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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 63203 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Maggio 14, 2012, 04:11:21 pm »

14/5/2012

Merkel, cancelliera sotto tiro

GIAN ENRICO RUSCONI

E adesso signora Merkel? La vittoria nel Nordreno-Vestfalia della coalizione uscente, formata da socialdemocratici e verdi, con una buona maggioranza, non è una «normale sconfitta». Non solo perché la Cdu esce pesantemente ridimensionata, ma perché la linea politica della coalizione rosso-verde, che viene ora premiata nel Land, è consapevolmente alternativa a quella del governo centrale.

E’ la politica di «sostegno allo sviluppo» che la Merkel stigmatizza come «crescita attraverso i debiti». È la stessa denuncia che la Cancelliera fa tutti i giorni per bloccare le varie proposte avanzate molto cautamente da altri paesi europei. La Merkel ora ha il nemico in casa. Adesso la Spd dovrebbe uscire dalla sua eccessiva timidezza verso il governo.

Ma siamo appena agli inizi di uno scontro che potrebbe addirittura segnare l’inizio della fine della Merkel. È bene però non sottovalutare la Cancelliera, la sua grande abilità tattica, soprattutto a fronte allo sconcerto nelle file democristiane. Stiamo per ora ai fatti.

Il voto nel Nordreno-Vestfalia non è una semplice protesta contro la politica del solo rigore. È il consenso verso una linea operativa alternativa consentita nel Land da un sistema federale che funziona. Non dimentichiamo infatti che il Land è una struttura politico-amministrativa inconfrontabile con una «regione» italiana. Sarebbe quindi anche sbagliato paragonare le nostre recenti elezioni amministrative con quelle del Land Nordreno-Vestfalia. Il Land infatti è dotato di una competenza e di una autonomia finanziaria, sia pure limitata, che ha un peso politico materiale e simbolico molto importante. In prospettiva dunque il risultato elettorale di ieri incoraggia un processo di cambiamento che inciderà sulle elezioni generali in Germania l’anno prossimo. E intanto potrebbe avere un effetto stimolante anche a livello europeo.

Prima di toccare questo punto vorrei fare una brevissima osservazione ancora sull’esito delle elezioni: l’emergere del «partito dei pirati» (7,5%). È bene cancellare subito comode superficiali analogie con i «grillini» in Italia. Questi neo-movimenti sono connotati dal contesto politico specifico in cui nascono, molto più di quanto non si creda. Un personaggio come Grillo con la sua mirata aggressiva irruenza si spiega soltanto nel nostro paese, dove viceversa sarebbero semplicemente incomprensibili rivendicazioni circa la libertà assoluta di comunicazione nel sistema mediatico che danno forza ai «pirati» tedeschi. Ma avremo modo di tornare ancora in futuro su questi fenomeni.

Un Land da solo non fa nessuna «primavera di crescita». L’impresa di contenere e contrastare la recessione devastante che colpisce l’Europa (che sinora ha risparmiato relativamente la Germania) deve necessariamente essere un’impresa comune. Deve contenere una grande strategia innovativa, condivisa a livello di Unione. Occorre convincere la classe dirigente tedesca centrale che la sua strategia di puro rigore non è affatto la più saggia né la più razionale per l’Europa, come invece ritiene la cancelliera Merkel. Anche se questa da un paio di settimane abilmente e prontamente ha inserito nei suoi discorsi la parola magica «crescita», che ora gira come nuovo slogan retorico nella comunicazione pubblica europea.

Ma il gioco che ora si apre in Germania è complicato. Fattori interni, europei e internazionali si intrecciano. Domani la cancelliera riceve François Hollande. Il neoeletto presidente francese non poteva augurarsi circostanze migliori per incontrarsi con la Merkel per spiegarle le sue intenzioni. Ascolteremo con attenzione le loro dichiarazioni. Un punto dovrà essere accuratamente decifrato nelle belle parole che il presidente e la cancelliera si scambieranno: il rilievo dato all’istituzione europea come tale. Una settimana fa la Merkel invitando Hollande a Berlino ha lasciato intendere senza tanti giri di parole che la cosa più importante è che Germania e Francia rimangano le nazioni che guidano l’Europa. Questa era la sostanza dell’intesa con Sarkozy al di là dei contenuti delle politiche intraprese. E Sarkozy si è trovato intrappolato in questa logica. Credendo di salvare in questo modo il prestigio della Francia ha scontentato i francesi. Ma ora non è ancora chiaro, al di là delle dichiarazioni di intenti, se la linea di Hollande prevede davvero il rilancio delle istituzioni europee e della loro autorità. O semplicemente mira alla ricontrattazione del patto privilegiato con Berlino, sia pure introducendo innovazioni gradite ad altri membri dell’Ue. Ci auguriamo tutti che non sia così.

Mi pare che elezioni nel Nordreno-Vestfalia abbiano inaspettatamente aperto opportunità per rimettere in moto contatti, iniziative, proposte che facciano uscire da una fase depressiva che sembra avere travolto un po’ tutti. Da parte sua la sinistra italiana deve cogliere l’occasione per riallacciare intensamente e sistematicamente nuovi rapporti con i socialdemocratici tedeschi e i socialisti francesi. Che cosa aspetta ancora?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10101
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:49:05 am »

4/6/2012

L'assalto alla società civile

GIAN ENRICO RUSCONI

La società civile si sta decomponendo, nel momento in cui tutti parlano in suo nome. Non esiste documento politico o sociale che non faccia riferimento in termini enfatici alla società civile. C’è la rincorsa - urlata - a presentarsi come i veri rappresentanti della società civile. L’indicatore principale è l’antagonismo: contro il sistema partitico, contro la casta dei politici, sino a coinvolgere confusamente l’intero apparato istituzionale e naturalmente la politica sin qui praticata dal governo Monti. Chi fa la faccia più ringhiosa e le spara più grosse è convinto di essere ascoltato. Chi si attiene ad un discorso sobrio e razionale rischia di essere sbeffeggiato. Sarà questa la vittoria della «società civile»?

La società civile più che l’interlocutrice, l’interfaccia o il deposito dei valori e delle risorse attivabili per la politica, è considerata e invocata sempre di più come la sua antagonista. O è così soltanto nell’immaginario di chi l’ha sempre sulla bocca? Per non fare confusione, è bene chiarire che non stiamo parlando della società in generale in tutta la sua complessa articolazione, o di quella «società civile» che si sta esprimendo sotto i nostri occhi in questi giorni negli eventi luttuosi legati al terremoto: coinvolgimento, partecipazione, solidarismo, dedizione insieme alle istituzioni. In questi momenti è percepibile quel potenziale di «coesione sociale» (termine che è diventata una formula istituzionale) che dovrebbe essere il segnale del rapporto ottimale tra società civile e sistema politico. Ma non può sfuggire il fatto che proprio in queste circostanze alcune forze politiche, convinte di rappresentare in esclusiva la «società civile», hanno contestato la celebrazione del 2 giugno. Ma c’è il sospetto che dietro agli argomenti avanzati si celino altre intenzioni.

Facciamo un passo indietro tornando alla fase culminante e poi rovinosamente precipitata del berlusconismo. Quella è stata la stagione alta dei movimenti della «società civile» di cui retrospettivamente oggi si colgono i limiti. Dalla famosa e ormai dimenticata manifestazione al Circo Massimo (con Veltroni, se ben ricordo) sino alle altre successive manifestazioni di profilo «civile» più specifico, non si trattava semplicemente di un collettore dell’antiberlusconismo, come si disse. Il berlusconismo intendeva essere una rivoluzione del costume e un modo diverso di concepire la società e la politica, una virtuale mutazione democratica - come ci insegnavano anche seriosi intellettuali che ora si defilano. Contro questa mutazione era inevitabile che si mobilitasse un movimento che si identificava come «società civile», prima ancora che come parte politica. Ma questo era un errore, perché anche quella che credeva nel berlusconismo era «società civile».

Discorso diverso meriterebbe l’ultimo grande movimento, quello delle donne «Se non ora, quando?» la cui successiva dispersione e mancanza di incidenza politica è (stata) una dura lezione molto istruttiva. Se c’era un movimento che poteva avanzare più degli altri il diritto di esprimere valori di «civiltà sociale» trasversali e alternativi all’anima profonda del berlusconismo, era quello delle donne. Proprio per questo è stata clamorosa la sua incapacità di fecondare una nuova politica, una volta che il Cavaliere se n’è andato.

Nel frattempo la «società civile», dispersa e depressa, assiste passiva e apparentemente disarmata all’irruzione sulla scena di chi la solletica in continuazione. Il termine «scena» qui non è un modo di dire. La tanto deprecata «democrazia mediatica» dell’età berlusconiana ha raggiunto paradossalmente la sua maturità. Non c’è più l’intrattenimento politico al servizio di un protagonista principale e della sua corte. Ma il sistema mediatico in tutte le sue forme è il luogo privilegiato della comunicazione politica di massa. La «società civile» è diventata la società degli spettatori o dei fruitori di Internet. Vi si possono vedere tutti: da Mario Monti (più o meno a suo agio) in una Piazza mediatica alle nuove facce - da Beppe Grillo a Roberto Saviano.

In questo contesto è evidente l’ansia con cui si cerca di anticipare - tramite continui monitoraggi demoscopici - l’ipotetico futuro comportamento elettorale. Se da un lato è la conferma che l’appuntamento elettorale rimane in definitiva per tutti l’unico criterio di giudizio della politica, dall’altro è impressionante la dispersione delle forze politiche che parteciperanno alla competizione elettorale - a parte l’immobile montagna delle dichiarazioni di astensione. Al momento è impossibile prevedere quanto significativa sarà la tenuta del Pd, quanto pesante sarà il tasso di dissolvimento del Pdl, e quindi quale sarà l’assestamento delle altre forze che sono già in campo. Ma l’incognita maggiore sarà il presumibile avanzamento del Movimento Cinque Stelle, tanto sicuro di sé quanto portatore di una strategia politica complessiva ancora troppo confusa (a prescindere dalla punizione esemplare della casta). L’idea che la formula vincente possa essere proprio la combinazione tra voglia di punire e confusione strategica fa rabbrividire. Una cosa è certa: con il passare del tempo e il prevedibile peggioramento della crisi economica, pur di strappare consenso, si farà sempre più forte il radicalismo verbale con proposte dettate dall’emotività anziché da argomentazioni ragionate - compresa l’uscita dall’euro e dall’Ue. L’ultima «pazza idea» di Berlusconi di una zecca italiana dell’euro, anche se subito ritirata, è un segnale da prendere sul serio.

Abbiamo disperatamente bisogno di una forza politica che tenga i nervi a posto, agisca in modo razionale e trasparente e abbia la capacità di convincere la società («civile» è pleonastico) a darle credito.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10185
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« Risposta #92 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:21:46 am »

24/6/2012

La Germania e l'abuso della storia

GIAN ENRICO RUSCONI

Esiste un abuso della storia. Un modo cioè di proiettare sul presente eventi del passato, con l’intento di trarne insegnamenti, mentre in realtà li si deforma strumentalmente. Il passato viene ricalcato sul presente con il risultato di imbrogliarci ancora di più nel capirlo. Si diventa cattivi storici, e ancora peggiori analisti .

Farò due esempi che sono circolati in queste settimane: l’idea di un Piano Marshall per l’Europa affidato ora alla responsabilità tedesca, e l’idea che l’euro sia stato il prezzo pagato dalla Germania per la sua riunificazione, come ultima rata del conto da estinguere per i suoi crimini passati. Come se l’euro avesse una sorta di plusvalore morale ritrattabile.
E’ una tesi che oggi, formulata in modo insidioso, viene messa in circolazione in alcuni ambienti tedeschi. E’ la variante tedesca della voglia di liberarsi dall’euro. La cancelliera Merkel deve tenere a bada questa idea. Questo spiega anche la rigidità della sua condotta politica che mira a salvare ad ogni costo l’euro. A suo modo, naturalmente.

Come si vede, la Germania è sempre al centro di ogni riflessione. Ma in questo caso si tratta di ragionamenti, che spostano il discorso oltre l’altalena degli inconcludenti summit politici, oltre l’oscillare dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Oltre la contingente incontrollabilità del presente, per rintracciare una dimensione storica che ridia senso ad una vicenda che appare fuori controllo.

L’idea di un nuovo Piano Marshall per l’Europa circola da tempo nella pubblicistica, perché fa parte dell’immaginario positivo sulla ricostruzione del dopoguerra europeo. E’ una metafora politico-economica sempre attraente nella sua genericità. Ma settimane fa lo storico americano Charles Maier, eccellente studioso di storia europea, l’ha ripresa sul «New York Times» e su altri giornali, con una rilettura che ha trovato immediata approvazione anche da noi. Lo storico ha usato argomenti apparentemente convincenti per un «Piano Marshall tedesco» a favore dell’Europa. La leadership che la Germania esercita di fatto nell’Unione Europa in modo coercitivo – dice - non è vera leadership sin tanto che non si convince delle «ragioni sistemiche» che le impongono di sostenere i membri in difficoltà. La Germania ha già fatto un’operazione analoga per ricuperare le regioni orientali post-comuniste.

«Due decadi dopo i tedeschi devono estendere lo stesso senso di obbligazione all’Europa in senso ampio». Ma lo storico fa di più. Invocando un Piano Marshall tedesco osserva che quello americano ha funzionato perché aveva sospeso la condizionale che l’aiuto agli europei dipendesse dall’immediata messa in atto di riforme strutturali. E’ quello che dovrebbe fare ora la Germania nei confronti dei partner in difficoltà - ma qui lo storico Maier – per amore di analogie con il presente - si lascia prendere la mano, dimenticando l’inconfrontabilità della situazione catastrofica dell’Europa postbellica con la natura delle difficoltà dell’Unione europea oggi. Non ha senso paragonare l’iperpotenza americana degli anni 1945-48 con la pur solida posizione economica della Germania di oggi in Europa. Lo storico cancella completamente il contesto internazionale, la competizione con l’Unione Sovietica nella fase incipiente della guerra fredda. Oggi in compenso si è formata una rete insostituibile di istituti finanziari internazionali, l’emergere di grandi nazioni-continenti, competitive ma non reciprocamente aggressive ecc. Insomma il Piano Marshall storico appartiene ad una congiuntura irripetibile. Per convincere il governo tedesco a mutare atteggiamento occorrono ben altri argomenti.

Un approccio apparentemente diverso ha l’argomento storico a favore della opportunità di uscire dall’euro, formulato in Germania con molta risonanza pubblicistica da alcuni personaggi che mettono in campo non soltanto ragioni strettamente economico-finanziarie, ma motivi di altra natura storica. Da settimane sui principali giornali tedeschi si discute dell’ultimo libro di Thilo Sarrazin. «L’Europa non ha bisogno dell’euro». Il dibattito è molto articolato e ricco di dati e analisi economico-finanziarie, ma il tema della legittimità per i tedeschi di uscire dall’euro, emancipandosi da ogni verdetto di colpa storica che continua ad essere loro addossata, sembra rappresentare uno dei motivi profondi. «Settant’anni dopo la seconda guerra mondiale i tedeschi hanno il diritto (e il dovere) nei rapporti internazionali di carattere finanziario di farsi guidare dal proprio ragionevole interesse, senza dover temere sempre la reprimenda morale». E’ in fondo quello che pensano quasi tutti i tedeschi, naturalmente, senza arrivare necessariamente alla conclusione estrema di andarsene dall’euro seguendo il proprio «ragionevole interesse». Ma qui sta l’insidia dell’argomento.
Nella discussione è intervenuto anche il leader socialdemocratico Peer Steinbrueck, ex ministro delle Finanze della Grande Coalizione (guidata dalla Merkel) e probabile candidato cancelliere per le prossime elezioni tedesche. Le sue contro-argomentazioni passano criticamente in rassegna tutte le tesi economico-finanziarie della proposta dell’uscita dell’euro, arrivando ovviamente alla tesi opposta della bontà e necessità dell’euro per la Germania e per l’Europa. Ma non può esimersi dall’enunciare anche un assunto di ordine storico etico-politico: «L’Europa e quindi la moneta comune non possono essere comprese tramite una mera razionalità economica e fissandosi sui deficit di Stato e dei bilanci di pagamento. L’integrazione europea è la risposta alle catastrofi del XX secolo».

Ma questa affermazione, se non vuole limitarsi ad essere soltanto «politicamente corretta» di fronte alle tentazioni nazional- populiste, deve sapersi articolare in un discorso pubblico convincente. Soprattutto per quanto riguarda la corresponsabilità storica della Germania verso l’Europa, non tanto sullo sfondo delle catastrofi del passato quanto dell’impegno consensualmente assunto nella costruzione della Ue. E’ qui che tocchiamo con mano il senso storico vero di Maastricht e dei patti politici connessi e successivi. E’ a partire da qui che vanno misurate le aspettative e le richieste nei confronti della Germania. E’ questa la storia che ci ha raggiunto, cogliendoci di sorpresa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10258
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« Risposta #93 inserito:: Agosto 10, 2012, 09:10:44 am »

10/8/2012

Il garante dell'Europa

GIAN ENRICO RUSCONI

Il Mario Monti «tedesco» è ridiventato «italiano». Era da qualche settimana che i commenti dei giornali tedeschi avevano abbandonato i toni benevoli verso il nostro premier. In sintonia con le crescenti insofferenze di molti uomini politici, avevano aggiustato il tiro contro l’attivismo «europeista» del presidente del Consiglio. Affiancandolo naturalmente all’altro Mario «italiano», il Draghi presidente della Bce.

Ma è stata la maldestra affermazione di Monti nella intervista a «Der Spiegel» («ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento») a offrire ai politici tedeschi l’occasione di presentarsi come una compatta classe politica che difende la sovranità del Parlamento in una democrazia funzionante. Una lezione di democrazia parlamentare impartita al premier italiano e agli italiani in generale. Gettare sulle proposte economico-finanziarie di Monti l’ombra di un comportamento che delegittima la democrazia parlamentare è l’arma più insidiosa contro di lui. Rilancia l’antica diffidenza tedesca verso l’Italia come perenne anomalia politica. Non a caso qualcuno ha aggiunto che si sente ancora
l’eredità del berlusconismo.

Per contrasto la posizione tedesca sull’intera questione del sostegno dell’euro viene presentata come l’unica democraticamente ineccepibile, anche e soprattutto contro la Bce «che rischia i soldi dei contribuenti (tedeschi) senza essere democraticamente legittimata». Per un paio di giorni la classe politica tedesca ha nascosto - dietro le questioni di principio - le differenze reali che esistono e crescono al suo interno. Saggiamente Angela Merkel, ritirata nella sua vacanza altoatesina, non si è lasciata coinvolgere dalle polemiche dando l’impressione di aver capito il vero senso delle parole di Monti.

Come si è creato tutto l’equivoco? E come si supera? L’affermazione del premier italiano, che ha scandalizzato i tedeschi, è che «se i governi seguissero esclusivamente le decisioni dei Parlamenti la rottura dell’Europa sarebbe più probabile della sua integrazione». Presa alla lettera questa affermazione sembra un invito a limitare la sovranità del Parlamento. Ma non era questa l’intenzione di Monti. La sua era in realtà una impropria generalizzazione fatta dalla sua personale esperienza di governo. «Se avessi dovuto tenere in considerazione le posizioni del Parlamento italiano, dal quale avevo avuto indicazioni di far passare gli eurobond, non avrei dovuto dare il consenso italiano nell’ultimo consiglio europeo di fine giugno». Il premier ha aggiunto, sempre nell’intervista a «Der Spiegel», che se la moneta unica diventasse un fattore disgregante, «allora i fondamenti del progetto di Europa sono distrutti».

Sono parole gravi che mettono a fuoco la non risolta contrapposizione tra «competenza tecnica» e «responsabilità politica» che è alla radice delle difficoltà attuali del governo italiano. Soltanto in questo contesto si spiega la tesi incriminata che «ogni governo ha il dovere di guidare il proprio Parlamento». «Guidare» non è concetto felice e si presta a molti fraintendimenti. Neppure per il Cancelliere tedesco che gode di notevoli prerogative e competenze decisionali, è appropriato il concetto di «guida» del Bundestag.

Non credo che dietro all’improprietà del linguaggio di Monti sia latente l’idea di una qualche infrazione istituzionale/costituzionale per il rafforzamento dell’esecutivo. Monti fa semplicemente riferimento alle competenze tecniche per le quali è stato chiamato al governo, in supplenza di una classe politica, apparentemente priva di tali requisiti. In questo senso per «guidarla». Ma si tratta di competenze che avranno il loro peso irreversibile, anche quando si tornerà alla «normalità politica» con le prossime elezioni. Temo invece che i partiti, che stanno litigando sul nuovo sistema elettorale, non abbiano ancora percepito che la grande sfida del prossimo Parlamento sarà il nuovo rapporto tra competenze tecniche, rappresentanza popolare e responsabilità decisionale.

Per il momento dobbiamo quindi accontentarci della «stranezza» di questo governo o della sua «anomalia». «Un leader non eletto, chiamato a realizzare impopolari cambiamenti nei cui confronti i politici del Paese erano riluttanti. Monti fa affidamento sulla tolleranza dei principali partiti politici italiani e non ha un suo potere di base, ad eccezione della sua credibilità personale». Sono parole del «Wall Street Journal», un altro protagonista delle polemiche di questi giorni. Naturalmente per fare questa constatazione non c’era bisogno dell’autorevole giornale americano che, lungi dal porsi il problema dell’uscita dall’anomalia attuale, si accontenta di ripetere lo stereotipo che «la natura disciplinata di Monti è più tedesca che italiana».

E’ tempo di abbandonare questo stereotipo. I tedeschi hanno un’idea di «disciplina politica» diversa da quella di Monti - in corrispondenza alla diversità dei due sistemi politici. Il sistema tedesco è funzionante, quello italiano è in emergenza. I tedeschi sono giustamente soddisfatti del loro circuito istituzionale virtuoso tra Parlamento, governo, Corte Costituzionale e Bundesbank. Esso ha accompagnato lo sviluppo della Germania nel passaggio cruciale della riunificazione e attraverso la serie di decisioni che hanno costruito l’Unione europea. E lo ha fatto insieme agli altri partner europei. Oggi si trova davanti ad una prova imprevista, apparentemente contraria alla lettera di talune normative comunitarie. I tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano loro di fare qualcosa che contraddice profondamente la loro «disciplina politica», mentre dovrebbero essere gli altri (in particolare i paesi del Sud) ad imitarla. In realtà le cose non stanno esattamente così. I politici tedeschi più attenti e riflessivi (non solo dell’opposizione socialdemocratica) lo sanno benissimo. E si stanno convincendo che è in gioco lo stesso destino della Germania.

Monti chiede ai tedeschi «maggiore elasticità». E’ quasi un eufemismo: per i tedeschi si tratta di qualcosa di molto più impegnativo. Nessuno chiede loro di rinunciare al loro invidiabile sistema istituzionale e alle sue regole. Si tratta di riadattarlo alla nuova imprevista, grave situazione. I veri amici della Germania sono convinti che se apre il suo sistema alle esigenze degli altri partner europei, diventerà la garanzia più solida per l’Europa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10418
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 09, 2012, 10:49:21 am »

8/9/2012

Merkel e la strategia della rimonta

GIAN ENRICO RUSCONI

La partita è appena iniziata. Dopo l’indecisione paralizzante che ha caratterizzato la vita europea degli ultimi mesi, la Banca centrale europea ha fatto la sua mossa - forte e attesa. Ma attesa era anche la reazione della Bundesbank, che ha negato il suo voto alla risoluzione della Bce di acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà «illimitatamente» - secondo precise e rigorose condizioni.

Ma la Banca centrale tedesca non è il governo tedesco; non è nemmeno «la Germania». Eppure, molta stampa tedesca sta reagendo negativamente, convinta o quanto meno preoccupatissima che la Bce abbia commesso un grosso errore che recherà danno all’Unione europea – e ai tedeschi innanzitutto. Ma a ben vedere, lo sconcerto dei tedeschi ha un’altra ragione più sottile: non immaginavano che si osasse tanto contro il loro esplicito parere. O, quantomeno, contro il parere di uomini politici, di gruppi di interesse e di opinionisti che in queste settimane hanno sostenuto le loro tesi in modo così martellante da intimidire in Germania molte altre voci più ragionevoli. Ora si trovano isolati. Che cosa accadrà?

Soltanto la cancelliera aveva intuito che il braccio di ferro che si era instaurato fra tedeschi ed europei non portava da nessuna parte. Anzi, stava creando una paralisi mortale nelle istituzioni europee. Nei giorni scorsi Angela Merkel aveva assunto una posizione che appariva persino ambigua, nel non voler far entrare in collisione il presidente della Bundesbank con il presidente della Bce. Adesso – dopo il contrasto - potrà farsi avanti per chiedere a Mario Draghi perentoriamente di poter «vedere» con chiarezza le famose condizioni precise e rigorose necessarie ai Paesi che intendono beneficiare dell’intervento della Bce. Questo è il punto su cui la Merkel giocherà la sua partita di recupero.

Non penso che la cancelliera creda alla favola diffusa in queste ore che basti «l’annuncio della Bce» per soddisfare i mercati o scoraggiare gli speculatori. Il compito più difficile sarà piuttosto convincere i tedeschi che è loro interesse recuperare rapidamente un rapporto di reciproca fiducia con i partner europei. Cominciando a collaborare con la Bce nella definizione delle condizioni di fruizione degli aiuti della Banca centrale. Ciò che conta è non perdere del tutto il controllo. Riconquistare quella leadership informale che è andata perduta di fatto nell’ultimo anno insistendo unilateralmente sulla ricetta tedesca.

La Germania si trova davanti alla sua prova più impegnativa dopo il 1989/90, dopo i Trattati di Maastricht e dopo l’introduzione dell’euro. Anzi, per molti aspetti è la rivisitazione delle regole e degli accordi sorti proprio da quel nesso di eventi che sino ad ieri si pensava fosse l’asse attorno al quale si era costruita e rafforzata l’identità politica, economica, culturale dell’Europa e della Germania stessa.

Inaspettatamente, oggi l’essere tedesco è entrato in tensione con l’essere europeo. Molti tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano loro di fare qualcosa che contraddice la lettera e lo spirito dei Trattati consensualmente sottoscritti (in particolare per quanto riguarda la funzione della Banca centrale europea) e che quindi venga mortificata quella che con un tono sprezzante è chiamata la loro «ortodossia». Sentono penalizzata la loro «disciplina» politico-economica, mentre dovrebbero essere gli altri (in particolare i Paesi del Sud) ad imitarla. Sappiamo che non è proprio così, e che la classe intellettuale e giornalistica tedesca ha la sua responsabilità nell’avere dipinto in modo semplicistico la situazione.

Per le prossime settimane possiamo ipotizzare una secca alternativa. O vince la linea della cancelliera Angela Merkel, che, pur prevedendo un lungo confronto, duro se necessario, ma pur sempre trasparente e collegiale, si mette in sintonia con gli altri partner europei lungo quelle linee di intervento e riforma sistemica delineate nei mesi scorsi, anche grazie al contributo del governo italiano. Oppure, cedendo a risentimenti vendicativi, i tedeschi insisteranno nel rifiuto sistematico di tutte le proposte avanzate sul terreno europeo. Senza arrivare ad un referendum anti-euro (o comunque lo si voglia formulare), la cui vittoria sarebbe usata come una clava contro l’Unione europea, basterebbe che i tedeschi dicessero sempre di no, illudendosi di salvare in questo modo la loro sovranità nazionale. Quello che non capiscono i sostenitori di questa linea «tutta tedesca» è che sarebbe la fine della Germania quale è felicemente uscita dopo le catastrofi del XX secolo, grazie anche agli europei. Sarebbe la fine della Germania come modello democratico, di cui vanno fieri i tedeschi, nel momento stesso in cui rinnegano la strada che hanno percorso per costruirlo.

Intanto però siamo davanti al paradossale ricupero di immagine e di simpatia in Europa della cancelliera Merkel oggetto nei mesi scorsi di odiose vignette e di stupidi insulti. E data per politicamente spacciata da molti commentatori. Sorprendendo ancora una volta amici e nemici - nel deserto di forti personalità ai vertici della politica tedesca – la cancelliera potrebbe inaugurare una nuova stagione della politica tedesca verso l’Europa. Chissà.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10502
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 20, 2012, 05:00:19 pm »

20/9/2012

Ma il dileggio non è libertà

GIAN ENRICO RUSCONI

Siamo dinanzi ad uno scontro di civiltà mediatico, nelle sue radici, che ci prende di sorpresa. Suona patetica l’affermazione del primo ministro francese Jean-Marc Ayrault: «Se veramente delle persone si sentono offese nelle loro convinzioni e pensano che sono stati calpestati dei diritti, possono rivolgersi ai tribunali».

Con questo argomento il ministro ritiene di rendere non solo legittima ma efficace l’ordinanza che proibisce di manifestare a Parigi contro il film ritenuto anti-islamico.

Ma li vedete voi gli scandalizzati o scalmanati islamici/islamisti che fanno deferente istanza alla magistratura?

Intanto però precauzionalmente lo stesso ministro ha ordinato la chiusura di scuole e ambasciate francesi in 20 paesi dopo la pubblicazione in Francia di nuove caricature di Maometto.

La realtà è che rischia di saltare l’intera nostra civiltà che pretende di fondarsi contemporaneamente sulla libertà di espressione e sul diritto al rispetto delle diversità culturali, religiose innanzitutto. Quando l’espressione di libertà diventa sinonimo di satira offensiva e di dileggio, c’è da attendersi che i soggetti offesi si lascino andare ad una minacciosa intolleranza per ogni forma di critica nei loro riguardi.

In questo modo viene meno ogni possibilità di «discorso pubblico», con la sua razionalità e ragionevolezza, con la sua capacità performativa. La capacità cioè di orientare i comportamenti, non soltanto quelli formali della legge, ma quelli informali che funzionano grazie al buon senso e alla saggezza. La saggezza consiste proprio nel contemperare i principi tra loro in tensione. Senza saggezza, la libertà di espressione e di satira da un lato e il diritto al rispetto dell’integrità del proprio credo religioso dall’altro, entrano in collisione portando diritto al sempre scongiurato «scontro di civiltà».

Questo ora sembra esprimersi attraverso l’esasperazione mediatica da parte di chi provoca e nella risposta violenta di chi si sente vittima. Una violenza reale che tuttavia vive della sua rappresentazione mediatica e mira intenzionalmente alla sua dilatazione.

Il sistema mediatico, ormai fuori da ogni controllo e autocontrollo, sta minando la civiltà della comunicazione di cui siamo (stati) tanto fieri. Se si segue la strada aperta dal film anti-islamico di cui si parla, entriamo definitivamente nell’età della inciviltà della comunicazione.

Girato negli Stati Uniti ma diffuso su Internet, il film all’origine della vicenda è stato prodotto in Occidente, ma non è affatto espressione dell’Occidente. Questo va detto e ripetuto con energia. Continuerà ad essere considerato espressione dell’«Occidente che odia l’Islam», come sostengono gli islamisti arrabbiati, sin tanto che la magistratura (francese), non mostrerà con buoni argomenti che non è affatto così e che l’Occidente ha tutti gli strumenti per risolvere il problema?

Povera civiltà, la nostra, se deve aspettare la sentenza della magistratura per affrontare e risolvere un problema che deve contare sulla saggezza quotidiana dei suoi cittadini, credenti o non credenti.

Invece ciò che colpisce in queste ore è l’eccitazione, un po’ morbosa, per le nuove vignette anti-islamiche e l’attesa di come andrà finire. Come se si trattasse di un ennesimo spettacolo live da guardare, come se non ci coinvolgesse profondamente. Non basta prendere le distanze dai provocatori irresponsabili e dai violenti assassini. Quanto sta accadendo è un segnale che dinanzi all’impazzimento del sistema mediatico è necessario creare un nuovo equilibrio tra i principi della libertà di espressione e del diritto al rispetto dell’integrità del credo religioso. E’ un problema che tocca tutti noi, da vicino.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10548
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« Risposta #96 inserito:: Settembre 30, 2012, 02:07:13 am »

Editoriali

28/09/2012

Ora di religione, la riforma parta dai docenti

Gian Enrico Rusconi

Ciclicamente sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne seguivano erano molto articolate – dalla soppressione pura e semplice dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che contano) del mondo cattolico. 

Nel frattempo si sono aggiunte altre problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura (argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a quella islamica ) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il ruolo pubblico delle religioni». 

 

Il tutto si è accompagnato con crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una «religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa - senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più secolarizzati. 

 

In questo contesto il monopolio della Chiesa nell’insegnamento religioso nelle scuole – comunque definito - è solo un tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di offrire alternative. 

 

E’ possibile superare questo circolo vizioso? Non già contro la Chiesa – come subito si accuserà – ma per rinnovare profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa. 

 

Nel nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche. Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema. 

 

La stragrande maggioranza delle famiglie italiane – loro stesse caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa – mandano i figli all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» - come assicurano molti degli insegnanti cattolici. Ma qui nasce un altro brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del cristianesimo, che – sia detto per inciso - teologicamente parlando non coincide con il cattolicesimo.

 

Suppongo che il cattolico che leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso delle cose che sto dicendo. Ma qui si apre un altro problema, forse il più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima congiuntura politica. 

 

Il vero problema è che l’Italia ha urgenza di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle religioni – non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua collaborazione – che risponda seriamente alla nuova problematica del pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.

da - http://lastampa.it/2012/09/28/cultura/opinioni/editoriali/la-riforma-cominci-dai-docenti-Ymjl62fLSw9rfwVynIuMyJ/index.html
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« Risposta #97 inserito:: Ottobre 13, 2012, 03:58:02 pm »

Editoriali
13/10/2012

Premio giusto, ma non basta

Gian Enrico Rusconi

Il Premio Nobel per la Pace assegnato all’Unione Europa può essere giudicato da punti di vista diversi, anche contrastanti. 

E’ innanzitutto il riconoscimento di quanto l’Europa ha fatto secondo i suoi principi ispiratori: «l’impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra in un continente di pace». E’ vero. La motivazione del Premio ricorda che l’Unione europea si è costruita a partire dalla riuscita riconciliazione tra Germania e Francia e dal superamento di tutte le ostilità armate che avevano diviso, in varie combinazioni, le nazioni (o nazionalità) europee nel corso del «secolo breve». Non da ultimo le nazioni dell’area balcanica di cui fanno parte le ultime aspiranti ad entrare nell’Unione (Croazia, Montenegro). 

Non sono passati neppure cento anni dalla «catastrofe originaria dell’Europa» del 1914, innescata a Sarajevo ma ferocemente combattuta e decisa in terra di Francia e nel Nord-Est italiano. Poi è seguita la stagione ancora più terribile della «pace sbagliata» di Versailles, delle crisi dei sistemi liberali, della instaurazione delle dittature totalitarie, seguite da un’altra guerra che da europea è diventata compiutamente e definitivamente mondiale. Poi è stata la volta della Guerra fredda con l’ultima divisione d’Europa e di Germania, superata anche grazie ad una Comunità europea, che nel frattempo si era sufficientemente consolidata per essere un fattore decisivo nella soluzione del problema. Infine con l’ingresso di numerosi paesi dell’Europa centrale e orientale - dice la motivazione del Nobel - «si è aperta una nuova era nella storia d’Europa, le divisioni tra Est e Ovest sono in gran parte terminate, la democrazia è stata rafforzata, molti conflitti su base etnica sono stati risolti».

Per la verità, qui il testo avrebbe dovuto essere più cauto nel fare queste affermazioni sul rafforzamento della democrazia e la risoluzione dei conflitti etnici. Avrebbe dovuto assumere un tono di auspicio e di raccomandazione, anziché di constatazione di presunte realtà di fatto che - ahimè - non trovano riscontro. 

Ammettere più esplicitamente, nella motivazione del Premio, i limiti attuali dell’azione dell’Unione non avrebbe tolto nulla alla positività della vicenda che ha caratterizzato la sua nascita, che l’ha accompagnata, facendola maturare gradualmente, tenacemente - non senza l’opposizione (non dimentichiamolo) da parte di forze politiche che oggi magari si associano al coro delle congratulazioni. E’ giusto premiare questa Europa. Ma non basta. 

La motivazione del Premio ricorda quasi per inciso che oggi «l’Ue sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali. Ma il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell’Ue ecc.». Francamente, a mio avviso, limitarsi a parlare di «difficile crisi economica e forti tensioni sociali» è eufemistico, almeno per alcuni paesi. Certo: la situazione odierna non è di «guerra» neppure «civile», forse perché i popoli europei sono diventati più saggi. Ma esistono serie divergenze di valutazione delle classi politiche dirigenti dei paesi europei e ondate anti-europeiste che non basta esorcizzare come populiste o antipolitiche. Soprattutto assistiamo al riemergere di fratture culturali nazionali, con il loro seguito di stereotipi, pregiudizi e reciproci maliziosi giudizi sommari, che non ci saremmo attesi una decina d’anni fa, in una Europa amichevolmente conciliata e democratizzata - come ci si aspettava. 

Viene la tentazione di parafrasare europeizzandole le parole tradizionalmente messe in bocca al grande italiano Massimo d’Azeglio: «Fatta l’Europa, dobbiamo fare gli europei». Cederemmo volentieri a questa innocua retorica se non sapessimo già per il nostro paese (e non lo constatassimo tutti i giorni, proprio in questi giorni) quanto proibitiva sia questa impresa. Che il Premio Nobel serva almeno come incoraggiamento.

da - http://lastampa.it/2012/10/13/cultura/opinioni/editoriali/premio-giusto-ma-non-basta-wEs0sIeIEEnK0wiEUP4pcL/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Ottobre 19, 2012, 06:06:24 pm »

Editoriali
03/10/2012

Un Monti-bis che cambia le regole

Gian Enrico Rusconi

La frenata di Mario Monti sull’ipotesi, da lui stesso ventilata, di una sua disponibilità per una nuova esperienza di governo rivela le sue vere intenzioni. Monti tornerebbe a Palazzo Chigi - non in un qualunque superministero economico-finanziario - soltanto con l’appoggio di una larga maggioranza. Non come un tira-partito di una formazione volenterosamente centrista dalle dimensioni incerte, che lo costringerebbe a «fare politica» nel senso convenzionale del termine. Ma è possibile un Monti-bis senza una modifica di alcune regole dell’attuale gioco politico-istituzionale? Ne dubito. 

 

Non dimentichiamo che l’ incarico affidatogli mesi fa aveva i caratteri della emergenza. Era letteralmente un «governo del Presidente», anche se questa espressione non era gradita al Quirinale pago della conformità delle procedure dell’operazione al dettato costituzionale. Ma senza il fiato sospeso, senza i momenti di paura vissuti allora dal Paese, senza il consenso della grande stampa, senza l’improvviso ammutolirsi dei partiti e il discredito internazionale della figura di Berlusconi – l’operazione non sarebbe stata possibile. Ma sono state condizioni irripetibili. 

 

Poi è cominciato il lavoro del governo, inizialmente con piglio deciso e persino drammatico, poi via via stemperato e disperso in iniziative spesso senza mordente, accompagnate da promesse sempre più impegnative (pensiamo all’enfasi sulla «fase due» della «crescita»). Soprattutto non c’è stata capacità di «creare coesione» sociale: basti pensare alle infelici battute sulla vera o presunta fine della concertazione. Il tutto nel quadro di una eccessiva loquacità dei ministri. 

 

Questa situazione è (stata) ampiamente compensata dall’affermarsi sempre più netto ed apparentemente efficace della personalità di Mario Monti a livello europeo. Questo è stato il vero capolavoro del professore a Palazzo Chigi, che ha riportato l’Italia ad essere presa un po’ più sul serio in Europa. 

 

Ma adesso anche questa fase sta cambiando, perché diventano sempre più protagoniste le istituzioni europee come tali. A questo punto, Mario Monti di fronte all’evidente raffreddamento del consenso per il suo governo e all’improvvisa frenesia verbale e mediatica dei partiti, sente restringersi attorno a sé i limiti della sua ulteriore possibile azione. E si guarda attorno. Ma il suo sguardo rischia un singolare strabismo. Un conto è guardare agli ambienti internazionali che lui ama frequentare – al di là dei vertici istituzionali – centri studi universitari, associazioni bancarie e circoli di esperti di relazioni internazionali. Un altro è lo sguardo dentro al Paese Italia e al suo sistema politico. Non è un caso che la sua dichiarazione di disponibilità a tornare al governo l’abbia fatta a Washington, mentre la frenata in senso contrario l’ha fatta a Milano.

 

Dietro a questa geografia delle dichiarazioni c’è un dato di fatto molto serio: la cattiva conoscenza reciproca tra la classe politica italiana e gli ambienti internazionali frequentati da Monti. 

 

I commentatori stranieri faticano a capire il senso della natura «tecnica» del governo Monti. I più benevoli la accreditano come abilità politica degli italiani di trarsi d’impiccio nelle situazioni difficili, ma poi si affrettano subito a fare loro lezioni di democrazia. In realtà la fortuna anche internazionale dell’espressione «governo tecnico» rimane ambigua. L’unico criterio univoco è il rapporto con il Parlamento, da cui dipende rigorosamente la legittimità e quindi la operatività di ogni proposta del governo. Monti ha sempre mostrato estrema correttezza e deferenza verso il Parlamento pur nel mutare dei toni. Ricordo bene le sue parole nella prima dichiarazione per la richiesta della fiducia come premier designato: «Vi chiedo non una fiducia cieca ma vigilante»; «Dureremo quanto la vostra fiducia in noi». In queste parole c’era molto di più di una domanda formale. Era l’attesa di un reciproco affidamento. Ma poi in successive dichiarazioni non sono mancati i segni di una certa disillusione. 

 

Non mi risulta che Monti abbia mai espresso pubblicamente opinioni sulla funzionalità del nostro sistema parlamentare o anche soltanto sul sistema elettorale, lasciando correttamente e scrupolosamente al Presidente della Repubblica il compito di sollecitare il Parlamento alla riforma elettorale. Ma mi chiedo se nella sua recente dichiarazione di disponibilità (poi ritirata) ad un nuovo incarico ci sia stata anche una qualche implicita riflessione di carattere istituzionale. 

 

Diciamolo chiaro: con l’attuale situazione partitica e politico-istituzionale non c’è possibilità che venga iterato un Monti-bis secondo lo schema precedente, nato dall’emergenza. Lasciamo ai politologi fare le loro riflessioni o speculazioni sulla possibile mutazione del nostro sistema democratico verso forme semipresidenziali, che al momento sono tabù o motivo di intrattabili confronti politici. Ma sarebbe assurdo che rispuntasse un nuovo governo Monti per eludere anziché affrontare di petto questa problematica. 

da - http://lastampa.it/2012/10/03/cultura/opinioni/editoriali/un-monti-bis-che-cambia-le-regole-TwtmrGP4PKuq30onAGKPIJ/index.html
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:05:46 pm »

Editoriali
11/11/2012

La via del presidenzialismo

Gian Enrico Rusconi

Mario Monti invita i politici a preoccuparsi dei contenuti più che della leadership. E’ una affermazione giusta soltanto a metà.
Monti infatti ha potuto lavorare bene in questi mesi perché non aveva un problema di leadership a livello istituzionale. Glielo consentiva e garantiva il suo status singolare di «governo del Presidente». 

Questa formula non è gradita agli esegeti della nostra Costituzione. Ma non è il caso di fare nominalismi. La normalizzazione della politica italiana deve affrontare il problema che si cela dietro a questa «strana» formula. 

 

Il concetto di leadership in democrazia ha due dimensioni. Una personale, legata alle capacità e alle qualità dell’uomo politico che guida un partito (o un movimento); l’altra è data dalle competenze decisionali e prerogative specifiche di governo di cui dispone chi è chiamato a governare. La forma istituzionale che sintetizza al meglio queste due dimensioni della leadership politica è il presidenzialismo democratico. 

So che per gran parte della tradizionale cultura politica italiana questa affermazione suona come una mezza bestemmia. Non si tratta di riaprire la questione di una riforma istituzionale, ormai fuori tempo. Ma la situazione verso cui stiamo andando, ci invita ad una severa riflessione, al di là di vecchie diatribe

Guardiamo bene in fondo alla domanda del «nuovo e giovane», che sta travolgendo il sistema tradizionale di rappresentanza partitica. Guardiamo in faccia ai leader che stanno emergendo. Si percepisce in essi un tono «presidenzialista» che non osa chiamarsi con questo nome, per un generalizzato impaccio della cultura istituzionale. E’ una voglia latente, confusa che non trova parole adatte. La bancarotta della vecchia classe politica ha portato via con sé anche i resti di una cultura politica che, pur dietro la cortina delle ideologie, conservava alcuni rudimenti di conoscenza istituzionale. 

Naturalmente adesso è evidentissimo il rischio che il presidenzialismo si riduca semplicisticamente alla voglia di un sistema più spiccio e trasparente di decidere e cambiare le cose. Questa del resto è stata la sensazione trasmessa da molti commentatori televisivi nostrani nel corso delle giornate della competizione presidenziale americana – in contrapposizione al penoso spettacolo offerto dalla politica italiana. Si dimentica così che l’esperienza americana è un esempio straordinario di come la decisionalità del Presidente si muova dentro ad un complesso di regole e di contropoteri che soltanto nel loro insieme creano il sistema-America. 

Non basta avere i numeri e una faccia vincente per essere legittimato a dettare le regole come piace e pare a chi ha prevalso nelle elezioni. Questa è la caricatura del presidenzialismo, che da noi è stata immaginata se non tentata da un certo berlusconismo. Il risultato è stato il discredito del presidenzialismo, con l’ azzeramento del faticoso dibattito in atto da decenni su questo tema – che aveva portato tra l’altro anche a valutare seriamente il rafforzamento dell’Esecutivo o il cosiddetto premierato. Tutto invano.

Poi inatteso è arrivato l’esperimento Monti che ha preso un po’ tutti alla sprovvista. Ora sembra essersi logorato ancora prima della sua scadenza programmata. Ma il premier, che pare già in procinto di congedarsi, con il suo invito ai politici di preoccuparsi dei contenuti e non della leadership, elude un problema-chiave che lascia irrisolto. 

Come potrà funzionare un Esecutivo se il prossimo Parlamento sarà frammentato, con consistenti partiti anti-sistema e azzoppato da un’alta percentuale di assenteismo alle urne? Le competenze personali dei politici sono vane se non contano su una struttura istituzionale solida. Solida per l’ampiezza di una rappresentanza parlamentare autorevolmente guidata (leadership). O solida per le prerogative decisionali dell’esecutivo. 

In realtà già semplicemente ipotizzare che in alternativa ad un forte sostegno parlamentare si debba prevedere un governo dotato di ampi spazi decisionali significa uscire definitivamente dalla Seconda Repubblica. Significa non chiudere gli occhi davanti ad una qualche ipotesi o variante presidenzialista. A ben vedere il governo di Mario Monti si è sottratto a questa alternativa soltanto grazie ad una situazione di emergenza irripetibile per le modalità e i tempi della sua realizzazione. La combinazione tra quella emergenza e la formula del «governo del Presidente» è irripetibile. A meno di istituzionalizzarla. 

Ma chi pensa ad un Monti/bis come ad una mera prosecuzione dell’esperienza fatta sin qui, si sbaglia. O Monti viene integrato a pieno titolo nel sistema dei partiti che usciranno dalle prossime elezioni - prospettiva da lui esclusa – oppure, se sarà richiamato in carica dal nuovo Presidente della Repubblica per affrontare una nuova crisi, dovrà essere sciolto il nodo del presidenzialismo all’italiana. 

Inutile dire che se Monti fosse eletto al Quirinale, muterebbero considerevolmente alcune variabili del gioco ma non la sua sostanza. 

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/la-via-del-presidenzialismo-5WxNMfkZLdokR1WiHJBbmN/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:43:09 pm »

Editoriali
12/12/2012

Anche Berlino nella campagna elettorale

Gian Enrico Rusconi

I tedeschi si devono rassegnare ad essere «coinvolti» nella campagna elettorale italiana. Tutto dipenderà dal modo, dallo stile, dalla validità degli argomenti usati. Da parte loro e da parte nostra. Dopo tutto l’opinione pubblica tedesca, i giornali grandi e piccoli, gli uomini politici tedeschi da oltre un anno (per tacere della lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi) hanno espresso sempre ad alta voce quello che pensavano del paese Italia, degli italiani e del loro governo. 

 

E non sempre in toni amichevoli. Sono stati prodighi di consigli, di raccomandazioni, di velate minacce. Si sono presentati spesso come modello da imitare, tout court, a prescindere dalle complesse differenze delle due società. In questo contesto, anche nella discussioni di merito (incisività delle riforme, riduzione del debito pubblico ecc.) si sono insinuati stereotipi negativi sugli italiani che sembravano essersi attenuati con il passare degli anni. 

 

Più complicato è l’atteggiamento da parte italiana. Anche qui inevitabilmente sono ricomparsi gli stereotipi verso la società tedesca – l’ambivalenza tra l’ammirazione per l’efficienza, la coerenza, la capacità di realizzazione dei tedeschi e l’irritazione per il tono talvolta rigido e supponente da essi usato. In questa sede non prendo neppure in considerazione le espressioni volgari, offensive rivolte alla persona della cancelliera, apparse su giornali di destra. 

 

Se si passa alla stampa seria, in Italia si è delineato verso la Germania un fronte di rispetto, per così dire, nei confronti delle sue posizioni. Rispetto accompagnato però dall’attesa di una maggiore elasticità e attenzione verso la difficile situazione italiana e in generale di altri Paesi in difficoltà ancora maggiori. Questa attesa è andata delusa. I tedeschi – i grandi giornali, la classe politica, la cancelliera – non hanno capito questa sottile delusione degli italiani. L’hanno fraintesa.

 

Gli italiani non si aspettavano «sconti» sottobanco, ma un comportamento più generoso da parte della grande Germania. In nome di quella Europa solidale, che era stato il cavallo di battaglia degli stessi tedeschi. Questa delusione è diventato un sentimento palpabile, che si involgarisce facilmente in populismo anti-tedesco. Come tale sarà usato a piene mani – ahimè – da chi sta cercando la sua rivincita politica. 

 

Tocca ai politici seri – italiani e tedeschi – saper distinguere il dissenso ragionato attorno ad alcuni atteggiamenti del governo tedesco dall’antitedeschismo a buon mercato. Anche se non sarà facile spiegarlo in campagna elettorale. Ma i politici hanno la loro responsabilità. Il successo di Mario Monti in Germania è stato straordinario (sino al grottesco di essere considerato senz’altro «tedesco», il che evidentemente per loro è il massimo complimento), guadagnandosi la stima personale della cancelliera. Paradossalmente questo oggi può diventare un handicap.

 

In realtà il nostro presidente del Consiglio, nel suo stile riservato, non ha mancato di insistere anche a Berlino per una maggiore elasticità della politica tedesca, appoggiandosi per l’occasione ad altri partner europei. Ma non mi pare che abbia raggiunto il suo scopo. L’abile cancelliera Merkel sembra ottenere quello che vuole, conservando la sua immagine (elettoralmente redditizia) di donna forte d’Europa. Ora sembra preoccupata per ciò che può accadere in Italia. 

 

Se il clima politico dovesse incattivirsi proprio attorno ad una nuova «questione tedesca», tocca a Mario Monti esporsi per chiarire con forza la posizione dell’Italia. Ha gli argomenti di competenza, non soltanto per difendere eventualmente la sua stessa azione politica dall’accusa di sudditanza ai diktat di Berlino, ma per chiarire l’intera questione davanti all’opinione pubblica più consapevole.

 

I prossimi mesi offriranno la prova della maturità reciproca delle opinioni pubbliche italiane e tedesca, del giornalismo più influente e soprattutto della classe politica dei due Paesi. 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/12/cultura/opinioni/editoriali/anche-berlino-nella-campagna-elettorale-Wlw4gijUUcYmU1SyPanTAJ/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:42:47 am »

Editoriali
04/01/2013

Il cambio di marcia del Professore

Gian Enrico Rusconi

Monti ha una gran fretta e soprattutto una gran voglia di polemizzare. Ha imparato perfettamente la lezione della comunicazione mediatica: non c’è nulla di «moderato» nella sua strategia comunicativa. Al contrario, è piuttosto pungente. Nel migliore dei casi è temperata dall’ironia, ma questa non funziona sempre . Se poi si crea l’impressione di «tutti contro Monti» e viceversa, l’effetto potrebbe essere controproducente per l’interessato. 

Dopo aver preso in contropiede i suoi grandi mentori, che lo invitavano a mettersi pazientemente «a disposizione della Repubblica», il professore si è buttato nella mischia in prima persona per realizzare la seconda fase del suo governo («ridurre l’imposizione fiscale sul lavoro e insieme la spesa pubblica»; «l’obiettivo d’ora in poi sarà la crescita») . Per fare questo esige una «maggioranza larga» che prenda il posto della «maggioranza strana» del suo precedente governo tecnico. Ma deve essere una maggioranza docile, di supporto parlamentare. Il professore infatti si sente autosufficiente con la sua Agenda. «Scendo in campo non schierandomi pro o contro singoli partiti ma per difendere fortemente determinate idee». «Dove sto? Sto con le riforme» – replica a Bersani che lui percepisce come il suo vero avversario.

Monti non spende molte parole a lamentare la mancata riforma elettorale o altre benefiche modifiche istituzionali. Accetta la politica italiana così com’è. Certo, promette «la riduzione del numero dei parlamentari, la semplificazione del processo legislativo e l’organizzazione territoriale dello Stato»; si spinge ad affermare che «serve una legislatura costituente». Ma poi dice senza mezzi termini: «ciò che c’è da fare non è nuovo; ciò che è mancato è lo spirito e la volontà coesa per farlo». In breve, la discriminante non è data dallo schieramento ideologico dei partiti tradizionali ma tra chi vuol cambiare il Paese con le riforme da lui proposte e chi vi si oppone. E lui vede gli uni e gli altri presenti in tutti gli schieramenti. 

Da qui la sua ambizione di sgretolare o di addomesticare il sistema partitico esistente. Ma questa tattica ha prospettive di successo? L’operazione ideologicamente semplificatrice («non c’è più né destra né sinistra», «i veri conservatori sono i sedicenti progressisti» ecc.) farà breccia tra la massa degli incerti e degli astensionisti? Nelle prossime settimane assisteremo all’accavallarsi di sondaggi dai risultati molto incerti. Ma Monti sembra deciso ad andare sino in fondo. 

Intanto però nelle sue prime uscite mediatiche si è mostrato elusivo sul tema dei diritti e delle libertà civili. Gli è stato puntualmente rimproverato con argomenti forti e pacati da Vladimiro Zagrebelsky sul nostro giornale e da Stefano Rodotà su «Repubblica» – per citare soltanto due autorevoli commentatori. Sono certo che a questa reticenza il professore provvederà quanto prima, citando qualche passo dell’Agenda, dove si possono leggere alcune affermazioni di principio molto generali. Ma dall’offensiva mediatica di questi giorni si ricava l’impressione che l’urgenza delle misure economiche declassi la questione dei diritti e delle libertà civili a semplice variabile dipendente. Non intendo affatto attribuire a Monti un residuo di vetero-economicismo che mette le «strutture» prima delle «sovrastrutture». Ma non capisco come si possono invitare i cittadini ad un salto di qualità civile, ad nuovo senso del bene comune, se con questo concetto si intendono soltanto grandezze economiche, sia pure legate alle questioni vitali del lavoro, dimenticando altre dimensioni del vivere civile che toccano milioni di cittadini. 

E’ legittimo quindi chiedere all’aspirante premier Monti che cosa pensa dei problemi ancora aperti nel nostro Paese in tema di diritti civili: il riconoscimento delle unioni familiari senza matrimonio, eterosessuali o omosessuali, il cosiddetto testamento biologico, o il riconoscimento della cittadinanza ai figli di migranti nati e cresciuti in Italia (per fare soltanto qualche esempio).

Il fatto di non essersi – ancora - pronunciato espressamente in merito è del tutto contingente? Oppure è un segnale di intesa con una parte cospicua dei suoi sostenitori che considerano fuori luogo una sua presa di posizione, anzi una «uscita fuori dal campo» tacitamente riservatogli, come contropartita al sostegno alla sua politica. 

Detto in termini espliciti, la questione dei diritti civili è un terreno minato per un possibile governo Monti, sinché appare tanto dipendente dal mondo cattolico, sia esso organizzato in forma partitica o di movimento. Certo, sappiamo che il mondo cattolico è molto variegato, ha sensibilità e ragionevolezze diverse, ma a livello di discorso pubblico e politico la voce che conta sui temi sopra evocati è soltanto quella della gerarchia e della sue agenzie mediatiche. Deve quindi essere un incubo per un possibile governo Monti la prospettiva di finire nella tagliola dei «valori non negoziabili» - una formula cara alla gerarchia cattolica che mette sullo stesso piano problemi etici molto differenti, che dovrebbero essere trattati in modo differente. Ho il sospetto invece che il professore – qualunque siano le sue convinzioni personali - non voglia entrare in questo tipo di dibattito. 

Che ne è allora del riferimento all’Europa come modello che è sempre sulle sue labbra? Monti dovrebbe sapere quanto è progredita l’Europa – pur nelle sue differenze – proprio sulla tematica dei diritti civili, a prescindere dai parametri economico-finanziari da lui sempre evocati. Forse è il caso che ci rifletta.

da - http://lastampa.it/2013/01/04/cultura/opinioni/editoriali/il-cambio-di-marcia-del-professore-wjl0zrXepYddGn4S3PSyAK/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Febbraio 12, 2013, 06:44:35 pm »

Editoriali
12/02/2013

Teologia laica la rivoluzione di Benedetto

Gian Enrico Rusconi


La prima reazione davanti al gesto di Benedetto XVI è stato lo stupore per la sua eccezionalità. Eppure – a pensarci bene – è un po’ un paradosso. La vera notizia infatti è che il Pontefice ha deciso di comportarsi come una persona «normale». Ha detto con semplicità e fermezza che è vecchio e malandato e quindi non si sente più in grado di reggere il governo della Chie sa. 

 

Certo, lo ha detto nella lingua consona alle circostanze – in latino - con quel intenso ingravescente aetate che nessun’altra lingua volgare saprebbe dire. 

 

Il gesto diventa eccezionale dal punto vista del costume ecclesiale. Il «fulmine a ciel sereno» (che ha colpito per primo il card. Sodano) dopo lo smarrimento di queste ore, provocherà reazioni imprevedibili ma di segno profondo. Quello che è accaduto ieri infatti non sarà innocuo per il futuro comportamento degli uomini di Chiesa. E dà una nuova statura inattesa allo stesso Pontefice dimissionario . 

 

Non mi è chiaro quale traccia lascerà Ratzinger nel mondo cattolico (italiano innanzitutto) che lo ha trattato con grande deferenza ma con poco trasporto. Soprattutto se paragonato al suo predecessore, Papa Wojtyla. Ma ora, come non fare un confronto con il modo con cui quel Pontefice ha gestito la sua malattia finale sacralizzandola per così dire pubblicamente davanti agli occhi del mondo? L’opposto di Benedetto XVI. 

Papa Ratzinger infatti ha un po’ desacralizzato, laicizzato la funzione pontificale. Con la sua decisione di dimettersi dice che non c’è nessuna particolare protezione dello Spirito Santo che può garantire la saldezza mentale e psicologica del Vicario di Cristo in terra, quando è insidiata dalla vecchiaia o dalla malattia. E’ una sottile rivoluzione di teologia laica che viene da un uomo che aveva incominciato il suo pontificato sotto il segno della «razionalità della fede». 

 

La singolare e controversa prolusione di Ratisbona del settembre 2006 aveva evocato, magari con qualche passaggio maldestro, temi complessi ma cruciali quali l’islam, l’ellenizzazione del cristianesimo, la razionalità della fede. Aveva fatto sperare in una nuova stagione intellettualmente alta del rapporto tra fede e ragione. Presto invece il discorso si è inceppato, risucchiato e travolto dalle operazioni pubblicistiche a tratti neo-trionfalistiche sul «ritorno della religione» (qualunque cosa volesse dire). O viceversa con richiami ultrapessimistici sul laicismo, sul relativismo, sul nichilismo. Sopra tutto l’enfasi dei «valori non negoziabili» che ha bloccato di fatto sul nascere il confronto e il colloquio con i laici sui punti cruciali di natura, famiglia, bioetica. 

 

Queste sono le questioni sulle quali oggi tutti – laici e non - se sono intellettualmente onesti, devono confessare di avere più dubbi che certezze. Ma invece di essere i problemi sui quali si può discutere con maggiore reciproca attenzione, su di essi vengono branditi come randelli ideologico i «valori non negoziabili». 

Non so sino a che punto Papa Ratzinger sia imputabile direttamente di tutto questo. Personalmente ho avuto l’impressione che inizialmente avesse la giusta ambizione di ridare una nuova forte dimensione intellettuale a comportamenti religiosi sempre più poveri di sostanza teologica, inclini ad atteggiamenti anti-intellettuali, sentimentali, emotivi - magari contrabbandati come «spiritualità». Ma poi si è perso per strada. 

 

Per concludere, vorrei attirare l’attenzione su un punto che nel nostro Paese non è stato colto con la dovuta rilevanza e drammaticità come in altre parti del mondo. Mi riferisco alla ferma e intransigente condanna della pedofilia nella Chiesa. Nel nostro Paese, anche negli ambienti religiosi si sono naturalmente condannati quei crimini (o peccati). Ma talvolta con una malintesa disponibilità alla comprensione (e perdono) evitando e temendo soprattutto la loro pubblicità. Spesso c’erano buone ragioni per farlo, ma altrettanto spesso è prevalsa un’ambigua visione della sessualità. Una indiscriminata concezione negativa del sesso non sa più distinguere tra intemperanza, trasgressione e vera e propria patologia che nel caso della pedofilia diventa criminalità. Qui si inserisce un secondo elemento negativo: l’idea che nel caso dell’uomo di Chiesa il suo peccato/crimine possa essere assolto ed espiato tra confessionale, sagrestia e arcivescovado. No. Qui entra in gioco (oltre e attraverso la famiglia direttamente coinvolta) la società, lo Stato nella pienezza dei suoi diritti di indagine e delle sue leggi. La questione della pedofilia ha messo in chiaro questo nesso. Ha ridato il primato alla legge, alla società, allo Stato. Ed è stato merito degli interventi energici di Ratzinger far capire tutto questo ad ambienti clericali chiusi, gelosi della propria giurisdizione morale. Anche questo è stato un atto di laicità, di teologia laica. 

Il gesto di ieri di Ratzinger getta in definitiva una luce nuova sulla sua problematica personalità sulla quale forse in futuro dovremo tornare.

Da - http://lastampa.it/2013/02/12/cultura/opinioni/editoriali/teologia-laica-la-rivoluzione-di-benedetto-LNZgVUys4LFi0Snc8IYqBK/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Marzo 29, 2013, 11:55:13 am »

Editoriali
29/03/2013

Antidoto alla politica annichilita

Gian Enrico Rusconi

In altre situazioni storiche si sarebbe potuto temere una qualche forma di violenza fisica manifesta. Oggi non è necessaria: basta quella verbale, simbolica, mediatica. L’effetto è identico: l’annichilimento della politica. 

 

E la subordinazione delle sue istituzioni a questa nuova logica. Grillo può dare lezioni costituzionali affermando che il Parlamento funziona - bontà sua – anche senza governo. 

 

Sullo sfondo l’unico meccanismo istituzionale che sembra rimanere integro è quello delle elezioni. Ma stanno diventando motivo di attese irrazionali e di altrettanto irrazionali paure. Molti sostengono che le nuove elezioni non cambieranno nulla o daranno «tutto il potere» a chi lo userebbe per affossare il funzionamento del sistema democratico esistente, dichiarato irriformabile. 

 

Ma chi dice che l’esito delle elezioni debba essere questo? Perché? I futuri elettori per ora sono ammutoliti. Possiamo fare soltanto illazioni. 

 

Dalle informazioni del circuito mediatico, incollato sulla politica del giorno per giorno e cassa di risonanza dell’aggressione verbale e del turpiloquio, non si capisce quello che pensano veramente gli italiani. L’apparato mediatico, intimidito, nasconde anziché aiutare a capire come si comporteranno i cittadini se saranno chiamati alle urne.

 

I sondaggi, da quando sono diventati parte integrante del circuito politico-mediatico, hanno perso ogni credibilità. 

 

Il rumore mediatico del M5S ottiene l’effetto opposto di quello che pretende di avere. Lungi dal far parlare la gente e «il popolo», dà la parola esclusiva ad una ristretta schiera di neofiti della politica che in modo monopolistico azzera ogni pensiero che si presenta alternativo alla volontà di «punire e controllare». O alle lezioni costituzionali di Grillo. Intanto però, in attesa di avere il potere in esclusiva, i capi del M5S si sottraggono ad ogni responsabilità politica. 

 

Non credo affatto che questo modo di comportarsi sia considerato dai cittadini elettori come una rivoluzione democratica. O come il massimo di coerenza democratica. Lo stesso vale per la presunzione del M5S di essere il movimento politico più trasparente. E’ ridicolo presentare l’incontro in diretta streaming tra Bersani e gli esponenti M5S come il vertice della trasparenza democratica. Quanti e quali cittadini normali vi hanno assistito? O avrebbero potuto assistervi? Si è trattato di un’operazione ad uso e consumo interno al M5S e per gli addetti ai lavori (giornalisti e nomenclature partitiche). I cittadini normali, l’altra mattina, avevano ben altro da fare o a cui pensare. L’unico risultato è stata la monopolizzazione di fatto della comunicazione pubblica politica da parte dei Cinque stelle. Ma siamo sicuri che questo piaccia ai cittadini elettori? 

 

C’è un solo modo di saperlo: andare a votare. Contrariamente all’opinione che sembra prevalente, credo che il M5S abbia già fatto il pieno dei suoi voti. La strategia del «punire e controllare» senza assumersi responsabilità di governo non può bastare ad una società, sia pure arrabbiata come la nostra. Né tanto meno è attraente la prospettiva di una inedita democrazia totalitaria via web. 

 

Per fermarla, ridimensionarla o riconvertirla c’è rimasto ormai un solo modo: le elezioni. 

 

Su questo punto non è chiaro il vero atteggiamento degli altri partiti. Il Pdl si trincera dietro la nuova sicurezza di Berlusconi che si muove imperterrito nella logica dello scambio politico in un sistema istituzionale irrigidito dalla paura. Può darsi che ancora una volta il Cavaliere abbia ragione nel suo istinto di poter raccogliere il consenso di una parte significativa di elettori «conservatori» nel senso letterale, che non vuole pericolose novità di nessun genere. E si aggrappa al Cavaliere, di cui conosce vizi e qualità. Che l’Europa rimanga di stucco davanti ad una possibile rimonta di Berlusconi non importa un bel niente a nessuno. Anzi peggio per l’Europa, la cui immagine ha toccato nell’opinione pubblica livelli di sfiducia e disistima inimmaginabili alcuni anni fa. 

 

La meteora Mario Monti ne è stato l’ultimo segno. Maldestro e ambizioso, il professore chiude la sua stagione in termini così negativi quali nessuno poteva prevedere quattro mesi or sono. 

 

Rimane il Pd. In questo momento sembra identificarsi con la personalità tenace e aperta, pur nel suo linguaggio legnoso, di Pier Luigi Bersani. Ma sappiamo che questa identificazione è solo apparente. Mai il Pd è stato tanto intimamente diviso e in modo così cattivo. Lo si vedrà nei prossimi giorni. 

 

Ma rimaniamo nell’ottica del linguaggio e della comunicazione politica pubblica. L’ostinato e generoso tentativo di Bersani di aprire un dialogo con il M5S gli ha fatto sopportare contumelie che sarebbero insopportabili in un Paese politicamente decente. Ma l’incomunicabilità del linguaggio nasconde un problema che va oltre l’ostilità del M5S verso il Pd, perché tocca le difficoltà della sinistra come tale. 

 

Il freno più profondo nel Pd ad accettare una nuova sfida elettorale è l’oscura sensazione della propria carenza comunicativa – non dei propri valori. Con quale linguaggio pubblico il Pd potrà ripresentarsi davanti agli elettori per rimontare o compensare l’effetto M5S, con il quale vanamente cerca di dialogare? Lo strano fenomeno Renzi forse ha tempestivamente rivelato e insieme nascosto questo problema. E’ inevitabile che una nuova prova elettorale debba mettere in campo questa enigmatica figura di politico presente-assente. Ma non si tratta semplicemente di una persona bensì di una nuova strategia comunicativa che affronti di petto l’annichilimento della politica, da cui sono partite queste riflessioni. 

da - http://lastampa.it/2013/03/29/cultura/opinioni/editoriali/antidoto-alla-politica-annichilita-yihJC5c0L6n1MeeIhL3qoI/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:46:17 pm »

EDITORIALI
25/04/2013

La via italiana alle riforme istituzionali

GIAN ENRICO RUSCONI

Il Presidente della Repubblica «accresce la concreta influenza dei suoi moniti e delle sue indicazioni sui partiti; rende gli stessi partiti più disponibili ad accettare le sue proposte di sblocco delle situazioni di stallo; può portare ad un parziale supporto della sua autorità per governi che nascono su maggioranze non del tutto convinte». Sembrano parole tagliate su misura sull’iniziativa del Presidente Napolitano, anche in occasione della scelta dell’ipotetico governo Letta. Invece si trovano scritte in un articolo di «Mondoperaio» del 1982, intitolato Eleggere il Presidente, firmato da Giuliano Amato, che perorava il semipresidenzialismo (quando Matteo Renzi andava ancora alle scuole elementari).
 
Naturalmente l’Amato di allora va contestualizzato nel controverso dibattito della sinistra di quegli anni (anche sotto «l’effetto Pertini») quando i partiti contavano non soltanto per la loro impotenza. Oggi alla complessità del discorso istituzionale sul presidenzialismo si contrappone la disarmante sinteticità di Matteo Renzi, che lo definisce semplicemente l’elezione del «sindaco d’Italia».
È un’immagine efficace in stile con il personaggio. Ma soprattutto è il segnale che il tema del presidenzialismo (nelle sue varianti) non è più tabù. Se ne può discutere ad alta voce, senza essere sospettati di volere un qualche bavaglio antidemocratico. 
 
Affrontando la questione del presidenzialismo o più propriamente di semipresidenzialismo (alla francese, per intenderci), ci si rende subito conto che il vero problema è l’associazione immediata che si fa tra l’istituzione e la persona che dovrà svolgerla. 
È una pura finzione accademica affermare che prima occorre modificare la Costituzione e poi si sceglierà la persona adatta. Questo può accadere forse in una fase costituente, all’indomani di un evento politico di carattere radicale - come fu al tempo della stesura della nostra Costituzione nel 1947/8, nel cui ambito si discusse anche l’ipotesi presidenziale. Quando invece si tratta di passare da una forma democratica, già collaudata ma rivelatasi inefficiente, ad un’altra forma - dal parlamentarismo puro ad uno corretto in senso presidenziale - la persona cui si pensa concretamente diventa il fattore decisivo. Fuori da ogni finzione: si accetta l’istituto del semipresidenzialismo, pensando già al possibile detentore. 
 
Il caso storico che viene subito in mente è quello di Charles De Gaulle fondatore della Quinta Repubblica. Mettiamo tra parentesi l’eccezionalità e la specificità di quella drammatica pagina storica della Francia e stiamo al nocciolo del ragionamento: siamo davanti ad un sistema democratico arrivato al collasso, che si riforma combinando felicemente una modifica costituzionale con una personalità, ritenuta democraticamente affidabile. 
Naturalmente può succedere anche l’opposto: proprio la persona che promuove l’istituzione presidenziale può innescarne il rifiuto. È la reazione di molti italiani davanti alle proposte presidenzialiste di Silvio Berlusconi. Questo vuol dire che oggi la ripresa pubblica della discussione su questo tema è un’apertura al berlusconismo? No. 
 
La questione è più complicata ma insieme facilitata dall’esperienza del «governo del presidente» dello scorso anno voluto da Napolitano. Tramite tale esperienza - o meglio tramite la riflessione su di essa - si delinea forse la via italiana al semipresidenzialismo. O, detto in modo più prudente, verso un correttivo presidenziale del parlamentarismo. 
Giorgio Napolitano ha svolto oggettivamente questo ruolo e potrebbe/dovrebbe continuare a svolgerlo ancora per il tempo in cui intende esercitare il suo nuovo mandato. Senza incarnare formalmente la funzione semipresidenziale infatti ha combinato le caratteristiche tratteggiate sopra da Amato. Credo che abbia innescato un processo irreversibile, che va percorso con prudenza ma con determinazione. 
 
Il governo che sta per nascere ha davanti a sé compiti concreti immensi. Non avrà né tempo né opportunità di porsi questioni di ordine istituzionale - salvo l’urgente riforma elettorale. Eppure di fronte a molti problemi diventerà decisiva la sua competenza decisionale. Ce la farà da solo? O dovrà in qualche modo contare - ancora una volta - sull’autorevolezza del Quirinale? 
Non sono problemi accademici, ma politici di prima grandezza. È urgente che si riapra una riflessione e un confronto di carattere istituzionale radicale sulla riforma del sistema politico, andando sino in fondo alla questione del semipresidenzialismo.

da - http://www.lastampa.it/2013/04/25/cultura/opinioni/editoriali/la-via-italiana-alle-riforme-istituzionali-7gmL34GBlwpCt8wVIJ07dM/pagina.html
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