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Autore Discussione: «Amo i perdenti e temo un vincente»  (Letto 2528 volte)
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« inserito:: Giugno 25, 2008, 05:36:59 pm »

«Amo i perdenti e temo un vincente»

Roberto Carnero


Dopo Edoardo Sanguineti e Luciano Erba, quest’anno è stato il tedesco Hans Magnus Enzensberger a ricevere la «cittadinanza poetica» di Parma. Un’iniziativa che ha coronato il festival Parma Poesia, che chiusosi ieri dopo un’intensa settimana di incontri, reading e dibattiti.

La scelta di Enzensberger non poteva essere migliore. Classe 1929, quando nel 1957 esordì con la raccolta poetica Difesa dei lupi, lo scrittore Alfred Andersch lo definì «il giovane arrabbiato che mancava dai tempi di Brecht». Erano, quelle (come anche le successive), poesie caratterizzate da un intenso sperimentalismo linguistico. Ma proprio attraverso la poesia Enzensberger svilupperà, negli anni seguenti, una serrata critica nei confronti della società dell’opluenza e del benessere economico. Negli ultimi anni è spesso tornato a interrogarsi sul ruolo e sul significato della poesia nel mondo contemporaneo, come ha fatto un paio d’anni fa, con leggerezza e ironia, in un aureo libretto scritto insieme con Alfonso Berardinelli e pubblicato da Einaudi: Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo i saggi Il perdente radicale (2007) e il più recente Nel labirinto dell’intelligenza (2008), usciti entrambi da Einaudi.

Enzensberger, lei ha più volte sostenuto un’idea «ecumenica» di poesia, forse per togliere a quest’arte quell’aura sacrale che tende ad allontanare le persone. Ha detto, per esempio, che poesie sono il padrenostro, l’inno nazionale, la vispa Teresa... Ma così non si corre il rischio di un appiattimento?
«Nella poesia esistono livelli diversi di complessità, ma non mi sembra una buona idea quella di disprezzare il livello elementare. Le filastrocche infantili possono essere il primo passo di un bambino verso la poesia, affinché da adulto possa leggere Dante o Goethe. Anche il pesce produce migliaia di uova e magari solo una di esse darà vita a un altro pesce. Così è per la letteratura: c’è una grande mole, una grande quantità di opere, molte di basso livello, moltissime mediocri, fino a quando si presenta sulla scena un Petrarca o un Leopardi. È vero: è uno spreco. Eppure è uno spreco necessario».

Come si è scoperto poeta?
«Non mi piacevano le poesie che mi insegnavano a scuola, e allora ho deciso di scriverne qualcuna io. Ma mi rendo conto che questa risposta potrà sembrare piuttosto immodesta...»

Qual è la disposizione da assumere per capire la poesia?
«Per molti si tratta di un lavoro di decifrazione. Per me bisogna avvicinarsi alla poesia in maniera più distesa. Non importa se non capisci tutto e subito: in caso, ci puoi tornare sopra in un secondo momento. Ma devi vedere se scatta qualcosa alla lettura di un testo: se ciò avviene, vuol dire che è una buona poesia. Bisogna superare l’approccio misterico e iniziatico alla poesia».

Lei rilevava di recente un dato piuttosto incontrovertibile, almeno in Italia: sembra che il numero degli autori di poesia superi nettamente quello dei lettori. È un bene o un male?
«È un fatto antropologico: siamo tutti un po’ musicisti, siamo tutti un po’ matematici e siamo siamo tutti un po’ poeti. La poesia, rispetto ad altre arti, ha un pregio, un vantaggio: è l’unico prodotto culturale che si sottrae alle leggi del mercato. Questo crea per chi voglia scrivere poesie uno spazio di libertà».

Lei però come poeta non ha mai voluto essere libero da una forte attenzione al reale. Chiamerebbe questo suo atteggiamento «impegno»?
«Nel corso della mia vita ho spesso avuto un rapporto passionale con la politica, cioè con la cosa pubblica. E i miei versi a volte hanno riflettuto questo aspetto. Ma non credo che per un poeta sia possibile fare della dimensione politica una teoria, una regola o un dovere. Per me la politica è una parte dell’esperienza umana come altre: come l’amore, l’amicizia, la cultura. C’è invece sempre qualcosa di arido nel poeta engagé: si capisce troppo presto che cosa vuol dire, così si intuisce che vuole insegnare qualcosa».

Oggi come vede la politica?
«La vedo come un’attività di autodifesa. Perché la politica non ti lascia mai in pace, cioè non è mai indifferente alla tua vita; infatti determina le circostanze in cui la tua vita si svolge. Io sono nato sotto il regime nazista e allora questo aspetto era particolarmente evidente. Ma ciò accade anche nelle democrazie».

Conosce la politica italiana?
«Sì, ma non parlerò di Berlusconi. Vede, è un argomento che mi ha un po’ stancato. Anche se capisco che proprio questo è il problema. Oggi mi sembra che la gente in Italia abbia perso la forza di scandalizzarsi di fronte a quanto Berlusconi dice e fa. Solo che ormai è già stato detto tutto: i suoi processi, i suoi trucchi, le sue trovate. Si tratta, beninteso, di cose oscene, ma anche terribilmnte ripetitive e noiose. Dicevo che questo è un problema, perché per sfinimento la gente non vuole più saperne di Berlusconi e così se lo tiene. Anche se devo dire che secondo me il problema non è solo lui, ma anche chi l’ha votato».

Nel suo ultimo libro lei cerca di smontare il mito moderno dell’intelligenza. Qual è la sua tesi?
«Sostengo che quella dell’intelligenza è una fissazione positivista, sviluppatasi nel Novecento ma sconosciuta nei secoli precedenti. L’idea che sia possibile misurare quantitativamente il quoziente intellettivo di una persona attraverso dei test mi sembra una vera e propria fesseria. Che ne facciamo allora di qualità scarsamente misurabili, come la creatività, l’ispirazione, l’empatia, l’intuito?».

Afferma anche la relatività del concetto di intelligenza...
«Sì, perché io posso aver preso laurea, master e dottorato di ricerca alla Sorbona, ma se mi mettono nella foresta amazzonica a cavarmela da solo muoio dopo qualche giorno. Cosa che invece non accade all’indio che magari neanche è andato a scuola. E, anche più semplicemente, nella metropolitana di Pechino, dove non sono in grado di decifrare le scritte, sarei un idiota totale. Perciò dico che bisogna superare questo approccio pseudo-scientifico».

È per questo che nel suo libro precedente aveva preso le difese dei «perdenti»?
«Sì, perché si è perdenti rispetto a un’immagine vincente che è quella sostenuta dalla società. Spesso alla base dell’essere perdenti c’è l’innocenza. Non per questo voglio idealizzare i perdenti, ma certo essi sono poeticamente più interessanti dei vincenti. I vincenti mi danno sempre un po’ sui nervi: penso a certi capi di stato e di governo...»

Pubblicato il: 25.06.08
Modificato il: 25.06.08 alle ore 9.20   
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