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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 57489 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Ottobre 06, 2011, 09:23:24 am »

6/10/2011

Attendismo il malessere italiano

GIAN ENRICO RUSCONI

Nelle prossime elezioni - quando mai ci saranno - avranno un ruolo decisivo non i cittadini «indignati» o quelli che si mobilitano per il referendum, ma quelli che oggi sono attendisti. I cittadini cioè che senza apparente clamore si stanno estraniando dalla politica. Spettatori passivi del frenetico circuito politico-mediatico quotidiano cui assistono straniti.

Se questi cittadini si asterranno in massa al prossimo appuntamento elettorale, se faranno lo sciopero del voto, altereranno di fatto il valore di qualunque risultato elettorale. Non daranno soltanto uno schiaffo all’attuale classe politica, ma manderanno un segnale di sfiducia per la nostra democrazia.

Chi sono oggi gli attendisti? Ce ne sono di due tipi. La maggioranza è rappresentata da chi ha votato per anni Berlusconi e la sua maggioranza, ed ora ne è deluso. Le ragioni di questa delusione possono essere diverse.

Non è detto che tutti siano convinti che esista un nesso tra la paralisi della iniziativa di governo, la sua perdita di credibilità e l’indecoroso comportamento privato del premier che ha fatto precipitare la sua immagine pubblica a livello internazionale in modo irrecuperabile. Coinvolgendo -disastrosamente l’immagine dell’Italia come tale.

E' probabile che nell’area dei cattolici, che sin qui hanno sostenuto il berlusconismo per le opportunità che questo ha generosamente loro offerto, la motivazione per il futuro astensionismo sia di ordine morale e ideale. Ma c’è anche la delusione per l’oggettiva incapacità del governo di reagire efficacemente al drammatico peggioramento della condizione di vita di milioni di famiglie. Ragioni strettamente economiche invece motiveranno il possibile astensionismo dei piccoli e medi settori produttivi per le «promesse non mantenute».

In ogni caso è importante sottolineare che il disinganno per il berlusconismo non è automaticamente uno spostamento di consenso verso le forze dell’opposizione, tantomeno verso quelle di sinistra. Si crea piuttosto uno stato di incertezza che evoca confusamente nuove soluzioni politiche «terze» ancora indeterminate: basti pensare all’agitazione inconcludente cui hanno portato le parole del card. Bagnasco settimane fa. E’ ovvio infatti che in questa situazione i cittadini delusi dal centro-destra si collochino per il momento in una posizione di attesa. Ecco l'attendismo.

Ma qualcosa di analogo (anche se verosimilmente in termini aritmetici meno pesanti) accade in chi aveva precedentemente votato per il Partito democratico e ora si trova davanti una formazione litigiosa e sostanzialmente priva di leadership. Il partito non riesce ad enunciare e a comunicare in modo convincente quale tipo di grande strategia politica intende perseguire, una volta al governo .

La straordinaria capacità di mobilitazione che si registra nell’area anti-berlusconiana investe i grandi temi della democrazia e della partecipazione dei cittadini, ma non può surrogare la competenza e la capacità di proporre una nuova grande strategia politico-economica. Lo stesso vale per la richiesta referendaria del cambiamento del meccanismo elettorale. Da una più giusta ed efficiente legge elettorale non uscirà automaticamente, quasi d’incanto, una nuova politica. Per questo occorrerà sempre una forte competente autorevole leadership politica, che non si vede da nessuna parte. In compenso in molti settori del centro-sinistra ci si irrita solo a sentir parlare di leadership.

Per tutte queste ragioni l’attendismo non è ancora la fine del berlusconismo. Anzi è probabile che il Cavaliere giocherà di nuovo le sue carte. Con il suo stile: grandi promesse per «la crescita», qualche iniziativa oggettivamente modesta ma mediaticamente gonfiata, e soprattutto un attacco a testa bassa contro gli avversari (opposizione politica, stampa nazionale e internazionale, magistratura e magari il Colle). Su di essi scaricherà l’accusa di denigrare il governo e di bloccarne l’efficienza. Questa operazione ha funzionato altre volte - pensa il Cavaliere - perché non dovrebbe funzionare ancora, sin tanto che attorno a lui fa quadrato la sua maggioranza? Soprattutto se milioni di cittadini staranno a guardare rassegnati? Ecco perché l’attendismo è un segnale di sfiducia che mina la nostra democrazia come tale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9288
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« Risposta #76 inserito:: Ottobre 17, 2011, 09:29:22 am »

17/10/2011

Lo snodo tra politica e antipolitica

GIAN ENRICO RUSCONI

Perché succede solo qui?», «Perché anche oggi ci tocca vergognarci?», si chiedeva ieri il direttore di questo giornale commentando le violenze di Roma confrontandole con le manifestazioni pacifiche degli «indignati» del mondo intero. Manca «un pensiero costruttivo» - continuava -, riferendosi non solo all'evidente impotenza delle classi dirigenti, ma anche all’incapacità del discorso pubblico e giornalistico di offrire accanto alle diagnosi critiche (spesso catastrofistiche) prospettive positive. Prospettive che non ricalchino le inconsistenti assicurazioni governative.

C'è insomma incapacità di trasmettere - ai giovani innanzitutto - se non ottimismo, quantomeno una sobria certezza che il nostro Paese ha risorse e strumenti per farcela. Non sfasciando le banche, ad esempio, ma riportandole al loro ruolo economico corretto.

Ma per fare questo ci vuole una politica intelligente, forte e coraggiosa.

Una politica che può contare sul consenso di chi pur sentendosi tartassato o addirittura «privato del futuro», è disposto ad affrontare una fase dura di passaggio, perché ha fiducia nel progetto di chi lo dirige. Questo significa «partecipare» in una democrazia rappresentativa.

Democrazia rappresentativa? Fiducia nella classe dirigente? Consenso? Politica? Sono parole diventate incomprensibili, impronunciabili per un'intera generazione. Eppure questa generazione, rimobilitandosi, azzerando il consenso politico convenzionale, incomincia a suo modo a fare politica da capo senza nessuna delle ideologie tradizionali (avendo inconsciamente forse soltanto quella di «democrazia diretta»).

Come si è arrivati a questa estraneazione tra il linguaggio dei giovani in piazza e quello della politica convenzionale che risuona, stonata, sulla bocca di qualche politico che sta dalla loro parte? C'è un qualche nesso tra l'estraneazione dei linguaggi pubblici e la violenza distruttiva comparsa nei momenti più intensi della mobilitazione? Proprio nei momenti della polemica reinvenzione della partecipazione politica? Come spiegare questa violenza, oltre che condannarla senza esitazione?

Si obietterà che la violenza urbana si è manifestata in modo clamoroso in molte altre parti d'Europa ancora recentemente. A Londra alcuni mesi fa, nelle banlieues di Parigi anni orsono o ancora in modo meno esteso in alcuni Paesi nordici. Ieri da noi il pensiero è corso subito a quanto è accaduto Genova in occasione del G8 di qualche anno fa. Un episodio che non a caso è rimasto profondamente impresso nella memoria collettiva.

Ma la situazione che si è creata recentemente con i cosiddetti «indignati» presenta alcune novità. Innanzitutto come forma di mobilitazione non nasce in Italia quasi all'improvviso, come in altre parti del mondo. Nei mesi scorsi ci sono state le imponenti manifestazioni delle donne, dei sindacati, di altri gruppi di mobilitazione civile. Lo si riconosca o no, c'è una continuità oggettiva, un allargamento della mobilitazione a partire da parole d'ordine specifiche che alla fine convergono nella contestazione della politica dei governi in generale e del governo italiano in particolare. In alcuni casi questa contestazione è esplicita e puntuale, in altri assume tratti più generali. Ma non si può negare che la manifestazione romana avesse in sé oggettivamente un potenziale politico più netto e mirato che non quella a New York o altrove.

Qui si inserisce la violenza organizzata dei black bloc. Che avessero o no programmato i loro atti vandalici, essi sapevano che a Roma potevano agire come a Genova. Potevano introdurre nella manifestazione una componente che le avrebbe fatto cambiare natura. Venivano «dal di fuori» (non necessariamente da fuori Italia), ma certamente da «fuori dal movimento», eppure erano in grado di condizionarlo. Non c'è bisogno di ipotizzare complotti. Si sono comportati d'istinto come criminali politici che giocano sulla fragilità della fase di incertezza che sta attraversando il Paese e quindi sui potenziali ambivalenti di rinnovamento e di regressione che portano in sé i nuovi movimenti. E' sin troppo facile denunciare i black bloc come corpi estranei ed ostili alla società civile. Ma alla loro maniera delinquente segnalano uno snodo cruciale che il nostro Paese sta attraversando tra politica, antipolitica e prepolitica.

Davanti ad una classe politica estenuata e logorata, come antidoto molti guardano alle risorse alternative che potrebbero provenire dalla «prepolitica» - un concetto che si sta diffondendo quasi a surrogare l'abusata espressione di «società civile». In questo contesto per singolare coincidenza oggi a Todi c'è un importante incontro di responsabili di associazioni cattoliche che programmaticamente si collocano tra politica e prepolitica. In questi anni abbiamo visto un mondo cattolico diviso. Una sua parte significativa è stata sedotta, ricattata, resa complice (tramite i suoi rappresentanti tuttora ben istallati nel sistema berlusconiano) dalla politica che oggi boccheggia. Adesso qualcosa si muove. Le attese sono molte, forse esagerate. Ma sullo sfondo di una Roma vandalizzata va mobilitata ogni risorsa

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9329
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« Risposta #77 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:18:49 pm »

27/10/2011

Un'Italia a sovranità autolimitata

GIAN ENRICO RUSCONI

Dove è finita la sovranità in Europa? Dov’è la sede della legittimità decisionale, della competenza, della effettiva capacità risolutiva? Al momento sembra dividersi tra Bruxelles, Francoforte e Berlino. In modo non trasparente.

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». Questa perentoria sentenza è stata coniata da uno dei più controversi giuristi e politologi del secolo scorso, Carl Schmitt, con il sottinteso che le democrazie liberali non sanno decidere in casi di seria emergenza. Che cosa direbbe oggi il politologo tedesco? Identificherebbe oggi uno «stato d’eccezione» in Europa? In questa Europa diventata insicura nei suoi apparati istituzionali, dov’è la sovranità?

A Berlino e a Roma si possono sentire risposte molto diverse. Cito Berlino e Roma perché mai come oggi si trovano agli antipodi. I tedeschi tengono ben ferma la loro sovranità nazionale e la fanno valere anche se è parzialmente limitata all’interno della istituzione europea.

Lo ha confermato ieri il Bundestag, ascoltando con attenzione la relazione della cancelliera Angela Merkel e approvandone la linea politica con una maggioranza assoluta, non a caso chiamata «maggioranza del cancelliere». Ne esce premiata la strategia della Merkel di duttile fermezza nella restaurazione dell’ordine monetario nell’Unione europea. «La Germania è uscita dalla crisi più forte di quando ne è entrata e anche l’Europa deve uscirne più forte». Adesso «l’Europa deve diventare una unione di stabilità».

Il dibattito di Berlino ha confermata anche l’autorevolezza del Parlamento tedesco che non intende delegare in bianco al governo le decisioni cruciali di queste ore. Anche se non mancano forti critiche alle litigiosità interne della coalizione di governo. Il risultato è una singolare combinazione di prestigio personale della cancelliera, pur nella debolezza della sua coalizione, e di cauta disponibilità di tutte le forze parlamentari a collaborare ad un comune obiettivo.

Questo obiettivo è chiaro: la Germania si fa carico di far uscire l’Unione europea dalla crisi attuale a condizione che la politica monetaria e finanziaria degli Stati membri si rimodelli secondo criteri e norme che sono promosse sostanzialmente dalla Germania stessa. Angela Merkel interpreta perfettamente questa strategia che è insieme di intransigenza e di opera di convincimento, di attesa e di azione di logoramento. E’ la nuova formula dell’egemonia tedesca.

Per il suo peso oggettivo, economico e politico, la Germania ha una posizione decisiva in Europa. E’ di fatto la nazione egemone dell’Unione anche se cautelativamente e dimostrativamente si appoggia alla Francia dando informalmente vita al cosiddetto «direttorio». Ma è interessante notare come la classe dirigente tedesca prediliga una strategia di modifica dello status quo che si muove per linee interne. E’ vero che sempre più insistentemente parla della necessità di modificare i trattati. Ma lo fa senza toni ultimativi - almeno sino ad ora. Sembra proseguire la strategia gradualista, incrementale e funzionalista che ha caratterizzato le fasi storiche della costruzione europea.

Ma questa linea è davvero ancora possibile oggi? O è diventata una finzione che non risponde più alla realtà? Ritorna in gioco la questione della sovranità. La Germania può realizzare la sua strategia solo a fronte di una riduzione delle competenze dei singoli Stati in tema di politiche economiche e fiscali. Questo fatto segna un’ulteriore sostanziosa limitazione della loro sovranità economica e fiscale rispetto ai trattati originari. La politica degli Stati membri sarà monitorata da organismi superiori (forse dalla stessa Banca europea) che seguiranno criteri certamente condivisi, ma di fatto graditi alla Germania, e sarà sotto la minaccia di severe sanzioni. In questo modo la Germania si trova riconfermata nella propria piena sovranità, nel momento in cui altre nazioni ne soffrono. Inutile dire che questa situazione suscita resistenze in molti Stati membri. Ma è soltanto a questa condizione che la Germania accetta di accollarsi costi supplementari per salvare insieme con la moneta unica l’intera costruzione europea.

In questo contesto l’Italia si trova in una posizione particolarmente difficile. La nostra Carta costituzionale è chiara: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In concreto: la esercita tramite il Parlamento. Il Parlamento italiano nel passato ha già acconsentito in nome dell’Europa o di altre cooperazioni internazionali a forme di riduzione di sovranità. Lo ha ricordato ancora ieri a Bruges il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: «Da 60 anni abbiamo scelto - secondo l’articolo 11 della Costituzione e traendone grandissimi benefici - di accettare limitazioni alla nostra sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati: e lo abbiamo fatto per costruire un’Europa unita, delegando le istituzioni della Comunità e quindi dell’Unione a parlare a nome dei governi e dei popoli europei».

Questa volta la situazione presenta aspetti assai più drammatici che nel passato, con la lettera pressante della Banca europea, con le richieste urgenti della Commissione di Bruxelles, con le pressioni più o meno amichevoli dei partner europei. Anche se non è lo schmittiano «caso d’eccezione», è un momento che richiede di mettere in campo tutta la nostra decisionalità sovrana. Il vero punto critico quindi non è «la fucilata» della Banca europea al governo o le angherie «dei tedeschi» - come dice il populismo leghista - ma la paralisi del Parlamento e l’impotenza della politica. Solo un soprassalto di coraggio e di nuova mentalità politica potrà farci riguadagnare la sovranità nazionale da condividere con gli altri popoli europei.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9371
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« Risposta #78 inserito:: Novembre 19, 2011, 12:06:42 pm »

19/11/2011

L'incognita del consenso contrattato

GIAN ENRICO RUSCONI

Davanti ad una Camera ben disposta, ma con ampi settori della maggioranza tutt’altro che convinti, Mario Monti ha trovato le parole giuste per riconoscere - in modo indiretto - i punti delicati e critici della legittimazione politica del suo governo. Ha trovato espressioni semplici ma efficaci: «Vi chiedo non una fiducia cieca ma vigilante»; «Dureremo quanto la vostra fiducia in noi». Sono parole di un politico acuto, non di un «tecnico» esperto soltanto di questioni economiche e finanziarie o di un semplice «professore». Ma smettiamola ora di parlare della personalità di Monti che in questi giorni rischia di subire un trattamento agiografico fuori misura. Riflettiamo sulla natura del consenso parlamentare del suo governo e quindi della sua possibile durata che denota la particolarità della legittimazione del ministero Monti.

Ovviamente la questione non riguarda la legittimità costituzionale, sulla quale non ci possono essere dubbi. Non ha senso parlare di «democrazia sospesa». Ma sono in gioco la consistenza e la qualità del sostegno politico effettivo raccolto in Parlamento. C'è il pericolo reale che l’appoggio al governo Monti si configuri come un consenso contrattato e ritrattabile su ogni punto del programma. Siccome è un governo non direttamente uscito dal Parlamento, ma proposto dal Presidente della Repubblica per ragioni di emergenza, è inevitabile che debba conquistarsi l’appoggio parlamentare contando proprio sulla condizione dell’emergenza. Si tratta però di evitare che sia costretto a contrattare ogni iniziativa di volta in volta, decreto per decreto, misura per misura. E’ facile immaginare quale disastro rappresenterebbe questa situazione per una politica che intende impegnarsi con un ampio respiro in compiti difficili come quelli attuali. Questo governo per la verità dispone di due risorse originali: il pieno sostegno del Capo dello Stato e la palpabile simpatia di una opinione pubblica che si è messa in allerta e sta prendendo le distanze dai suoi stessi rappresentanti mandati in Parlamento.

Per quanto riguarda il sostegno del Quirinale, Giorgio Napolitano si è mosso nel rispetto della lettera e dello spirito della Costituzione, dando un inatteso rilievo decisivo al suo ruolo di garante attivo della Costituzione. L’espressione di «governo del Presidente», certamente estranea al linguaggio dei costituenti, rispecchia questa nuova situazione che potrebbe rivelarsi come una risorsa per la Repubblica, sin qui non valorizzata. Un esecutivo che governa e un Parlamento che vigila sembrano alludere quasi ad un semipresidenzialismo. Lo scrivo senza secondi pensieri. In compenso, al di là di ogni aspettativa, il «governo del Presidente» ha trovato un’istintiva approvazione da parte della stragrande maggioranza dei cittadini - come mostrano tutte le indagini demoscopiche. Anche i più antipatizzanti verso Napolitano hanno dovuto ammettere l’intelligenza costituzionale delle sue mosse. Ma bastano queste novità per fornire una legittimazione originale a Monti?

Quello che è certo è che la definizione di «governo tecnico», affibbiata al nuovo governo in contrapposizione a «governo politico», è la meno adeguata. Andrebbe senz’altro archiviata. Non solo perché il programma che il governo Monti intende svolgere è altamente politico nella sostanza (su questo è inutile insistere), ma perché il concetto contrapposto di «governo dei tecnici» porta in sé un’idea piuttosto singolare dei politici intesi come «eletti del popolo».

Che rappresentanti del popolo sono, se nel momento in cui rivendicano di essere gli unici depositari della volontà popolare, devono ammettere di essere «tecnicamente» incompetenti a realizzarla? Tanto vale allora definire l’attuale compagine ministeriale come governo dei «competenti», che è cosa completamente diversa da «tecnici» perché implica una forte sensibilità politica. A cominciare dalla esigenza pressante di godere di una fiducia vigilante e costruttiva da parte del Parlamento.

Torniamo quindi alla centralità del Parlamento. In modo formalmente ineccepibile, il Parlamento attuale è la sola rappresentanza popolare legittimata dalle ultime elezioni. Ma è pura ipocrisia fingere che la congiuntura politica di oggi non sia drasticamente cambiata rispetto al 2008. Soltanto le facce, le mimiche, il gergo dei rappresentanti popolari in Parlamento sono gli stessi. Se poi i famosi «toni» si sono nel frattempo «abbassati» lo vedremo ancora nelle prossime ore. Adesso il timore vero è che molti parlamentari (non tutti ovviamente, ma alla fine anche i «piccoli numeri» contano...) pensino innanzitutto alla propria sopravvivenza politica e ragionino quindi esclusivamente in funzione del proprio futuro personale. Questa prospettiva investe e mette alla prova i partiti come tali, soprattutto i maggiori, che si illudono di poter conciliare le costrizioni oggettive del momento d’emergenza con le più favorevoli chances di successo nelle elezioni previste nel 2013.

Nessuno si illuda: se il governo Monti reggerà, anche il Parlamento e il sistema partitico usciranno molto diversi da questa esperienza. Il 2012 non sarà un tunnel da attraversare con il minore danno possibile, come qualcuno pensa. Ogni contrattazione dei partiti attuali a sostegno delle misure proposte dal governo metterà in gioco la loro identità e rafforzerà l’identità del governo Monti e la sua durata «naturale» sino alla fine della legislatura. Di fronte a questa prospettiva non si può escludere l’ipotesi che qualcuno «stacchi la spina» (brutale ma popolare espressione che il bon ton di oggi vorrebbe rinnegare), con conseguenze imprevedibili anche circa l’esito delle elezioni in nome delle quali quella iniziativa sarebbe presa. Il 2012 sarà un anno molto lungo e ricco di sorprese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9452
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« Risposta #79 inserito:: Novembre 27, 2011, 05:09:43 pm »

27/11/2011

Germania la potenza riluttante

GIAN ENRICO RUSCONI

Quando si parla di Germania i toni drammatici sono d’obbligo. In questi giorni la stampa nazionale e internazionale ne sta dando la prova, ritrovando parole enfatiche che - in altra chiave - aveva usato dopo la caduta del Muro di Berlino e la rapida inattesa riunificazione tedesca. Oggi non si tratta più del (temuto) ritorno della Germania al ruolo di potenza europea egemone. E’ in gioco la sua capacità di esercitarlo. Di fronte alla grave crisi economico-finanziaria che attanaglia l’Europa da mesi, la «grande Germania» si è dimostrata piccola piccola, in termini politici e morali. Sembra che ragioni e giudichi il mondo secondo i propri parametri di utilità, mentre l’Unione europea, alla cui costruzione ha contribuito potentemente, rischia di sfasciarsi. E’ questa la tesi che in un modo rassegnato, aggressivo o lamentoso, è condivisa da molti osservatori. La conclusione che ne discende è che dal comportamento del governo tedesco dipenderà a breve il destino dell’Europa. La cancelliera Angela Merkel, in particolare, sembra aver assunto su di sé interamente questa responsabilità. E’ davvero così?

In questi anni abbiamo imparato a conoscere la cancelliera. Ci ha spesso sconcertato per l’abilità con cui è passata da affermazioni perentorie a posizioni più malleabili, per la disinvoltura con cui ha incassato insuccessi elettorali, pur dando l’impressione di non aver perso personalmente popolarità. Sinora è riuscita a trasmettere ai tedeschi un senso di padronanza della situazione nella gestione della crisi. Ha sostenuto con successo il punto di vista tedesco in tutte le sedi europee e internazionali. La fermezza nel difendere gli interessi dei risparmiatori tedeschi (e delle banche) non solo contro i guasti oggettivi creati da alcuni «cattivi» Stati dell’Unione Europea ma anche rispetto alle «pericolose» proposte (eurobond) avanzate da altri rispettabili membri dell’Unione, ha garantito sin qui alla Merkel un solido consenso interno. Ma questa fase sta finendo. Angela Merkel è troppo intelligente per non capirlo. Non può tener testa ancora a lungo, senza gravi danni, alle pressioni concentriche che le vengono fatte non solo da singoli membri dell’Unione ma dalle sue istituzioni più alte. La strada che intraprenderà sarà verosimilmente quella della riscrittura dei Trattati e di un nuovo Piano di stabilità, di cui si parla in queste ore, in termini per altro ancora molto vaghi. Sarà un modo anche per introdurre una qualche forma di eurobond? E’ chiaro che la cancelliera non può ammettere di punto in bianco d’avere cambiato opinione.

Ma sono sicuro che quanto prima Berlino segnalerà un cauto cambiamento di linea. Sarà un cambiamento corazzato da mille cautele e condizioni da verificare puntigliosamente sotto la veste della revisione dei Trattati. Ma qualcosa si muoverà. Nel clima pre-apocalittico di queste ore (in cui grandi istituti finanziari si esercitano a stilare «piani B» in vista della fine dell’euro) è una previsione plausibile. Ma è anche una scommessa che tiene conto dell’atteggiamento complessivo della classe dirigente tedesca che è più flessibile e sensibile di quanto non appaia dalle sommarie descrizioni che vengono fatte dalla stampa quando parla dei tedeschi rigidi e ostinati. Non c’è dubbio che la classe dirigente tedesca è riluttante a mutare linea. Ma si moltiplicano segnali di disponibilità, davanti allo scenario non più remoto di un collasso dell’euro. La sfida è gravosa: cedere su posizioni che sono giudicate solide per assumersi rischi imprevisti.

Ma in compenso la classe politica tedesca ritroverebbe quel consenso e quel apprezzamento da parte dei colleghi europei che in questi mesi le sono gradualmente venuti meno. I tedeschi in fondo sono molto sensibili all’approvazione europea, più di quanto non sembri. Questo mutamento di posizione del resto non si configura come un cedimento, una concessione o un soccorso straordinario a membri in difficoltà, ma come un esercizio di autentica leadership, non imposta ma riconosciuta da tutti gli altri partner. Per schermare questa leadership c’è sempre la messa in scena dell’intesa franco-tedesca, con l’Italia nel ruolo già certificato di comparsa. A questo punto non si capisce la riluttanza della classe politica tedesca a riprendersi la sua nuova posizione in Europa.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9484
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« Risposta #80 inserito:: Dicembre 11, 2011, 11:28:41 am »

11/12/2011

In cerca del popolo europeo

GIAN ENRICO RUSCONI


Che fine ha fatto il «popolo europeo»? Dov’è il demos europeo su cui sino a qualche anno fa si sono esercitati filosofi politici, giuristi costituzionalisti e pubblicisti?

Intimiditi dalle brutali oscillazioni delle Borse, schiacciati dagli spread, frastornati dai toni apocalittici di politici e giornalisti, tartassati in modo più o meno consensuale dai rispettivi governi riemergono i popoli nazionali tradizionali. In carne ed ossa, con i loro giudizi e pregiudizi reciproci che si tenta invano di esorcizzare, correggere, rivisitare.
Pensiamo agli imbarazzi con cui tedeschi e italiani oggi si guardano attraverso i loro giornali. È inutile protestare contro i giornalisti, che spesso scrivono sciocchezze da una parte e dall’altra. Rispecchiano una diffusa situazione sgradevole.

Prendiamo atto che - a dispetto della retorica diffusa a larghe mani in questi anni - non si è formato affatto un «popolo europeo» inteso come comunità politica solidale quale anni fa si sperava fosse in fase di gestazione, se non di sviluppo. Il processo che avrebbe dovuto faticosamente costruire questo popolo unitario e solidale sembra ora essersi interrotto. È stupefacente l’emarginazione dell’unica rappresentanza democratica comune degli europei, il Parlamento europeo.

In questi mesi di convulsa ricerca di una uscita dalla crisi è rimasto tagliato fuori da ogni ruolo decisionale.
Ma la situazione è davvero così senza prospettive? «L’unione fiscale», quasi coatta, decisa a Bruxelles dai governi sotto pressione tedesca, non potrebbe invece essere una strada tortuosa e costosa per ri-costruire un «popolo europeo»? Il guaio è che si diceva così anche con l’introduzione dell’euro e poi in modo più specifico con la creazione della «zona dell’euro» che ora è alla radice dei problemi. Ancora una volta ci si concentra esclusivamente sulla moneta, sul fisco, sulle banche. Protagonisti rimangono i governi nazionali, a dispetto del fatto che la loro immagine non sia mai stata tanto bassa come oggi nella stima popolare. Eppure i governi nazionali sembrano essere gli unici attori della politica che si esprime in misure fiscali, economiche modulate su esigenze nazionali (o più realisticamente tarate sull’ammontare del proprio debito).

Che resta dei grandi discorsi e delle grandi aspettative verso la «società civile europea», i suoi potenziali di solidarietà e di giustizia? Quali attori alternativi - non necessariamente antagonisti - emergono dalla «società civile europea»?
Anziché limitarci a parlare in modo sommario di deficit democratico dell’Europa o di denunciare i criteri economico-monetari che uccidono la democrazia, cerchiamo di guardare dentro alla società europea. Per cominciare constatiamo una scarsa conoscenza delle differenze che caratterizzano le singole società europee nei loro meccanismi istituzionali e nelle loro culture politiche. Queste realtà vengono generalmente sottovalutate nei discorsi sulla «comunanza dei valori» europei. Invece sono le differenze che contano e che vengono fuori prepotenti proprio in tempo di crisi.

Prendiamo le due realtà tedesca e italiana che sono esemplari di quanto stiamo dicendo. Giorni fa su un grande giornale tedesco è uscito un pezzo di un noto pubblicista, eccellente conoscitore e amante deluso dell’Italia (come molti intellettuali tedeschi di oggi) che conclude così: «Affinché l’inevitabile futura messa in comune dei debiti europei (tramite eurobond o similari) non diventi un materiale incendiario del risentimento popolare dei tedeschi, non deve essere un assegno in bianco. Infatti chi ci garantisce che con il venir meno della pressione esterna non ricompaia ancora sulla scena un Berlusconi?».

Riemerge così il vecchio problema della «inaffidabilità» italiana e quindi della necessità di prendere misure cautelative. Il tutto ben al di là della composizione del governo. È vero che Mario Monti ha incontrato in Germania un pronto e diffuso consenso - con il rischio addirittura di provocare attese esagerate. Le foto di Monti accanto alla Merkel sono diventate subito familiari all’opinione pubblica con un sospiro di sollievo. Ma dietro alla cancelliera e dietro al presidente del Consiglio italiano ci sono due sistemi politico-istituzionali, due classi politiche, due culture e società civili difficilmente comparabili. Lo si vedrà già nelle prossime settimane che saranno cruciali.

Per il momento, ritornando al tema del «popolo europeo», mi preme dire che esso non nascerà per decreto né a Bruxelles né a Strasburgo, tantomeno a Francoforte per effetto delle misure di disciplina comune. Ma sarà il risultato (di lungo respiro) della ripresa intensa dei contatti di conoscenza diretta tra tutti gli attori politici, sociali e culturali che ora lavorano a testa china nel rispettivi Paesi, illudendosi che basti delegare a Strasburgo alcuni parlamentari per «fare l’Europa», quando in realtà spesso ci vanno per piantare in quella sede i propri paletti «identitari» nazionali. Non serve poi protestare che l’Europa - da lassù lontano - ci imponga vincoli e costrizioni che non fanno giustizia alla concretezza della nostra realtà. Se vogliamo davvero diventare (o, detto più elegantemente, ritrovarci come) popolo europeo dobbiamo cercare contatti diretti, senza aspettare sempre iniziative ministeriali

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9536
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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 22, 2011, 12:36:29 pm »

22/12/2011

Il governo del presidente fa politica

GIAN ENRICO RUSCONI

Nel passaggio alla sua seconda fase programmatica, il governo Monti dispiega la sua piena natura politica, aggredendo problemi che vanno ben al di là dell’emergenza immediata. Problemi che hanno radici profonde e che nessun governo precedente ha osato o è riuscito a risolvere - tanto meno l’ultimo lungo governo berlusconiano e leghista.

Appaiono quindi inconsistenti le riserve e le preoccupazioni originariamente avanzate circa i limiti della natura «tecnica» del governo Monti, semplicemente perché in esso non ci sono membri parlamentari.

Come se la «politica» fosse un bollino di garanzia riservato agli «eletti dal popolo» eletti oltre tutto con il sistema difettoso che sappiamo.

Adesso nei confronti del governo presuntivamente «non politico» si alzano voci perentorie a favore dell’urgenza di nuovi interventi «per la crescita» - proprio da parte di quella maggioranza politica che si è rivelata incompetente, incapace, impotente. Ma il coro delle aspettative deluse è sempre più unanime.

Per cercare di capire, diamo uno sguardo retrospettivo alla prima fase del governo Monti e alla qualità del sostegno che ha ricevuto. L’altro giorno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha respinto con parole chiare e ferme la tesi di una «sospensione della democrazia». Ha risposto così anche a perplessità e dubbi che giorni prima erano stati espressi su importanti giornali circa la legittimità/legittimazione costituzionale della formazione di questo governo. Si tratta di interrogativi giustificati che tuttavia non tengono conto del contesto politico effettivo.

Le ragioni del successo dell’operazione che ha portato al governo Monti sono state tre. Al primo posto c’è stata la decisa e convinta iniziativa del Presidente della Repubblica; ad essa ha risposto immediatamente il pronto sostegno dell’opinione pubblica, veicolato dai grandi giornali nazionali; contestualmente c’è stato l’ammutolirsi improvviso della classe politica, quantomeno quella di maggioranza. Per qualche giorno in Italia - in modo inatteso - la stampa ha orientato ed espresso l’opinione dei cittadini, al di là dell’imbarazzo del sistema mediatico televisivo, in sintonia con l’azione del Quirinale.

«Governo del Presidente» è stata la formula pubblicistica che meglio definiva la situazione. Come tale è stata istintivamente accolta da molti. E’ una formula che non esiste nella Costituzione e verosimilmente in nessuno dei manuali degli esegeti costituzionali. Ma d’istinto è stata percepita come soluzione assolutamente costituzionale per l’emergenza. Opportunamente Napolitano, nella sua messa a punto dell’altro ieri, ha preferito ignorare la formula «governo del Presidente», che avrebbe potuto prestarsi ad equivoci. Ma rimane il dato di fatto della sua personale autorevolezza quale garanzia della continuità costituzionale.

L’autorevolezza del Presidente della Repubblica è anche il fattore decisivo di stabilità in un clima sociale che è sensibilmente cambiato. L’opinione pubblica mostra segni di disillusione. I giornali sono pieni di interrogativi e contrasti di opinione e di giudizio tra i loro stessi commentatori.

In questo contesto la classe politica riprende la parola, anche se non nasconde le sue divisioni interne. I politici più sprovveduti sembrano godere delle difficoltà che incontra il governo Monti che si trova al centro della mutazione della politica italiana. Hanno gli occhi fissi sulle elezioni, a scadenza naturale o addirittura anticipata, come se soltanto quella fosse «la soluzione politica». Per loro questo governo è un tunnel da attraversare il più rapidamente possibile, per poi tornare nella condizione «normale» («democratica» - qualcuno si permette di enfatizzare).

Molti politici non si rendono conto che proprio lo scontro frontale del governo con le parti sociali con il coinvolgimento diretto, in prima persona, di molti suoi ministri sta dando tratti nuovi alla politica. Sta cambiando la sensibilità politico-sociale. Persino l’enorme difficoltà del governo di venire a capo dei tenaci interessi particolaristici di categorie, gruppi sociali, lobbies o caste, ha l’effetto paradossale di renderli palesi e intollerabili agli occhi dell’opinione pubblica.

Anche la personalizzazione del confronto in atto è qualcosa di più e di diverso della prosecuzione della «democrazia mediatica» della stagione berlusconiana. La politica mediatica, che abbiamo visto montare nel decennio passato, si rivela irreversibile ma cambia carattere. Sta incidendo sul rapporto tradizionale tra cittadini e istituzioni democratiche - in senso negativo e in senso positivo. Le centralità delle piazze fisiche e soprattutto di quelle mediatiche (senza le quali non ci sarebbero le prime) si affianca e condiziona la centralità politica del parlamento.

Il governo Monti è al cuore di questa mutazione. Si sbagliano dunque quei politici che pensano di poter lucrare sul duro e doloroso scontro del governo con le parti sociali e con settori significativi della società civile. Si sbagliano se pensano di cavarsela addossando al governo l’impopolarità, l’insufficienza e la limitatezza delle sue misure, scusandosi quasi di sostenerle in Parlamento per dura necessità - in attesa di «tornare alla politica». Proprio il fatto che gli attuali ministri e ministre debbano confrontarsi faccia a faccia con le forze sociali organizzate, con gruppi e singoli cittadini arrabbiati dimostra che i cosiddetti tecnici stanno facendo politica, mentre i politici eletti rischiano di praticare un opportunistico attendismo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9574
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« Risposta #82 inserito:: Gennaio 08, 2012, 03:57:17 pm »

8/1/2012

La cancelliera (per il momento) non cederà

GIAN ENRICO RUSCONI

Sarei cauto a parlare di «asse Monti-Sarkozy per l’euro» e della sua effettiva efficacia. E’ ingenua l’aspettativa che per l’Italia basti il nuovo governo perché essa assuma automaticamente un ruolo autorevole, capace di modificare il rigido atteggiamento tedesco sulla disciplina di bilancio, e più in generale per introdurre modifiche nelle grandi regole dell’Unione. O addirittura per «dare una mano» alla Francia nei confronti della Germania.

E’ ingenuo pensare che l’Italia possa collocarsi paritariamente al fianco della Francia, nonostante la simpatia e la stima del Presidente francese per Mario Monti e la convergenza con lui su alcuni punti qualificanti. Soprattutto è fuori luogo immaginare che il nostro presidente del Consiglio nel suo tour europeo che lo porterà a Berlino possa parlare anche a nome del Presidente francese. Magari per «allentare l’asse franco-tedesco», come piace dire al linguaggio giornalistico. Come se l’intesa particolare tra Berlino e Parigi non avesse profondi motivi politici e storici che talvolta le conferisce i tratti di una complicità.

Mercoledì prossimo a Berlino la cancelliera Angela Merkel sarà certamente molto gentile e complimentosa verso Mario Monti.
Ma nella sostanza delle questioni che stanno a cuore a Roma, Merkel non si muoverà dalle sue posizioni.
«Per il momento» - aggiungerà nel suo tipico stile.

Credo che in proposito Monti non debba farsi illusioni. Il «compito a casa» fatto e imposto agli italiani (soprattutto ad una parte di essi…) è agli occhi della Merkel il minimo dovuto. E’ un «penso» per errori pregressi. Non si vede come la promessa del governo italiano di procedere ad altre iniziative innovative possa portare con sé automaticamente anche un cambiamento dei rapporti di forza interni tra i membri dell’Unione europea. Soprattutto perché l’eventuale ripresa italiana presuppone proprio quel mutamento di strategia generale alla quale si oppone, «per il momento», la Germania. Siamo in un circolo vizioso.

Lo squilibrio politico che caratterizza l’Unione europea da qualche anno (il cosiddetto «direttorio franco-tedesco» accompagnato dal «rigore del duo carolingio») e il contestuale declassamento dell’Italia, che ha toccato il fondo con l’ultima fase del governo Berlusconi, sono dati di fatto non correggibili immediatamente. Le ragioni della regressione italiana hanno radici lontane, anche se rimangono imperdonabili l’insipienza e l’incapacità del governo Berlusconi. Il guaio è che non la pensa così il berlusconismo diffuso come mentalità e cultura civico-politica, di cui abbiamo avuto un esempio clamoroso in questi giorni nella reazione della classe politica di maggioranza all’episodio di Cortina.

Il discorso sui capi di governo deve spostarsi sulle società nazionali e soprattutto sulla classe politica con cui devono fare i conti. Della singolare situazione italiana, della legittimazione condizionata e a tempo di cui gode il governo Monti si è già parlato a lungo. Per il momento siamo davanti a un futuro carico di troppi imponderabili e variabili, di cui gli osservatori stranieri non riescono a valutare il peso ma che sono sufficienti per renderli sospettosi.

Ma la situazione politica tedesca - per ragioni completamente diverse - è meno stabile, solida e sicura di sé di quanto non si pensi comunemente. La straordinaria visibilità della cancelliera Merkel e la sua capacità di tenere testa personalmente ad ogni congiuntura non può nascondere il dato di fatto che la coalizione da lei guidata è virtualmente finita per il tracollo dell’alleato liberale, che è il paladino della strategia del rigore e della rigidità finanziaria.

Certo, la politica della cancelliera gode del sostegno del partito democristiano e più in generale della popolazione che rimane sempre sensibile all’argomento che i disciplinati tedeschi non devono pagare per gli europei (in particolare meridionali) che si sono comportati male. E’ inutile spiegare che la situazione non è così semplice (dal momento che sono di mezzo le stesse banche tedesche) e soprattutto che il pericolo che ora sta correndo l’euro si pone in una dimensione enormemente più complessa, per la quale sono necessari coraggiosi interventi innovativi.

In questo contesto colpiscono la timidezza e l’impaccio degli altri partiti tedeschi - socialdemocratici e verdi in testa - che pur criticando la linea Merkel e condividendo molte delle tesi correttive e alternative avanzate dalla Commissione europea, non sono in grado di incalzare efficacemente il governo. Mancanza di convinzione? Timore di impopolarità? Sottovalutazione della gravità della situazione?

E’ possibile che l’annunciato peggioramento della congiuntura economica tedesca spinga in un prossimo futuro la Merkel ad una revisione della strategia sin qui adottata. E’ quanto pensano (e sperano) molti analisti. E’ in questo contesto che Mario Monti sta facendo il suo tour europeo che culminerà negli importanti incontri di Roma verso la fine del mese. Sarebbe bello che per allora non si parlasse più di «assi» nazionali ma semplicemente d’Europa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9625
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« Risposta #83 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:47:14 pm »

25/1/2012

La competenza per sfidare la protesta

GIAN ENRICO RUSCONI

Quale impatto hanno o avranno le violente proteste di questi giorni sul quadro politico? Parlare di «rivolta» dei Tir non è solo un modo di dire giornalistico. Quanto è accaduto sino a ieri, è andato ben oltre le dimensioni di una protesta sociale, già ai limiti della legalità.

Siamo stati posti davanti non soltanto alla contestazione di misure prese dal governo, ma al confuso, virtuale rifiuto della sua autorità politica. Questi due aggettivi - «confuso», «virtuale» sono la chiave di lettura di quello che è successo e che condiziona le modalità con cui la situazione si sta normalizzando. Speriamo che avvenga presto - altrimenti le conseguenze saranno incontrollabili.

Siamo davanti ad una severa prova per il governo Monti, probabilmente inattesa. È perfettamente inutile aggiungere che si tratta di una prova «politica». Ma aggiungiamo pure l’aggettivo, se serve a chiudere una volta per tutte l’inconsistente diatriba sulla natura «tecnica» del governo in carica, su cui si sono esercitati sin qui politici e pubblicisti.

La rivolta di minoranze di cittadini, organizzati in categorie professionali dotate di uno sproporzionato potenziale di danno e di intimidazione, è virtualmente politica perché è il contrario dell’affidamento che la maggioranza degli italiani mostra verso il governo Monti. Da un lato c’è un sofferto riconoscimento di autorevolezza politica, dall’altro la sua negazione.

Con il passare delle settimane è evidente che la vera base del consenso del governo consiste nella paziente fiducia dei cittadini che arrivino risultati tangibili. Di fronte a questo fatto la legittimazione politica formale offerta dai partiti rischia di rimanere una sorta di sovrastruttura parlamentare, debole e condizionata da mille reticenze.

In questo contesto la rivolta strisciante di alcune categorie imbarazza alcuni partiti, rivelandone aspetti oscuri. Non è un mistero che nel Pdl e nella Lega ci sono falchi che nelle agitazioni di questi giorni (e nelle prossime in calendario) hanno visto l’opportunità di quella spallata contro il governo che il partito berlusconiano ufficiale non osa dare. Per loro è stata una grande soddisfazione sentir gridare - in perfetto stile berlusconiano - che a Roma c’è «l’ultimo governo comunista del mondo». Non sappiamo se dietro a queste provocazioni - a cominciare dalla Sicilia - ci siano disegni più mirati.

Nel complesso però i politici di destra si barcamenano tra la denuncia della violenza e della illegalità dei comportamenti, il premuroso riconoscimento della legittimità di alcune richieste di alcune parti coinvolte (senza spingersi troppo avanti nei dettagli) e la voglia di approfittare del clima di scontentezza per farsi protagonisti di correzioni delle proposte governative.

Quello che non capiscono è che con il governo Monti è venuta meno o quantomeno si è drasticamente ridimensionata la funzione dei partiti di rappresentanti diretti di interessi particolari (non illegittimi, beninteso, ma gestiti in forma quasi sovrana) che hanno portato alla creazione di quel universo di lobbies, corporazioni e categorie di fatto privilegiate - di cui oggi si parla tanto apertamente quanto retoricamente.

«Lobbies» e «corporazioni» infatti sono sempre quelle degli altri. Mentre da parte loro i partiti si sentono offesi se vengono riduttivamente considerati rappresentanti o protettori di interessi di parte, insensibili all’interesse comune. La dialettica democratica - ripetono - consiste nel contemperare gli interessi particolari con quelli generali ecc ecc. Conosciamo questi nobili discorsi edificanti. Ma servono poco a capire la brutale realtà di quello che è accaduto e che potrebbe ripetersi nei prossimi giorni su altri fronti non meno sensibili.

Torniamo alla vicenda dei Tir. Il governo è sembrato inizialmente preso in contropiede, ha sottovalutato la gravità della situazione. Soltanto nelle ultime ore si è sentita chiara la voce del ministro degli Interni che ha rivendicato di avere affrontato i disagi della protesta «coniugando fermezza e dialogo», consentendo di «stemperare le situazioni di tensione e di far sì che la gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica non subisse, nel complesso, grave pregiudizio». Segue la minaccia di energiche misure coercitive nel caso si verificassero nuovi episodi che compromettono la sicurezza delle persone. Tutto sommato quella del ministro può apparire una reazione sin troppo «temperata» di fronte ai gravissimi disagi imposti alla popolazione e al Paese stesso. Eppure mi chiedo se paradossalmente proprio questo atteggiamento non abbia avuto l’effetto benefico di mostrare alla grande opinione pubblica l’insensatezza della rivolta contro il governo. La grande discriminante politica passa ormai tra chi, disposto a pagare di persona, si affida - sia pure con un tocco di rassegnazione - alla competenza di questo governo, dialogando e interagendo costruttivamente. E chi lo considera nemico, punto e basta.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9690
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« Risposta #84 inserito:: Febbraio 05, 2012, 07:34:59 pm »

5/2/2012

Il professore alla guerra mediatica

GIAN ENRICO RUSCONI

«Strano», «decisionista» sono due espressioni usate da Mario Monti per qualificare il suo governo. Ma ora si potrebbe aggiungere «coriaceo» e soprattutto «loquace».

Alla tanto ironizzata monotonia professorale delle prime settimane ha fatto seguito una disinvoltura comunicativa, di cui fanno parte sostanziale i lapsus, le rettifiche, ma anche l’insistenza sui «tabù da infrangere». Mai espressione è stata più ripetuta negli ultimi interventi governativi.

Ne fanno le spese l’articolo 18, il posto di lavoro fisso e da ultimo «il buonismo sociale». Un’offensiva comunicativa in piena regola. Perché?

Il governo Monti per agire efficacemente è costretto a correggere o a compensare la sua natura cosiddetta «tecnica» con un sovraccarico di comunicazione pubblica.

Ha bisogno di un contatto diretto con l’opinione pubblica per tenere sotto pressione una classe politica inquieta e irritata - anche se impotente.

La comunicazione mediatica sta acquistando un ruolo decisivo. Pensiamo alla riforma del mercato del lavoro per la quale si chiede una sorta di riedizione della «concertazione» tradizionale. Ebbene, prima ancora di sedersi al tavolo delle trattative, la battaglia ha luogo in un vivacissimo confronto/scontro mediatico, diretto e indiretto. Come se la vera partita si giocasse tra governo e grande pubblico, prima ancora che nella contrattazione tra i rappresentanti ufficiali.

La democrazia mediatica, che a torto era stata imputata alla patologia del berlusconismo, si rivela irreversibile. Cambia stile, cambia sostanza, ma resta come pressione continua. Non è un fiume di promesse illusorie, ma un argomentare che ritiene o pretende di essere stringente.

Sin dal suo esordio il governo Monti ha enunciato varie fasi della sua attività non disdegnando slogan del tipo «Salva-Italia» e «Cresci-Italia». Non ricordo più bene ora in quale fase siamo entrati - se nella seconda o nella terza. Ad onor del vero, sino ad oggi, agli annunci hanno fatto seguito misure operative. Sin qui la navigazione del governo è stata spedita, giustificata anche con la brevità del suo mandato a tempo. Adesso però si profilano gli scogli più duri e insidiosi: riforma del mercato del lavoro e liberalizzazioni. Con quali risorse di consenso il governo intende guidare la nave oltre questi scogli? La sua campagna mediatica rientra in questa strategia.

Ricordiamo che le ragioni che hanno portato alla formazione del governo Monti e al suo affermarsi sono state tre. Al primo posto c’è stata la decisa e tempestiva iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che per altro continua a svolgere tuttora - in modo discreto ma fermo - il suo ruolo di garante dell’operazione e del funzionamento del sistema politico. Ma all’iniziativa del Presidente ha corrisposto uno straordinario sostegno dell’opinione pubblica, veicolato dai grandi giornali nazionali, sull’onda di una caduta verticale dell’immagine internazionale di Berlusconi, legata non soltanto alla sua debolezza politica ma anche ai suoi comportamenti personali. Senza l’evidente consenso dell’opinione pubblica, l’operazione Monti non sarebbe riuscita. Contestualmente c’è stato l’ammutolirsi della classe politica, in particolare della maggioranza berlusconiana.

A che punto siamo arrivati ora? Il guadagno netto e indiscutibile è stato la ripresa rapida dell’Italia e della sua immagine a livello europeo e internazionale grazie alla competenza e alla personalità di Mario Monti. Ieri in una intervista alla «Sueddeutsche Zeitung» il presidente del Consiglio ha fatto affermazioni piuttosto impegnative nel loro ottimismo. Ha parlato dell’Italia che si sta avviando a diventare «la prima della classe in materia di riduzione del deficit». «I mercati guardano sempre di più non solo alla riduzione del deficit in Italia, ma anche alla crescita».

Naturalmente questo è (stato) possibile - non dimentichiamolo - grazie alla accettazione della «manovra» da parte della popolazione e dei sacrifici connessi. Oggi lo spettro della crisi simbolicamente materializzata dal famigerato spread sembra scongiurato. Anche se Monti ha riconosciuto che questo indicatore è stato usato in modo «esagerato come arma contundente» nei confronti di Berlusconi e «ora si esagera ad usarlo come indicatore di buona condotta per il qui presente suo successore». Bene. Ma alcune settimane fa i messaggi che circolavano sui media non erano di questo stesso tenore.

Adesso c’è il pericolo che si crei una forbice tra il Monti del livello europeo e il decrescente consenso dell’opinione pubblica che dalla rassegnazione passa alla insofferenza contro ogni misura che non produca immediato e tangibile beneficio. I costi sociali della manovra si faranno sentire a lungo, il tema delle liberalizzazioni - su cui punta energicamente il governo - presenta aspetti più complicati rispetto alle dichiarazioni di principio. C’è scetticismo circa i loro rapidi effetti per la «crescita».

Ma soprattutto c’è la drammatica e urgente questione del mercato del lavoro e dell’occupazione precaria, che incide in profondità nella vita delle famiglie e della comunità nazionale nel suo complesso. In questo contesto per i partiti in Parlamento è forte la tentazione di considerare chiusa la fase di emergenza «tecnica» per tornare alla ribalta, interpretando a loro modo «politicamente» il persistente disagio sociale, creando difficoltà sempre maggiori al governo sino alla sua paralisi. Da qui lo sforzo del governo stesso di controbattere in anticipo questa possibilità attraverso una pressante azione informativa e comunicativa direttamente orientata alla grande opinione pubblica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9737
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« Risposta #85 inserito:: Marzo 01, 2012, 10:55:04 am »

1/3/2012

In Val di Susa una sfida per il premier

GIAN ENRICO RUSCONI

La conflittualità che investe la Valle di Susa ha perso la natura di un normale conflitto sociale in una democrazia. Rischia di diventare una rivolta contro l'autorità stessa dello Stato - una rivolta cui la militarizzazione della valle dà i connotati di un virtuale stato di guerra. E' una umiliazione della democrazia. E' tempo che il presidente del Consiglio esca dal suo riserbo. Lo deve anche alla maggioranza dei cittadini italiani, che magari tardivamente si sono resi conto delle dimensioni reali e complesse del problema, ed ora sono sinceramente sconcertati e turbati.

Le ultime notizie parlano di dichiarazioni di disponibilità da parte di alcuni ministri del governo ad riaprire ancora «il dialogo» senza abbandonare la «fermezza». In concreto questo vorrebbe dire che non si torna indietro dalla decisione di procedere con i lavori per l'alta velocità, ma che ci sono ancora spazi di trattativa sulle condizioni ambientali (ecologiche e socio-economiche), sulle compensazioni per i contraccolpi negativi dell'intera operazione. Pare anche che ci sia una significativa parte di cittadini della Valle disposti a riprendere questa strada, rendendosi conto del clima distruttivo che si è creato.
Ma lo scetticismo è d'obbligo.

La situazione è incerta. Non si può escludere che si aprano forti tensioni all'interno del movimento di protesta con conseguenze imprevedibili. I No Tav radicali che guidano la protesta - e che non sono classificabili automaticamente come «violenti» - non intendono contrattare i termini della esecuzione della Tav, ma la vogliono semplicemente rendere ineseguibile. Impraticabile politicamente, prima ancora che operativamente.

Ma c'è di più, la decisione governativa che è stata vissuta dagli abitanti della Valle di Susa come una prevaricazione, si è dilatata mediaticamente, polarizzando su di sé disagi e conflitti diffusi nel Paese anche quando questi non sono neppure lontanamente paragonabili con quella della valle. La sigla No Tav è diventata un simbolo di disobbedienza civile.
Ma si può ora rendere reversibile o modificabile una decisione che si sta rivelando tanto costosa dal punto di vita politico? Chi ha l'autorità di farlo?

Siamo davanti alla prima seria sfida all'autorevolezza del governo Monti - sfida tutta politica perché tocca il principio di autorità. Le tensioni e i conflitti verificatisi attorno alle iniziative economiche, finanziare e sociali del governo si sono mossi sin qui tutti entro i confini di un confronto/scontro democratico, energico ma controllato. Soltanto la protesta degli autotrasportatori settimane or sono ha pericolosamente sfiorato i limiti. In questa occasione la strategia del governo è stata di una paziente azione moderatrice. Ma disponeva di una risorsa importante: la sostanziale impopolarità dell'oltranzismo degli autotrasportatori. A favore del governo ha giocato quindi l'impatto mediatico negativo delle immagini del blocco dei Tir.

Stiamo imparando a conoscere le ambivalenze della copertura mediatica (e giornalistica) delle forme di protesta. La ricerca a tutti i costi dell'effetto mediatico clamoroso e provocatorio non garantisce automaticamente successo alle ragioni di chi protesta. Anzi, porta i cittadini a valutare con maggiore serietà le ragioni e i torti dei contestatori. E’ quanto potrebbe succedere nelle prossime ore anche in Val di Susa. Anche grazie all'ormai famoso monologo ingiurioso del No Tav rivolto al carabiniere silenzioso.

Ma torniamo al governo. Mi auguro che Monti non si lasci assorbire interamente dai giochi di pressione e ricatto sul decreto legge sulle liberalizzazioni. Che sappia valutare la serietà politica e di civiltà democratica del caso della Val di Susa, che non è riducibile ad una questione di ordine pubblico. E quindi faccia sentire la sua voce. Monti deve trovare le parole giuste che non si limitino a ribadire le buone ragioni della decisione presa dai governi che l'hanno preceduto. Non può certo presentarsi come semplice prosecutore ed esecutore di quella decisione ma neppure azzerarla o alterarla nella sostanza. Non so se lui e i suoi collaboratori abbiano in serbo qualche soluzione innovativa o (di nuovo) mediatrice. Ne dubito, ma certamente il presidente del Consiglio deve saper convincere i cittadini della Val di Susa che i loro ultimi comportamenti (o i comportamenti da loro tollerati e magari strumentalizzati) non solo allontanano da una ulteriore revisione del progetto Tav ma mettono a rischio il buon funzionamento della democrazia.

So benissimo che c'è il rischio che queste parole cadano nel vuoto, anzi creino contraccolpi di segno contrario. Tanto più che Monti non può illudersi di avere il sostegno incondizionato dei partiti, che si esprimeranno certamente con mille distinguo. Ma di fronte ai cittadini italiani è dovere del presidente del Consiglio esprimersi con chiarezza, mettendo in gioco la sua stessa autorevolezza senza eludere o sottovalutare il significato di questa prova per la nostra democrazia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9832
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« Risposta #86 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:20:44 pm »

23/3/2012

Ma il consenso è un valore anche in Europa

GIAN ENRICO RUSCONI

Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi .

Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha - giustamente - acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.

Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento - come se questa fosse la chiave della crescita.

Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.

Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto - piaccia o no - un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.

Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti - per quanto sappiamo sino a questo momento - ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.

E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.

Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art.18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.

Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa - continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso - così come è scritto - ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9915
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« Risposta #87 inserito:: Aprile 05, 2012, 03:43:06 pm »

5/4/2012 - IL GOVERNO DEL PRESIDENTE

Larghe intese dopo Monti

GIAN ENRICO RUSCONI

Nella lunga e articolata intervista rilasciata al direttore Calabresi, Mario Monti fa un’affermazione rivelatrice. «Già in un’intervista a La Stampa nel 2005 avevo detto che ci sarebbe voluta una grande coalizione per fare le riforme: mi attirai solo critiche o giudizi di irrealizzabilità, ma alla fine mi pare che proprio questo sia successo».

Il suo governo - o meglio il sostegno parlamentare di cui ha bisogno - è dunque una variante della grande coalizione?

È la prima volta che il premier si esprime in termini così esplicitamente politici. Lo fa rispondendo alla domanda su chi può garantire che i comportamenti virtuosi dell’attuale governo non vengano abbandonati da un futuro governo «politico» e quindi quale quadro partitico potrà proseguire la sua opera. La risposta è, appunto, «una grande coalizione».

L’affermazione non è né banale né scontata, e definisce la qualità politica dell’appoggio al suo governo. Anzi, è una sorta di ipoteca sul futuro - al di là della sua persona.

In realtà questa posizione contiene alcune valutazioni sulla situazione odierna e una prospettiva politicoistituzionale futura che è bene mettere a fuoco criticamente.

Correggendo l’impressione che aveva sollevato una settimana fa, Monti si mostra ora molto contento del consenso di cui gode presso i tre partiti che lo sostengono e i loro leader. C’è un tocco di soddisfazione «pedagogica» (un termine che ritorna un paio di volte nell’intervista) vedendo finalmente i leader dei tre partiti «esercitare capacità di leadership, senza aspettare che il cento per cento del loro mondo di riferimento sia d’accordo con loro». Di conseguenza se i tre partiti (o meglio i tre leader) hanno imparato a intendersi e «a trovare un terreno comune pur senza avere il beneficio del protagonismo diretto, allora anche in una nuova fase di governi politici, in cui si assumeranno in prima persona la responsabilità di governare con i loro leader», è legittimo aspettarsi che anche il loro governo «politico» funzionerà. In prospettiva Monti si prepara ad annunciare che la sua «missione è compiuta».

Ma le cose non sono così semplici. Se il governo Monti riuscirà a realizzare pienamente il suo programma di riforme, non sarà semplicemente per la ritrovata convergenza dei partiti principali, ma per l’autorevolezza di cui gode. Questa autorevolezza gli viene dalla sua competenza riconosciuta internazionalmente e dalla particolare legittimità che gli deriva dalle circostanze e dalle procedure della sua formazione. È la legittimità di un «governo del Presidente», ineccepibile sul piano costituzionale ma audace sul piano politico. Lo diciamo con franchezza, senza secondi pensieri maliziosi.

Ebbene, basterà la formula di una futura «Grande coalizione» per avere la stessa competenza e la stessa forza politica, grazie alla ricostituzione della tradizionale procedura parlamentare? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo prendere atto di un altro problema che incombe sul sistema partitico italiano, sulla cui tenuta Mario Monti non sembra nutrire dubbi.

C’è il pericolo che le prossime elezioni amministrative segnalino un preoccupante aumento di astensionismo e la dispersione dei consensi alle tantissime liste civiche o localiste. Mancherà quindi la chiarificazione che si attendono le maggiori forze politiche. Anche se i leader di partito troveranno scappatoie verbali per dissimulare la deriva verso la virtuale scomparsa dei partiti che oggi occupano in modo inerziale il sistema mediatico. Potranno esultare solo i partiti minori che manterranno la loro consistenza, a conferma della frantumazione del sistema politico. Avremo un sistema di partiti tutti «minori» - e non solo in senso aritmetico.

Non mi pare che questo processo possa essere arrestato dalle proposte di riforma istituzionale ed elettorale che volonterosamente i partiti maggiori hanno avanzato nei giorni scorsi, senza per altro andare al di là delle dichiarazioni di intenti. Si tratta di ragionevoli varianti di proposte di cui si parla da decenni, ma senza un vero salto di qualità. Soprattutto presuppongono che l’elettorato italiano sia sempre lo stesso. O meglio, ci si aspetta che l’elettorato, dopo le contrapposizioni della stagione berlusconiana, torni ai buoni vecchi partiti, sia pure esteticamente rifatti, come se niente fosse stato. Ci si preoccupa - giustamente - della maggiore rappresentatività, ma molto meno della competenza ed efficacia decisionale del governo.

La forza del governo Monti invece consiste proprio nella sua capacità di decidere a fronte di una rappresentanza parlamentare che è «invitata» a dare la sua approvazione in una situazione di emergenza. I politici continuano a ripetere che il governo Monti è solo un intermezzo amaro ma necessario, da loro sostenuto «responsabilmente». In realtà è molto di più di così. Sta mostrando di essere un governo che aggrega decidendo. Chi e come, dopo di lui, sarà in grado ancora di farlo? Non basta la formula della grande coalizione, se questa non prevede un esecutivo autorevole.

Mario Monti ripete che il suo incarico terminerà con la scadenza della legislatura, per lasciare il posto alla «politica». Apparentemente parla come i suoi interlocutori in Parlamento. E lascia interamente a loro l’onere di ridisegnare eventuali riforme istituzionali. Non lo considera un problema di sua competenza, anche se l'approccio del suo governo all’art. 18, i discorsi sulla fine della concertazione o altre prese di posizione presuppongono una concezione politica che va ben oltre la gestione dell’ordine esistente.

In realtà lo stile di governo di Monti, ineccepibile sul piano istituzionale e personale, contiene forti implicazioni e ipotesi di innovazione istituzionale. Sono tutte implicite nella formula del «governo del Presidente». Come ho detto, è un concetto da usare con attenzione per non creare equivoci. Ma è urgente che approfondiamo la sua problematica al di là della vicenda contingente di questi mesi. Per molta cultura politica del nostro Paese, ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» in qualunque forma, è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi. È un’esigenza primaria. Discutiamone.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9965
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« Risposta #88 inserito:: Aprile 20, 2012, 11:22:31 pm »

20/4/2012 - POLITICA E ANTIPOLITICA

Dov'è finita la società civile?

GIAN ENRICO RUSCONI

Che fine hanno fatto gli imponenti movimenti di piazza, che hanno segnato la fine della stagione berlusconiana e hanno inaugurato una stagione che sembrava ricca di speranze a portata di mano? Anzi a portata di voce?

Sono usciti anche dal circuito dei talk-show e dalle trasmissioni televisive dedicate alla politica che hanno di fatto sostituito il discorso pubblico. Ospiti di queste trasmissioni sono sempre politici professionali, momentaneamente disoccupati dal Parlamento, e commentatori giornalistici che vivono quotidianamente addosso agli stessi politici che criticano. Accanto agli esperti di ogni genere e grado su tasse e «crescita». Ma di donne o uomini, che ripropongano le aspettative dei movimenti di mesi or sono non se ne vedono. O mi sbaglio? Ma come potrebbero accedere al circuito mediatico? Con quale legittimazione?

Gelosi e preoccupati di farsi strumentalizzare dai partiti politici, sospettosi verso ogni forma di organizzazione e leadership interna, i movimenti erano insofferenti di ogni documento programmatico che potesse assomigliare ad una mozione di tipo partitico; erano diffidenti verso prese di posizione pragmatiche che apparissero modeste rispetto ai grandi obiettivi. Hanno creato solo emozioni e grandi attese che sono state disattese.

Intanto il clima generale si è ulteriormente incupito e incattivito. Il governo Monti è circondato da un consenso freddo. Se ora ricomparissero in piazza quei movimenti (anche quelli di «categoria» che ambiscono di rappresentare interessi generali) dovrebbero stare attenti a non esporsi all’accusa di essere portatori di anti-politica. I movimenti di cui stiamo parlando non lo sono mai stati. Tanto meno l’ultimo (in ordine di tempo) «se non ora, quando? Non si sono mai confusi con i pogrom verbali contro i politici in quanto tali, che caratterizzano l’antipolitica di oggi.

Naturalmente anche nel nome dell’antipolitica si possono formare «movimenti»; ma non a caso questi si affrettano a darsi una qualche forma partitica e leader vocianti per essere più efficaci nel loro assalto al sistema politico. Non è di questi partiti camuffati da movimenti che abbiamo bisogno, anche di fronte al discredito in cui sono precipitati i partiti tradizionali.

Ci occorrono segnali tangibili da una società civile che non è stata zittita o frastornata da quanto sta accadendo, che è disposta a mobilitarsi per sostenere o promuovere iniziative ben mirate e naturalmente ad opporsi ad altre, se è necessario. Senza essere nemica dei partiti. Probabilmente è troppo tardi per scongiurare l’esito peggiore delle prossime consultazioni elettorali: l’astensionismo di massa e la dispersione sulle troppe liste locali e civiche che si sono presentate. Ma anche se fosse così, ci sarebbe un motivo in più per reagire.

Il governo Monti dovrà accontentarsi per lungo tempo di un consenso freddo. Inconfrontabile con quello di cui ha goduto - quasi miracolosamente - nelle prime settimane della sua attività. D’altronde è irrealistico pensare che siano mobilitazioni di piazza a riscaldarlo. Non a caso, da quando è in carica, ci sono state soltanto mobilitazioni di segno antagonistico. Era inevitabile, data la durezza delle misure adottate.

È bene tenere presente questo quadro generale al di là della cronaca dei contatti di palazzo Chigi e il flusso costante di dichiarazioni e controdichiarazioni che riempiono lo spazio politico. In questo contesto ben venga il risveglio di settori sensibili della società civile che con le loro rivendicazioni siano in grado di contrastare e sostituirsi costruttivamente all’antipolitica. Ma per fare questo sono necessarie e urgenti nuove modalità di rapporto con i partiti tradizionali che, aggrappati al sistema mediatico che assicura loro una fittizia vitalità, rischiano di rimanere autoreferenziali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10018
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« Risposta #89 inserito:: Maggio 01, 2012, 12:17:00 pm »

1/5/2012

Se il "credere" diventa una banalità

GIAN ENRICO RUSCONI

Sono rimasto colpito da due grandi manifesti collocati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro non lontano da casa mia. «Io credo nel fotovoltaico» è il loro messaggio. Un manifesto mostra una donna vestita di nero, evidentemente islamica, con le mani atteggiate a preghiera. L’altro rappresenta di spalle un sacerdote in abiti sacri che tiene in mano un crocifisso. Anche per lui vale la scritta «Io credo nel fotovoltaico».

E’ nata forse una nuova chiesa, targata www.heliosimpianti.it? No, evidentemente. E’ una spiritosa trovata dei pubblicitari «creativi» (si chiamano così...). Che cosa non fanno oggi per «bucare» il flusso della comunicazione! Chissà se hanno fatto anche una terza versione del manifesto: un operaio metalmeccanico che tiene le mani sul Capitale di Carlo Marx o forse più realisticamente oggi sull’art. 18. Anche lui potrebbe credere nel fotovoltaico.

Dobbiamo ridere? No. Proviamo a fare qualche riflessione.

Il mio primo impulso è stato quello vedere in quella pubblicità una mancanza di rispetto verso le religioni, evocate in par condicio - la cristiana e l’islamica. Ma poi ho pensato che l’ufficio legale della Helios si è già premunito in anticipo contro questa obiezione, dicendo che nella pubblicità sono rappresentati due esponenti o fedeli delle religioni che semplicemente dichiarano di credere anche nel voltaico. Anzi, in fondo «sono tecnologicamente avanzati» - aggiungerebbe l’astuto avvocato. L’offerta è super partes, è ecumenica, è universalistica,

In effetti il trucco è giocato tutto sulla parola e sul concetto di «credere», che ha perso ogni rigore e pregnanza ma ha guadagnato in estensione. Si crede o si ha fede nei dogmi religiosi, nella democrazia, in un partito o nella Padania, si crede nel proprio coniuge ecc. E’ una parola inflazionata ma tenace come quella di popolo (il popolo italiano, il popolo dell’Iva, il popolo della Juve ecc.). Perché non credere anche nel fotovoltaico?

Naturalmente la forza della parola «credere» dipende (in modo subliminale) dal riferimento religioso. Non a caso il «credere» e il «non credere» si riferiscono innanzitutto ai contenuti di fede. E’ l’utilizzo più nobile ma più equivoco. Suggerisce infatti che qualcuno che «crede» ha qualcosa in più (sottovoce si intendono «i valori») di qualcun altro che «non crede».

Naturalmente è una colossale sciocchezza, ma funziona. Tant’è vero che persino per promuovere il «fotovoltaico» è più semplice e tentante far ricorso al credere che all’argomentare.

Ma non voglio esagerare oltre nell’esegesi di una comunicazione pubblicitaria che magari passerà inosservata per i più, tanto è denso il flusso informativo che ci investe. Qualche lettore può anche mettersi a ridere per quanto sto scrivendo.

Sarà un mio vizio professionale, ma prendo sul serio le parole. Soprattutto quando mettono in gioco «fede» o «credo», esibiti come punti fermi di certezza in un mondo di incertezze. Una forza che per associazione va oltre il campo religioso e interessa tutti gli ambiti della vita.

Il discorso non è semplice, lo so. Ma i creativi della pubblicità hanno intuito che giocando sulle ambiguità e sulle assonanze della parola «io credo» possono vendere anche qualcosa, come il fotovoltaico, che viceversa richiederebbe ragionamenti ben più articolati e ragionati.

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