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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 57539 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 21, 2011, 05:42:35 pm »

21/3/2011 - LA SENTENZA EUROPEA

Il crocifisso non è innocuo


GIAN ENRICO RUSCONI

La sentenza della Corte di Strasburgo è prigioniera di un brutto paradosso. Dichiarando che il crocifisso esposto in un’aula scolastica non lede alcun diritto, non solo lo dichiara innocuo, ma declassa il più potente segno religioso dell’Occidente a un marcatore identitario. «Non fa male a nessuno» - come ripetono da sempre i molti per trarsi d’impaccio dal conflitto di ragioni che la questione seriamente solleva.

Posso comprendere il tripudio dei cattolici governativi e dei leghisti che dopo lo smacco della riuscitissima festa dell’Unità d’Italia si consolano dicendo che nazionale non è la bandiera tricolore ma il crocifisso. Quello che non capisco (si fa per dire) è l’entusiasmo della gerarchia ecclesiastica. Non si rende conto dell’equivoco che promuovendo il crocifisso come simbolo di universalismo e umanitarismo in esclusiva nazionale, negando di fatto spazio ad altri simboli religiosi, lo priva della sua specifica autenticità religiosa?

Preoccupazioni culturali, considerazioni psicologiche; deduzioni giuridiche. Di tutto si parla, salvo che del valore religioso del crocifisso che rappresenta (dovrebbe rappresentare) il Figlio di Dio in croce. Non semplicemente un uomo giusto e innocente ma - in una prospettiva teologica carica di mistero - il Figlio di Dio che muore per volontà del Padre per redimere l’uomo dal peccato. Terribile mistero di fede, diventato oggi incomunicabile, banalizzato a segnaposto identitario nazionale.

Evidentemente tra i «valori non negoziabili» di molti cattolici c’è la rivendicazione dello spazio pubblico per le loro idee su famiglia e omosessualità, ma non c’è la capacità di trovare le parole per comunicare verità dogmatiche di cui si è perso letteralmente il significato: peccato originale, redenzione, salvezza. Tanto vale ripiegare sulla simbologia umanitaria, come si trattasse di Gandhi. Anzi meglio di Gandhi: «Abbiamo il crocifisso».

Non è certo compito degli atei devoti o dei laici pentiti occuparsi di queste cose. A loro non interessano queste faccende teologiche. Ma dove sono i cristiani maturi? Dove sono i «teologi pubblici» - come dice la nuova moda? Lascio a chi è più competente di me dare un giudizio giuridico sulla sentenza di Strasburgo. Il lungo testo sembra molto preoccupato di delimitare i confini della competenza della Corte: «Non le appartiene pronunciarsi sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche con il principio di laicità quale è consacrato nel diritto italiano». In altre parole, si affida alla giurisprudenza italiana, facendo finta di non sapere quanto essa sia incerta e controversa. Anzi adesso molti uomini di legge saranno sollevati d’avere un’autorevole istanza «esterna» cui appoggiare i loro argomenti.

Un punto importante tuttavia è acquisito dalla sentenza: in tema di religione (insegnamento, spazio pubblico, rapporti istituzionali tra Chiesa e Stato) il criterio nazionale ha la precedenza su ogni altro. Ma questo in concreto vuol dire che in Europa prevarranno linee interpretative molto diverse da Paese a Paese: la situazione francese è inconfrontabile con quella tedesca, con quella italiana, con quella spagnola, per tacere dei nuovi Stati membri dell’Europa orientale. Con buona pace dell’universalismo del messaggio cristiano ridotto a principi generalissimi diversamente intesi e praticati a Parigi, a Berlino, a Roma o ad Atene. E’ come se per paradosso si riproducessero di nuovo - in termini non drammatici - le antiche divisioni della cristianità occidentale.

Ma poi la Corte fa un passo ulteriore significativo, quando dichiara con una certa disinvoltura di non avere prove di una influenza coercitiva negativa del simbolo cristiano su allievi di famiglie di religione o di convincimenti diversi. In realtà proprio su questo punto è stata decisiva anni fa la sentenza della Corte Costituzionale tedesca (a mio avviso la più equilibrata e convincente mai pronunciata) che al contrario ha dichiarato necessario tenere in considerazione le opinioni di tutti gli interessati. Si tratta infatti di un conflitto tra diritti legittimi. L’esito finale della lunga appassionata controversia sul crocifisso in aula è stato il più impegnativo che si potesse immaginare: nessuna imposizione di legge, ma ragionevole intesa tra tutti gli interessati. In nome dell’universalismo e del rispetto reciproco.

E’ una strada difficile da praticare, ma è l’unica degna di una democrazia laica matura. Peccato che noi ne siamo ancora molto lontani.

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« Risposta #61 inserito:: Marzo 27, 2011, 10:54:49 am »

27/3/2011

L'Europa senza classe dirigente

GIAN ENRICO RUSCONI

L’Europa non ha una solida e autorevole classe politica dirigente, ma leader nazionali in competizione tra loro. La loro preoccupazione principale è il timore della perdita di consenso elettorale interno, non l’elaborazione di una grande strategia unitaria nei confronti dei processi rivoluzionari in Nordafrica e in Medio oriente. Le incertezze e le inquietudini delle opinioni pubbliche in Europa sono così forti che i governi lungi dal saperle orientare, ne sembrano solo condizionati.

Francia e Germania hanno preso due strade opposte - interventista, decisionista, conflittuale quella francese al punto da metter in difficoltà la Nato. Reticente, assenteista, ripiegata su se stessa quella tedesca. E l’Italia si trova spiazzata. L’oscillazione della sua politica ufficiale l’ha fatta ricadere in una impasse che riproduce un destino che colpisce l’Italia da oltre cent’anni in circostanze simili. E’ una fatale eredità storica, addirittura post-unitaria.

Ma adesso si rischia di toccare il fondo, se la preoccupazione dominante è quella di rimandare a casa i profughi. E’ questa la grande politica mediterranea del governo italiano?

Il risentimento anti-francese che in queste ore contraddistingue non solo il governo ma anche parte dell’opinione pubblica, fa velo sul comportamento tedesco che viene presentato come saggio neutralismo, che si sarebbe potuto imitare. Ma non è esattamente così. Anche quella tedesca è una stretta considerazione degli interessi nazionali.

Da tempo ormai «la Grande Germania» è diventata un po’ «piccina». Giustamente combatte strenuamente per una politica finanziaria e monetaria comune, con atteggiamenti severi verso chi trasgredisce o non si impegna seriamente. Vuole evitare che i costi di sostegno di un gravoso interesse comune ricadano in modo sproporzionale sui tedeschi. Ma per il resto il governo di Berlino è interamente assorbito dai suoi problemi interni - anche di alto valore, come il progressivo abbandono dell’energia nucleare. Questo è al momento il problema che più interessa in assoluto l’opinione pubblica tedesca che segue con apprensione quanto sta accadendo in Giappone.

In questa ottica, il Mediterraneo è lontano, molto lontano. Il drammatico sbarco sulle coste italiane di masse di giovani uomini in fuga è menzionato dai media tedeschi per parlare delle disastrose condizioni logistiche, alimentari e igieniche. Sulla sostanza del problema non c’è dibattito.

La Germania non ha rilevanti interessi né energetici né strategici nell’area mediterranea. Ma a suo tempo aveva guardato con irritazione l’ambizioso piano di Sarkozy per una Unione mediterranea, riuscendo a boicottarlo per evitare che facesse ombra all’Unione europea come tale. Il Presidente francese non se l’è presa più di tanto. Ma probabilmente ora Sarkozy è contento che l’amica Angela Merkel (con la quale giorni fa nella riunione intergovernativa ha scambiato i rituali bacetti) si sia messa in disparte nella faccenda libica e più in generale di fronte al rilancio di una grande «politica araba» francese. Non è infatti facile per Sarkozy tenere testa alla cancelliera quando questa si impunta. Ma non si può quindi escludere che l’atteggiamento astensionista della Merkel sia dovuto anche al desiderio di non scontrarsi con le ambizioni del presidente francese, di cui ha bisogno per portare avanti la sua politica finanziaria europea. Ancora una volta, entra in gioco l’interesse nazionale tedesco.

A questo vanno aggiunte le preoccupazioni elettorali. Da tempo ormai la Merkel è in difficoltà. Per un tipo riservato come lei, lasciarsi scappare in pubblico la frase di «essere molto triste» per le critiche ricevute per il suo atteggiamento verso il caso libico, segnala un disagio reale. Probabilmente i suoi sensibili sensori verso l’opinione pubblica le trasmettono segnali contraddittori che la inquietano. Proprio oggi registrerà una risposta importante, forse decisiva, con le elezioni nei Länder del Baden-Württemberg e Rheinland-Pfalz.
Ma la questione chiave della consultazione elettorale odierna non è la Libia o il Mediterraneo bensì la prosecuzione o meno della politica energica governativa che punta sulle centrali nucleari.

In proposito nei giorni scorsi c’è stato un piccolo incidente molto significativo. Il ministro (liberale) dell’Economia in una riunione riservata con la Confindustria tedesca avrebbe detto - a quanto risulta dai verbali - che «non è razionale» impegnarsi nel dibattito sulla politica energetica nucleare in clima di elezioni. Come dire che i discorsi sull’abbandono dell’atomo avanzati dal governo sono soltanto una manovra elettorale. Naturalmente il ministro ha smentito d’aver detto quella frase, costringendo un alto dirigente della Confindustria, responsabile dei verbali, alle dimissioni. Un gesto nobile ma sospetto.

Tornando alla politica nel Mediterraneo, il ministro degli Esteri tedesco l’altro giorno si è limitato a dire in Parlamento, con il tono stentoreo che lo caratterizza, che «nessun soldato tedesco andrà combattere in Libia». In compenso la Germania darà una mano agli alleati occidentali su un altro fronte, inviando uomini e mezzi in Afghanistan. Ieri una vignetta su un giornale rappresentava un gruppo di ribelli libici: uno chiede «Dove sono i tedeschi?». L’altro risponde. «In Afghanistan a combattere per la nostra libertà».

La preoccupazione del ministro tedesco è quella di mostrare «lealtà» verso gli alleati occidentali più che impegnarsi nella soluzione del problema libico o mediterraneo. Delle grandi parole care ai tedeschi negli anni scorsi sull’interventismo per i diritti umani calpestati, non c’è più traccia. Non mi pare una posizione esemplare da «Grande Germania».

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« Risposta #62 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:36:21 pm »

12/4/2011

Non servono colpi di testa

GIAN ENRICO RUSCONI

Bastano 22 mila profughi indesiderati per rovinare nel giro di quarantotto ore il lavoro di decenni di costruzione europea?

La frase di Roberto Maroni che si chiede «se ha senso rimanere nell’Unione europea. Meglio soli che male accompagnati» - è molto grave. Sproporzionata. In realtà rivela di colpo l’incultura europea di parte della nostra classe politica. Governo compreso.

Aspettiamo adesso una chiara responsabile dichiarazione del presidente del Consiglio. Quella del ministro dell’Interno infatti non è la solita «battuta leghista» da non prendere troppo sul serio.

Ma intanto - comunque vada - da oggi l’Europa non sarà più quella di prima. E non solo per colpa degli italiani che erano attesi al varco della crisi finanziaria (con la litania sempre ripetuta che dopo l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo sarebbe stata la volta dell’Italia). Gli italiani invece hanno turbato l’Europa con una decisione apparentemente meno drammatica, che di colpo però ha mostrato le nuove ansie profonde dell’Europa dei governi. Si ha l’impressione infatti che crei più preoccupazione la prospettiva di dover forzatamente accogliere profughi indesiderati che non accollarsi i costi supplementari del salvataggio finanziario greco o portoghese. Se è così l’Europa è davvero cambiata.

Non è chiaro se nella rigida reazione dei ministri europei che rivendicano la corretta interpretazione delle regole Schengen di contro all’iniziativa italiana, ci sia soltanto l’esigenza che «le regole vanno rispettate». O non ci sia anche il sospetto che il ministro italiano abbia tentato di forzare la mano creando un fatto compiuto. Confermando ancora una volta che gli italiani sono sempre un po’ disinvolti quando si tratta di interpretare le norme. Soprattutto in presenza di un governo che non brilla certo per entusiasmo europeo. Per tacere d’altro. È antipatico scrivere queste cose, ma sarebbe ipocrita tacerle.

Se è così, si rivela un altro tassello della mutazione dello spirito europeo. Questa volta imputabile anche alla situazione italiana. La straordinaria storia del ruolo determinante e insostituibile dell’Italia nella costruzione europea - non solo dai mitici inizi degli Anni Cinquanta ma per tutti i decenni successivi - sembra archeologia. Peggio, rischia di essere retorica - dopo le infrazioni continue, le inadempienze, le sciatterie italiane nei rapporti con Bruxelles. L’Europa si è ridotta ad un fastidioso controllore, ad un deposito di risorse da strappare con complicate pratiche burocratiche. In ogni caso un’istituzione da trattare in modo strumentale - do ut des. Maroni ha ricordato polemicamente che l’Italia ha mostrato la sua solidarietà verso la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. «Ma a noi, in questa situazione di grave emergenza, è stato detto “cara Italia, sono affari tuoi e devi fare da sola”. L’Unione europea è un’istituzione che si attiva subito solo per salvare banche e per dichiarare guerre, ma quando si tratta di esprimere solidarietà a un Paese come l’Italia, si nasconde».

I concetti-chiave del ragionamento sono «emergenza e solidarietà». La controversia sta proprio nella loro interpretazione. Ciò che per il governo italiano è «emergenza e necessità di solidarietà» non lo è per i partner europei. Invece proprio da questi valori - riferiti ovviamente ad altri contenuti - è nata e si è sviluppata l’Europa. Questo ciclo si sta chiudendo? Mi chiedo che cosa pensa davvero la grande maggioranza della popolazione italiana, francese o tedesca. Al momento sembra silenziosamente schierata dietro i rispettivi governi. Mi chiedo ad esempio che cosa pensano i Verdi tedeschi che insieme ad un’Europa denuclearizzata ed ecologica, la vogliono più solidale anche nei confronti dei migranti. Si accontenteranno delle cifre che il governo di Berlino elenca per mostrare la sua generosità (in un sottinteso confronto polemico con l’Italia)? Sarà importante vedere come l’opinione pubblica europea reagirà nei prossimi giorni se il governo italiano decidesse qualche colpo di testa. O viceversa se l’Europa posta di fronte ad una situazione di grave disagio di un suo membro importante mutasse atteggiamento.

Per il momento dunque la parola e l’iniziativa rimangono ai governi. Innanzitutto al governo italiano, che si trova davanti ad una prova molto seria del suo europeismo. Se è convinto d’avere buone ragioni, si ricordi che le virtù delle vecchie classi politiche europee di fronte alle difficoltà che sembravano insormontabili, erano la ferma pazienza e la ricerca ostinata dell’accordo. Non la ricerca del consenso elettorale domestico ad ogni costo. Tanto meno i ricatti di rompere con i partner. Non ci sarebbe stata l’Europa.

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« Risposta #63 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:44:34 pm »

29/3/2011

I tedeschi licenziano i politici

GIAN ENRICO RUSCONI

Quello che accade in Germania si spiega ben al di là degli errori politici di Angela Merkel.

È la crescente scollatura tra un nuovo esigente elettorato e un ceto politico, certamente professionale e competente, ma che non sa più interpretare le ansie e le attese dei cittadini.

La cancelliera Merkel lo aveva oscuramente intuito, ma ha sbagliato nella risposta politica. È difficile dire ora se si tratta di un errore correggibile. La Merkel si sta giocando il suo destino politico e probabilmente quello dell’intero sistema politico partitico tedesco così come ha funzionato sinora. Si sta verificando infatti un mutamento irreversibile.

Per un’analisi significativa della nuova situazione tedesca occorre quindi tenere insieme tutti gli elementi: la nuova sensibilità dei cittadini, il mutamento degli equilibri politici, gli errori strategici e tattici della Merkel.

Cominciamo da questi ultimi. L’errore politico più serio della Merkel è avere un alleato sbagliato - il partito liberale di Guido Westerwelle - che la danneggia anziché sostenerla. Dalla mancata riforma fiscale al nucleare. Usciti vincitori dalle ultime elezioni generali con una baldanza che era sopra le righe, i liberali hanno avanzato programmi ambiziosi (riduzione delle tasse, riforma del sistema sanitario) che si sono rivelati impraticabili e controproducenti. Da qui i continui conflitti interni alla coalizione che la Merkel ha cercato di smussare anziché risolvere. Quella che sembrava una mediazione era in realtà una rimozione momentanea del conflitto.

Le cose non sono andate meglio recentemente a proposito della neutralità tedesca nella crisi libica. La convergenza tra la Cancelliera e il ministro degli Esteri Westerwelle non è avvenuta sotto il segno di una scelta meditata, ma con la preoccupazione di giustificarsi presso gli alleati occidentali. La decisione di starsene fuori non è dispiaciuta ai tedeschi, che in questo momento ritengono di avere problemi più urgenti cui pensare. Ma da una Cancelliera che tra le sue priorità conclamate mette sempre il rafforzamento dell’Europa e il ruolo consapevole della Germania nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ci si aspettava un atteggiamento meno elusivo.

Da qui l’appannamento di immagine di una donna che aveva sempre dato l’impressione di essere risoluta e chiara anche nei momenti di dissenso. È stato con questa immagine che la Cancelliera si è presentata ai suoi concittadini come vincente sulla questione che più le sta a cuore: la tenuta e la riorganizzazione del sistema economico-finanziario europeo con un solido apparato di controlli.

Ma la cosa non sembra avere impressionato gli elettori che si chiedono se in Europa è passata davvero la linea Merkel. Non ne sono del tutto convinti, in ogni caso non sembrano entusiasti dello stato di salute dell’euro. Ma sono rassegnati: per la Germania l’Europa è una costosa necessità. Ecco perché quella che la Merkel riteneva fosse la sua carta elettorale vincente non ha funzionato.

In compenso ha rivelato una fatale incertezza nella politica dell’energia nucleare che in questo momento è ciò che sta più a cuore agli elettori tedeschi. L’idea di convocare un «consultorio etico» per ripensare ancora una volta l’intera questione del nucleare, che alla maggioranza dei tedeschi è assolutamente chiara, è sembrato un pretesto per prendere tempo. Il resto lo ha fatto l’incauta sortita del ministro dell’Economia (anche lui un liberale) che ha lasciato capire che la ventilata ritirata dal nucleare era una mossa elettorale. È questo atteggiamento che è stato punito - al di là della sostanza - proprio per lo stile elusivo dei politici.

Il punto è importante. La chiave di lettura della batosta elettorale subita dalla Cdu nel Baden-Württemberg non è soltanto la preoccupazione per le centrali nucleari, ma anche e soprattutto l’insensibilità e l’ostinazione mostrate dalla classe politica locale e regionale nel lungo braccio di ferro per un macro-progetto attorno al centro ferroviario di Stoccarda. Un progetto disapprovato da una consistente parte della popolazione, ma soprattutto percepito come un’arrogante imposizione della classe politica. Si è parlato di «problemi di comunicazione» - in realtà si è assistito a un duro e serio confronto di opinioni, rimasto irrisolto e irrigidito. Si è risolto con le elezioni. La cancelliera Merkel (per convinzione o per lealtà di partito) si è schierata apertamente da una parte, sostenendo il gruppo dirigente locale. Lo ha pagato duramente. Doveva farlo? Poteva evitarlo?

Da questo braccio di ferro è uscito vincente il partito dei Verdi che nominerà il presidente dei ministri di uno dei Länder più importanti della Germania e governerà con la socialdemocrazia, come anche nella Renania-Palatinato. In prospettiva si profila in autunno la possibilità di un cambio analogo anche nella capitale Berlino. Sarebbe indirettamente un altro duro colpo per la Merkel, a meno che nel frattempo non abbia un imprevedibile scatto di fantasia politica.

In ogni caso sarebbe un errore pensare il futuro in una logica di giochi partitici vecchia maniera (dopo tutto la coalizione rosso-verde non è affatto una novità in Germania). La lezione di questi giorni è la virtuale mobilitazione di cittadini pronti a impegnarsi direttamente sui grandi problemi, che ritengono vitali, senza delega in bianco ai professionisti politici, a meno che questi non abbiano imparato la lezione.

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« Risposta #64 inserito:: Aprile 28, 2011, 06:31:02 pm »

28/4/2011

In Europa ognuno per conto suo

GIAN ENRICO RUSCONI


La triangolazione Italia-Francia-Germania che ha condizionato gran parte della storia europea è finita. Era evidente da tempo, ma la vicenda mediterranea-libica ne è la sanzione ufficiale.

La Germania è ripiegata su se stessa. La Francia gioca le sue carte con sovrana disinvoltura. La Commissione europea si rivela una struttura decisionale insicura se non impotente. L’Italia si sente vagamente vittima, alla fine si accoda ai più forti, ma in fondo è alla deriva, nonostante i toni rassicuranti del presidente del Consiglio.

L’Italia è diventata una «colonia della Francia» - accusa Bossi. Nessuno ha argomenti per contestarlo. O per dirlo in modo più appropriato. Il solo obiettivo della classe politica di governo è di sopravvivere politicamente: compresa la Lega che ringhia (a scopo elettorale) ma non morderà Berlusconi. Andremo avanti da un appuntamento elettorale a un altro, da una legge all’altra. Rimane il contrasto impressionante tra il concitato circuito politico-mediatico e l’atteggiamento distaccato, vagamente nauseato della maggioranza della popolazione - che pure andrà volonterosamente a votare.

Ma quello che sta accadendo a livello internazionale - in particolare il declassamento dell’Italia incapace di sintonizzarsi autonomamente ed efficacemente sui nuovi equilibri internazionali ed europei - sembra un fenomeno irreversibile.

Non si vede neppure all’orizzonte una classe politica alternativa con idee chiare e decise. Nel migliore dei casi è nostalgica di un’Europa che non c’è più. Ma l’età dei Ciampi e dei Prodi è finita. L’opposizione è ipnotizzata dal berlusconismo, lo contesta punto per punto, ma sempre in modo reattivo, non creativo.

Torniamo alla triangolazione storica Italia-Francia-Germania . Non è una esagerazione dire che - in quanto rapporto tra nazioni moderne - si è costituita anch’essa centocinquant’anni fa. E’ nata nel contesto della vicenda dell’unità d’Italia con il sostegno attivo militare francese nel 1859 e l’alleanza italo-prussiana per il suo completamento nel 1866 con l’acquisizione del Veneto. Contemporaneamente la prima fase della riunificazione tedesca è avvenuta con l’apporto diretto italiano e la benevola neutralità francese. Poi nel 1870-71 c’è lo scontro frontale tra Germania e Francia, mentre l’Italia si colloca in una posizione defilata e opportunistica.

Come si vede, già da allora la dinamica tra le tre nazioni è complessa, con un alternarsi di convergenze diplomatiche e di ricorso alle armi. Ma è una dinamica decisiva per il successivo sviluppo della grande industrializzazione e modernizzazione con vicende alterne fatte di tensioni e avvicinamenti, di blocchi di alleanza e rovesciamenti di alleanze, culminanti in conflitti terribili e infine nella catastrofe europea. Soltanto dopo la Seconda guerra mondiale avviene il miracolo di una straordinaria insostituibile cooperazione tra Francia, Germania e Italia . Anzi, non è un «miracolo» ma il risultato della determinazione di uomini politici che devono lottare anche all’interno dei propri Paesi. Una straordinaria classe politica lungimirante. La dinamica tra le tre nazioni, che ha distrutto la vecchia Europa, ne costruisce una nuova.

Ma adesso questo ciclo sembra chiuso o quanto meno irrimediabilmente alterato. Le tre nazioni storiche sono tenute insieme - con un’altra ventina di Stati - da vincoli istituzionali certamente significativi e persino irreversibili. Ma sono tutt’altro che efficaci per affrontare problemi decisivi come l’uso della forza militare, il controllo delle frontiere o (per usare il vecchio linguaggio diplomatico dato per morto) «le sfere di influenza». Per queste sembra essere restaurata di fatto la vecchia sovranità nazionale. Ricompaiono le differenze o gli interessi nazionali enfaticamente dichiarati superati.

In questo contesto la Germania ha assunto una posizione singolare. La sua astensione dal conflitto libico, anzi dalla Risoluzione di censura dell’Onu contro Gheddafi, astensione che qualcuno a casa nostra ha lodato senz’altro come saggezza politica, è in realtà indizio di un riallineamento nei grandi equilibri mondiali. E’ un caso che nella stessa seduta dell’Onu si siano astenute sia la Cina (la potenza economica mondiale con cui la Germania ha stretti crescenti rapporti) sia la Russia (una delle principali fornitrici di energia per la Germania stessa)? La stella polare della nuova Germania è dunque il suo stretto interesse economico a livello globale? In questa ottica l’area mediterranea è davvero secondaria e può essere lasciata volentieri alla Francia di Sarkozy di cui il governo della Merkel ha assolutamente bisogno per i suoi programmi di ordine economico e finanziario in Europa.

Può darsi che il comportamento tedesco non risponda così puntualmente a quanto sto scrivendo. Nei primi Anni Trenta di fronte ai problemi della (prima) democrazia tedesca proprio in Francia è stata coniata l’espressione «incertitudes allemandes», incertezze, insicurezze tedesche. Se la cito adesso non è affatto per suggerire inconsistenti analogie con quel tempo. No, assolutamente. Ma non c’è dubbio che la classe politica tedesca sia attualmente insicura di fronte alla direzione che sta prendendo l’elettorato in Germania sempre più contrario all’impegno militare (in Afghanistan), ostile all’energia nucleare e sempre più inquieto di fronte all’immigrazione islamica.

Tanto vale allora, prudenzialmente, stare alla larga dalla crisi mediterranea, anche a costo di lasciare l’Italia «da sola». Il resto ovviamente lo ha fatto e lo fa quotidianamente la deprimente immagine dell’Italia politica e civile presso l’opinione pubblica tedesca. Il capitolo della stretta, felice, attiva cooperazione italo-tedesca durato almeno sino alla metà degli Anni Novanta è chiuso.

Mi auguro adesso che nessuno - al governo o all’opposizione - scambi l’ipotetica nomina di Draghi a presidente della Banca europea come una vittoria (o un contentino) per l’Italia.

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« Risposta #65 inserito:: Maggio 25, 2011, 05:11:44 pm »

24/5/2011 - LE IDEE

Altiero Spinelli quando l'Europa aveva un cuore

GIAN ENRICO RUSCONI


E’ come se l’Europa non esistesse più. Parlo dell’Europa che abbiamo sperato: l’istituzione garante della civiltà, della solidarietà, del benessere. Ricca di prestigio internazionale, quasi un modello per i popoli emergenti, in particolare dell’area mediterranea. Era il sogno dei fondatori, il sogno di Altiero Spinelli - anche se nessuno di loro lontanamente immaginava la situazione odierna.

Invece è venuta fuori un’altra cosa. L’Europa è una istituzione rigida con il suo apparato di presidenti, commissari, commissioni, funzionari, norme, regole, leggi e leggine. Ma alla fine - sotto sotto - decidono sempre ancora le grandi nazioni. Quando si presentano impegnative sfide comuni - dalla crisi dell’euro allo sbarco dei disperati a Lampedusa - l’Europa diventa insicura, divisa sostanzialmente impotente. Si ripiega su se stessa ricattata e ricattabile dai suoi risorgenti etnocentrismi nazionali. Eppure paradossalmente proprio per le sue rigidità è irreversibile - non si può né disfare né rinnovare profondamente nelle sue istituzioni. Chissà se l’eloquenza del Presidente americano in visita in Europa nei prossimi giorni darà uno scossone. Non lo credo. Obama sarà abile nel riconoscere pubblicamente all’Europa un grande ruolo. Forse la sua retorica troverà belle parole per suggerire l’ennesimo grande «sogno» da mettere nei titoli dei giornali. Ma gli europei - i cittadini europei prima dei loro governi - hanno esaurito le loro riserve di mobilitazione ideale.

Del resto l’Europa cui pensa l’amministrazione Obama non è esattamente quella che preoccupa oggi i cittadini europei. Quello che vogliono gli americani è un partner accondiscendente o delegato quando sono in gioco le grandi questioni internazionali per le quali è necessario anche l’uso della forza. Lo si è visto dall’Afghanistan alla Libia. Adesso la posta in gioco nel Mediterraneo è enormemente più alta. Qui l’America ha bisogno dell’Europa. Ma non vedo gli europei pronti ad impegnarsi. Né i governi né i cittadini.

L’amore degli europei per l’Europa è finito, anche se i motivi del disamoramento sono diversi da Paese a Paese. Nella costruzione dell’Europa i sentimenti hanno giocato un ruolo decisivo. Anni fa esperti e analisti politici erano compiaciuti delle aspettative che i cittadini avevano verso l’Europa in costruzione. Oggi la tendenza ha cambiato di segno. La gente anzi è infastidita dalla retorica europea d’ufficio.

Prendiamo le due nazioni che tradizionalmente secondo gli eurobarometri nei decenni passati hanno dato maggiore credito all’Europa: l’Italia e la Germania. I tedeschi oggi non nascondono più pubblicamente la loro disillusione, mentre il loro governo è manifestamente sempre in (cortese ma netta) tensione con quello europeo su punti cruciali. L’unica ossessione dei tedeschi è la tenuta dell’euro, insidiata dai cattivi partner europei meridionali. Non sembrano vedere altro. Sto parlando ovviamente della grande comunicazione pubblica. Si intuisce una voglia di isolazionismo tedesco. In questa ottica va visto anche il rifiuto di farsi coinvolgere nell’azione combinata Ue e Nato contro la Libia, comodamente idealizzata come manifestazione di saggezza.

Da parte italiana il governo berlusconiano è sostanzialmente assente dal grande dibattito europeo che conta, prigioniero delle sue tensioni interne, che danno fiato a rumorosi atteggiamenti anti-europei innanzitutto in campo leghista. A ciò si aggiunga la drammatica caduta di immagine dell’Italia politica (ma non solo) in tutta Europa.

Detto questo, capisco perché la reazione dell’Europa alla vicenda degli sbarchi di Lampedusa abbia sgradevolmente colpito l’opinione pubblica italiana, anche quella meglio predisposta verso l’Unione europea. I governi europei hanno ragione a parlare di regole da rispettare o di vittimismi italiani fuori misura. Ma quando si vedono ministri europei che sventolano le cifre dell’accoglimento di profughi nel loro Paese, mentre mobilitano forze speciali ai (vecchi) confini, o le televisioni si soffermano a lungo sui barconi che affondano quasi si trattasse di una variante dello tsunami - senza spendere una parola sul fatto che quei disperati sono aggrappati agli scogli della «casa europea» - si sente che qualcosa non funziona più. Non c’è più cuore europeo.

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« Risposta #66 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:39:22 pm »

29/5/2011

La lezione di Obama all'Europa

GIAN ENRICO RUSCONI

E’ sorprendente la sicurezza con cui il presidente americano Barack Obama si muove e parla con sovrana disinvoltura in Europa in questi giorni. Gli europei - non soltanto i governi - sembrano intimiditi, nel loro stesso modo di acconsentire.

Lo si vede quando Obama invita a essere severi con la Libia, quando invita a sostenere finanziariamente le ancora fragili democrazie dell’area mediterranea. O quando elogia la Polonia presentandola come un modello di democrazia, con un’audace analogia tra la situazione del totalitarismo comunista e i regimi autocratici mediterranei. Per finire con il severo ammonimento alla Bielorussia.
Ma siamo davanti a una brillante riedizione dell’«Occidente libero» nemico di tutte le dittature - senza distinzione di colore. O c’è qualcosa di nuovo?

Gli stessi grandi commentatori sembrano imbarazzati. Impappinati. L’altro giorno Timothy Garton Ash non ha trovato di meglio che riesumare e riadattare il vecchio adagio: «L’Occidente è morto, lunga vita all’Occidente». Ma non si è ben capito se e come Obama rappresenti il nuovo Occidente.
Tanto più che Garton Ash tiene a farci sapere che lui parla di «post-Occidente».

In realtà oggi non c’è niente di meno originale della particella «post» per qualificare qualcosa.
Nulla rivela maggiormente l’incapacità di definire le qualità del nostro tempo (che è il tempo dell’Occidente), quanto l’uso ormai coatto del post. Dopo l’irresistibile esondazione del post-moderno e della sua retorica, tutto è diventato post. Post-ideologico, post-secolare, post-democratico, post-eroico - e adesso post-occidentale (ma sono sicuro che qualcuno l’ha già usato tempo addietro).

Noi siamo sempre il «dopo» di qualcosa, da cui però non sappiamo emanciparci concettualmente. E’ l’inconfessata ammissione della nostra condizione di epigoni che devono fare i conti con un passato che ci condiziona intimamente. Nel bene e nel male. Questo almeno vale per noi europei.

Ma torniamo a Obama: in che cosa consisterebbe il suo post-Occidente (se vogliamo continuare con questo gioco semantico)? Diamo un’occhiata alla fotografia del G8 di Deauville, dei giorni scorsi, che si è allargato agli uomini di Stato di altre nazioni africane. Sono questi signori (con una sola signora sia pure molto influente, Angela Merkel) che rappresentano virtualmente il post-Occidente?

Ma Obama è andato anche a Varsavia a partecipare al Consiglio dei Capi di Stato dell’Europa centrale. Anche lì c’è un pezzo di Occidente, tant’è vero che si è parlato anche dei nuovi movimenti democratici dell’area mediterranea per i quali potrebbero rivelarsi utili le lezioni e le esperienze della resistenza al comunismo sovietico sino al suo crollo. E’ una analogia istruttiva che gratifica i polacchi, i cechi o i lituani facendoli sentire «occidentali».

E’ una analogia del resto che è stata fatta subito da molti commentatori. Ma al di là del suo valore simbolico e morale non ha francamente validità sul piano storico né su quello politico. Anzi - se vogliamo essere un minimo rigorosi - questa analogia porta fuori strada, da tanti punti di vista. Sarebbe insensato pensare che la caduta del Muro di Berlino abbia qualche parallelo con la piccola breccia aperta (verso l’Egitto) nel muro di Gaza. La libertà e la rivendicazione dei diritti politici è un bene universale e indivisibile. Ma le esperienze, le strade, le strategie, i costi per il loro raggiungimento sono inconfrontabili. E’ avvenuto nello stesso «vecchio Occidente».

Fa bene Obama a usare questa analogia nel suo sovrano stile retorico. Ma se e quando politici e analisti dovessero mettersi al lavoro seriamente, operativamente, il quadro apparirebbe assai più complesso e impegnativo. Ma è forse l’ultima sfida che conta per l’Occidente-Europa.

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« Risposta #67 inserito:: Giugno 12, 2011, 05:30:25 pm »

12/6/2011

I cittadini, il voto e il potere

GIAN ENRICO RUSCONI

«Tanto non succederà nulla». Questo sospetto insidia sotterraneamente l’euforia della vigilia di chi è convinto che «vincerà il quorum». Ma è anche il malcelato scongiuro di chi teme il contrario.

Naturalmente il sospetto e lo scongiuro non si riferiscono alla sostanza dei quesiti referendari, ma al loro immediato contraccolpo politico. L’espressione stessa di «vittoria dei quorum» rivela l’anomalia del clima che si è creato attorno alla consultazione. Ma se andiamo a fondo ci troviamo ancora una volta davanti ai problemi cruciali della democrazia italiana: il cattivo rapporto tra cittadini e classe politica e la fragilità dei meccanismi di rappresentanza.

Per comodità di ragionamento distinguiamo tre aspetti: la volontà dei «semplici» cittadini che vanno a votare perché a loro interessa la sostanza dei referendum; il tentativo dei politici non solo di orientare l’opinione nel merito dei referendum ma di creare le condizioni per una immediata soluzione politica. È quella che viene chiamata «la politicizzazione» dei referendum.

Da qui il terzo interrogativo, più serio: se questa volta (assai più di altre volte) la battaglia sui referendum non riveli un difetto strutturale della nostra democrazia parlamentare. Ieri Marta Dassù su questo giornale evocava la democrazia plebiscitaria che compare quando fallisce la democrazia rappresentativa. Ma da noi questo pericolo fa la sua comparsa all’annunciato tramonto del berlusconismo che è stato un tentativo di scorciatoia mediatico-plebiscitaria. E sullo sfondo ricompare il fantasma di Bettino Craxi con il suo famoso/famigerato «tutti al mare», il cui significato politico si colloca nel contesto del suo tentativo di riforma istituzionale in direzione «decisionista» - si diceva allora.

Ma torniamo ai cittadini semplici (e ingenui - aggiunge qualcuno che la sa sempre più lunga). Ci sono milioni di donne e di uomini che vanno a votare su questioni che considerano vitali per loro e per il futuro dei loro figli. La grande maggioranza di loro sceglierà verosimilmente il «sì». Pare infatti che non diano ascolto a chi - magari con qualche argomento ragionevole - invita a non essere apocalittici di fronte alla questione del nucleare né ostili e prevenuti verso una diversa gestione del bene collettivo dell’acqua. Non entro nel merito di questi argomenti. Ma capisco perfettamente che su temi così importanti i cittadini non si fidino più dei politici e dei loro esperti. Troppo spesso si sono sentiti presi in giro. Soprattutto non apprezzano il boicottaggio del referendum: è una forma di disprezzo per il cittadino e di machiavellismo di basso livello. A questo proposito è inutile ricordare con sussiego il diritto costituzionale all’astensione - come se fossimo in una repubblica di virtuosi e non di furbetti. Il caso del referendum sulla fecondazione assistita, pilotato in questo senso dal card. Ruini, è stato un pessimo esempio.

Qui ritorna in gioco la classe politica. Come è prevedibile, entrambi gli schieramenti daranno una lettura immediatamente politica all’esito referendario. È inutile scandalizzarsi. L’attuale stagione del berlusconismo è caratterizzata dal venir meno senza ritegno di ogni distinzione di competenze nei diversi ambiti e settori (media, giustizia, economia, immigrazione, guerra persino) - tutto è politica immediata e personalizzata. Tutto è pro o contro il Cavaliere, perché lui stesso ha spinto in questa direzione, seguito con riluttante passività dal ceto politico da lui creato.

Persino la Lega si è invischiata in questa situazione. In realtà la Lega merita un discorso a parte - se si riuscirà a capire come hanno votato i suoi elettori. Non è chiaro infatti se Bossi si rende conto che i referendum su nucleare e acqua mettono alla prova la dimensione genuinamente popolare del movimento leghista. Farà finta di niente pur di tenere in piedi il sistema berlusconiano di cui sta diventando il beneficiario privilegiato?

Ma il risultato dei referendum avrà in ogni caso un effetto disimmetrico per i due schieramenti, soprattutto se vincesse il sì. Il centrodestra infatti si limiterà a fare quadrato attorno al suo leader, sostenendo che non è successo nulla che possa modificare la linea del governo - salvo ovviamente la presa d’atto dei risultati referendari. Nel campo del centro-sinistra invece la intensità delle aspettative create, proprio perché non avranno un effetto immediato sul governo, si ripercuoteranno all’interno con una nuova mobilitazione ed eccitazione. Il gruppo dirigente, pur rassicurato nella propria linea, dovrà fare i conti con una base galvanizzata e decisa a farsi sentire, con nuovi leader emergenti, oltre che con gli irremovibili e indispensabili uomini di tutte le stagioni. Sarà forse una anticipazione della dinamica della politica nazionale che si rimetterà in movimento dopo la paralisi del sistema berlusconiano.

Ma a questo punto torneranno all’ordine del giorno i problemi di sempre: l’adeguatezza dei meccanismi di rappresentanza (sistema elettorale), le competenze dell’esecutivo ecc. In altre parole il rafforzamento del sistema parlamentare lontano dalle tentazioni plebiscitarie. Sono antichi problemi che spaventano solo a essere evocati, per il modo con cui sono stati sempre sistematicamente elusi. Oppure questa occasione referendaria sarà il segno di una svolta?

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« Risposta #68 inserito:: Luglio 08, 2011, 10:07:10 am »

8/7/2011

La cattiva commedia quotidiana

GIAN ENRICO RUSCONI

E’ facile fare del sarcasmo sulla cacolalia degli uomini al governo, a cominciare dai massimi vertici. Non c’è più pudore nel lasciare libero sfogo alle battute cattive, alle allusioni maligne, ai veri e propri insulti, scrupolosamente riportati dai giornali. Ma viene il sospetto che lo si faccia proprio per i giornali. Come se si trattasse di «intercettazioni» autorizzate, che non hanno bisogno di spioni telefonici. E’ l’intercettazione di governo. («Maurizio, hai sentito quello che sta dicendo? Ma è scemo» dice Tremonti parlando di Brunetta a Sacconi nel fuori onda. «Io non lo ascolto neanche» replica il ministro del Welfare. Dal tavolo di governo partono commenti pesanti. «Questo è il tipico intervento suicida, è proprio un cretino» sibila ancora Tremonti. Poi un tentativo - non riuscito - di interrompere Brunetta con una battuta. I microfoni rimasti aperti smascherano tutto).

Questa pochade cambia aspetto se con il suo stile comunicativo si fa o si intende fare politica. Quando cioè si pensa di poter modificare i rapporti di potere all’interno della maggioranza, del governo o addirittura nei confronti del premier.

Lo scambio di battute, di allusioni, di elusioni, di «gnorri» di Tremonti a proposito della manovra «salva Fininvest» e la replica di Berlusconi, seccata e maliziosa nel far passare il ministro per un «furbetto» che fa finta di non sapere, si collocano in questa logica. Ma non meno significative sono state le reticenze degli Alfano, dei Ghedini e dei Calderoli. Insomma la squadra non ha fatto squadra. O per lo meno ha dato questa impressione. Ma in questo clima l’impressione è più importante della realtà.

E’ la nuova fase del berlusconismo. Quello della tentata transizione al dopo-Berlusconi senza traumi, ma per assestamenti continui che lasciano al Cavaliere l’illusione di guidare, come prima, governo e maggioranza. E intanto lo condizionano da vicino. O ci provano. Lo sta facendo da tempo ormai la Lega, con sfacciato opportunismo. Ottiene assai meno di quello che chiede sempre con toni stentorei e ultimativi. Ma nella cacolalia generale ciò che conta è farsi sentire. E la Lega si fa sentire, in previsione di un possibile dopo-Berlusconi. Ma non farà nulla per provocarlo sul serio. E’ un rischio troppo grosso per il partito di Bossi.

In ogni caso per l’operazione della transizione senza traumi, compresi i dovuti onori di rito al Cavaliere, sono indispensabili due condizioni. La prima sembra acquisita: è l’incredibile impotenza politica dell’opposizione. Il ministro della Cultura Giancarlo Galan ha colto la situazione perfettamente, dicendo a questo giornale che «anche quando noi (della maggioranza di governo) perdiamo, la sinistra riesce a compiere il miracolo di non vincere». E’ inspiegabile che in un Paese che dispone di invidiabili potenziali di mobilitazione, che esprimono una forza comunicativa e simbolica immensa - poi non succede niente. Servono solo a far scrivere, per un paio di giorni, esaltanti commenti giornalistici e pubblicistici che lasciano il tempo che trovano. C’è qualcosa di profondamente enigmatico in una politica che lascia isterilire questi potenziali. O li lascia incattivire.

Al sicuro da possibili alternative politiche - siano esse di sinistra o di nuove combinazioni centriste aperte a sinistra - il gioco del logoramento degli equilibri interni del governo ha una seconda condizione. Cioè che Berlusconi stesso non riesca a controllare questa situazione imprevista. L’atteggiamento da lui preferito ancora ieri nelle sue dichiarazioni è quello di reagire sdrammatizzando i conflitti interni, dichiarandosi vittima di campagne diffamatorie e dipingendo catastrofi imminenti nel caso andasse al governo la sinistra («Nonostante il fango che mi viene gettato addosso, nonostante quello che si vorrebbe decidere nei cosiddetti e fantomatici salotti dei poteri forti, non consegnerò l’Italia a Bersani, Vendola e Di Pietro»).

Ma sino a quando funzioneranno questi argomenti? La situazione economica e sociale rimane pessima, mentre non si vedono credibili strategie di rilancio. Nel frattempo l’Italia è letteralmente sparita dalle sedi decisionali europee che contano. Sulle questioni cruciali della presenza militare dell’Italia in Afghanistan e nel delicato e complicato caso della Libia, lo statista Berlusconi è assente, distratto e preoccupato solo di possibili contraccolpi interni. Non a caso proprio in questi ambiti è micidiale l’azione di logoramento all’interno della maggioranza e del governo (Lega, La Russa, Frattini). Ma il guaio è che l’intera classe politica, oltre a essere scarsamente competente su questi temi, è assai meno sensibile che non sui problemi interni. Ma è proprio in questi settori di alto profilo internazionale che la leadership di Berlusconi è finita. La pochade può ricominciare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8954&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #69 inserito:: Luglio 17, 2011, 07:04:04 pm »

17/7/2011

Politica logora

GIAN ENRICO RUSCONI

L’Italia è rimasta sotto osservazione degli europei per un’intera settimana. I commentatori economici e finanziari sono stati generalmente cauti nei loro giudizi, preoccupati ma non catastrofistici.
I fantasmi della Grecia e del Portogallo sono stati evocati per essere smentiti o sdrammatizzati. La politica, invece, o meglio i governi europei in quanto tali, è stata zitta.

O quantomeno, se ci sono stati commenti, non sono trapelati. Per correttezza - si dirà. O forse per impotenza, visto che l’oscuro nemico additato era ed è comune a tutti: la irresponsabile «speculazione finanziaria», contro la quale la politica dà l’impressione di essere in affanno. In realtà - da cittadini profani - nei giorni scorsi abbiamo avuto la sensazione dell’esistenza di istituzioni bancarie centrali, responsabili e surrogatorie di una politica comune, di contro a sistemi bancari che hanno goduto di indulgenti tolleranze di governi nazionali. Nessun governo è del tutto innocente.

Comunque sia, davanti allo spettro di una crisi italiana, l’unica voce politica che si è alzata è stata quella della cancelliera Angela Merkel. Un invito al governo italiano ad agire, un incoraggiamento, una raccomandazione. Perché questa attenzione discreta ma esplicita?
La cancelliera si sta esponendo più di altri leader europei nel sostenere l’euro con una politica verso le banche e verso i risparmiatori (nel caso della Grecia) che incontra malumori e resistenze. L’apertura di una crisi finanziaria italiana, sia pure imputabile a cause diverse da quelle greche, sarebbe un duro colpo all’intera strategia della Merkel. Avrebbe anche contraccolpi politici interni indesiderati. E’ probabile quindi che adesso - dopo l’approvazione parlamentare della manovra - anche la cancelliera tedesca tiri un sospiro di sollievo.
Ma è improbabile che riprenda in mano il telefono per congratularsi con il presidente del Consiglio.

Quello che è accaduto infatti - politicamente parlando - è molto di più e di diverso di una ritrovata unità davanti ad una emergenza nazionale. Da un lato l’apparente schizofrenia di una opposizione che critica duramente le misure sociali e finanziarie, nel momento stesso in cui si sente in dovere di approvarle per senso di responsabilità nazionale. Dall’altro il lungo, incredibile silenzio di Berlusconi, nei giorni cruciali della decisione, che viene giustificato - a cose fatte - come volontà di non turbare l’operazione parlamentare con la sua vicenda personale. Come se la sua sdegnata reazione sulla multa inflittagli per il Lodo Mondadori non si traducesse nel fermo proposito di rilanciare la sua politica di «riforma giudiziaria». Nel bel mezzo c’è la figura un po’ enigmatica di Giulio Tremonti.

Si tratta di segnali inequivoci - in particolare la schizofrenia dell’opposizione e l’ossessione berlusconiana contro la giustizia - che segnalano l’insostenibilità della situazione in atto.
O peggio: se questa dovesse andare avanti grazie alla semplice ostinazione dell’attuale maggioranza parlamentare, non ci sarà nessuna seconda chiamata di emergenza economico-finanziaria che salverà il Paese.

Gli osservatori esterni, dopo aver preso atto con ammirazione dell’esistenza in Italia di vivaci movimenti spontanei e dopo aver constatato con stupore la loro incapacità di trasformarsi in attori politici, si trovano davanti al soggetto politico più ambiguo prodotto dalla politica italiana di questi anni: la classe politica che sostiene Berlusconi. Messa sempre in ombra dal protagonismo del premier, cui apparentemente essa deve tutta la sua fortuna, in questa settimana si è rivelata indispensabile. Ma adesso sembra avere paura di camminare da sola, senza di lui o magari contro di lui. La prospettiva di mesi e mesi di guerra di logoramento parlamentare e di inconcludenza politica rischiano di azzerare il risultato positivo guadagnato nei giorni scorsi.
La migliore alleata della speculazione finanziaria è una politica divisa, logorata, inconcludente.

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« Risposta #70 inserito:: Luglio 23, 2011, 07:08:14 pm »

23/7/2011

Sì al dialogo, ma la teologia è un'altra cosa


GIAN ENRICO RUSCONI

E’ una buona notizia quella di una moschea in Giordania dedicata al «profeta Gesù».
La moschea sarebbe la prima nel mondo musulmano contemporaneo ad essere intitolata al Messia dei cristiani.

«La moschea vuole portare un messaggio di convivenza e tolleranza», spiega l’imam che ha espresso questa intenzione. Ma sono sicuro che presto non mancheranno perplessità e resistenze in entrambe le culture.

Infatti per i clericali (e gli ortodossi) di tutte le religioni dietro al dialogo avanza lo spettro del relativismo religioso. La cultura del dialogo è una (bella) cosa, ma la teologia è un’altra cosa (più seria). Credo che lo pensi lo stesso Benedetto XVI. La moschea è una strada giusta?
Invece di fare considerazioni di ordine generale, voglio raccontare qui un episodio accaduto un paio d’anni fa in Germania. Lo scrittore tedesco musulmano, di origine iraniana, Navid Kermani era stato designato a ricevere un premio prestigioso in riconoscimento della sua attività letteraria e pubblicistica a favore del dialogo interculturale e interreligioso.

Poi nel giro di qualche settimana ne è stato escluso per la protesta di alcuni illustri rappresentanti delle confessioni cristiane (il card. Karl Lehmann e l’ex presidente della Chiesa evangelica dell’Assia) che avrebbero dovuto prendere il premio insieme a lui. I due uomini di Chiesa infatti avevano ritenuto offensive per il cristianesimo alcune espressioni usate da Kermani in un articolo apparso su un giornale svizzero che commentava la famosa crocifissione di Guido Reni esposta in una chiesa di Roma.

Che cosa aveva detto lo scrittore lo scrittore tedesco-musulmano? Dopo avere ricordato il piacere estetico che rivelano molte raffigurazioni cattoliche barocche della sofferenza di Gesù, aggiungeva di conoscere già questo fenomeno dall’esperienza degli sciiti. Si tratta del «martirio che viene celebrato sino al pornografico». Aggiungeva per altro che il Corano nega che Gesù sia stato crocifisso, perché un altro uomo è stato messo al suo posto. Gesù è scampato perché Dio non poteva permettere il martirio e la morte in croce del suo profeta. «Per conto mio - scrive Kermani - rifiuto la teologia della croce in modo ancora più drastico: per me è una bestemmia e una idolatria». Eppure davanti al crocifisso di Reni - prosegue - «ho trovato la vista così toccante, così piena di grazia, che non mi sarei più alzato dalla sedia.

Per la prima volta ho pensato che io - io personalmente - potessi credere ad una croce. Reni non esibisce la sofferenza. A lui riesce quello che altre rappresentazioni di Gesù si limitano ad affermare: trasporta il dolore dal corporeo al metafisico. Se non ci fossero i chiodi sembrerebbe che allarghi le mani per pregare. “Guarda” - sembra invocare. Non solo “guardami, ma guarda la terra, guarda noi”. Gesù non soffre, come vuole l’ideologia cristiana, per sgravare Dio. Gesù accusa: “non perché mi ha abbandonato”, no, ma “perché ci hai abbandonato?”».

Queste parole di Kermani sono state giudicate dal vescovo evangelico «dialetticamente eleganti», ma non gli hanno impedito di respingere il testo che nel suo insieme «considera una bestemmia il centro della mia fede - la teologia della croce e l’avvicina alla pornografia». A suo avviso l’articolo non contiene soltanto un grave fraintendimento della teologia della croce ma impedisce il dialogo perché ferisce l’interlocutore. «Il dialogo presuppone che io mi avvicini alla tentazione non solo di tollerare ma di accogliere la verità dell’altra religione».

In realtà il rappresentante della Chiesa evangelica ha frainteso l’espressione (pesante) di «pornografia» che Kermani attribuisce non già alla morte in croce come tale, ma al gusto esibizionistico della sofferenza. (Viene in mente la passione del Cristo nel film di Mel Gibson). Oltretutto il pastore evangelico non si rende conto che l’autore musulmano ha parlato proprio della sua «tentazione» personale alla conversione che è segno di autentica disponibilità al dialogo inter-religioso pur nella mantenimento delle differenze teologiche.

Non posso qui dare conto del vasto dibattito sollevato in Germania da questa vicenda, nella quale sono prevalse le voci critiche verso gli alti rappresentanti della religione cristiana che hanno frainteso le intenzioni di Kermani al di là del suo forte (provocatorio) modo di esprimersi. La vicenda comunque è stata l’occasione perché l’opinione pubblica fosse informata di quei passaggi del Corano che parlano con venerazione di Gesù («inviato da Dio») e con grande rispetto della Vergine Maria e persino dei buoni rapporti iniziali tra cristiani e musulmani pur tra mille reticenze.

Nel contempo si è preso atto del fermo rifiuto teologico dei musulmani di accettare non solo la divinità di Gesù ma persino la sua morte in croce.
E’ tempo che l’opinione pubblica europea sia a conoscenza in modo preciso della posizione dell’Islam su Gesù e sul cristianesimo, pur nella consapevolezza delle insuperabili differenze teologiche - ammesso che se ne colga la rilevanza. Speriamo che la moschea dedicata al «profeta Gesù» sia un passo in questa direzione

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« Risposta #71 inserito:: Luglio 29, 2011, 06:00:21 pm »

29/7/2011

Il sistema istituzionale liquefatto

GIAN ENRICO RUSCONI

Come si permette Umberto Bossi di rispondere al Presidente della Repubblica di rassegnarsi al fatto compiuto del «decentramento» di alcuni ministeri a Monza? «I ministeri li abbiamo fatti e li lasciamo là, siamo convinti che il decentramento non sia solo una possibilità, ma una opportunità per il Paese». Questa non è affatto una risposta alla qualità dei rilievi che il Presidente della Repubblica ha rivolto si noti - al presidente del Consiglio, che si è ben guardato dal rispondere.

A parte la scorrettezza istituzionale e la sceneggiata di Monza, siamo davanti ad un gesto di irrisione istituzionale che umilia i cittadini e ridimensiona di fatto lo stesso Berlusconi. A quando il trasferimento (pardon, il decentramento amministrativo) di Palazzo Chigi ad Arcore?

Non mi pare che la classe politica nel suo insieme - alle prese con il fango della corruzione - si sia resa conto della gravità di quella che l’opposizione si è limitata a chiamare «farsa». In realtà rischia di essere una trappola istituzionale dalle conseguenze imprevedibili. Eppure il presidente del Senato Schifani, con aria finta ingenua, in tv ha parlato di decentramento amministrativo di sedi ministeriali per essere più vicine ai cittadini.

Ma non mi risulta che il Senato, da lui onorevolmente presieduto, abbia mai espresso un parere in proposito! Conta solo il senatùr Bossi?

E’ in atto una subdola liquefazione del sistema istituzionale, che viene interamente subordinato alla logica di potere delle parti politiche che lo gestiscono. Anzi alle persone che lo governano.

Non è chiaro se Berlusconi sia complice di quanto sta accadendo. Sembra aver perso lucidità, ossessionato di non rompere con «l’amico» Bossi o di stare in guardia contro l’ «ex amico» Tremonti che è spuntato, sia pure con l’aria un po’ spaventata, nella foto di famiglia di Monza.

Oppure Berlusconi sta lucidamente facendo lo sporco gioco di logorare con l’appoggio della Lega quello che considera il suo «vero nemico», Giorgio Napolitano?

Nessuno lo sa esattamente, perché la politica italiana sta andando alla deriva, con un solo risultato - il disfacimento del sistema istituzionale esistente. La trappola farsesca di Monza, la risposta irrispettosa al Presidente della Repubblica, l’ambiguità di Berlusconi, tollerata dai suoi sostenitori nella speranza di trarne vantaggio personale, l’impotenza dei cittadini, «indignati» o meno - sono tutti passi che portano al disfacimento istituzionale.

Molto opportunamente il Quirinale ha reso noto nella sua integrità il testo della lettera indirizzata al presidente del Consiglio «sul tema del decentramento delle sedi dei ministeri sul territorio». Con chiarezza in esso parla di «sedi o strutture operative, e non già di semplice rappresentanza, che dovrebbero più correttamente trovare collocazione normativa in un atto avente tale rango, da sottoporre alla registrazione della Corte dei Conti per i non irrilevanti profili finanziari, come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale». E’ un discorso troppo difficile per i leghisti oppure il loro «non capire» è il segnale di quanto sia profonda ormai l’insensibilità istituzionale?

In questa congiuntura il Quirinale è diventato di fatto il baluardo delle istituzioni - al di là del suo ruolo costituzionale. O meglio, questo ruolo diventa sempre più politico nel senso forte e autentico di mostrare competenza e volontà nel dire sì o no - in modo sempre argomentato - alle decisioni che arrivano sulla scrivania del Presidente (o alla sua conoscenza). Non è che Napolitano si sia messo a «fare politica» - come dicono non solo gli esponenti di destra, ma anche alcuni commentatori che si pretendono super partes. Il Presidente difende le istituzioni della Repubblica, che possono essere modificate e riformate secondo le regole previste e condivise (come non si stanca di ripetere), non con i sotterfugi e con i trucchi cui oggi noi assistiamo - impotenti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9034
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« Risposta #72 inserito:: Agosto 19, 2011, 11:48:34 am »

19/8/2011

Governare senza crescita

GIAN ENRICO RUSCONI


Come si governa una società senza più crescita? Una società che verosimilmente non avrà più crescita nel senso e nella misura in cui gli economisti e i politici l'hanno intesa sino a ieri? La classe politica dirigente europea non sembra essere in grado di rispondere a questa domanda cruciale.

Non lo è neppure la classe politica tedesca verso la quale in questi giorni si rivolgono tante aspettative. La cancelliera Angela Merkel è oggi il politico più in vista e più citato in Europa e in Occidente. Ma temo che sia sopravvalutata. Innanzitutto ha un ristretto spazio di manovra politica interna, dovendo fare i conti con un elettorato inquieto, ripiegato su se stesso, e con un partito che la guarda con crescente preoccupazione. Ma la Merkel rischia di essere sopravvalutata anche a motivo della limitatezza del suo orizzonte e della sua visione politica che rimane schiettamente conservatrice, sia pure nel senso nobile della tradizionale democrazia cristiana tedesca.

Come può innovare il suo orizzonte davanti al radicale mutamento del contesto economico in cui è nata, si è pensata e si è sviluppata la democrazia tedesca?

Neppure il progetto originario dell'Europa tiene più, ma né la Merkel né la classe politica tedesca osano pensarne esplicitamente uno nuovo, nel quale potrebbero di fatto avere un ruolo (informale) di responsabilità maggiore che nel passato. La cancelliera procede a piccoli passi, senza avere un grande progetto innovativo. Ragiona e agisce in modo incrementale: va avanti e poi si ritira se trova resistenza, si ostina e poi di colpo allenta la presa. Non sembra avere sposato alcuna ideologia, anche se indulge a qualche tono populista. Raccoglie sicuro consenso soltanto quando fa la voce grossa contro i partner europei troppo indebitati e inaffidabili. E' tutta qui la sua filosofia politica?

La Germania è il pilastro portante dell'Europa, senza voler sminuire il ruolo cruciale della Francia senza la quale Berlino non oserebbe muovere un dito. (Trascuriamo qui la natura singolare del rapporto storico franco-tedesco che meriterebbe una riflessione a parte, soprattutto dopo il progressivo inesorabile declassamento dell'Italia). Ma non è chiaro se le «proposte» restrittive, fatte l'altro ieri dalla Merkel insieme con il presidente francese Sarkozy (no agli eurobond e sospensione dei fondi Ue per i Paesi che non si mettono in regola), siano da considerare misure per superare la difficile congiuntura attuale, o non siano la premessa per una innovazione politica più incisiva. L'idea di un «governo dell'economia», affidato ad un ennesimo organismo europeo che va a complicare il già complicato labirinto istituzionale europeo, è tutt'altro che innocua. E' un tipico gesto di decisionismo incrementale da parte degli Stati (dei due Stati più autorevoli) che spiazza di colpo l'intera costruzione istituzionale comunitaria esistente.

E' stupefacente come l'opinione pubblica europea - dopo tanta retorica sull'Europa comune dei cittadini in occasione del Trattato dell'Unione europea di qualche anno fa - accetti con rassegnazione la nuova situazione. La dice lunga sulla disillusione europea. L'attenzione verso l'asse Parigi-Berlino (sino a ieri volentieri ironizzato come «cosiddetto asse») è carica di volta in volta di apprensione, di speranza, di diffidenza, di rassegnazione. Ma è il segno che la guida effettiva dell'Europa passa di lì, non altrove.

Ma c'è anche un rovescio della medaglia che potrebbe/dovrebbe rimettere in gioco di nuovo l'intera classe politica europea. L'affanno con cui la politica dei governi cerca di tenere testa alla peggiore crisi che investe l'Occidente dal lontano '29 riconferma la deprimente verità che chi è arrivato al governo oggi ragiona con la testa di vent'anni fa. Può darsi (ce lo auguriamo tutti) che la politica dei governi arresti il processo regressivo in corso. Ma non avrà la capacità di rimettere in moto una dinamica che ricrei quella «crescita», che come una parola magica ritorna in tutte le dichiarazioni e in tutti i commenti. Ma non è sorprendente che oggi si chieda a gran voce alla politica di «produrre crescita» quando sino a ieri era invitata a non interferire nei meccanismi economici? Evidentemente l'atteso circuito virtuoso tra economia liberata e politica benevolmente assistente e socialmente compensativa è saltato. Secondo la vulgata la colpa è di un terzo intruso (mercati speculativi, finanza selvaggia). Ma non c'è bisogno di essere esperti per diffidare di questa spiegazione troppo semplice: in ogni caso dove erano negli scorsi anni la politica e i grandi istituti finanziari e bancari che avrebbero dovuto vigilare?

La crisi di oggi segnala un punto di svolta nella gestione dell'economia globale e, per quanto riguarda i sistemi socio-economici europei, apre la prospettiva di un governo di società senza più crescita misurata sui vecchi criteri. Per questo non bastano «direttorî» più o meno autorevoli, ma sono necessarie convergenze di tutti gli Stati membri con la rivisitazione di organismi e di procedure decisionali che sono create in tempi e in situazioni incomparabili con le attuali. Ma quale anello dovrà cedere per primo per rompere il circolo vizioso che impedisce il nuovo inizio?

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« Risposta #73 inserito:: Settembre 05, 2011, 10:50:08 am »

5/9/2011 - ELEZIONI IN GERMANIA

Un voto contro l'euro

GIAN ENRICO RUSCONI

In tempi normali nessuno avrebbe dato gran peso alle elezioni del Meclemburgo-Pomerania, il Land tedesco sul Baltico, un tempo Germania orientale, guidato sino ad ora da una Grande Coalizione. Ma la situazione è cambiata con il governo centrale in affanno, con la cancelliera Angela Merkel nel fuoco delle controversie e al punto più basso della sua popolarità.

La cancelliera sarà molto amareggiata dai risultati elettorali. I socialdemocratici infatti hanno guadagnato ulteriore terreno di 5.8 punti, piazzandosi al 35.8%, mentre la Cdu, il partito della Merkel, subisce un arretramento di 3.9 punti, assestandosi al 23.1%. Catastrofico è il risultato dell’alleato liberale Fdp che scende al 2.7%, perdendo ben 6.1 punti uscendo così dal Parlamento regionale. In esso invece entrano per la prima volta con un notevole 8.4% i Verdi. Era difficile ipotizzare un andamento elettorale peggiore per la coalizione di governo. Rimane un significativo tasso di assenteismo: ha votato infatti il 53.5 % degli aventi diritto.

Come reagirà ora la cancelliera? Interpreterà il risultato come un esplicito rifiuto della politica del suo governo? In particolare dei suoi alleati liberali? O approfitterà per un ennesimo aggiustamento di linea? Aspetterà ancora le elezioni assai più significative di Berlino che si terranno il prossimo 18 settembre e che verosimilmente riconfermeranno il trend positivo della Spd?

In questa fase estremamente tesa della politica tedesca ed europea il responso delle urne, sia pure parziale e regionale, è importante quanto l’andamento dei mercati e delle Borse. E’ vero che le elezioni regionali rispondono spesso a logiche e problemi interni, ma le grandi questioni nazionali ed europee, oggi sul tappeto, toccano immediatamente e sensibilmente gli interessi quotidiani.

E’ opinione diffusa che i tedeschi si siano disamorati dell’Unione europea, dei costi che la difesa dell’euro impone alle economie più solide e virtuose, a vantaggio di quelle più inefficienti, inaffidabili e persino un po’ truffaldine di altre nazioni. Il caso della Grecia, tutt’altro che risolto, è sulla bocca di tutti come esempio pessimo, che rischia di estendersi, in una forma o nell’altra, ad altre economie non virtuose (Italia compresa). Ma tutti capiscono che l’idea di lasciare l’euro al suo destino è pazzesca. Se la politica condotta sin qui dalla Merkel non funziona, quali sono le alternative?

Naturalmente la gente comune non entra nel merito specifico delle formule tecnico-finanziarie che circolano tra gli esperti (allargamento del fondo «salva Stati», altre iniziative della Bce o creazione di eurobond) ma prende atto dei forti contrasti che esse suscitano nello stesso mondo politico ed economico. La classe dirigente tedesca, nel suo insieme, è divisa e sconcertata come raramente lo è stata nel passato. Una parte di essa (democristiana e liberale) è convinta di avere tutte le «buone ragioni» per comportarsi come ha fatto sinora e reagisce con dispetto alle critiche di alcuni paesi europei. Un’altra parte della classe politica invece teme soprattutto l’isolamento della Germania e i danni che ne derivano. Da qui la denuncia di «perdita di bussola» della politica tedesca fatta dai due grandi vecchi della politica tedesca, il democristiano Helmut Kohl e il socialdemocratico Helmut Schmidt, pur con argomenti diversi e con un’attenzione particolare alla politica estera.

Ma non so se i due anziani statisti hanno capito che l’Europa da loro costruita ha concluso per molti aspetti il suo ciclo, e che per andare avanti - nello stesso spirito delle origini - sono necessarie innovazioni coraggiose, al di là di quanto loro stessi avevano immaginato.

La creazione degli eurobond, ad esempio, di cui tanto si parla ora in Europa, magari in vista di una futura politica fiscale comune, presuppone innanzitutto una limitazione della sovranità fiscale dei Paesi più esposti. Ma non si può limitare la sovranità dei Paesi indisciplinati senza toccare in qualche modo la sovranità di tutti, anche di quelli virtuosi. Senza toccare la costruzione politica complessiva dell’Unione.

Questo prospettiva è assolutamente ostica per la classe politica oggi al governo a Berlino. Ma se cambiasse il quadro elettorale? Se la Spd potesse condizionare di nuovo la linea politica?

Sino ad oggi la cancelliera Merkel si è mossa sul filo del rasoio di un comportamento che poteva apparire ad alcuni (europei) troppo rigido ed ad altri (dentro al suo partito e persino dentro al suo governo) troppo proclive al compromesso. In ogni caso è stata una politica dilatoria e oscillante che ora sembra giunta al capolinea. Si parla addirittura di possibili dimissioni - una ipotesi che sarebbe stata inconcepibile mesi or sono. Ma il posto della Merkel sarà preso da un difensore intransigente della intangibile sovranità fiscale tedesca, con diritto di controllo sulle altre? O da chi oserà battere nuove strade, non sgradite alla socialdemocrazia, senza per questo parlare di Grosse Koalition, che rimane politicamente un tabù?

Naturalmente sono soltanto speculazioni, ma sono sintomatiche delle nuove «incertezze tedesche». L’appuntamento è rimandato alle ormai prossime elezioni berlinesi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9163
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« Risposta #74 inserito:: Settembre 26, 2011, 05:10:25 pm »

26/9/2011

Papa Ratzinger e il monolite della dottrina

GIAN ENRICO RUSCONI

Basta la simpatia comunicativa per rimettere in moto la fede, per rilanciare un solido dialogo ecumenico, per ricominciare un dialogo con il mondo laico che da tempo si è interrotto?

In realtà il viaggio di Papa Ratzinger in Germania si conclude con il paradosso di un successo mediatico che nella sostanza lascia le cose come stanno.

Rimane infatti l’immobilismo teologico, l’immobilismo dottrinale sui grandi temi dell’etica personale, sessuale e familiare che sono quelli che toccano in profondità milioni di credenti. Non è una curiosità cronachistica che tra le autorità tedesche che hanno ricevuto cordialmente il Pontefice c’è il Capo dello Stato, cattolico, divorziato e risposato, il sindaco di Berlino cattolico, gay dichiarato e impegnato per il pieno riconoscimento giuridico a tutti gli effetti dell’omosessualità, e la cancelliera figlia di un pastore evangelico, a sua volta divorziata e risposata. E tutti sono sinceramente aperti verso la religione, cui riconoscono un decisivo ruolo pubblico - proprio come dice Ratzinger - salvo dissentire su questioni che il Pontefice ritiene cruciali. È tutto un equivoco? O è un punto che merita una riflessione?

In Germania accanto alle voci critiche di semplici cittadini, c’è un forte gruppo di teologi professionali, che da tempo pubblicamente espongono le loro obiezioni e fanno proposte innovative ben argomentate - dalla questione del celibato, alla posizione della donna nella struttura della Chiesa o l’accesso all’eucarestia dei credenti divorziati. Per tacere del dibattito sulle questioni bioetiche che influisce anche sulla legislazione (come ha mostrato la recente risoluzione del parlamento tedesco sulla diagnosi pre-impianto). Ma non mi risulta che Papa Ratzinger in questi giorni abbia riconosciuto, sia pure indirettamente, la legittimità e la rilevanza di queste discussioni.

Si obietterà che il Pontefice non poteva «scendere» sul terreno di questi argomenti. Ma questa è una strana obiezione per chi dice di porre il discorso della fede al centro della vita, del vissuto quotidiano. Diciamo semplicemente che da questo Pontefice, che pure ha mostrato una straordinaria, toccante ed efficace reazione allo scandalo della pedofilia, non ci si può attendere sui temi etici ricordati sopra alcuna innovazione teologica o anche soltanto il minimo scostamento dalla dottrina tradizionale. La percezione della crisi della Chiesa nel mondo occidentale - di cui pure il Papa ha parlato espressamente - richiede secondo Ratzinger «un rinnovamento della fede», non modifiche strutturali o dottrinali. E lo ha ripetuto in Germania che è la nazione europea di tradizione cristiana dove è più viva - anche grazie al pluralismo confessionale - una riflessione teologica e religiosa non conformistica.

In realtà dietro all’immobilismo dottrinale della Chiesa cattolica c’è un intuizione paralizzante: anche i problemi minori (il riconoscimento delle coppie di fatto, un mutamento di atteggiamento verso i credenti in posizioni familiari «irregolari» o l’accettazione della omosessualità) spingono verso una riconsiderazione antropologica della «natura umana» tale che, presa sul serio, fa saltare tutta la costruzione su cui poggia la dottrina tradizionale. Ma su questo punto la Chiesa non è capace di innovazioni che implicherebbero un atteggiamento diverso verso le moderne scienze dell’uomo e un rapporto nuovo verso la laicità. La laicità in particolare, lungi dall’essere riconosciuta nella sua piena legittimità e autonomia, viene declassata nella semplicistica e strumentale distinzione e contrapposizione tra laici (autorizzati dalla Chiesa) e laicisti (tutti gli altri).

Ma torniamo nel campo della fede, ad un tema cruciale della visita papale in Germania: il rapporto ecumenico, in particolare quello tra confessione cattolica e confessione luterana ed evangelica. Anche qui si è rivelata tutta la personalità di Ratzinger. Schietto e convincente nel riconoscere la grandezza spirituale di Lutero, ma insieme intransigente nel mantenere gli insuperabili confini dogmatici che storicamente da quella storica grandezza sono sorti - in modo irreversibile.

Negli incontri tra la Chiesa evangelica e il Papa molti si auguravano ingenuamente un gesto religioso rivoluzionario: la celebrazione comune della Cena eucaristica. Non so come si sia potuta creare questa aspettativa che la dice lunga sulla crescente lontananza di sensibilità tra i semplici fedeli e le gerarchie ecclesiastiche, qualunque motivazione teologica queste possano addurre. Ma non c'è dubbio che una Cena eucaristica comune avrebbe dato un duro colpo a tante altre certezze teologiche su cui la Chiesa cattolica ha costruito storicamente la sua identità.

La reazione degli evangelici, in particolare dei rappresentanti più alti della loro Chiesa, è stata articolata. Molti hanno espresso delusione, altri invece hanno riconosciuto comunque nel comportamento del Pontefice un altro passo avanti verso l’ecumenismo.

Guardando con occhio laico a questa vicenda, non è facile trarre conclusioni. Le Chiese, a prescindere dalla denominazione confessionale, sono spesso solidali tra loro sui grandi temi bioetici, quando ad esempio fanno fronte comune contro quelli che considerano i possibili deragliamenti delle biotecnologie. Ma su altri temi attinenti la sessualità (del tipo di quelli citati sopra) ci sono significative differenze tra loro. Soltanto la Chiesa cattolica si presenta dottrinalmente come un monolite soprattutto nelle sue condanne - quasi esistesse una linea perversa continua che va dalla contraccezione all’uso selvaggio delle biotecnologie, passando per l’omosessualità considerata comunque una patologia. Gli atteggiamenti pastorali più comprensivi e i correttivi tacitamente introdotti nulla tolgono alla sostanziale inadeguatezza dottrinale che deve fare i conti con situazioni insostenibili, con il rischio di mettere a repentaglio gli stessi fondamenti teologici da cui presuntivamente fa discendere la dottrina morale.

Diverso - anche se molto differenziato - è l’atteggiamento delle Chiese riformate che rimangono tuttavia solidamente ancorate al presupposto della centralità e della autonomia della coscienza individuale e della sua responsabilità. Se le cose stanno così il dialogo tra le Chiese in Occidente ha davanti a sé ancora una lunga strada accidentata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9241
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