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Autore Discussione: Oliviero BEHA.  (Letto 3619 volte)
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« inserito:: Giugno 30, 2008, 02:36:53 pm »

In tv

E Beha al Tg3: insulto non fuori luogo

Il giornalista: la parola magnaccia è forte ma non impropria


ROMA — Si parlava dell'arbitro Rosetti in finale agli Europei. Poi della «cinica» Germania «che non è giusto definirla così» e d'un tratto il Berlusconi «magnaccia» è rispuntato a tradimento anche lì. Ieri, angolo sportivo del Tg3 della sera, in studio Giuliano Giubilei che chiacchiera con Oliviero Beha.

Tutto scorre quieto finché il giornalista- polemista (a lungo tenuto fuori dallo schermo) si avvita in un ragionamento semantico- calcistico: «Al termine cinico si dà un valore positivo, che francamente mi fa preoccupare...». Poi prepara il terreno: «Visto che di parole si campa e con le parole si comunica e che nella storia più importante di questo tg di ieri e di oggi c'è la parola usata da Di Pietro verso Berlusconi... ».

Ed ecco il messaggio mica tanto subliminale: «Attenzione, una parola volgare, che noi due probabilmente non avremmo usato, però non è così lontana dal tono delle intercettazioni che abbiamo visto». Più tardi. Scusi, Beha, ma lei che voleva dire? Che Di Pietro ha sbagliato nella forma ma ha colto la sostanza?

Avete capito male, replica l'autore di «Il paziente italiano. Da Berlusconi al berlusconismo passando per noi», che spiega: «Ho detto che quel termine forte, magnaccia, non l'avrei usato. Ma che non è semanticamente remoto». Eh? «È una parola che può anche venire in mente a qualcuno per descrivere una situazione, come quella che risulta dalle intercettazioni, che mi pare brutta e che manda cattivo odore. Va bene così? Un giudizio olfattivo». Si è perso la diretta il direttore del Tg3, Antonio Di Bella, che però precisa: «Siamo stati molto prudenti nell'uso delle parole, in titoli e servizi, più di altri.

Abbiamo preferito il sinonimo: protettore di Veline». Secondo il consigliere Sandro Curzi «Beha è un giornalista brillante, vuol farsi capire, faceva un esempio, nessuno pensa davvero che Berlusconi sia un magnaccia, io poi quello che dice Di Pietro non lo condivido mai».

Giovanna Cavalli
30 giugno 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Luglio 13, 2008, 04:42:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 13, 2008, 04:41:01 pm »

Dalla parte della piazza

Oliviero Beha


Dal giorno della manifestazione «No Cav Day», a Piazza Navona, l’attenzione dei media si è spostata sempre più e più insistentemente sul cosiddetto lodo post-girotondino del «cui prodest?». A chi conviene o è convenuta una chiamata in piazza di questo tipo? E via con l’elenco delle ipotesi peraltro per lo più coincidenti e riassumibili nel classico «si fa il gioco di Berlusconi» e nell’aggiornato «così si fotte la sinistra, a partire da Veltroni». Per carità, politici e analisti (i primi di parte per costituzione... i secondi per format) fanno benissimo dal loro punto di vista.

Fanno benissimo, cioè, a battere sul gioco che hanno sempre fatto, quello della politica politicante, della scacchiera partitocratrica, delle variabili di folla (e poi sulle performance di comici, di soubrette, di «giustizialisti» ancora in vita che citano «fellatio» più o meno manifeste insieme alla «excusatio non petita» della memorabile formuletta, solo lievemente arrangiata per l’occasione). Sembra loro, e vorrebbero far sembrare alla opinione pubblica sempre meno opinione e sempre più pubblica, che il centro della questione sia quello. Anche se questo gioco fondato sulla realtà della politica e non sull’aspetto rovesciato di essa forse ha contribuito pesantemente a portare il Paese nelle condizioni in cui è. E in cui è maturata la manifestazione di Piazza Navona, come pure le sortite parlamentari quotidiane sui vari lodi che intaccano da un lato la Costituzione e dall’altro la «giustizia della giustizia», se così posso esprimermi. Quindi siamo al paradosso che lo stesso coro greco mediatico che ha accompagnato la classe politica (intesa come classe dirigente complessiva) lungo questo precipizio, circonfusa dai privilegi, invece di vigilare affinché non facesse rotolare l’Italia per la scesa, adesso biasima sguaiatamente chi dal palco mette in guardia sul precipizio stesso. Paradosso che perde di forza di fronte alla seguente e banale osservazione: ma è logico che facciano così, se no dovrebbero confessare la loro collusione con la «deriva» del Paese sotto i colpi della «casta».

Ma torniamo al «cui prodest»: giacché si preoccupano come cani di Pavlov più o meno solo di quello, noi freghiamocene per un momento. Ragioniamo diversamente. Non il criterio di «ciò che conviene» ma quello del «se sia giusto oppure no». In sintesi, è stata «giusta» la piazza peraltro e fortunatamente strapiena, è stato «giusto» il palco e i variegati oratori, è stata «giusta» nel suo insieme la manifestazione? Vediamo. Se l’importante era dare un segnale di non condiscendenza né rassegnazione né menefreghismo nei confronti di ciò che sta facendo il Governo sotto gli occhi di tutti in quanto eletto para-divinamente dalla maggioranza degli italiani, formula democratica che significherebbe in realtà piuttosto la garanzia delle minoranze (se no siamo alla «proprietà privata» del Paese), beh, più giusta di così si muore. Se era altrettanto importante far sapere che la piazza era contro chiunque avesse favorito per zelo, interesse od omissione dai banchi dell’opposizione il «lavoro sporco» del Governo, era giusta a ugual ragione. Chiunque attenti alla Costituzione, dal primo (cittadino) all’ultimo (cittadino), deve sapere che non lo farà con il consenso più o meno tacito e più o meno elettorale degli italiani. Giusta la piazza, allora, e meno male che era piena. Era giusto il palco, ossia chi c’era e ciò che ha detto? Al di là degli attacchi alle persone che hanno parlato sulla base del solito «cui prodest» qui accantonato per cercare di uscirne, sono stati contestati modi e eloqui poco garbati, specie di Grillo e la Guzzanti. In un certo senso, si sarebbe preteso che Grillo non avesse fatto il Grillo e così pure la Guzzanti si fosse deguzzantinizzata. Perché? Per la migliore riuscita della manifestazione, per non spaccare la sinistra, non urtare Napoletano né il Papa ecc. Ma se il Paese fosse ridotto come infatti è, e quindi bisognoso di svegliare le coscienze, e ci fosse stato sul palco qualcuno di caratura superiore, forse non saremmo ridotti come siamo, a dibattere intorno a un cratere. Abbiamo insomma un palco «logico», proporzionato al Paese in avviata decadenza. Vi aspettavate il Che? Ma via...

Poi qualcuno degli oratori sarà stato più felice, qualche altro recitava una parte, qualcuno forse vendeva una merce, e infine il tasso di pathos, di dolore per lo stato del Paese poteva essere variabile. E si avvertiva, giù, nella piazza sudata e compatta. Ma insomma, era un palco all’altezza o al livello di un’Italia sfinita, che appunto si specchia nei lavori parlamentari. Quindi senza troppe ciance in politichese sul «cui prodest», giusta la piazza, giusto eppur discutibile il palco, giusta la manifestazione nel suo complesso. Quello che è davvero sbagliato è il punto cui siamo arrivati, sfarinandoci per la china: la stessa classe politica che ha ridotto il Paese così, «a misura di Piazza Navona» sia pure a contrariis, negli ultimi quindici anni è ancora più o meno in sella, più o meno con gli stessi ruoli. Non va a casa mai nessuno. Ancora. Si usano sempre pesi e misure diverse: pensate se l’anno scorso ci fosse stato Berlusconi stesso, e non un tal Cicu, intercettato per le scalate bancarie in telefonate che il Gip Forleo intendeva utilizzare in un processo mentre il Presidente della Repubblica manifestava (eufemismo!) disagio. Che sarebbe accaduto? Saremmo scesi in piazza con un anno di anticipo?

Ancora: nella confusione, è evidente che Di Pietro punta a far crescere i suoi voti, ma almeno lo fa sostenendo delle tesi imperniate sulla legalità. Se poi ha cadaveri nell’armadio, rivediamo volentieri tutto il mobilio. E l’immobilio. E Grillo? Fenomenale motore mediatico, è arrivato al galoppo computerizzato al «tanto peggio tanto peggio», che non inficia la bontà di un’analisi ma rischia di farla diventare un’intemerata spettacolare senza futuro. Che non sia la guerra civile. Parliamone. Quanto all’asterisco di molti degli oratori («che volete da me? sono solo un comico», oppure «faccio satira», oppure «sono solo un giornalista» ecc.), è semplicemente il rogito notarile e allarmante circa un Paese strafatto, anche senza bisogno di cocaina. Dice: «Una risata vi seppellirà». Magari, ma poi? Temo che con le risate non si ricostruisca nulla. Mi contenterei di un po’ di rigore e altrettanta serietà. Per il cabaret, rimando al film omonimo e all’epoca che rappresentava. Per ora qui siamo a una Weimar all’amatriciana. Per ora. www.olivierobeha.it

Pubblicato il: 13.07.08
Modificato il: 13.07.08 alle ore 7.56   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 16, 2008, 10:00:44 pm »

Ronaldinho, i lussi del premier-padrone

Oliviero Beha


Sembra quasi un destino forzato che quando c’è di mezzo Berlusconi si finisca in un buco nero (rossonero, dal momento che parliamo di Ronaldo de Assis Moreira, acquistato, come sembra, dal Milan dopo l’autorizzazione telefonica del Presidente del Consiglio per 20 milioni e un contratto triennale per il campione da 6,5 milioni netti a stagione). Eppure un destino non è: non è colpa nostra ma merito (!?!) suo se lui è in mezzo a quasi tutto, anche se per il conflitto di interessi quando è al Governo nominalmente molla la presidenza del Milan - e solo quella - lasciando a Galliani l’interinato. Neppure è colpa nostra se per chi nota tale macroscopica "stranezza" è sempre in agguato l’accusa di antiberlusconismo o di demagogia acuta. Finisce che tentano di farti sentire paradossalmente un "eccentrico" mentre dovrebbe essere il contrario giacché ti occupi di un Signore straordinariamente centripeto. Saresti tu il reo di fargli le pulci come se ci fosse qualcosa di pregiudizievole o di personale: eppure anche questa inflazione berlusconica non dipende da te, ma da lui, che riesce quasi a farti sentire in torto. Ma ce l’avete sempre con me, sembra dire o dice letteralmente, magari per farti lasciar perdere prendendoti per stanchezza o noia da ripetitività. Un mago, in tutto, e come si legge anche nel calcio.

Che ti fa? Ti acquista un passato "pallone d’oro" per una cifra considerevole, colmandolo di denaro, incurante delle esperienze precedenti milaniste con Rivaldo e il Ronaldo di ritorno. Intendiamoci: nessuno discute un talento come Ronaldinho, ma da tifoso, nei bar, o alla tv. Tutt’altro genere di ragionamento andrebbe fatto nel rapporto qualità-prezzo-esigenze del Milan. Certo, un tecnico capace e aziendalista come Ancelotti se lo farà piacere eccome, ma sul piano dell’organico anche recentemente, quando sembrava che costasse troppo in una versione aggiornata de "la volpe rossonera e l’uva", aveva già detto esplicitamente che non era quello il giocatore che gli sarebbe servito di più. Con i dubbi poi sulla vita periodicamente sregolata del Dinho, il suo diametro adiposo recentemente non proprio da atleta, una sorta di stanchezza da stress che ovviamente ora, a Milanello, si trasformerà in una spinta per la resurrezione anche mediatica. Il punto è sempre Berlusconi, non Ronaldinho: dopo aver detto "faremo senza" tira fuori i soldi per acquistarlo come se il calcio e il resto non avessero nulla a che spartire. Una bella riga, come si segna un rettangolo di gioco, di qui c’è l’Italia con i suoi problemi, recessione, inflazione e difficoltà ad arrivare alla fine del mese incluse, mentre di là c’è il solito oppio rotondolatrico, dove si mescolano pallone, tv e diritti tv nel solito minestrone che conosciamo ormai da tre lustri.

Davvero sembra che il fatto di essere il Presidente del Consiglio della spazzatura a Napoli, per carità, mondezza ereditata da Prodi e Bassolino, ma ancora prima da lui stesso, non gli consigli alcuna strategia differenziata, per rimanere a un lessico di riferimento. È storia assai più che leggenda il fatto che in certi momenti di crisi del Paese e della Fiat (di solito andavano paralleli… ) Gianni Agnelli, mai al Governo almeno direttamente, abbia negato il nulla-osta per acquistare alla Juventus campioni troppo salati, per non rischiare impopolarità o intempestività.

Berlusconi invece se ne frega. Forse privilegia la sua natura affaristica, forse il rapporto con la politica è in un certo senso per lui secondario e considerando l’Italia un’azienda si regola di conseguenza,da inarrivabile imprenditore di circenses, forse pensa che gli italiani, milanisti oppure no, l’abbiano votato anche per questo, per "sognare", forse ritiene indispensabile Ronaldinho per lo "stile di vita" del Paese più che per l’organico tecnico del Milan stesso. Forse,come in altri settori dello spettacolo politico recentemente emersi, ha una visione "erotica" del calcio e per questo non bada a spese. Forse semplicemente essendo lui che tira fuori i soldi in un Paese sempre più povero fa come si è sempre fatto da ragazzini: il pallone è mio e ci faccio giocare chi mi pare. Ce l’avessero detto qualche anno fa,quando si scherzava su Craxi tifoso del Torino, che saremmo finiti così.

www.olivierobeha.it



Pubblicato il: 16.07.08
Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.25   
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