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Autore Discussione: MARIO PIRANI  (Letto 7342 volte)
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« inserito:: Luglio 08, 2008, 10:22:05 am »

POLITICA LINEA DI CONFINE

Due Italie in Europa una in testa l'altra in coda

di MARIO PIRANI


Ha ragione Zapatero di compiacersi (Repubblica del 30/6 us) per i tanti successi conseguiti dalla penisola iberica, esaltati dal paragone tra Roma e Madrid: "Per la prima volta - afferma infatti il sorridente premier - il nostro pil pro capite è in testa alla media europea. È ormai dimostrato che abbiamo superato l'Italia e accorciato le distanze rispetto a Germania, Francia e Inghilterra". Una constatazione basata su dati nazionali, che, peraltro, non hanno quasi più senso per l'Italia.

Premetto che non voglio affatto - sarebbe stupidissimo - contestare le medie internazionali, ma avanzare qualche riflessione sulla percezione distorta che queste finiscono per indurre sulla situazione reale del nostro singolare Paese.

Resta il fatto che nell'immaginario collettivo, nei mass-media, nei discorsi politici si parla di un Paese inesistente e non vediamo - e, quindi, non facciamo nulla per porvi rimedio - che l'Italia si è spezzata in due e che al vecchio divario tra Nord e Sud, temperato dalle politiche di intervento, dall'ampiezza delle Partecipazioni statali, dalla capacità di assorbimento della PA è subentrato un abisso, tra due realtà sempre più lontane.

La Fondazione Edison, che sotto la guida dell'economista Marco Fortis dedica documentati studi agli squilibri economico - territoriali, giudica che "nei prossimi anni il principale freno alla crescita del nostro Paese potrebbe venire proprio dal sempre più alto divario tra Nord-Centro e Sud che presenta ormai evidenze allarmanti. "Infatti, secondo recenti dati Eurostat, l'Italia del Nord vanta un pil pro capite superiore a quello del Regno Unito, mentre l'Italia centrale sorpassa quello di Paesi come la Svezia, la Germania o la Francia.

Per contro "il Mezzogiorno, con i suoi 20,7 milioni di abitanti costituisce in Europa la più gigantesca area di basso reddito, comparabile a quella rappresentata da Grecia e Portogallo presi assieme, con una popolazione di 21,6 milioni di abitanti, che hanno, peraltro un reddito medio pro capite più alto che nel nostro Sud.

"Non possiamo non chiederci quale unità esista più in uno Stato che comprende in sé un'ampia parte con la popolazione regionale a ricchezza diffusa più numerosa dell'Unione europea (i 24 milioni di italiani residenti nelle sette regioni del Nord e del Centro, con un reddito pro capite superiore del 25% a quello medio dell'Ue) e un'altra zona, tutte le 8 regioni del Mezzogiorno, con un reddito pro capite inferiore a quello Ue, di cui 4, con ben 17 milioni di abitanti, con un reddito pro capite inferiore al 75% di quello medio europeo. Certo, sempre nell'ottica di un recupero della realtà, non si può ignorare che il sommerso, soprattutto nel Sud, è ampiamente sottostimato nella contabilità nazionale. Così come non è valutato il flusso dell'economia criminale che indubbiamente genera ricchezza. Due dati invisibili, che se possono dare qualche conforto sul piano del reddito medio, comportano anche una negatività intrinseca per infiniti altri aspetti.

All'evidenza non percepita delle due Italie va allegata la verifica di un'altra verità profondamente rimossa: quella del peso decisivo dell'economia industriale manifatturiera nel successo consolidato del Nord Centro.

Dopo anni di stoltezze sul prevalere del terziario e sul tramonto dell'era metalmeccanica ci troviamo con alcuni dati strabilianti (sempre di fonte Edison): nel 2007 il surplus esportativo dei prodotti manifatturieri si è attestato a ben 51,2 miliardi di euro, un risultato inferiore solo al record assoluto del 1996 (54,4 miliardi di euro equivalenti) che però fruiva della svalutazione competitiva della lira e dell'ancor debole aggressività asiatica, Ma quel che più colpisce è la classifica europea per valore aggiunto manifatturiero (la differenza fra il ricavo dei prodotti e servizi venduti e il costo di quelli acquisiti per produrli): in testa figura la Lombardia e il Nordest (6,6 miliardi), seconda la Germania (5,5), terzo il Nord-Centro Italia, seguono l'Italia nel suo assieme, la Gran Bretagna, la Francia, Spagna, Grecia e Portogallo. Ultimo il Mezzogiorno (1,5).

Invito i lettori a discutere su questi fatti, su cosa ha significato la modifica del Titolo V della Costituzione e la rottura di una tradizione politica e storica basata sulla difesa dell'Unità d'Italia, della solidarietà tra Nord e Sud, di un Welfare unico dalle Alpi alla Sicilia. E ancora cosa ha comportato negare la centralità del lavoro operaio per sostituirla col precariato dei servizi come archetipo attuale di riferimento. Infine dove porta dipingere una Italia in declino, quando le Italie sono ormai due, una in testa, l'altra in coda all'Ue.


Scrivete a: m.pirani@repubblica.it

(7 luglio 2008)


da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 26, 2009, 11:13:01 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 10, 2008, 07:51:42 am »

POLITICA    L'ANALISI

Come cacciare i partiti dalle Asl

di MARIO PIRANI


Acide polemiche di bassa intensità ma di evidente disagio angustiano il Partito democratico. Veltroni si sforza, piuttosto rabbiosamente, di sopirle e si appella allo slancio iniziale, quando milioni di elettori speranzosi si ritrovarono alle primarie a votare per lui.

Ma lo slancio non è un palloncino che si rianima soffiando a pieni polmoni e gonfiando la gote, quanto un vento che spira sull'onda delle idee e tanto più queste sono forti, tanto più quel vento si fa impetuoso. Così anche una lieve brezza può scemare o tramutarsi in impetuosa libecciata, come speriamo si produca per quella breve frase pronunciata proprio da Veltroni l'altro giorno alla scuola di partito di Bertinoro.

La riporto testualmente per agevolare il lettore: "Il Partito democratico presenterà una proposta di legge, di cui sarò il primo firmatario, per togliere i partiti dalle Asl e dalla Rai".

Nell'illustrare il proposito si è, però, soffermato su una sola nomina per la quale la lottizzazione andrebbe attenuata, quella dei direttori generali delle Asl. La riforma consisterebbe nell'istituire un albo nazionale cui possano adire solo candidati in possesso di specifiche qualifiche professionali. Le selezioni si eserciterebbero, dunque, solo all'interno dell'albo. Lodevole intento come premessa generale ma del tutto riduttiva sul piano della proposta pratica. Tanto è vero che i commenti si sono concentrati solo sulla Rai, dove la nomina e i poteri del direttore generale sono davvero decisivi.

Non così per le Asl, anche se il loro funzionamento sta molto più a cuore alla totalità dei cittadini. Prima, quindi, di entrare nel merito della iniziativa Pd e di tornare, purtroppo per l'ennesima volta, a chiarire i punti focali della lottizzazione ospedaliera, vorrei invitare il segretario di questo partito a riflettere sulla inopportunità dell'accoppiamento Rai-Asl, due temi profondamente e tecnicamente diversi. Il primo riguarda la libertà d'informazione, coartata dal pluralismo istituzionale dei partiti; il secondo investe l'autonomia di gestione del Servizio sanitario nazionale e delle sue articolazioni dalla invadenza politica a tutti i livelli.

Il primo ha il suo fulcro a viale Mazzini; il secondo in ogni capoluogo regionale.

Vengo al cuore del problema. La gestione della sanità è in Italia la questione più scottante nei rapporti fra i partiti, sia che siano della stessa coalizione sia di sponde opposte. Quasi tutte le crisi politiche, da quelle regionali alla caduta del governo Prodi, in seguito agli infortuni di Mastella e famiglia, hanno avuto origine da scandali nell'ambito delle Asl. Per la destra basta ricordare le disavventure della giunta Storace nel Lazio per il coinvolgimento negli affari di lady Asl. Non è un caso ma una costante statistica spiegabilissima.

Essa trae origine da due evidenze: la prima va individuata nello spostamento progressivo del potere politico e del flusso degli investimenti dal Centro alle Regioni; la seconda consiste nel fatto che circa l'80% dei bilanci regionali ricade sotto la voce dell'assistenza sanitaria, con un impatto anche maggiore se si mettono in conto i profitti delle attività derivate, dalle mense ai servizi esterni, dagli appalti alle convenzioni, dalle pulizie alle forniture. Attorno a questa torta si declinano lotte di potere, compromessi, spartizioni, affari, mercato delle influenze elettorali e delle clientele corporative. La cura dei malati è la giustificazione e non il fine del predominio politico nella Sanità.

I tentativi di spezzare il nesso fisico delle complicità reciproche, che amalgamano destra e sinistra in un sistema con analoghe regole, sono tutti falliti, portassero essi il nome del ministro Sirchia (governo Berlusconi), Veronesi (governo Amato) o Turco (governo Prodi).

Istituire un albo professionale qualificato per i direttori generali non cambierebbe nulla. L'imperante potere politico nella sanità si articola dall'alto al basso attraverso una ben oliata catena di comando: il presidente della Regione nomina l'assessore alla Sanità (primo livello di scontro e compromesso), l'assessore nomina i direttori generali delle Asl, in nome del "primato della politica" (secondo livello di scontro e spartizione intra-coalizione), il direttore generale nomina i dirigenti di secondo livello (primari), magari dopo un finto concorso che proclama un certo numero di idonei, senza però una classifica; designa, inoltre, a suo libito, i cosiddetti "primarietti", laddove, soprattutto, il primario nominato non soddisfa perfettamente tutte le richieste politiche e occorre distribuire qualche premio di consolazione.

A volte i primari scelti sono effettivamente bravi, altre volte sulla media, non di rado risultano pessimi. La combinazione è, però, prevalentemente casuale, dovendo sottostare alla bronzea legge del "primato della politica".

Come tutte le leggi italiane può essere temperata dalla furbizia. Il candidato più furbo è colui che , pur non appartenendo a uno schieramento politico, riesce in tempo a targarsi nell'area dell'amministrazione provvisoriamente vincente e intessere gli indispensabili legami. Le nomine, infine, da quella dell'assessore a quella del direttore generale ed anche a quelle dei primari sono tutte a tempo e, a certe condizioni, risolvibili anche prima del termine. Tutti, dunque, sono sotto ricatto: l'assessore dipende dal presidente, il direttore è succubo dell'assessore, il primario è appeso al direttore. I criteri di affidabilità politica e conformismo gerarchico fanno premio su ogni altro parametro.

Non deve stupire che in questo quadro le maggiori resistenze all'introduzione di criteri professionali oggettivi nelle nomine sia venuto finora proprio dalle Regioni di eccellenza, come l'Emilia, la Lombardia, il Veneto e la Toscana, due di destra e due di sinistra. I loro leader politici, soprattutto gli assessori, si vantano di governare una sanità funzionante e poco importa loro che il sistema esploda periodicamente nei punti deboli e, nel suo assieme, rappresenti una degenerazione dei valori alla base della riforma sanitaria.

Il potere è quello che conta ed un potere auto compiaciuto si reputa ancor più intangibile. Sia esso di destra o di sinistra, eguali come gemelli.
La battaglia mai vinta che da anni conduciamo dalle colonne di Repubblica, e che testardamente continuiamo a riproporre, tende a spezzare la catena di comando della partitocrazia negli ospedali. Secondo i seguenti criteri: le nomine e i compiti generali di indirizzo spettano alla politica (presidenti delle giunte e assessori) e nessuno vuol revocarli in dubbio; i direttori generali, chiamati ad applicare gli indirizzi generali e a tradurli in piani aziendali, non possono che seguitare a far capo all'amministrazione regionale.

Un accertato livello professionale specifico, secondo la proposta Veltroni, permetterebbe che la spartizione si svolga almeno ad un livello qualitativo decente; la selezione dei dirigenti di secondo livello (i "primarietti" vanno aboliti) deve tassativamente esser sottratta alla politica se si vuol riportare la cura del malato al centro del sistema.

Per far saltare la ferrea connessione oggi in vigore bisogna annullare il potere di nomina o di scelta del direttore generale e sostituirlo con un altrettanto ferreo concorso, con norme rigorose che scoraggino in partenza tutti i possibili sotterfugi e pasticci pilotati. Ho da tempo depositato in materia un progetto concordato con un gruppo di primari al seminario permanente di Italianieuropei, presieduto dal senatore Ignazio Marino, che sta approfondendo la tematica del "governo clinico". Insisto sull'esigenza di annullare non solo il potere diretto di nomina ma anche il potere di "scelta" perché, non a caso, le nomenklature politiche, soprattutto di sinistra, stanno cercando una via d'uscita che, sotto l'aspetto formale del rinnovamento, lasci le cose come sono.

Il marchingegno consisterebbe in un concorso, più o meno fasullo, ma, comunque, privo di classifica. Non ne uscirebbe un vincitore, primo in classifica perché più capace, sperimentato, competente, ma una "rosa" maleodorante di tre o più candidati, fra i quali non sarà certo difficile infilare il prescelto in pectore dal direttore generale, cui spetterebbe, da ultimo, la scelta definitiva. Se nel progetto che Veltroni annuncia vi fosse una clausola trabocchetto del genere vorrebbe dire che, ancora una volta, avrebbero prevalso gli interessi delle lobby regionali. Spero proprio di no.

Una battaglia di questo tipo su cui chiamare a confronto la destra secondo una dialettica opposta a quella corrente, che vede regolarmente governo e mass-media invitare la sinistra ad equivoci incontri (tipo Alitalia), rappresenterebbe la prima vera risposta all'anti-politica. Sia quella di Grillo che di Berlusconi.

Certo, la scommessa è ardua. Essa implica, infatti, uno scontro politico coerente ed esplicito con una componente forte del proprio schieramento che va convinta e ricondotta alla difesa di valori generali e nazionali. A meno di non ridurre il federalismo ad una federazione di sultanati locali, con una rete di cacicchi sanitari al loro servizio.


da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 28, 2009, 05:15:15 pm »

L'ANALISI

Il potere, il sesso e le menzogne perché s'indigna il popolo di sinistra

di MARIO PIRANI


Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.

Con questo gesto l'uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all'umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.

Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l'animo percosso da una catastrofe dell'anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier.
Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell'uno e dell'altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra "popolo di destra" e "popolo di sinistra".

Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a "inviti a cena e in villa e sesso un po' a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica". Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l'assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l'hanno con Veronica perché "non lava in famiglia i panni sporchi" e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall'altra parte, distogliere l'attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un'etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c'è.

Per contro il "popolo di sinistra" nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l'istituzione che dirigeva con accertata dedizione.
No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell'animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell'animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall'ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria - lo stalinismo in tutte le sue forme - , lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico.
La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l'essere dalla parte - ed essere parte - della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.

Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l'altro giorno, persino, dall'obbligo di pagare il canone Rai). Cosa gliene importa del conflitto d'interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet "che tutto se po' fa", la versione plebea dello "Yes, we can".

Il "popolo di sinistra" questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: "In fondo sono tutti eguali". Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.

Di qui l'esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell'omologazione subliminale con l'avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un'arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell'altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il "controllo del territorio", secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.

Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c'è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano.
Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.

Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi.

Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

© Riproduzione riservata (28 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 27, 2010, 12:41:45 pm »

LINEA DI CONFINE

Il Parlamento italiano dominato dai manager

Uno studio analizza i curricula dei parlamentari eletti dal 1948 a oggi.

Ne emerge, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, un "pauroso peggioramento" della classe politica

di MARIO PIRANI


PER INCARICO della Fondazione Rodolfo Debenedetti un gruppo di economisti di alto livello internazionale, coordinati da Tito Boeri, Antonio Merlo e Andrea Prat, hanno costruito, come spiega in un suo commento Lucrezia Reichlin, docente della London Business School, "una ricchissima banca dati basata sui curricula dei parlamentari eletti tra il 1948 e il 2008. Si tratta di una banca dati non solo unica, ma elaborata in modo approfondito e sofisticato: un primo importante passo per una valutazione quantitativa del profilo dei legislatori italiani". Il saggio (Classe dirigente. L'intreccio tra business e politica, autori vari, pag 149, Università Bocconi Ed.) dedica la sua prima parte al profilo dei parlamentari (i soli di cui daremo conto), mentre la seconda si concentra sui manager. Più di un punto incrocia, peraltro, i due filoni. Scopriamo, ad esempio, che un terzo dei manager incontra politici o esponenti dell'amministrazione pubblica almeno una volta la settimana.

È probabile trattarsi di persone che perseguono gli interessi aziendali, attraverso la loro posizione politica. Un conflitto di interessi che assume dimensioni macroscopiche quando verifichiamo un dato senza precedenti: tra i parlamentari eletti alle ultime politiche (2008) sono i manager a far la parte del leone (un deputato su quattro). Se si osservano da vicino le carriere dei deputati, dalla prima Legislatura (1948) alla XV (2006), vediamo che i neoparlamentari provenienti dal settore legale sono passati dal 33,9 al 10,6%, tra i manager dal 6,1 al 18,2, i sindacalisti, che nelle prime Legislature avevano toccato l'11, dal 1970 in poi sono crollati intorno al 3%. Anche il dato sull'istruzione è inaspettato: se nella Prima Repubblica la percentuale dei parlamentari laureati era dell'80,5, nella Seconda è scesa al 68,5. Un terzo degli eletti non ha quindi neppure uno straccio di laurea.

Il saggio dedica un'ampia disamina alle retribuzioni dei parlamentari italiani paragonandole a quelle statunitensi: in Italia le indennità vere e proprie (senza contare quelle aggiuntive) misurate in termini reali (euro del 2005) sono aumentate da 10.712 euro nel 1948, a 137.691 euro nel 2006, pari a un aumento medio del 9,9%annuo e un incremento totale del 1.185,4%; negli Usa, dove non ci sono indennità aggiuntive, la retribuzione lorda è cresciuta da 101.297 dollari nel 1948 a 160.038 dollari all'anno nel 2006, con un aumento del 58%, ovvero l'1,5% annuo. Paragonando l'introito dei parlamentari a quello delle altre categorie italiane si calcola che il reddito medio dei manager tra il 1985 e il 2004 è aumentato del 69%, con un tasso annuo del 2,9; quello complessivo dei parlamentari è aumentato del 96,7 a un ritmo annuale del 3,8.

Nel 2004 lo stipendio parlamentare medio (146,533+56.335 da altre voci) risultava nel totale 1,8% superiore al reddito reale medio di un manager (113,087 euro). Non posso dilungarmi ancora. Sottolineo solo quanto si afferma nelle conclusioni: "Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica ha determinato un pauroso peggioramento qualitativo dei politici. Questo declino va di pari passo con il drammatico abbassamento del livello medio di istruzione. Infine all'aumentato reddito parlamentare peggiora la qualità media degli individui che entrano in politica. Il forte incremento del reddito parlamentare (quattro volte quello medio di un manager privato) ha contribuito al declino della qualità degli eletti". Abbozzo una riflessione: il prevalere, tramite Forza Italia, della presenza manageriale e della ricchezza all'interno delle Camere spiega la degenerazione della cultura politica italiana: sul consenso prevale il comando, un sistema di equilibri e di suddivisione istituzionale dei ruoli (magistratura, Consulta, Quirinale) appare un non senso per chi considera il capo azienda naturale detentore del potere. In questo quadro la conquista di una maggioranza funziona se segue le regole di un'Opa: chi la vuole si dia da fare per acquistare il controllo azionario. E come, se non con i soldi?
 

(27 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/27/news/il_parlamento_italiano_dominato_dai_manager-10608027/?ref=HRER1-1
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 10, 2012, 11:17:32 pm »

Il modello tedesco del riformismo 

di MARIO PIRANI


OGNI QUALVOLTA l'Italia svolta verso un nuovo corso, politici, filosofi, storici e studiosi si precipitano nel coniar definizioni adatte a delineare i contenuti del rinnovamento. Il nominalismo, in queste fasi, contrappone ogni giudizio al suo contrario, lo scontento per la soluzione imboccata va di pari passo con la speranza che i ceti, appena affacciati al governare, sappiano raccogliere le speranze dei più. In siffatti travagli si sperdono le capacità del giudicare e dell'agire empirico preferendo farsi trascinare dall'ideologia, come chiave esplicativa delle cose del mondo. Così oggi l'icona elegante di Mario Monti è soggetta a molteplici letture: ultimo campione della destra liberista, fortunosamente evocato dal presidente della Repubblica per riparare alle rovine di un regime populista, ormai incapace di reggersi sui propri piedi? Oppure via d'uscita delle sinistre per sgambettare un Berlusconi altrimenti intramontabile? Di qui lodi ed accuse in alternanza: parla a nome dei banchieri internazionali oppure dei disastrati interessi nazionali che è stato chiamato a salvare? Quanto all'uomo in questione si affida al sarcasmo icastico delle piccole frasi, dietro cui s'intravedono le rigidità di un integralismo accademico, smorzato da una congrua riserva di realpolitik.

Impacci e doti che si sono alternati negli ultimi giorni attorno alla vicenda tormentata del possibile reintegro per il licenziamento economico in base all'articolo 18. Comprensibile la soddisfazione per la felice conclusione ma altrettanto assennata l'avvertenza
del nostro Massimo Giannini a non caricare di eccessiva enfasi storica una via d'uscita che il buonsenso suggeriva. Bastava liberarla dallo sciocchezzaio ideologico che ne impediva la chiara percezione. L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (la Legge 300 del 1970), infatti, né introduce né impedisce alcun licenziamento. La materia in questione era già disciplinata da una legge del 1966 che dispone l'inefficacia di un licenziamento senza giusta causa e la nullità di quello discriminatorio, stabilendo il diritto del lavoratore al ricorso all'Autorità giudiziaria. L'articolo 18, invece, introduce nei casi stabiliti dalla legge precedente, il principio del reintegro nel posto di lavoro. Intorno alle norme e ai casi che ne derivano si è combattuto in un infinito tira e molla per anni. Infine con l'avvento di Monti e Fornero si raggiunse un parziale equilibrio: gli esiti finali, a seconda dei casi (giusta causa, giustificato motivo, discriminazione, ecc.) sarebbero stati risolti dal giudice o con il reintegro o con il risarcimento in diversa misura. Un solo caso restava inopinatamente fuori: il licenziamento per cause economiche che aveva come unica sanatoria un diritto di buonuscita. Le proteste per l'eccezione ci sembrarono assolutamente valide. Perché, se la motivazione apportata dall'impresa appariva infondata, essa, a differenza di tutti gli altri casi, non doveva dar diritto al reintegro? Non si rasentava in tal modo addirittura una inadempienza costituzionale? Si può forse presumere che il governo volesse sancire con questo caso il principio che le leggi, una volta presentate e illustrate ai sindacati, vadano in sede definitiva approvate dal Parlamento e non da altri soggetti. È questo un dettame rispettabile del liberalismo e della separazione dei poteri, che, peraltro, la costituzione materiale, dagli anni Cinquanta in poi, aveva sacrificato in nome della coesione sociale, nata col suggello cattolico-comunista, fatto proprio dagli eredi. Toccarlo, come si è visto, non era cosa da poco.

Peraltro il caso è talmente specifico da ricadere in quello che gli inglesi chiamano common sense, cioè senso comune, considerato una delle fondamentali basi empiriche del diritto non scritto britannico. Or bene, nella vicenda della clausola economica dell'articolo 18, va tenuto presente che il licenziamento dovrebbe colpire una sola persona, non un reparto, una linea produttiva o altro. Come stabilire che quel singolo rappresenterebbe un danno oggettivo da rimuovere per ristabilire un normale funzionamento produttivo? Forse risulta ormai inservibile quel montatore, quel fresatore, quell'addetto al computer? D'altra parte non si potrebbe spostarlo? Può essere, ma va oggettivamente provato, con le normali garanzie giuridiche. Un sospetto, venato di perplessità, mi è sorto da una discussione con una autorevole e stimata economista, vicina alla Fornero, che mi ha fatto presente come sia facile misurare la differenza di produttività fra un ultracinquantenne e un giovane. Di qui l'oggettività del licenziamento. Ho trovato inaccettabile moralmente e giuridicamente l'idea stessa di una penalizzazione economica della anzianità, che, ove si presentasse sotto mentite spoglie, andrebbe cassata d'ufficio dal giudice. Epperò questa incidentale discussione, proprio perché in buona fede, non mi sembra inutile.
Essa prova come l'ideologia della deregolamentazione ad oltranza, oltre a devastare l'universo finanziario, abbia inaridito il pensiero economico, spogliandolo da ogni coefficiente etico e riducendolo a formula matematica, dove l'uomo, la sua vita, le sue attese, le sue tante paure e le residue speranze non abitano più. Uno sperdimento nell'inconscio reazionario, come se qualcuno, con qualche secolo di ritardo, si stesse reincarnando in un vecchio padrone delle ferriere senza neanche accorgersene.

Ma da ultimo vorrei cogliere un importante lascito positivo della discussione sull'articolo 18, quello che si riferisce all'inopinato accoglimento da parte della segreteria della Cgil del "modello tedesco". Non vorremmo con ciò dilatare oltre il lecito l'affermazione di Susanna Camusso che sicuramente voleva riferirsi al precedente tedesco del reintegro deciso dal giudice nel caso di un licenziamento economico, ritenuto invalido. Asserzione importante ma parziale nei confronti del significato globale del "modello tedesco". Questo è articolato su due pilastri, il primo è il Congresso di Bad Godesberg del 1958 in cui il partito socialdemocratico (Spd) proclamò il distacco dal marxismo ed avviò quella "economia sociale di mercato" o "modello renano", che costituirà la base ideale e pratica del riformismo europeo e la premessa per l'alternanza della sinistra democratica al governo della Germania. Bad Godesberg era stata preceduta, però, da una riforma anche più incisiva, l'introduzione della Mitbestimmung (cogestione in azienda), una serie di leggi varate dalla Repubblica di Weimar negli anni Venti, che sanciscono il diritto-dovere del sindacato a partecipare a livello aziendale alla gestione dell'economia in nome dell'interesse comune. Abrogata dal nazismo la Cogestione viene reintrodotta dagli eserciti alleati e, quindi, nel 1951-52, dal padre della nuova democrazia, Konrad Adenauer, che, col consenso pieno della Spd, la impose ovunque.

La fortuna della Mitbestimmung si spiega nell'aver reso compatibili le più avanzate rivendicazioni salariali e normative con gli equilibri economici settoriali e aziendali, in una dialettica declinata non sui paradigmi della lotta di classe ma sui calcoli macro economici di gruppi di "saggi" delle due parti, che studiano e prevedono i confini predettati dalle attese d'inflazione, entro cui flettere le rivendicazioni. Così le fasi di crisi, come quella del 2008, vengono affrontate assieme: i sindacati accettano riduzioni di salario e di orario e gli imprenditori s'impegnano a non delocalizzare le fabbriche. Quando le cose andranno meglio i salari saranno i più alti d'Europa e l'export tirerà l'economia. La paura dell'inflazione, terrificante retaggio storico, incide anche psicologicamente sulle scelte politiche dell'oggi. Tornando al discorso di partenza sarebbe davvero auspicabile se la casuale apertura della Cgil sul "modello tedesco" si allargasse a un nuovo discorso del riformismo italiano, capace di confrontare i propri risultati con quelli dei confratelli d'Oltralpe, lasciando finalmente alle spalle il magazzino di oggetti in disuso della lotta di classe e delle sue logore bandiere da sventolare quasi sempre sulle sconfitte.

(10 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/10/news/il_modello_tedesco_del_riformismo-33048246/?ref=HREA-1
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 26, 2014, 05:14:46 pm »

La nazione ebraica a uso elettorale

Di MARIO PIRANI
26 novembre 2014

Destinata ad apparire e a riapparire all'improvviso nel corso degli ultimi decenni la piaga del conflitto arabo-ebraico torna ad avvelenare il Medio Oriente e a trasmettere i suoi miasmi dalle regioni vicine alle grandi capitali del mondo intero. Quel che ormai impaura le genti sotto ogni latitudine è la sensazione che non vi siano vie di scampo e che ogni cammino intrapreso, sia esso diplomatico, politico o persino militare, abbia già iscritto il suo fallimento nelle ragioni di partenza.

E che questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull'altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d'Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell'atto della sua fondazione. In esso si sanciva l'assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro.

Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall'autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Il premier Benjamin Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l'esigenza di ripristinare pienamente l'ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone). Detto questo c'è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione).

A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l'altra più specificamente politica. Per quanto riguarda la prima, l'esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l'omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento "price tag" da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella "narrativa" della parte più moderata palestinese, resta l'idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la "narrativa" ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l'occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all'accettazione dell'altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.

Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l'essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del '48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno "Stato ebraico democratico". Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà. La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole "ebraico e democratico" identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.

La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell'emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza. Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l'idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.

Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz: "Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo  -  e che ancora lo giudicano una giusta strada  -  ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione "due popoli  -  due Stati". D'altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all'autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi  -  non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell'altra parte". Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza. È però più che discutibile che un'iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.

© Riproduzione riservata 26 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2014/11/26/news/la_nazione_ebraica_a_uso_elettorale-101438645/?ref=HRER2-1
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 18, 2015, 04:47:29 pm »

Morto il giornalista Mario Pirani
Aveva 89 anni, partecipò alla fondazione del quotidiano «la Repubblica»

Di Redazione Online

È morto il giornalista e scrittore Mario Pirani. Aveva 89 anni. Era nato a Roma e aveva partecipato alla fondazione de la Repubblica, di cui era divenuto vicedirettore, insieme a Gianni Rocca e Giampaolo Pansa e, ovviamente, a Eugenio Scalfari. Iscritto all’Ordine dei giornalisti del Lazio dal 19 gennaio 1958, Pirani, dopo le esperienze con Pattuglia e Il Giorno, era stato vicino al Partito comunista italiano e funzionario dell’Eni. Tra i suoi incarichi, fu anche direttore de L’Europeo, dal 1979 al 1980. Nel 1995 aveva vinto il Premiolino.

I libri
Pirani aveva pubblicato con Il Mulino nel 1989, Il fascino del nazismo. Il caso Jenninger: una polemica sulla storia; nel 1993 Il futuro dell’economia visto dai maggiori economisti italiani (Mondadori); nel 2004 (Mondadori) e, infine, nel 201o Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni (Mondadori).

18 aprile 2015 | 12:43
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_aprile_18/morto-mario-pirani-giornalista-07da4984-e5b6-11e4-a911-6330ae3b663e.shtml
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