio.

Scena seconda, in un appartamento di Bussoleno. Beviamo un tè a casa di Valerio Colombaroli a Bussoleno con un gruppo di attempati militanti, quelli che 22e anni fa diedero vita al movimento No Tav, ne hanno allargato le prospettive culturali fino a farne una visione del mondo alternativa e, chissà, forse ora se lo vedono sfuggire di mano. Nel tinello si aggira il cane lupo involontario protagonista di un allarme, lassù alla rete di Chiomonte, dove Valerio lo portava a passeggio. La povera bestia era saltata nel cantiere per far festa a una persona che conosceva bene, il signor Benente, cognato di Valerio e titolare della Geomont, incaricato dei primi sondaggi del terreno. Gran confusione, chiarito l’equivoco.

Fatto sta che mentre noi discutiamo le ragioni di un movimento alle prese con gli ultimi episodi di intimidazione violenta, giù al piano di sotto il fratello della moglie di Valerio conta i danni subiti: la distruzione notturna di due compressori e una trivella. Lacerazione familiare, se ne contano molte, in valle. Benente subisce accuse di tradimento per il fatto di lavorare alla Tav, il clima si è fatto pesante. Chiara Sasso, Claudio Giorlo e gli altri “saggi” che hanno costruito il consenso popolare No Tav, definiscono “esagerato” l’allarme del giudice Caselli. Guardano con sospetto alla vicenda del costruttore Fernando Lazzaro, quello che denunciò il clima intimidatorio in tv e la notte stessa subì un attentato.

Non aiuta il ricordo degli episodi di 15 anni fa, falsi attentati No Tav dietro cui la magistratura riconobbe l’azione di personaggi legati ai servizi e alle mafie. Non dimenticano che Bardonecchia, qui vicino, è stato il primo comune del Nord sciolto per ’ndrangheta. Condannare i violenti, oppure limitarsi a denunciare la provocazione come “opera di infiltrati”? Eterno dilemma dei movimenti alle prese con la degenerazione delle forme di lotta. I vecchi No Tav rivendicano di ispirarsi alla nonviolenza di Alexander Langer, ma anche loro declinano quella parola minacciosa, sabotaggio, di cui lo scrittore Erri De Luca s’è vantato solo per il fatto di aver partecipato a un blocco autostradale. «Sabotaggi popolari notturni ce ne sono stati», spiega Chiara Sasso. «Vi parteciparono una quarantina di persone, tutti dai 50 anni in su. Fu messa fuori uso una torrefaro, tagliate delle reti. Nessun attacco alle persone. Poi si sono innescati episodi più pesanti, come il compressore bruciato dentro il cantiere. Francamente nessuno di noi, e neanche dei centri sociali torinesi, riesce a capire chi possa essere stato».

Il sindaco di Avigliana, Angelo Patrizio, e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano, sono No Tav moderati, che non esitano a dissociarsi dai violenti, ma aggiungono: «Se qualche ragazzo in vena di teppismo si lascia andare a comportamenti ingiustificabili, potrà magari far comodo a chi addita perfino noi come pericolosi estremisti. Ma il primo blocco da rimuovere è la sordità opposta alle ragioni dei valligiani. Perché abbiamo a che fare con personaggi come Stefano Esposito, deputato del Pd, cui pare redditizio trasformarci in estremisti ideologi dell’Alta Velocità».

La novità politica è che in Parlamento siede ormai una rappresentanza numerosa di oppositori dell’Alta Velocità. La vedremo in azione fra pochi mesi, quando dovrà essere ratificato il trattato italofrancese senza cui non può costituirsi la società che deve (dovrebbe) avviare i lavori del lungo tunnel- base. Solo allora il braccio di ferro esercitatosi finora intorno a un’opera secondaria come il tunnel geo-gnostico, potrebbe dirsi concluso. Per questo i No Tav guardano con fiducia al loro senatore grillino di Bussoleno, Marco Scibona, che a febbraio ha strappato il seggio a Angelo Napoli del Pdl.

Il passaggio attuale è delicatissimo, giacché prima di allora la leader- ship del movimento potrebbe essere spintonata di lato dagli antagonisti che agiscono nell’ombra. E l’accusa di terrorismo, in un drammatico revival delle dinamiche degli anni di piombo, precipiterebbe su tutti loro. Esacerbato da questa manovra, di cui attribuisce la responsabilità a una cricca di politici, imprenditori chiacchierati e mass media, finora il portavoce più noto dei No Tav, l’ex bancario Alberto Perino, lancia proclami di combattimento ma non accenna dissociazioni nette. Col rischio che a intimidirsi sia la popolazione della Val di Susa: «Se io fossi un Pro Tav, questi terroristi li pagherei», dice il sociologo Bruno Manghi, che resta scettico sulla realizzabilità dell’opera. «Il risultato è che già oggi nel conflitto sono coinvolte in tutto 500 persone, portate alla ribalta dai giornali e dalla televisione. Passa in secondo piano il sottobosco mafioso affaristico che pure c’è, e che in passato aveva praticato l’incendio delle macchine».

Scena terza, all’Hotel Napoléon di Susa. La serata fresca preannuncia l’autunno e, per fortuna, sembra tranquilla. I poliziotti fuori turno hanno dismesso la divisa e passeggiano in tuta fra il ponte sulla Dora Riparia e l’Hotel Napoléon che li ospita. Ma restano guardinghi perché nel luglio scorso a più riprese i campeggiatori No Tav convenuti da tutta Europa si dilettavano a radunarsi di fronte all’albergo, nel cuore della notte, producendo frastuono per impedire loro di dormire. «Ci ha fatto male riconoscere fra gli urlatori anche dei nostri paesani», racconta il signor Vanara, titolare da più di 40 anni dell’albergo. «Noi possiamo dire solo meno male che c’è la Tav, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro altrimenti non ci sarebbe. Ma nel paese si è prodotta una lacerazione dolorosa da cui non so se ci riprenderemo». Gli altri, quelli del movimento, ricordano che apparteneva alla famiglia Vanara un parroco coraggioso partigiano, detto Don Dinamite, e accusano i valligiani che lavorano per il cantiere di intelligenza col nemico. Risuona la stupida accusa di tradimento.

La sindaca di Susa è schierata a favore della Tav, ma il quartiere che dovrà subire degli espropri per allestire il terrapieno su cui sorgerà la grande stazione intermedia della Torino-Lione, ha molte bandiere con il treno sbarrato esposte sui balconi. Riaffiorano vecchie divisioni sul territorio che rischia la militarizzazione già vissute altrove, dall’Alto Adige alla Barbagia all’Aspromonte. «Bastano poche persone a rovinare tutto», si preoccupa Bruno Manghi. «Il barista che rifiuta il caffè al carabiniere. L’imprenditore e il sindaco Pro Tav intimiditi come capitava ai capireparto della Magneti Marelli negli anni Settanta. E, dall’altra parte, le buone ragioni della popolazione schiacciate dall’avanguardismo estremista».

La Val di Susa è lunga. È già stata traforata da grandi opere che hanno avvantaggiato solo delle minoranze, creando disagi pesanti. In alto ci sono i paesi benestanti del turismo invernale come Sestrière. discendendo da Susa, dove la presenza operaia e la Resistenza hanno impresso un forte segno rosso nelle comunità, il fondovalle si rivela un’estensione periferica della grande Torino. Così avverto la strana impressione di una lotta politica, simulacro della vecchia lotta di classe, che da Torino si ritira e si contrae nella retrovia della valle. Con i suoi detriti ideologici, i suoi antichi conti da regolare. C’è chi ricorda la filiera di terroristi di Prima Linea cresciuti a Bussoleno; e chi denuncia improbabili complicità fra i No Tav e la società autostradale Sitaf, che dalla ferrovia veloce sarebbe danneggiata. La dietrologia impazza.

Anche gli apparati repressivi rivivono la stagione in cui dalla Val di Susa transitavano i fuggiaschi che volevano espatriare in Francia. Un sottobosco che ha alimentato settori di imprenditoria malavitosa ingolositi dal nuovo business. «Lei sbaglia se ci riporta agli anni della sua gioventù », replica Claudio Giorlo. «Qui in oltre vent’anni di lotta è cresciuto davvero un fenomeno nuovo, la cultura dell’economia sostenibile, la democrazia partecipata, la critica feconda del sistema giunto al collasso». Sarà. Purché la valle da cui transitarono le armate di Annibale, Carlo Magno e Napoleone, scavata ora da una talpa d’acciaio che non ha nulla a che fare con quella di Karl Marx, sappia liberarsi dall’invasione straniera dei violenti in cerca di rivoluzione.
 
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/09/20/news/tav_viaggio_nei_cantieri_di_susa_tra_entusiasti_e_resistenti_e_l_incubo_sabotaggi-66926812/?ref=HRER2-1
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:56:25 pm »

Martedì, 30 giugno 2015
Perchè Renzi, sottovoce, tifa per la caduta di Tsipras   
SCRITTO DA Gad

Renzi ha una priorità assoluta, da quando con un colpo di mano è divenuto capo del governo: rimanere a capo del governo. La prudenza con cui si è ritratto da ogni trattativa con la Grecia, così come la sintonia al limite della devozione tributata alla Merkel, si spiegano con una convinzione precisa del premier italiano: non è facendo il rottamatore e lo scavezzacollo che troverà in Europa i sostegni necessari per restare in sella a Roma.

Ma la sua è una scelta anche di natura culturale: da Davide Serra a Sergio Marchionne, da Andrea Guerra a Claudio Costamagna, fino a Evelina Christillin, piace al nostro premier annoverarsi come partner-fiancheggiatore di personalità dinamiche ma organicamente collocate nei giri che contano. Nuovo potente con i nuovi potenti, o presunti tali.

Tsipras non rientra nella categoria. Agli occhi di Renzi è uno sfigato, anche se dà del filo da torcere agli euroburocrati su cui pure al nostro piace di tanto in tanto lasciarsi scappare una battuta. Credo che Renzi commetta un errore di visione politica non riconoscendo che la sua collocazione naturale sarebbe al fianco degli altri paesi euromediterranei indebitati a smontare i dogmi della falsa religione dominante. Perde un’occasione storica per eccesso di prudenza e per complesso d’inferiorità nei confronti dell’establishment. Prima che a lui, capitò lo stesso a D’Alema.

Da - http://www.gadlerner.it/2015/06/30/perche-renzi-sottovoce-tifa-per-la-caduta-di-tsipras
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