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Autore Discussione: FERNANDO SAVATER Il lato debole di 007  (Letto 2463 volte)
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« inserito:: Luglio 05, 2008, 05:02:54 pm »

5/7/2008
 
Il lato debole di 007
 
 
 
 
 
FERNANDO SAVATER
 
Sono un pervicace partigiano dei feticismi letterari e non meravigliatevi, quindi, se confesso che la scorsa domenica, a Londra, ho visitato per la prima volta l’Imperial War Museum. Mantenere questo nome illustre è una sfida ai nostri tempi politicamente corretti che si può permettere solo la tradizionale coerenza britannica: in Spagna si chiamerebbe «Museo delle Missioni Umanitarie Alternative e del Dialogo Differito» o qualcosa di ancora peggiore. Questo antico edificio che risale all’epoca di Enrico VIII era pieno di famiglie in festa: tra i carrarmati Tigre e Sherman, sotto le ali degli Spitfire e dei Messerschmitt appesi al soffitto alcuni bambini giocavano allegramente a spararsi e a fingere morti eroiche. Altri disegnavano con matite colorate scene di guerra sotto gli occhi compiaciuti dei genitori che suggerivano l’esatta tonalità per riprodurre il sangue e le sfumature più adeguate per raffigurare le esplosioni. Padri e madri responsabili che, ovviamente, inorridirebbero all’ipotesi che i loro teneri virgulti vadano a vedere una corrida... Io, comunque, non sono andato al museo per ricordare l’ultima carica della Brigata Leggera o lo sbarco in Normandia, ma, come ho detto, per feticismo letterario: per curiosare nella mostra dedicata a Ian Fleming in occasione del suo centenario.

Lì ho trovato la ricostruzione del rifugio che s’era costruito su una spiaggia della Giamaica, parecchi oggetti che testimoniano i successi sportivi della sua gioventù e la sua stagione nei servizi segreti britannici, un pacchetto delle sue sigarette preferite, la sua ricetta per il Martini secco e, naturalmente, edizioni in tutti i formati e in tutte le lingue dei suoi romanzi su Bond, James Bond. Perché, in fondo, di questo si tratta: ricordare 007 con la scusa di rendere omaggio al suo bizzarro inventore. Rileggere, ora, quei romanzi, è un esercizio curioso. Tanto per cominciare il mondo in cui si svolgono, gli ultimi Anni Cinquanta all’apice della guerra fredda, con i due grandi blocchi contrapposti e la minaccia di armi sofisticate e terribili capaci di annientare il genere umano, ci sembra, oggi, paradossalmente, ancor più lontano dell’Inghilterra vittoriana di Sherlock Holmes. Per non parlare di quei gadget tecnologici utilizzati dalla spia che tanto affascinavano Fleming: attualmente tutti noi ce ne andiamo a spasso, ogni giorno, con meraviglie portatili molto più efficienti: nei film Bond esce sempre vittorioso mentre nei romanzi l’agente vince e, a volte, viene vinto, perde la ragazza del cuore, patisce grosse delusioni o, come in «Dalla Russia con amore», rischia addirittura di morire per colpa d’un nemico che lo tradisce. Lo 007 di Fleming è meno umoristico e più umanamente amaro dei suoi sosia dello schermo, con l’unica eccezione, forse, di Daniel Craig. La carriera di scrittore di Ian Fleming è durata solo dieci anni e lui non ha avuto troppo tempo per godersi questo successo planetario. Le sue capacità letterarie non sono memorabili, ma gli sono bastate per creare un personaggio e uno stile - erede dei vecchi fogliettoni come quelli di Sax Rohmer e del suo Fu-Manchu - rimasti nel nostro immaginario. Non lo ha ucciso la Spectre, ma l’eccesso di fumo e di alcol. Quando fu colpito dal suo ultimo infarto si scusò gentilmente con i barellieri che lo portavano in ospedale: «Signori, mi spiace per i fastidi che vi sto dando». Magari direbbe qualcosa di simile anche oggi di fronte alle celebrazioni e ai festeggiamenti con cui si ricorda il suo centenario.

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