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Autore Discussione: LEGA e news su come condiziona il governo B.  (Letto 81460 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 01, 2008, 10:31:32 am »

30/4/2008
 
Le ronde delle nuove insicurezze
 
CHIARA SARACENO

 
La voglia di ronde che sembra aver preso amministratori e cittadini è figlia di una doppia mancanza, pubblica e privata: dello Stato (e amministrazioni locali) e dei cittadini. Non ci sarebbe bisogno di ronde di volontari e ancor meno di guardie private a controllare strade, parchi e stazioni se polizia e vigili avessero un più sistematico controllo del territorio, così come avviene in molte città europee. Perché, ad esempio, nelle città tedesche, le vie del centro e le stazioni delle metropolitane non sono colonizzate dai vu’ cumprà come avviene invece a Milano, Roma o Torino, a prescindere dal colore dell’amministrazione comunale? E perché le loro periferie non sono ridotte a discariche all’aperto di persone e cose? Eppure la Germania ha un tasso d’immigrazione più alto dell’Italia. Certo, accanto all’operato di polizia e vigili urbani, c’è anche un sistema di Welfare che, per quanto acciaccato, non consente in linea di principio che vi sia chi non può procurarsi un tetto, o l’alimentazione di base. Non è un paradiso; ogni tanto si scoprono buchi anche gravissimi nelle maglie della protezione sociale; e l’emarginazione c’è, anche pesante, alimentando talvolta fenomeni di razzismo violento. Ma l’intervento pubblico è sistematico e visibile su entrambi i fronti del controllo del territorio: quello della repressione, ma anche quello della garanzia di risorse minime. Ciò rende il patto sia con i cittadini che con gli immigrati in qualche modo chiaro e trasparente: se si sta alle regole si hanno anche diritti. Laddove in Italia tutto è sempre opaco, si oscilla fra la tolleranza estrema e la tolleranza zero, senza che i patti siano mai chiari e tanto meno fatti osservare con coerenza e sistematicità, salvo lodevoli eccezioni qua e là. Questo vale spesso anche nei rapporti tra Stato e cittadini; ma è stata soprattutto la caratteristica con cui sin dall’inizio si è affrontata l’immigrazione nel nostro Paese.

Ma non basta denunciare l’incoerenza, l’inaffidabilità delle politiche pubbliche. Il senso diffuso di insicurezza che ci accompagna quando saliamo su un mezzo pubblico, attraversiamo una stazione di notte, camminiamo per le strade dipende anche in larga misura dal fatto che siamo consapevoli che se venissimo aggrediti saremmo lasciati soli: nessuno interverrebbe, per paura, ma anche per indifferenza, per «farsi i fatti propri», per non essere disturbato nelle proprie faccende. Nessuno avverte il vicino che gli stanno mettendo le mani nella borsa, salvo dichiarare, a cose fatte, che ha visto bene e che bisogna stare attenti. Nessuno interviene se una donna viene molestata, se qualcuno viene aggredito. Non fa differenza che ciò avvenga in mezzo a una folla, in piena luce o in una strada o stazione isolata e un po’ buia. L’indifferenza (o la mancanza di coraggio) sono le stesse. Anche i due uomini che un po’ frettolosamente sono stati definiti «angeli salvatori» della giovane ivoriana stuprata e accoltellata all’uscita di una stazione periferica di Roma non sono affatto intervenuti - in due! - per bloccare l’aggressore. Al contrario, per loro stessa ammissione, sono scappati. Solo quando hanno incrociato un’auto della polizia hanno preso coraggio e hanno chiesto aiuto.

Se le nostre società sono insicure è anche perché ognuno si fa un po’ troppo i fatti propri, senza sentire alcuna responsabilità individuale per gli spazi - fisici e relazionali - comuni. In assenza di un minimo di senso civico temo che le ronde rischino di accentuare questa deresponsabilizzazione (e il senso di impunità che ne deriva sia ai maleducati che ai malfattori). In compenso rischiano di attrarre tutti quelli che hanno voglia di menare le mani, di «dare una lezione» non solo a chi costituisce un pericolo, ma a chi li guarda storto, o sta dove secondo loro non dovrebbe stare, o guarda troppo da vicino la ragazza «di un altro». Con il rischio di accentuare l’insicurezza e l’inciviltà che troppo spesso segnano l’attraversamento dello spazio pubblico. Per l’inciviltà e la violenza che caratterizzano lo spazio privato - luogo deputato della violenza contro le donne e i bambini - ovviamente le ronde non servono.
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Maggio 04, 2008, 09:53:48 pm »

Il piccone del Sindaco

Vittorio Emiliani


Non so se il neo-sindaco di Roma Gianni Alemanno se ne sia reso conto fino in fondo ma, ponendo la teca di Richard Meier fra le cose da “rimuovere” durante il suo mandato in Campidoglio, ha evocato una immagine di settantaquattro anni prima, nella stessa zona di Roma, con lo stesso intento demolitorio, vale a dire l’immagine di Benito Mussolini che, basco in testa e golf a scacchi addosso, comincia a picconare l’auditorium di Roma di allora, il tanto decantato Augusteo.

È il 22 ottobre 1934 e da quelle picconate mussoliniane nasceranno soltanto guai: Roma non avrà un suo valido auditorium sino al 2001, un intero quartiere storico verrà abbattuto per fare posto ad uno dei più brutti esempi di architettura e urbanistica fascista, Largo Augusto Imperatore, funebre come pochi. Accanto al riscoperto mausoleo di Augusto, totalmente spogliato nei secoli e quindi deludente, il duce imporrà la collocazione “imperiale” della elegante Ara Pacis ritrovata in tutt’altra zona del centro antico, cioè a piazza San Lorenzo in Lucina.

“Picconare” adesso la teca dell’Ara Pacis assume un significato simbolico forte (anche se costoso, sui 300 milioni di euro, meglio spendibili per altre cause): vuol dire che verrà “picconata” la politica seguita da Rutelli e Veltroni e con essa la struttura politico-amministrativa su cui poggiava. Si comincia con la Festa del Cinema, sulla quale ci possono essere certamente dubbi e riserve e che però ha rappresentato un momento tutt’altro che secondario dell’eco di Roma moderna nel mondo. Festa del Cinema che – come ha subito fatto notare il neo-presidente della Provincia, Nicola Zingaretti - non è una iniziativa del solo Comune di Roma e quindi non basterà il “piccone” del neo-sindaco a demolirla.

Per la “notte bianca”, mega-raduno nazionale, soprattutto giovanile, che Veltroni importò da Parigi conferendogli tuttavia una grandezza ed una ampiezza tutta romana, dovrebbe – altra sostanziale “picconata” – venire organizzata “in bassa stagione”. Ora, chi conosce un po’ Roma e i suoi flussi turistici sa che il solo periodo “basso” della capitale è quello che va dal 7 al 31 gennaio, all’incirca. Quando i turisti stranieri, dopo i viaggi natalizi, rimangono alloro Paese e quelli italiani risparmiano su tutto (anche sul giornale prediletto) perché per Natale e Capodanno hanno speso quanto potevano, e anche di più. Immaginate il concorso di folla a Roma in quelle settimane. Potrebbe venire recuperato – lanciamo un’idea laica e festosa – il Carnevale Romano che però aveva senso in un’epoca in cui esso rappresentava una vera e propria trasgressione, l’unica di tutto l’anno. Cosa oggi onestamente improponibile, visto che si può trasgredire, volendo, tutti i giorni.

Ma è sulla struttura delle aziende pubbliche romane, sul sistema economico e culturale che il neo-sindaco – dopo aver ripetuto di voler essere “il sindaco di tutti” – ha fissato la propria attenzione, chiedendo agli attuali amministratori di farsi da parte immediatamente, anche a quelli (par di capire) che sono stati democraticamente nominati con scadenza al 2009, al 2010 o al 2011, o che rivestono ruoli eminentemente tecnici per i quali si esige una competenza specifica e non certo una tessera di partito. Penso al soprintendente capitolino (Roma è l’unico Comune a disporne per un riconoscimento e omaggio che Corrado Ricci volle fare alla Città Eterna), penso al direttore dei musei comunali o a quello dei giardini, e a molti altri ancora. A questo punto la commissione bipartisan delinata da Alemanno e presieduta da Gian Maria Fara, docente a Malta, presidente Eurispes, consultore del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni assume il ruolo plurisecolare della foglia di fico. Chi vi entrerebbe a queste condizioni?

Tanto più che il primo “brain storming” Gianni Alemanno lo tiene in questi giorni a Ocre, in Abruzzo, nel Parco regionale del Sirente-Velino ed è tutt’altro che “aperto”. Secondo quanto ha dichiarato a Luca Telese del Giornale, l’onorevole Marcello De Angelis (ex Terza Posizione, movimento che aveva per slogan «né fronte rosso, né reazione, lotta armata per Terza Poisizione»), i relatori sono «due intellettuali trentenni» molto connotati: Salvatore Santangelo della rivista di destra Area e Alessandro Sansoni di Azione Giovani. Tema del seminario: «Il ritorno delle élites». Pensatori di riferimento: Gaetano Mosca, Wilfredo Pareto e Roberto Michels. Che non sono proprio il massimo quanto ad attualità e a libertà di pensiero. Per Gaetano Mosca le élites di potere si servono del «procedimento elettorale, manipolato a dovere» per affermarsi e poi per restare al governo: «credeva nel privilegio dell’intelligenza contrapposto a quello del numero», ha scritto fra l’altro Norberto Bobbio. Per Wilfredo Pareto, pensatore geniale quanto confuso, in ogni società non può esserci che separazione e quindi opposizione fra le masse e le élites che governano ricorrendo alle doti della forza e dell’astuzia. Certo, non un padre del pensiero democratico. Per alcuni, anzi, un precursore del fascismo. Il tedesco Roberto Michels, infine, scomparso a Roma nel 1936, prima capì in maniera assai lucida i processi che avevano prodotto fascismo e nazismo, poi finì per esserne coinvolto formulando quella legge dell’oligarchia che vieta a qualunque gruppo, per quanto si dica democratico, di rimanere poi tale, una minoranza che s’impone e che impone la sua ferrea legge interna. Il tutto rimeditato in un monastero circestense che l’onorevole De Angelis ci tiene però a dire «fortificato dai Templari», ordine religioso-militare dei più inquietanti. Tutt’oggi.

Ragazzi, se queste sono le premesse e questi sono i riferimenti ideali del neo-sindaco Alemanno, a Roma non staremo benissimo quanto a democrazia e a modernità. Ma ne esce già un po’ pesto lo stesso neo-presidente della Camera Gianfranco Fini il quale, si sarà pure scordato dell’antifascismo (come ha sottolineato, pungente, Massimo D’Alema) e però ha riconosciuto, e non è certo poco, il 25 Aprile e il Primo Maggio, come feste di tutti gli italiani. Fatto assolutamente senza precedenti nella storia della nostra destra, includendovi lo stesso Silvio Berlusconi il quale non è mai arrivato a nulla di simile. Anzi, non ci ha nemmeno pensato. Del 25 Aprile non sappiamo quale opinione abbia l’onorevole Alemanno. Sappiamo però che il Primo Maggio l’ha festeggiato partecipando al corteo dell’Ugl, cioè del sindacato di destra. Rispettabilissimo, attenzione, e con una segretaria, Renata Polverini, senz’altro stimata. Però uno dei sindacati più politicamente connotati. Ma non doveva essere da subito, il “sindaco di tutti”? E non poteva scegliere, dunque, una occasione più “unitaria”? Insomma bisognerà stare ben attenti al “piccone”.

Pubblicato il: 03.05.08
Modificato il: 03.05.08 alle ore 16.20   
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« Risposta #32 inserito:: Maggio 05, 2008, 12:46:20 pm »

La relazione

A giugno la Digos aveva individuato 17 ragazzi: attenti, colpiranno ancora

Tirapugni, mazze, «dagli al nemico»

Le spedizioni punitive del branco

Sono giovani, tutti ultrà. Le vittime? I diversi per vestiti e colore della pelle

 
ROMA — Per le spedizioni punitive usavano tirapugni di metallo e mazze avvolte da catene. Ma spesso sono bastati calci e pugni per far finire in ospedale le vittime. Si incontravano a piazza delle Erbe, centro storico di Verona. Talvolta bevevano birra fino a ubriacarsi. Poi cominciava la caccia. Del gruppo facevano parte almeno una ventina di persone, anche alcune donne. I poliziotti della Digos coordinati da Luciano Iaccarino riuscirono a individuarne diciassette, tutti tra i 17 e i 25 anni. Nel giugno scorso fornirono alla magistratura gli elementi d'accusa. Denunce e racconti che adesso delineano le caratteristiche del gruppo, la loro appartenenza agli ultras dell'Hellas Verona, la loro matrice neofascista confermata da volantini, simboli e fotografie sequestrati durante le perquisizioni.

La Digos: colpiranno ancora

Da allora le indagini sono andate avanti, la polizia sapeva che non si sarebbero fermati. Nell'ultima informativa consegnata alla magistratura neanche due mesi fa è scritto: «Riscontri obiettivi dimostrano la permanenza di un vincolo associativo diretto all'attuazione di un programma criminale di più ampio respiro in cui la comunanza di interessi — l'ostilità per chi è "diverso", la volontà di marcare il proprio spazio territoriale in cui gli altri non hanno diritto di accesso — determina il concreto rischio che tali aggressioni possano riprodursi in un indeterminabile tempo futuro». La prima aggressione risale al 26 marzo del 2006. Succede tutto in pochi minuti. Due amici sono in corso Cavour, devono prelevare soldi al bancomat. «Abbiamo incrociato un gruppo di giovani — verbalizzano —, saranno stati cinque o sei, tra loro c'erano anche due ragazze. Uno fa un grugnito. Mi volto a guardarlo e mi accorgo che mi sta fissando. Noi andiamo avanti, arriviamo fino alla banca. E in quel momento ci circondano. Uno di loro grida che dobbiamo andarcene. Il mio amico gli risponde di no e quello gli dà due pugni in faccia e gli frattura il setto nasale». L'ultima denuncia prima del pestaggio di Nicola Tommasoli è di pochi mesi fa, il 9 dicembre 2007. Ad essere aggredito con mazze e coltelli è un altro tifoso dell'Hellas. Le spranghe servono a sfasciargli la macchina, poi con le lame lo feriscono alla coscia.

Pugni e catene per «terroni»

In meno di due anni hanno colpito almeno tredici volte. Tante sono le denunce presentate anche se la polizia sospetta che alcune vittime, ferite in maniera lieve, potrebbero aver deciso di lasciar perdere per paura di eventuali ritorsioni. Nell'informativa consegnata alla Procura di Verona viene sottolineato come «tra i responsabili degli atti criminosi ci sono soggetti noti per aver in passato compiuto atti violenti in occasione o a causa di eventi sportivi. Il loro modus operandi è basato sullo stesso canovaccio comportamentale: forse favoriti dall'ebbrezza alcolica, gli aggressori cercano un pretesto per attaccar briga e dalle parole passano rapidamente alle vie di fatto. Le parti offese sono prive di legami apparenti tra loro, se non per aver suscitato negli aggressioni l'odio per chi è ritenuto "nemico" o semplicemente "diverso" per il colore della pelle o il modo di vestire o di atteggiarsi».

Il 17 marzo 2007 in piazza dei Signori c'è un concerto per festeggiare il bicentenario del liceo classico «Maffei». Verso le 23 arrivano una ventina di giovani, si avvicinano a uno degli studenti: «Mi hanno aggredito e scaraventato a terra, poi hanno cominciato a riempirmi di calci e pugni. Alcuni si sono sfilati la cinta dai pantaloni, altri mi hanno colpito con spranghe e catene». Interviene una ragazza, cerca di sottrarre il suo amico alla furia del gruppo. Ma anche lei prende pugni e schiaffi. Stessa sorte per un altro che accorre in aiuto. Alla fine i tre riescono a rifugiarsi dentro un ristorante. Ma questo non basta a fermare il pestaggio. Il verbale dello studente racconta che cosa accade dopo: «Mi hanno inseguito, hanno continuato a insultarmi e a picchiarmi. Sono sicuro che avevano tirapugni di metallo e catene».

La minaccia ai minorenni

L'8 aprile tocca a tre giovani brasiliani finire nel mirino della banda. Mentre passano a piazzetta Scalette Rubiani notano quattro ragazzi seduto al bar. «Siete fascisti?», chiedono. Gli stranieri rispondono di no. E immediatamente vengono colpiti con una sedia di legno, buttati in terra e picchiati. Uno di loro resta 40 giorni in ospedale. Anche alcuni minorenni sono rimasti vittima di minacce e pestaggi. Il 25 aprile 2007, mentre sono in strada con lo skateboard vengono avvicinati da sei ragazzi. Gli chiedono i soldi, li perquisiscono per controllare che non li abbiano nascosti nelle tasche. Gli rubano tutto quello che hanno. Poi, sotto la minaccia del coltello, urlano: «Se uno di voi chiama la polizia vi tagliamo la gola. Grazie, da oggi sarete protetti da noi». Un mese dopo, nella notte tra il 25 e il 26 maggio, gli ultrà entrano in azione due volte. Prima aggrediscono tre militari di leva perché hanno l'accento napoletano, poi un tifoso del Lecce e il suo amico intervenuto per difenderlo. Anche questa volta, agiscono «in branco».

Fiorenza Sarzanini
05 maggio 2008

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« Risposta #33 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:08:45 pm »

13/5/2008
 
Silviahara e il castagno dei 100 cavalli
 
STEFANIA PRESTIGIACOMO

 
Il ministro dell’Ambiente risponde al Buongiorno di Massimo Gramellini, «Il deserto del Silviahara», uscito sabato 10 maggio.



Buongiorno Gramellini,

lei conosce il Castagno dei Cento cavalli? È quell’albero alle falde dell’Etna che, secondo una dolce leggenda, ospitò sotto le sue fronde una regina e cento cavalieri sorpresi da un fortunale. Ma il castagno è anche la prima riserva naturale e paesaggistica d’Italia, decretata dal viceré Corsini il 21 agosto 1745 con un atto del «Tribunale dell’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia». Giusto in quella Sicilia, nella mia e vostra Sicilia, che lei racconta come «Silviahara» - il deserto di Silvio secondo lei, immagino - sospesa fra deserto e «cavalcavia» mirabolanti e che tuttavia oggi ha il 70% del territorio sottoposto, in diverse forme, a tutela ambientale, oltre a 75 riserve e aree marine protette. Ben vengano i progetti sulle fonti energetiche ed in particolare sull’energia solare, che sarà mia cura promuovere, coinvolgendo lo stesso Carlo Rubbia, perché rappresentano una scelta ineludibile ai tempi del petrolio a 120 dollari a barile e dell’effetto serra. Ben venga l’insediamento di centrali solari laddove il sole abbonda e sazia, come in Sicilia, specie se, grazie a nuove tecnologie, questi impianti potranno produrre quantità di energia importanti.

Ma ben vengano anche le infrastrutture come il ponte, che io, da siciliana, non vedo come una «Disneyland» progettuale e architettonica, ma come elemento di modernizzazione e valorizzazione di quella che è la vera irriproducibile ricchezza siciliana e italiana: la stratificazione storica, paesaggistica, ambientale e culturale. Una «infrastruttura immateriale», unica, non riproducibile, al servizio della quale mettere grandi infrastrutture materiali come il Ponte che anche personalità come il maestro Andrea Camilleri e Francesco Merlo su la Repubblica, certo non vicini alla mia area politica, hanno difeso.

Io non credo che sviluppo e salvaguardia ambientale, modernizzazione e tutela, siano concetti antitetici, credo in quello sviluppo sostenibile capace di coniugare la crescita e la difesa del territorio, anche territori pregiati e antichissimi, colti e dolorosi, struggenti e sfruttati. Come la mia e la vostra Sicilia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:28:10 pm »

A Montecitorio la fiducia si vota mercoledì mattina; a Palazzo Madama giovedì

Il governo «debutta» alla Camera «L'Italia non ha tempo da perdere»

Berlusconi presenta il programma: priorità su rifiuti, detassazione e sicurezza.

«Invochiamo l'aiuto di Dio»

 
ROMA - «Il lavoro che ci aspetta richiede ottimismo e spirito di missione». Lo ha detto il premier Silvio Berlusconi nel suo intervento alla Camera per la presentazione delle linee programmatiche che l'esecutivo intende perseguire nel corso della legislatura, una procedura prevista dall'articolo 94 della Costituzione. «Gli italiani - ha spiegato Berlusconi - hanno messo a tacere il pessimismo di chi non ama l'Italia e non crede nel suo futuro. I cittadini ci hanno detto di dividerci e combatterci ma non in nome di vecchie ideologie e di dare stabilità e impegno nell'azione di governo. L'Italia non ha tempo da perdere».

«BENE IL GOVERNO OMBRA» - Il capo del Pdl, come era nelle previsioni, ha aperto all'opposizione, spiegando che anche «il gabinetto ombra della tradizione anglosassone»», uno «strumento di osservazione» dell'operato del governo, può essere di aiuto. «Vogliamo contrappore la bellezza della politica capace di cambiare le cose - ha poi sottolineato il Cavaliere - al chiacchiericcio e alla politica dell'inganno». Un qualcosa che, a suo parere, il nuovo clima con cui si è aperta questa legislatura renderà possibile.

LE PRIORITA' - Tra le priorità che l'esecutivo sarà chiamato ad affrontare, Berlusconi ha indicato la rimozione dei rifiuti in Campania, la detassazione prima casa, agevolazioni fiscali generalizzate, interventi per «la sovranità della legge sul territorio dello Stato» e per «liberare dalla paura i cittadini, soprattutto donne e anziani» perché «la sicurezza è sinonimo della libertà». Poi il premier ha insistito sull'urgenza di arrivare alla crescita del Paese, dal punto di vista economico e sociale, e ha fatto cenno alla necessità di arrivare ad un «federalismo fiscale e solidale» e ad un maggiore sviluppo del sud, anche attraverso una lotta decisa alla criminalità organizzata.

ABORTO E IMMIGRAZIONE - Berlusconi si è poi impegnato a lottare contro le «cause materiali dell'aborto» e a promuovere una «cultura della vita e della tutela dell'infanzia» lavorando anche per fare uscire l'Italia dalla attuale situazione di denatalità. Ha poi detto no a quella che definisce «immigrazione selvaggia», precisando che sarà fatta una politica di inclusione attenta e ragionata perché «dobbiamo essere padroni in casa nostra ma al tempo stesso fieri della nostra capacità di accoglienza».

CONTI PUBBLICI E TASSE - Il presidente del Consiglio ha spiegato che «è necessario tenere i conti pubblici in ordine» e procedere con una intensa lotta all'evasione fiscale, lavorando però per «ristabilire il concetto che le tasse non sono belle in se, ma sono il corrispettivo che viene dato allo stato in cambio di servizi che per questo devono essere efficienti». E in ogni caso, il recupero tributario «non sarà mai punitivo verso chi produce ricchezza nel Paese». Berlusconi ha ricordato che l'economia mondiale non gode di ottima salute, che l'Italia avrà bisogno di far sentire maggiormente la propria voce nei mercati internazionali e ha precisato che, senza cadere in protezionismi e chiusure, andranno tutelati «la produzione e gli interessi delle imprese italiane di fronte a forme sleali di concorrenza».

RIFORME E CONFRONTO - Il Cavaliere ha ribadito la necessità di lavorare, insieme all'opposizione, per le riforme istituzionali e costituzionali che in buona parte sono già condivise e tra queste ha citato il rafforzamento dei poteri dell'esecutivo, la diminuzione del numero dei parlamentari, il nuovo assetto federalista, il nuovo sistema di elezione di Camera e Senato. E in questo contesto ha rilanciato l'opzione del dialogo tra tutte le forze politiche italiane perché «nessuno deve sentirsi escluso». Berlusconi ha detto di non essersi mai considerato «un uomo solo al comando» e ha auspicato che le reciproche aperture tra i Poli diventino «le nuove buone regole della politica italiana». Anche perché «lo scontro antropologico tra diverse classi di umanità», che ha caratterizzato la stagione delle ideologie, «deve restare per sempre alle nostre spalle». Berlusconi ha infine augurato buon lavoro a tutti i parlamentari: «Per aiutare tutti noi - ha detto nel passaggio finale - invochiamo l'aiuto di Dio e anche un po' di fortuna che, come si sa, va aiutata con coraggio e virtù».

 
Strette di mano a Berlusconi dopo la fiducia al suo secondo governo nell'aula della Camera il 20 giugno 2001 (Lapresse)
PRIMA ALLA CAMERA... - Il leader del Pdl è intervenuto nell'aula di Montecitorio, dove è ora tempo di dibattito con gli interventi dei deputati. La fiducia sarà votata mercoledì mattina dopo che lo stesso presidente del Consiglio avrà svolto il suo intervento di replica. Stessa procedura anche per il Senato, dove però Berlusconi non si presenterà di persona: a Palazzo Madama è stato fatto pervenire il testo dell'itnervento perché è tradizione che il premier legga il proprio discorso, alternativamente, in un ramo del Parlamento consegnando il testo all'altro ramo. Nell'ultima occasione di questo tipo, il 18 maggio 2006, Romano Prodi intervenne in Senato e consegnò il testo alla Camera. In ossequio alla consuetudine dell'alternanza, dunque, questa volta Berlusconi è intervenuto a Montecitorio. Giovedì proseguirà la discussione nell'aula del Senato, con replica del premier alle 11,30 e, a seguire, le dichiarazioni di voto, in diretta televisiva. Il voto finale è previsto intorno alle 13.

IL VOTO DI FIDUCIA - L'articolo 94 della Costituzione precisa che «il governo deve avere la fiducia delle due Camere». «Ciascuna Camera - recita ancora lo stesso articolo - accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. (...) Il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. (...)».

A. Sa.
13 maggio 2008

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« Risposta #35 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:37:01 pm »

Quando Schifani parlò ai pm della Sicilia brokers

Enrico Fierro


Che conoscesse Nino Mandalà, il presidente del Senato Renato Schifani lo ha ammesso il 18 ottobre 2004 davanti ai giudici della Terza sezione penale del Tribunale di Palermo. In quella sede ha riconosciuto di aver avuto rapporti di affari con il suddetto Mandalà nella società «Sicula brokers». Nino Mandalà è ritenuto il capomafia del mandamento di Villabate, comune dove il presidente Schifani, all'epoca avvocato senza cariche parlamentari, ebbe anche un delicatissimo incarico di consulente per le questioni urbanistiche.

Nino Mandalà e suo figlio Nicola sono i personaggi che hanno favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, organizzando il viaggio del boss in un clinica di Marsiglia per curarsi. Nel processo sulla mafia di Villabate un ruolo centrale è rivestito dalle dichiarazioni di Giuseppe Campanella, ex impiegato di banca, consulente dell'amministrazione comunale e galoppino politico ad ampio raggio. È stato nell'Udeur di Mastella, ha avuto rapporti con Forza Italia e con Totò Cuffaro, fino a stabilire solidi legami con i Mandalà. Ma veniamo alla deposizione del Presidente Schifani. Che ammette di aver avuto un ruolo nella società della quale Mandalà era amministratore delegato. «Io ebbi, facendo parte dello studio La Loggia (Giuseppe, avvocato, padre dell'onorevole di Fi Enrico, ndr)...il vecchio la Loggia mi chiese se volevo far parte simbolicamente di questa struttura, sottoscrissi il 3% e dopo un anno e mezzo lo dismisi. E quindi, se pur formalmente alla costituzione feci parte del consiglio di amministrazione, cedute le quote cessai perché non avevo nessun interesse alla società». Quando il pm domanda al senatore Schifani se conosceva Mandalà la risposta è affermativa. «Nella costituzione venne indicato questo Mandalà che io non conoscevo prima, come amministratore...Poi esco dallo studio, lo perdo di vista completamente...Mandalà poi l'ho rincontrato in occasione della politica». Conoscenza che il pm vuole approfondire, ed a questo punto si passa al discorso sulla consulenza che l'allora avvocato Schifani fornisce al comune di Villabate in materia di urbanistica. Circostanza che Schifani ammette, «Il rapporto è stato nel 1995. Nei primi mesi era una consulenza gratuita e finalmente poi vi è stata la copertura e sono stato retribuito secondo le tariffe previste dalla legge regionale». In quell'epoca, chiede il pm, «lei ebbe modo di rivedere Mandalà?». «Sì, ma l'ho incontrato credo una volta, ma non in Comune, a Villabate ma per caso...». Sui rapporti con Mandalà, successivi alla comune presenza nella «Sicula brokers», è l'avvocato Restivo a porre altre domande: «Le risulta se Mandalà aveva un ruolo all'interno del partito, del movimento Forza Italia?». Schifani, visibilmente contrariato, replica che lui ha «già risposto a domanda specifica del pm». L'avvocato insiste e il senatore, finalmente, offre la sua versione. «A livello istituzionale non vi era nessuna responsabilità, all'interno del partito sì, credo che facesse parte di un organismo provinciale, venuto fuori dalla celebrazione di un congresso. Credo che fosse il coordinamento provinciale, il consiglio provinciale, non ricordo bene l'espressione, comunque era l'organismo consultivo e non decisionale del partito». L'avvocato insiste: «Quindi faceva parte del movimento Forza Italia?». Schifani ammette, ma si spazientisce ancora quando il legale chiede se quella di Mandalà fosse una «partecipazione elettiva sia pure da parte degli iscritti di Forza Italia». «Ho chiarito - dice il senatore - che era stato eletto all'interno di un congresso che si era tenuto a livello provinciale nel nostro partito».

La deposizione finisce qui. In sintesi: l'attuale presidente del Senato ammette di aver fatto parte negli anni 1978-1979 di una società al cui vertice c'era Antonino Mandalà, che solo dopo anni si scoprirà essere un potente boss della mafia di Villabate legato a doppia mandata agli interessi di Bernardo Provenzano. Di quella società facevano parte l'onorevole Enrico La Loggia, Giuseppe Lombardo (che tra le sue molteplici attività rivestiva anche quella di amministratore di alcune società degli esattori Ignazio e Nino Salvo, nel 1987 condannati per mafia), e l'ingegner Benny D'Agostino (condannato due volte per associazione mafiosa e vicinissimo al boss Michele Greco, il Papa). Anche la consulenza sulla delicata materia urbanistica al Comune di Villabate è ammessa dal presidente Schifani («perché il mio ruolo era riconosciutamente scientifico...»). Il pentito Campanella, invece, parla di affari e in una sua deposizione dice che «il prg di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato con La Loggia...Schifani avrebbe cooordinato con il progettista di fiducia tutte le richieste che Mandalà avesse voluto inserire in materia urbanistica». La gola profonda riferisce anche di tangenti, sia l'onorevole La Loggia che il senatore Schifani hanno deciso di querelare Campanella. Pentiti a parte, si tratta di dichiarazioni pubbliche, di documenti facilmente consultabili che ieri sera Radio Radicale ha messo in onda in uno «Speciale giustizia». Insomma, non è Travaglio da Fazio, ma il racconto di una storia fatta di frequentazioni molto imbarazzanti è lo stesso. A dirci tutto, però, questa volta è il diretto protagonista, Renato Schifani, presidente del Senato della Repubblica italiana.


Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 14.25   
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:39:25 pm »

Il fascismo moderno di Alemanno

Bruno Bongiovanni


Gianni Alemanno, in una intervista al Sunday Times riportata e commentata ieri dal Corriere della Sera e da la Stampa, ha dichiarato che il fascismo - quello storico - fu fondamentale per modernizzare l´Italia. Alemanno rifiuta inoltre di dichiararsi ora fascista. Giù però con le intenerite litanie sulle paludi prosciugate e sulle infrastrutture. C´è comunque dell´autentico in tutto ciò. Il sindaco di Roma deve tuttavia ammettere che l´altro fascismo, quello nordico, ovverosia il prezioso alleato nazionalsocialista, fu, pur con qualche nibelungico arcaismo, ben più moderno del regime italiano: non si dimentichino le autostrade, l´amministrazione, le Università.

E poi l´esercito, la marcia verso il rapido conseguimento della piena occupazione, i prodromi di un Welfare ariano e solo ariano, i campi di concentramento assai meglio funzionanti, e letali, dei Lager del duce collaborazionista. Alemanno, a ogni buon conto, ritiene evidentemente che la modernizzazione, quella piccola di Mussolini, e verosimilmente anche quella grande del Führer, sia sempre e comunque una cosa buona e giusta. Anche il Ku-Klux Klan, forse Alemanno non lo sa, si è espresso, linciando i neri, a favore della modernità. E il modernissimo businessman Henry Ford, uno dei più grandi industriali del XX secolo, ha pubblicato e diffuso più volte, negli Usa, con finalità antisemitiche, «I protocolli dei Savi dei Sion».

Fini, del resto, nel luglio 1991 dichiarò che «il Msi deve saper essere anche figlio di puttana». Nel luglio del 1991 che «siamo il Fascismo del duemila». Nel maggio 1992 che «il fascismo è idealmente vivo». Nel settembre 1992 che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo», frase ripetuta ancora nel giugno 1994, a elezioni sdogananti già vinte insieme a Berlusconi e Bossi. Ora sostiene che si è svincolato dalla nostalgia. Forse, come ebbe a dire proprio Mussolini - una gran frase con brividi staliniani, quella del duce - avverte solo la nostalgia del futuro. Ossia il culto della modernità alemanniana. Ha ragione oggi, come aveva ragione nel 1992. È questo, quello che abbiamo davanti, il fascismo del duemila, senza i gas lanciati in Etiopia, senza camicie nere, senza uno straccio di Hitler con cui fare merenda, ma con turgori xenofobi, populismi demagogici, uno smandrappato autoritarismo nostalgico non di Roma 1922 ma forse di Genova 2001, e qualche saluto romano - un citazionismo postmoderno? - davanti al Campidoglio. Con questo non voglio dire che si devono girare le spalle alla modernità. Tutt´altro. Ma che si deve scegliere tra modernità e modernità.

Non ci siamo del resto mossi granché. Norberto Bobbio, infatti, ebbe precocemente a scrivere il 20 marzo 1994, su la Stampa, che il berlusconismo, diversissimo per carità dal fascismo storico, è gobettianamente l´autobiografia della nazione. Ossia una malattia morale e ridanciana che ci ha contagiati tutti. L´autobiografia ha soprattutto subito inglobato i post-fascisti storici (An ex-Msi), rendendoli veramente i fascisti del duemila, nuovi, moderni, senza manganello e senza doppiopetto. Siamo ancora ben dentro tutto questo. Quella "parentesi" là, per dirla con Croce, durò vent´anni più venti mesi in toto nazificati. Questa qua, decisamente più soft grazie a Dio, è già durata quattordici anni, sia pure con qualche interludio. Alla fine le due avranno la stessa lunghezza.

Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 13.43   
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 14, 2008, 06:46:42 pm »

POLITICA

Botta e risposta a Montecitorio durante le dichiarazioni sulla fiducia

L'ex pm, interrotto, si appella al presidente. E la risposta scatena la polemica

In aula la gaffe di Fini con Di Pietro

"Interruzioni? Dipende cosa si dice"


 ROMA - "Presidente, mi interrompono". "E' naturale, e poi dipende da cosa si dice...". Botta e risposta, in aula, tra Antonio Di Pietro e Gianfranco Fini. E prima polemica per il neopresidente della Camera.

A Montecitorio Silvio Berlusconi ha appena finito la sua replica dopo il dibattito sulla fiducia. Cominciano le dichiarazioni di voto. Tocca a Di Pietro. Il suo intervento è molto duro nei confronti del premier. Piu' di una volta l'ex pm viene interrotto da deputati della maggioranza. ''Lasciatelo parlare'', dice Fini rivolto ai suoi ex compagni di schieramento. Ma il leader dell'Idv, nuovamente interrotto, si rivolge direttamente a Fini chiedendo un suo intervento.

E' a questo punto che il presidente pronuncia le parole che scatenano la polemica: "Onorevole Di Pietro lei sa che e' abbastanza naturale che ci siano interruzioni''. Anche se, aggiunge, ''dipende da quello che si dice''.

Immediata la replica: ''Ha ragione signor presidente, dipende da quello che si dice perché non bisogna disturbare il manovratore...''.

Botta e risposta rapido e dai toni secchi, ma non è finita qui. Subito dopo Di Pietro, infatti, interviene per la sua dichiarazione di voto l'ex presidente della Camera e leader dell'Udc, Pierferdinando Casini. Che inizia proprio rivolgendosi a Fini: "Dissento da ciò che ha detto Di Pietro, ma le ricordo che i parlamentari non possono essere sindacati nelle loro opinioni. Anche perché sarebbe un precedente pericoloso''.

"Una scivolata provocata dal fatto che è la prima volta per lui, non voglio pensare che è un istinto per il partito cui è appartenuto", commenterà alla fine l'ex pm. "Non voglio criminalizzare un comportamento che è stato un errore di conduzione. Una seconda chanche non si nega a nessuno".

L'interessato, in Transatlantico, cerca di chiudere la questione. E si trincera dietro un no comment. E ai cronisti che gli chiedono una opinione sulle affermazioni di Casini replica: "Lei da quanto tempo sta qua? Perchè fa domande fuori luogo...le pare che io esco fuori per commentare?".

(14 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Maggio 15, 2008, 11:10:08 am »

15/5/2008
 
Novara di nuovo fatale
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
La battaglia di Novara». Chissà se, con qualche reminiscenza scolastica, il lettore non associ ancora questa espressione a un evento luttuoso.

Si trattò infatti di una sconfitta dell’esercito piemontese (nel 1849) che s’era mosso per liberare la Lombardia dal dominio austriaco. In prospettiva dell’unificazione nazionale. La battaglia perduta a Novara è stata un’umiliazione per l’idea dell’Italia unita e una festa per gli austriaci (croati e sloveni) e chissà forse per qualche lombardo austriacante.

È grottesco pensare che oggi proprio a Novara il sindaco leghista conduca un’altra battaglia, simbolica ma non meno significativa, per rinnegare l’idea dell’unità nazionale, parlando di «disunità d’Italia» e mettendosi in contrasto con il comitato che prepara le celebrazioni del 2011.

Dietro questo atteggiamento non c’è alcuna seria rivisitazione o revisione storica ma una pura manipolazione politica. È la storia usata come mazza politica senza alcuna giustificazione. È singolare poi che questo avvenga nel momento in cui - almeno apparentemente - a livello nazionale si stanno facendo sforzi per far convivere in modo civile due memorie antagoniste dell’ultima lacerante esperienza collettiva (Resistenza e guerra civile 1943-‘45).

Che cosa significa ricercare ragionevoli punti di dialogo su questo episodio relativamente recente, da cui è uscita la repubblica democratica, e nel contempo rinnegare l’evento originario della nazione italiana, che dava senso a quella stessa esperienza traumatica? Partigiani e neofascisti infatti non combattevano forse anche in nome della patria, sia pure concepita in termini tra loro inconciliabili?

Giro queste domande agli euforici neo-ministri della Cultura, della Scuola, dei Beni culturali ecc. che dovranno gestire «la politica della memoria» di questo Paese sulla base di assunti politico-culturali tra loro incompatibili: enfatica riaffermazione dei valori nazionali (da parte degli ex-An) e esplicito rinnegamento degli stessi (da parte leghista).

Diciamo subito che in tutte queste polemiche la ricerca storica ha poco a che vedere. La letteratura storiografica sul Risorgimento è sterminata ed esauriente su tutti gli aspetti controversi, problematici e contraddittori, che erano stati elusi dalla vecchia storiografia patriottica. Suppongo che i demagoghi leghisti usino soprattutto due argomenti: il presunto carattere non-popolare delle iniziative politiche militari nazionali e la gestione centralista del potere a danno di un ipotetico federalismo delle regioni via via aggregate nella nazione. Se sono queste le rivendicazioni dell’interpretazione leghista, sfondano porte aperte.

Non è questa la sede per ripercorrere i motivi che hanno portato ad esempio la classe politica risorgimentale, nella sua maggioranza, alla scelta centralista, mentre erano già pronti sul tavolo e seriamente ponderati progetti alternativi di federalismo. Sostanzialmente si scelse il centralismo statale come promotore e acceleratore della modernizzazione. Fu una scelta ragionevole - nel contesto economico del tempo - che si sarebbe potuta correggere forse con il passare dei decenni. Ma qui entriamo in un ordine di ragionamenti da fare in altro luogo. È importante invece ribadire che se si vuol fare la polemica contro il centralismo statale, non si deve sparare antistoricamente contro l’unità nazionale come tale, ma contro singole scelte politiche e amministrative.

Mi auguro che la «battaglia di Novara» di oggi abbia lo stesso effetto di quella storica: la ripresa del cammino nazionale. Nel senso di un ripensamento sereno e critico del Risorgimento a cominciare da un lavoro serio nelle scuole. È bello pensare che ai nostri figli e nipoti si possa raccontare la storia vera, dura, affascinante del nostro Paese anziché cattive mitologie che, inventate con le migliori intenzioni, ottengono poi l’effetto opposto.
 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Maggio 16, 2008, 12:06:30 am »

da www.nb.admin.ch

I nomadi in Svizzera


La comunità nomade in Svizzera conta approssimativamente 30 000 membri. In nome «dell’assistenza ai bambini nomadi», l’«Opera di assistenza per i bambini della strada» ha sottratto oltre 600 fanciulli ai loro genitori, costringendoli in questo modo alla sedentarizzazione. Di fatto, la maggioranza dei nomadi vive tuttora un’esistenza sedentaria. Per quanto concerne il loro numero, possono unicamente essere avanzate delle stime, visto che molte persone Jenisch, segnate da un passato sofferto, preferiscono celare la loro vera origine.
Ciononostante, il nomadismo, strettamente legato all’esercizio di vari mestieri tradizionali, è rimasto un elemento fondamentale dell’identità culturale nomade. Considerato il valore del nomadismo quale fattore d’identità culturale collettiva, i nomadi riutilizzando con maggiore frequenza l’espressione «zingari», considerata diffamatoria in passato. Il numero di nomadi, ovvero seminomadi, ammonta oggi a circa 3000 – 5000. In base al rilevamento dell’utilizzo degli spazi di sosta e di transito esistenti nel 1999, le persone che praticano attivamente il nomadismo in Svizzera sarebbero circa 2500.

La maggior parte dei nomadi svizzeri trascorre i mesi invernali presso gli spazi di sosta nelle roulotte, nelle abitazioni di legno oppure nei container. Lì, i loro figli frequentano la scuola di quartiere o di villaggio. Tutti i membri della popolazione nomade sono ufficialmente iscritti nei registri di queste stesse località. I nomadi non curano solo l’esercizio dei loro mestieri tradizionali, quali arrotini, ombrellai, cestai, baracconisti e mercanti, ma ne creano anche dei nuovi; per esempio, offrono vari servizi artigianali, ossia riparano e affilano tosatrici, distruggidocumenti ecc., aggiustano fornelli, si occupano del restauro di mobili e lampade, commerciano in metalli vecchi, abiti, tappeti e in antiquariato. La maggioranza dei nomadi esercita un’attività lucrativa indipendente, è spesso competente in vari ambiti e adatta continuamente la sua offerta alla richiesta. Durante il periodo estivo i nomadi si spostano in piccoli gruppi su tutto il territorio svizzero, soggiornando in genere per una o due settimane presso gli spazi di transito. In questo periodo hanno anche la possibilità di contattare la loro clientela abituale. Ai bambini nomadi è invece garantito uno stretto contatto con la scuola mediante l’invio di materiale d’insegnamento. Affinché possano essere corretti, i compiti vengono rispediti al corpo insegnante.

In compenso, i nomadi stranieri (particolarmente i Rom e i Sinti provenienti dalla Francia o dall’Italia) intraprendono i loro viaggi in grandi gruppi. Solitamente sostano solo pochi giorni in Svizzera. Tuttavia, la loro presenza è molto più sentita e i sedentari hanno avuto serie difficoltà di convivenza con alcuni di loro.

Gli Jenisch, gruppo principale di nomadi svizzeri, vivono soprattutto in Europa centrale (Germania, Francia, Austria e Svizzera). Gli altri nomadi svizzeri appartengono al gruppo dei Sinti (Manouches), apparentati etnicamente con i Rom. Entrambe le comunità appena citate provengono originariamente dall'India nord-occidentale..

Gli Jenisch hanno una lingua propria, lo jenisch. Si tratta di una lingua parlata, adottata a scopo protettivo. Pertanto viene utilizzata e trasmessa esclusivamente all’interno del gruppo. Il primo dizionario di Jenisch è stato pubblicato soltanto nel 2001 (Roth Hansjörg: Jenisches Wörterbuch. Aus dem Sprachschatz Jenischer in der Schweiz. Frauenfeld 2001). In genere lo jenisch viene associato ai «socioletti», alle lingue o i vocabolari «speciali». Raramente, è anche stato definito un «etnoletto». In linea di massima, i locutori fanno uso della grammatica tedesca. Lo jenisch parlato in Svizzera è caratterizzato da una sintassi svizzero tedesca, nei confini della quale i colloquialismi dialettali di maggiore valore informativo (sostantivi, verbi, aggettivi) vengono sostituti con espressioni proprie.
(v. Roth, S. 98)

Ultimo aggiornamento il 15.04.2006


Ufficio federale della cultura (UFC)

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« Risposta #40 inserito:: Maggio 17, 2008, 10:55:32 pm »

16/5/2008
 
I cattolici del settimo nano
 
 
FILIPPO DI GIACOMO
 

Per Tonino Tatò, era una certezza. In Italia, scriveva il cattolico più amato dalla sinistra, si può benissimo governare senza i preti ma è impossibile governare contro i preti. Anche tramite l’utilizzo di questa ricetta, dopo aver sanato l’annosa ferita stalinista con la Chiesa cattolica, nel 1975 e nel 1984 Berlinguer e il suo Pci riuscirono a ottenere un risultato elettorale che si aggirava intorno al 35%. I tempi non devono essere poi così cambiati se, applicando la stessa formula, Berlusconi è riuscito a raggiungere più o meno lo stesso risultato nell’aprile del 2008, vincendo la recente tornata elettorale. Visto che le cose stanno proprio così, e visto che in tanti constatano l’assenza della «componente cattolica» nell’attuale Consiglio dei ministri, ne consegue che alla lista dei sei partiti morti a causa del mal di quorum bipolaristico deve essere aggiunto anche il nome di un altro illustre scomparso. Il settimo nano, ormai estinto, è quel cattolicesimo politico che negli ultimi tre lustri abbiamo spesso e volentieri osservato imbrigliato in una serie di polarizzazioni sterili, mediaticamente efficaci, facilmente sospettabili di essere sempre imposte - dall’alto e dai soliti due o tre personaggi - sulla testa dei cattolici italiani e dei loro 226 vescovi, strategicamente ordinati all’interno di un’imbarazzante e muscolare presenza politica.

A quanto pare, il Cavaliere dopo aver pesato il valore aggiunto dell’Udc all’interno della sua coalizione, si è astenuto da ogni patto politico con chiunque sfoderasse il convinto cipiglio, e la luccicante corazza, del cattolico da combattimento. «L’Udc merita di crescere e non di sparire», «Berlusconi pare abbia somatizzato l’idea che i cattolici siano politicamente inaffidabili», hanno fatto rimbalzare da Avvenire, prima e dopo le elezioni, la mente e il braccio degli eventi di piazza e di immagine by cardinale Ruini. Invece, a questo giro e nonostante le profferte, nessuna delle forze cha hanno composto il Pdl ha fatto campagna elettorale prendendo in leasing l’identità cattolica. Per una così sana omissione, l’attuale premier e i suoi sono stati certamente aiutati dal ruolo che si sta pazientemente ritagliando l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, notoriamente più preoccupato di far sentire la voce dei vescovi piuttosto che far vedere i loro muscoli.

Con l’astensione Berlusconi-Bagnasco, a metà aprile, durante le ultime elezioni, si è incrinato dunque quello specchio, pedissequamente osservato dai giornali e dalle forze politiche, dove è apparsa sempre e unicamente un’immagine di Chiesa carica di soldi e di potere. È un’immagine artefatta, creata dalla politica grazie al Concordato del 1984 e per comprenderlo sarebbe sufficiente andare a rileggere ciò che Tarcisio Bertone, allora docente di diritto pubblico ecclesiastico, scriveva nei suoi contributi ai quattro volumi di Il diritto nel mistero della Chiesa. In applicazione della teoria del «Tevere più largo» così cara a Spadolini, è stata l’Italia a chiedere che Vaticano e Santa Sede rimanessero confinati nel loro ruolo soprannazionale, e che le vicende di casa nostra fossero trattate da italiani e tra italiani. La necessità di autorizzare il presidente della Cei a un ruolo così marcatamente pubblico è stata un regalo, forse il meno utile, che la politica italiana ha concesso ai cittadini credenti di questo Paese. Il cardinale Angelo Bagnasco sembra molto intenzionato a voler abituare laici e credenti a un parsimonioso utilizzo del qualificativo «cattolico». Un termine questo che il rappresentante dei nostri vescovi associa sempre in riferimento a coloro che, qualunque partito scelgano nel segreto dell’urna, ricorrono però al cattolicesimo per vivere e impegnarsi a far funzionare in senso democratico, legale e solidale il sistema di valori e di relazioni che fanno pulsare il cuore del nostro Paese. Speriamo che sia ben comprensibile anche a coloro che, a Genova e a Savona, promettono manifestazioni e contestazioni contro il Papa ed i vescovi. Perché andare contro i preti, credendo che il cattolicesimo politico italiano sia solo nostalgia, è un errore che nessuno può ancora permettersi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 17, 2008, 11:05:09 pm »

17/5/2008
 
Per l'Italia 150 anni con diversità
 
 
MASSIMO GIORDANO*
 

Caro direttore,

voglio ringraziare il professor Rusconi per il suo articolo di ieri sulla Novara, a suo dire, ancora «fatale». Non tanto per le considerazioni che egli ha fatto in merito a quanto io avrei detto sull'Unità d'Italia (in realtà le mie dichiarazioni sono state rilette e re-interpretate dai più) ed accennando a contrasti con il comitato che prepara le celebrazioni del 2011, che in realtà ci sono stati solo con chi non ha voluto capire il senso delle mie parole.

Io voglio ringraziarlo per aver espresso un pensiero che condivido appieno e cioè la necessità di riconsiderare criticamente il passato cercando di consegnare al Paese una nuova prospettiva. Quando egli sostiene che le «cattive mitologie» rischiano di ottenere l'effetto opposto, egli non fa che confermare il rischio della «festa per la disunità d'Italia» che io ho paventato in questi giorni con le mie dichiarazioni e che per varie ragioni, alcune anche di bassa cucina politica, sono state travisate.

Questo è un paese straordinariamente ricco di disomogeneità, che trae linfa vitale dalle peculiarità locali che lo compongono. Ma è anche un paese che chiede a viva voce la valorizzazione delle sue identità territoriali e che pretende il riconoscimento delle disomogeneità quali valori fondanti della propria identità. Schiacciare questi sentimenti, queste pulsioni, rappresenta oggi un pericolo, questo sì oggettivamente disaggregante.

La ricetta che la Lega ha individuato, ormai da decenni, è appunto il federalismo, da contrapporre ad un assetto centralista dello Stato che fu frutto di una «scelta»; alla prova dei fatti non certamente quella migliore. Oggi l'Italia è un paese incongruente, vittima di un'unificazione forzata ma mai condivisa appieno, come tutte le decisioni calate dall'alto e non metabolizzate dal «comune sentire». Decisioni che possono e che debbono essere corrette e mi pare che ciò sia ormai un pensiero condiviso da quasi tutti gli schieramenti politici. Però non è possibile non notare come le pulsioni centraliste e dunque conservatrici siano sempre in agguato. Per questo motivo ho ritenuto importante porre l'attenzione sulle celebrazioni per il 150 anni dell'Unità d'Italia, perché non si risolvano in una sterile agiografia, ma in un'analisi seria ed approfondita delle questioni che con l'unità d'Italia sono rimaste irrisolte: dalla questione meridionale a quella settentrionale, ritenendo la seconda non meno emergenziale della prima.

*Sindaco di Novara

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« Risposta #42 inserito:: Maggio 18, 2008, 11:05:22 pm »

Raid

Vincenzo Cerami


Raid, questa la parola di oggi: irruzione improvvisa, con sovrabbondanza di manette e urlacci. La mano forte non ci piace. È vile, incivile, è violenza.
Per un delinquente devono pagare tanti innocenti. Ma cos’è epurazione, repressione poliziesca, persecuzione, razzismo, odio, vendetta? Quando le vittime sono inermi, indifese, spaventate, l’aggressività diventa sadismo. Contro quella povera gente si scarica una frustrazione accumulata altrove. Forse dell’erotismo andato a male. Possibile, tra l’altro, che appena arriva la destra compaiano i manganelli? È troppo scontato, è pietosamente caricaturale, è un brutto film già visto. Tutte le destre d’Europa non sono così rozze e brutali come la nostra. Naturalmente la canea va appresso al cane che ringhia di più. A Napoli c’è uno spettacolo alla Gomorra: un leghista può anche andare in visibilio, in orgasmo.

Raid: un po’ sinonimo di scorreria, ovvero incursione armata in territorio nemico, in questo caso nei miserevoli campi rom. Caschi e giubbetti antiproiettile, con in pugno la spada dello spaccamontagne della Commedia dell’Arte. Eppure negli annali della polizia non esiste un solo episodio di bambini rapiti dagli zingari. È una leggenda metropolitana che dura da un paio di secoli. Quale modo meschino di mostrare i muscoli! È come sparare alle zanzare con un bazooka. Ma tutti quelli che fanno la guerra ai rom sono più spiantati dei rom, guadagnano perfino di meno. Poveracci questi, poveracci quelli. I mandanti se ne stanno tranquilli alla finestra, a guardare i raid da dietro gli occhiali dalla montatura all’ultimo grido, piuttosto cafoni. Dall’estero ci guardano, e non sanno se ridere o piangere. Dicono che siamo xenofobi, invece no, ce l’abbiamo semplicemente duro.

Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.01   
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« Risposta #43 inserito:: Maggio 19, 2008, 03:51:43 pm »

Nuove critiche da Corbacho.

Frattini:««Dichiarazioni imprudenti ed estemporanee»

La Spagna di nuovo contro l'Italia: «Berlusconi vuole criminalizzare i diversi»

«Mentre io mi assumo la responsabilità di "gestire il fenomeno" dell’immigrazione»

 
 
MADRID - Nuove critiche dalla Spagna alla politica sull’immigrazione adottata dal governo italiano guidato da Silvio Berlusconi. Un ministro dell’esecutivo socialista spagnolo, Celestino Corbacho, ha accusato Roma di voler «criminalizzar»" questo fenomeno anziché «gestirlo», secondo quanto riferisce El Mundo online citando l'agenzia di stampa Europa press. Corbacho è il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione spagnolo. Il governo di Berlusconi vuole «criminalizzare quanti sono diversi mentre io mi assumo la responsabilità di gestire il fenomeno» dell’immigrazione, ha dichiarato Corbacho.

FRATTINI - Per il responsabile della Farnesina «imprudenti» le parole del ministro del lavoro spagnolo contro l'Italia. «Zapatero ha assicurato la sua collaborazione col nostro governo -dice Frattini- siamo pronti -aggiunge- a collaborare con Madrid per pattugliamenti nel Mediterraneo meridionale». Sul reato di immigrazione clandestina propone un disegno di legge perché «deve essere il Parlamento a decidere». Ma la polemica è destinata a non chiudersi dopo l'intervista di un altro ministro spagnolo, Bibiana Aido, che ha detto che «pagherebbe di persona uno psichiatra per Berlusconi, ma servirebbero molte sedute».

IL PRECEDENTE - Il vice presidente e portavoce del governo di José Luis Rodriguez Zapatero, Maria Teresa Fernandez del Vega, aveva scatenato una mini-crisi tra Spagna e Italia due giorni fa, sottolineando che la politica d’immigrazione in Italia poteva incitare al «razzismo e alla xenofobia». Zapatero aveva risolto questo «malinteso» spiegando che De la Vega faceva in realtà riferimento agli atti di violenza avvenuti mercoledì a Napoli dove due campi rom erano stati incendiati e non aveva criticato direttamente il governo italiano. Il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione è tuttavia tornato alla carica domenica sottolineando, come il vice presidente due giorni fa, che è necessario «rispettare i diritti umani» quando si lotta contro l’immigrazione clandestina. «Un immigrato illegale ha un solo destino, il ritorno nel suo Paese, ma per ottenere questo bisogna soddisfare tutte le condizioni di rispetto dei diritti umani», ha dichiarato durante una riunione pubblica a Estremadura (sudovest della Spagna), secondo l’agenzia Europa Press. Il governo di centrodestra di Berlusconi ha annunciato la realizzazione di nuove misure repressive per la lotta contro l’immigrazione clandestina e ha realizzato giovedì scorso una vasta operazione contro la criminalità legata a questo fenomeno, con l’arresto di 383 persone, 268 delle quali straniere.


18 maggio 2008(ultima modifica: 19 maggio 2008)



da corriere.it
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« Risposta #44 inserito:: Maggio 20, 2008, 05:48:22 pm »

Teheran all'Italia: sull'Iran non si faccia influenzare


L'Iran «si aspetta che il governo italiano abbia una posizione più realistica» e «non si faccia influenzare dalle affermazioni irrealistiche di altri Paesi». Lo ha detto lunedì, rispondendo ad una domanda nella sua conferenza stampa settimanale, il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Mohammad Ali Hosseini, dopo che nei giorni scorsi il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini aveva annunciato che il suo governo avrebbe tenuto una linea più «ferma» verso la Repubblica islamica rispetto al precedente esecutivo.
Hosseini ha così risposto ad una domanda relativa ad un'intervista data da Frattini la scorsa settimana al Financial Times, in cui il capo della Farnesina, criticando il suo predecessore Massimo D'Alema, affermava che il suo governo intende aderire alla linea «molto ferma» che Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna mantengono con l'Iran, «molto di più» di quanto ha fatto il precedente esecutivo. Frattini aggiungeva nell'intervista che l'Italia vuole entrare a far parte del gruppo dei "5+1" che conduce il confronto con Teheran, del quale fanno parte anche Russia e Cina.

Il portavoce iraniano - secondo l'agenzia ufficiale iraniana Irna - ha sottolineato quelli che ha definito «i rapporti cordiali» tra Italia e Iran, e ha aggiunto che «le autorità italiane hanno una visione più profonda e realistica della regione mediorientale rispetto ad altri Paesi. Questi presupposti, ha aggiunto, possono «aprire la strada alla cooperazione reciproca sulle questioni bilaterali e regionali».

Il ministro Frattini aveva da parte sua sottolineato anche fatto l'offerta dell'Italia quale Paese «facilitatore» per agevolare il dialogo tra gli Usa e l'Iran. Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, in un messaggio di congratulazioni inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il 3 maggio scorso, aveva espresso «la speranza che la cooperazione bilaterale tra Teheran e Roma si sviluppi ulteriormente in tutti i campi attraverso sforzi maggiori da parte delle autorità dei due Paesi».

Lunedì Hosseini ha anche risposto alle accuse del presidente americano George W. Bush contro il movimento sciita libanese Hezbollah e il gruppo radicale palestinese Hamas, definendoli «nobili e popolari». In un discorso pronunciato durante la sua tappa egiziana, Bush aveva affermato che Hezbollah è «nemico del Libano libero e di tutti i paesi». Quanto ad Hamas, il presidente Usa aveva spiegato che il movimento palestinese «sta tentando di sabotare gli sforzi per la pace con atti di violenza e con il terrore».

Nei colloqui in corso da venerdì a Doha fra le fazioni libanesi, la maggioranza governativa anti-siriana e l'opposizione guidata da Hezbollah non hanno ancora trovato un accordo su una nuova legge elettorale. Secondo qunanto dichiarato dal deputato dell'opposizione sciita Hassan Yacoub all'emittente libanese Lbc, il pomo della discordia nella fattispecie «è la spartizione dei seggi a Beirut». Ma già da sabato scorso era emerso un primo punto di frizione quando la parte che fa capo al Primo ministro Fuad Saniora ha chiesto che fosse messa all'ordine del giorno la questione degli armamenti di Hezbollah.


Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 19.08   
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