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Autore Discussione: Vittorio Grevi. Le buone maniere istituzionali  (Letto 2059 volte)
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« inserito:: Luglio 03, 2008, 06:44:56 pm »

Le buone maniere istituzionali


di Vittorio Grevi


Preceduto dalla importante lettera del presidente Napolitano al vicepresidente Mancino, il parere approvato martedì dal Consiglio superiore della magistratura sul decreto legge in tema di sicurezza pubblica, e sul relativo disegno di conversione, ha saputo mantenersi (al di là dei suoi contenuti critici sul merito di alcune delle scelte legislative) entro i binari di correttezza e di rispetto dei ruoli istituzionali fissati dal capo dello Stato.

Sia pure espresse attraverso lo strumento informale di una lettera, le indicazioni fornite da Napolitano a Mancino compendiano, nella loro sintesi, una sorta di trattatello di diritto costituzionale circa le «buone maniere» cui deve ispirarsi l'atteggiamento del Csm di fronte ai progetti legislativi in materia di amministrazione della giustizia. E, dato il particolare momento in cui sono state dettate, esse si sono fatte apprezzare, come già opportunamente notava ieri Pierluigi Battista su queste colonne, anche per l'innegabile effetto di rasserenamento del clima generale, grazie alla ridefinizione dei giusti rapporti di confine tra il mondo della politica e quello della magistratura, per gli aspetti di competenza del suo organo di autogoverno.

Due sono i punti sui quali si è soffermata la lettera di Napolitano, ed in entrambi i casi si tratta di notazioni ineccepibili, che tuttavia andavano ribadite: soprattutto di fronte alla confusione delle lingue che, nei giorni scorsi, aveva dato luogo anche a polemiche di asprezza inusitata, sebbene spesso artificiose. Da un canto, vi è una netta riaffermazione della legittimità della iniziativa del Csm di formulare al ministro della Giustizia un parere sui progetti in questione, dal momento che tale potere gli è espressamente attribuito dalla legge (circostanza, questa, trascurata da molti nelle ultime settimane), ed è stato consolidato nel suo concreto esercizio da una ormai costante prassi istituzionale. E va da sé che, entro questi termini, la manifestazione di un parere da parte del Csm non può in alcun modo interferire con le funzioni proprie del Parlamento, ma anzi si inserisce come momento di contributo tecnico esterno nello sviluppo del procedimento legislativo, attraverso l'uso che vorrà farne il ministro Guardasigilli destinatario (altro è il discorso, invece, per quanto riguarda eventuali fughe di notizie nel corso dell'itinerario preparatorio di un tale parere, non a torto ritenute meritevoli di una severa censura).

D'altro canto, nella lettera di Napolitano vi è anche una precisa individuazione dei limiti, all'interno dei quali soltanto il Csm può esercitare il suo potere di «dare pareri al ministro». E la precisazione, questa volta, appare diretta ad evitare il rischio di eventuali invasioni di campo da parte dello stesso Consiglio, cui ovviamente non spettano né i compiti politici di una «terza Camera» né alcuna prerogativa ad operare quel «vaglio di costituzionalità», che è invece riservato dal sistema ad altre istituzioni. Di questa necessaria distinzione di ruoli il Csm risulta essere ben consapevole (come, del resto, ha con forza ribadito da ultimo il vicepresidente Mancino), e lo ha dimostrato anche nella stesura del parere approvato martedì.

Dove le pur comprensibili perplessità, anche di ordine costituzionale, si sono incanalate nel contesto di un documento dai contenuti pacati e costruttivi, secondo la logica della «leale cooperazione» tra le istituzioni al vertice dello Stato. Che poi, leggendo tra le righe, si colgano nel corpo di quel parere (soprattutto per quanto concerne la «grave irragionevolezza» del meccanismo di sospensione automatica di determinati processi, con riguardo al principio della «ragionevole durata») gli echi dei numerosi dubbi di incostituzionalità emersi dal mondo degli studiosi e degli operatori del processo penale, era obiettivamente inevitabile. Ma ciò non significa che il Csm abbia esorbitato dalla sfera delle competenze che gli sono proprie. Come non esorbiterebbe qualora, in futuro, dovesse segnalare l'assenza dei necessari presupposti costituzionali in un qualunque decreto legge, che fosse riferito a tematiche (ad esempio quella delle intercettazioni telefoniche) non riconducibili all'area dei «casi straordinari di necessità e di urgenza».

03 luglio 2008

da corriere.it
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