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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 165243 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Agosto 31, 2008, 12:32:32 am »

Strage di Brescia, quelle foto che aiutano la verità

Massimo Franchi


Il primo dei tanti depistaggi sulla strage di piazza Loggia a Brescia lo fece Il Secolo d'Italia. Per il giornale dell’Msi il 28 maggio 1974 in piazza c’era Renato Curcio, fondatore delle Br. «Volevano intorpidire le acque», racconta Manlio Milani, presidente dell’associazione familiari delle vittime, che quella piovosa mattina perse la moglie Livia. «Sapevamo che quella era una strage fascista e decidemmo di fare qualcosa». La reazione della città, ancora affranta dal dolore per gli 8 morti e il centinaio di feriti, fu immediata. «Pensammo che la cosa migliore era fare un appello: portateci foto della strage, riconoscetevi in quegli scatti». E Brescia rispose «con un impegno senza eguali, un impegno che ci fece sentire in dovere di lottare contro i depistaggi e per la verità».
Il “depistaggio Curcio” fu poi subito smentito da Giancarlo Caselli: «Arrivarono sul mio tavolo delle foto che sembravano di Curcio e che, se la memoria non m’inganna, erano di una commemorazione della strage di Brescia. La somiglianza c’era, ma già il profilo la metteva in forse. Riuscimmo poi ad individuare l’uomo e a smentire definitivamente quella versione».
Più di vent’anni dopo, in una delle migliaia di foto raccolte, un volto sullo sfondo colpì i magistrati Di Martino e Piantoni, che aprirono l’ultima inchiesta nel 1993. Lo scatto immortala lo strazio di Arnaldo Trebeschi. Piange il fratello Alberto, militante del Pci, il cui corpo è coperto alla buona da una bandiera. Dietro di lui, da un improvvisato cordone di sicurezza, spunta il caschetto di uomo. I magistrati ci vedono subito Maurizio Tramonte, la "fonte Tritone" dei servizi segreti, uomo che ha scritto e riscritto il corso delle indagini. Nel 2001 affidano la perizia per il riconoscimento al professor Luigi Capasso, ordinario di Antropologia a Chieti. Attraverso accurati confronti antropometrici, Capasso giunge ad un «un positivo giudizio d’identità».
La perizia fa parte degli atti dell’istruttoria che ha portato al rinvio a giudizio lo scorso maggio dello stesso Tramonte, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi e Pino Rauti con il via al processo previsto per il prossimo 25 novembre. Un impressionante mare di documenti in cui la verità potrebbe essere stata annegata dai tanti depistaggi. Un mare che la Casa della memoria di Brescia ha ora raccolto. «È stato un lavoro durissimo che ci è costato 45 mila euro. Ora è tutto digitalizzato e consultabile, grazie ai finanziamenti del Comune e della Provincia, co-fondatori con la nostra associazione della Casa della memoria».
Una Casa piena di foto. «I primi furono i fotografi: lo studio Cinelli e lo studio Eden, da cui è tratta la foto di Tramonte. Entrambi i titolari sono morti. La figlia di Cinelli ci ha donato l’intero documentario. Poi molti cittadini portarono le foto a noi perché della Questura non si fidavano». E facevano bene. A guidare la prima inchiesta fu proprio il generale Francesco Delfino, ora rinviato a giudizio. Fu lui ad accreditare subito la falsa pista del trafficante Buzzi.
«Io vivo a Roma», spiega Lorenzo Pinto, che di Milani nell’associazione delle vittime è il vice e che a Brescia perse il fratello Luigi, «eppure sono sempre colpito dall’impegno della città: qualche anno fa il famoso Ken Damy decise di fotografare tutti coloro che erano in piazza quel giorno e poi ne fece una bellissima mostra».
La perizia sulla foto rafforza le possibilità di arrivare finalmente ad uno straccio di giustizia. «Preferiamo lasciar parlare i fatti e non commentare - conclude Manlio Milani -. In questi 34 anni di delusioni ne abbiamo avute troppe, basta pensare a tutti gli indagati morti o uccisi (Buzzi fu il primo) a pochi giorni dalle deposizioni. La cautela ci deriva dalla storia, ma siamo almeno contenti di aver portato per la prima volta a giudizio ben due uomini dei servizi segreti: Tramonte e Delfino. A testimonianza del fatto che i depistaggi nella storia dello stragismo nero ci sono eccome e sono compravati anche grazie all’impegno civico del popolo della nostra città».

Pubblicato il: 30.08.08
Modificato il: 30.08.08 alle ore 20.58   
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« Risposta #76 inserito:: Settembre 24, 2008, 11:00:56 pm »

Problemi causati da uno sviluppo a volte incontrollabile

Petrini, presidente Slow Food: «Non andate nei ristoranti cinesi»

Applicare severità e rigore come per i prodotti italiani.

Sono pochi i locali veramente affidabili

 
 
MILANO - Vicina. Fin troppo. «È uno sconquasso quello che sta avvenendo in Cina: un processo di crescita tumultuoso che porta con sé pericoli per l'ambiente, per la salute e per la sicurezza alimentare». Vista con gli occhi di Carlo Petrini, 59 anni, profeta e presidente internazionale dello slow food, l'uomo che ha costruito sul mangiare una risposta alla frenesia di tutti i giorni, al fast food esistenziale, la Cina del latte contaminato, ma anche dei dentifrici taroccati, dei coloranti nelle uova, dei pesticidi e degli anabolizzanti, dà sempre più spesso l'impressione di «essere fuori controllo, di non riuscire ad incanalare dentro una griglia di regole uno sviluppo che non ha precedenti».

Per uno, come lui, che sulla genuinità e il rispetto delle risorse ha costruito eventi come «Terra Madre», capace di mettere a confronto comunità locali di contadini e pescatori provenienti da oltre 150 Paesi, l'idea che dalla grande pancia cinese possano uscire veleni di tal genere allunga ombre inquietanti anche su un segmento commerciale, come quello del ristoranti cinesi, da decenni radicato in Occidente: «Sì, sotto il profilo della sicurezza alimentare, nutro riserve verso questo tipo di attività. A parte alcuni locali, che si attestano su un livello medio-alto, la stragrande maggioranza rientra in uno standard basso e utilizza prodotti di dubbia qualità».

Eppure, nonostante le notizie che arrivano da Pechino, i ristoranti cinesi continuano a riscuotere un buon successo in Italia e in Europa...
«È vero, ma soprattutto perché praticano prezzi molto economici, il target della loro clientela è circoscritto. Ma la qualità media dei cibi è piuttosto modesta, soprattutto se la si paragona con la vera cucina cinese: varia e affascinante, un intreccio di gastronomie unico al mondo, da quella imperiale a quella dei monaci, dalla vegetariana alla cantonese...».

Niente ristorante cinese, insomma, di questi tempi?
«Beh, io non li consiglio, fermo restando che esistono anche locali del tutto affidabili. L'importante comunque sono i controlli: spero che la severità e il rigore che vengono giustamente applicati nei confronti dei prodotti italiani valgano anche per quelli made in China».

Il problema comunque è a monte, il caso del latte è l'ennesimo episodio di contaminazione. Come lo spiega?
«Penso che il problema cinese nasca dal mix tra l'alto tasso di inquinamento ambientale e il basso livello di gran parte della produzione. Una miscela pericolosa, che, nel campo della sicurezza alimentare, ha provocato enormi danni, facendo venir meno garanzie e filtri che invece sono indispensabili».

Va poi considerato anche l'alto fabbisogno alimentare di quel Paese, non crede?
«Certo, il fenomeno dell'inurbamento ha raggiunto dimensioni spaventose. Le città sono prese d'assalto dai contadini. L'esigenza di cibo è aumentata a dismisura. Anche perché un conto è trovare cibo nelle campagne, altra cosa è reperirlo nelle città. È chiaro che, in questa situazione, ci siano produttori e imprese che non vanno tanto per il sottile».

E l'Occidente come si difende: alzando ponti levatoi?
«No, alzando il livello dei controlli e costruendo un'agricoltura che non dipenda da alcuni prodotti cinesi, che sono ad alto rischio e lo saranno a lungo».

Il governo di Pechino promette mano pesante per chi sgarra: c'è da crederci?
«Penso che le intenzioni siano serie: ne va del loro futuro. Il problema sarà l'attuazione pratica: quando un Paese corre in quel modo, è difficile far rispettare le regole. Anche da parte di un regime».

Francesco Alberti
24 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #77 inserito:: Ottobre 22, 2008, 11:12:49 pm »

Luca: un mese d’inferno nel carcere greco

Gigi Marcucci


«Signor Zanotti, mi faccia capire: come mai lei sembra un bravo ragazzo ma si droga occasionalmente?». La signora Pritsakou, presidente della Corte d’assise di Kalamata, piccolo centro nel sud del Peloponneso, fissa per un istante interminabile l’uomo che ha di fronte. Luca Zanotti, 25 anni, studente di filosofia, cinque settimane passate nel carcere greco di Nafplion, da pochi giorni in quello decisamente meno ospitale di Kalamata, fatica a trovare la voce. Ancora non vede in quella parola «occasionalmente», la chiave che gli aprirà la porta della cella. L’avvocato Georgios Assimakis lo incoraggia a rispondere, lo rampogna.

«Avanti, rispondi alla domanda del presidente, spiega perché», gli dice guardandolo con occhi paternamente torvi. Luca dichiara: «Non lo faccio più da quando mi è successa questa cosa in Grecia: l’ho fatto quando ero giovane, adesso non lo faccio più». Si può violare la legge senza essere delinquenti, traduce l’avvocato.

La presidente si scioglie, è la prima volta da quando è apparsa in aula, alza il fascicolo davanti al viso, parlotta coi due giudici a latere, poi dispone la libertà di Luca su cauzione, 10.000 euro, fissa l’udienza successiva per il 16 dicembre. Poche ore dopo, Luca, frastornato, lascia il carcere, racconta dei detenuti che lo chiamavano, alternativamente “Mafia” o “Berlusconi”, ma lo trattavano bene. «A Kalamata la luce era sempre accesa, dormivo su due materassi a terra, la testa infilata sotto una branda. Mi sono abituato anche a quello. Il momento peggiore è stato all’inizio del processo, quando non capivo cosa stesse succedendo». È stata Margherita Bovicelli, corrispondente consolare onorario e interprete, punta di diamante della task force coordinata dall’addetto dell’ambasciata italiana Martin Brook, a mostrargli per prima l’uscita, ancora lontana ma un po’ più vicina, dal tunnel diplomatico, politico e giudiziario in cui lo hanno infilato i 20 grammi di hashish che la polizia greca gli trovò addosso nell’estate di tre anni fa. L’accusa di traffico internazionale di stupefacenti, il mandato di cattura internazionale, l’arresto a Sant’Arcangelo di Romagna, dove vive con padre, madre, un fratello e i nonni.

A travolgere Luca è stata una valanga. «Vado in vacanza con il fumo nascosto nei calzini, chi vuoi che mi scopra?» . Esuberanza, giovanile assenza di senso dei propri limiti. «In altre parole, un patacca, che però è maturato molto dopo questa esperienza», sintetizza il vicesindaco di Santarcangelo, Fabrizio Nicolini. La frana si è ingrossata per lo snellimento delle procedure di estradizione, non accompagnato da una maggiore omogeneità dei diritti penali nazionali. Luca, con l’amico Davide Orsi (la Corte d’Appello di Bologna deve ancora decidere domani se consegnare anche lui alla giustizia greca) finì in carcere per due giorni nel 2005. Si presentò alla prima udienza, ma il suo precedente difensore non lo avvertì della seconda. In Italia sarebbe stato dichiarato contumace, per la Grecia era diventato un latitante, anche se rintracciabile a casa sua o a Trieste, dove studia. In Italia esiste la detenzione di stupefacenti per uso personale, in Grecia bisogna dimostrare che l’uso personale è anche occasionale. Altrimenti, spiega l’avvocato Assimakis, che ha affiancato il collega italiano Carlo Zaina, si rischia una condanna fino a dieci anni in carcere. Il giorno più lungo di Luca Zanotti è lo stesso in cui la Grecia si ferma per uno sciopero generale contro la politica economica del premier Kostas Karamanlis. Fermi i trasporti, chiuse le banche, a braccia incrociate anche cancellieri e impiegati del Tribunale di Kalamata dove si è concentrata una piccola folla giunta dall’Italia. Una comitiva che forse non sarebbe dispiaciuta a Guareschi. Ci sono due parlamentari, Elisa Marchioni, del Pd, e Sergio Pizzolante, del Pdl: in disaccordo su tutto, ma uniti dall’obiettivo di «riportare Luca a casa, perché non si può finire in carcere per qualche spinello». Pizzolante, che si definisce «ex socialista craxiano», attacca i «giudici burocrati» e vuole che sulle estradizioni decidano i ministri. Marchioni, disponibile a rivedere la legge, non vuole sentire attacchi alla magistratura. Alla fine però le divergenze vengono messe da parte. In fondo anche Peppone e don Camillo unirono gli sforzi per salvare un connazionale finito nei guai per una ragazza nella Mosca dei soviet. Nella Grecia di Karamanlis c’è il rischio che il processo subisco un rinvio. Il procuratore Hristopoulos non vuole che Luca torni in libertà. Ma la presidente decide di interrogarlo.

Pubblicato il: 22.10.08
Modificato il: 22.10.08 alle ore 9.25   
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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 23, 2008, 04:50:43 pm »

Sul numero di oksalute in edicola

Sperandeo: «Aiutatemi, altrimenti mi ammazzo piano piano»

Lo sfogo dell'attore siciliano: «Sette anni fa il suicidio di mia moglie. Ora non dormo più la notte»


Sto male. Molto male, da tantissimo tempo ormai. Forse da tutta la vita. Ma solo da poco, da un mese, ho capito che dovrei chiedere aiuto. Che tipo di aiuto non lo so. A me, quelli dati allo psicologo, mi sono sempre sembrati soldi buttati. E poi, per come la vedo io, ammettere di aver bisogno di una mano ha il sapore della sconfitta. No, no, forse è vero il contrario: per essere forti a un certo punto gli uomini devono ammettere la propria debolezza. Io, finalmente ho il coraggio di dirlo, avrei bisogno di qualcuno con cui comunicare, qualcuno da cui farmi conoscere veramente. Perché mi sembra di non esserci mai riuscito. Amavo mia moglie, ma litigavamo in continuazione. Lei voleva fare l’estetista a Palermo, io le dicevo: «Vieni nella capitale, viviamo insieme». Ma lei piangeva, non mi seguiva, e io andavo a Roma perché dovevo lavorare. Film, fiction, teatro, un sacco di cose.

MIA MOGLIE SI É BUTTATA DAL BALCONE - Per me ma anche per lei e i nostri figli, Tony e Priscilla, che ora hanno 19 e 16 anni. Quando tornavo a casa bisticciavamo, per un sacco di motivi. Discussioni normali tra marito e moglie, io così pensavo. Invece un giorno, io ero a Roma, mi telefonano che mia moglie, Rita, si è buttata dal balcone e si è ammazzata. A 32 anni e mezzo. Io non lo auguro a nessuno quello che ho passato la notte di sette anni fa. C’era pure uno sciopero degli aerei e sono riuscito ad arrivare a casa solo alle sei del mattino. La prima cosa che mio suocero mi disse fu: «Sei contento, adesso?» E in chiesa, al funerale, quando mi sono avvicinato al microfono per salutare un’ultima volta Rita, mio figlio, aveva 12 anni allora, si è alzato ed è andato via. Io non credo che sia colpa mia quello che è successo. Io lavoravo, lavoravo, non so se avevo capito o no che mia moglie era depressa. So che, anche quando litigavamo, io urlavo, sbraitavo, dicevo: «Ora me ne vado». Poi scendevo di un piano e mi dicevo: «Ma che sto facendo?». E così tornavo subito su. Mia moglie chissà che credeva andassi a fare a Roma. Io facevo solo il mio mestiere. Il problema mio è che non riesco a comunicare. Non riesco neanche a fare capire ai miei figli quanto li amo. Loro vivono a Palermo, con le sorelle di mia moglie. Tutti pensano: «Sperandeo fa l’attore, è un duro, guadagna soldi, se la spassa». Ma la verità è che sono solo e che non ho il coraggio di ammazzarmi tutto in una volta, come ha fatto mia moglie. Allora io mi ammazzo, piano piano: dieci anni fa sono stato operato di enfisema polmonare, eppure fumo come un turco. Poi non dormo la notte, non dormo mai, e m’incazzo. Sono un morto che cammina. La verità è che io sono uno che ama tantissimo gli altri ma non ama per niente se stesso. Ho cercato di fare di tutto per dimostrare tutto questo amore che avevo dentro. Ma alla fine ci rimetto sempre. Ho amato altre donne, ma loro, o le loro famiglie, vedevano sempre Sperandeo il duro, magari un poco di buono, sarà colpa della mia faccia o di come parlo, con l’accento siciliano. E così sto male. Talmente male che io, che sono uno che sul lavoro dà cento, ci sono giorni che do sessanta. E allora m’incazzo con me stesso.

HO PARLATO SOLO CON MIA MADRE - La prima volta che sono riuscito a dire queste cose, a parlare di quello che avevo dentro, è stato con mia madre. Lei mi ama davvero e crede che io non pensi a lei perché per mesi non mi faccio sentire. Se non chiamo è per non farle capire che sto male. Quella volta, due anni fa, le aprii il mio cuore. Certe mie fragilità io le ho prese da lei. Ma lei è una persona buona, mentre a me queste fragilità fanno soffrire. Comunque mia madre mi ha fatto capire una cosa: dopo la morte di mia moglie, io sono andato a cercare a chi dare amore, perché ho l’animo del bambino sperduto. Magari avrei dovuto concentrarmi sui miei figli. Però come? Per loro un giudice ha scelto che crescessero lontano da me: io sono un padre distante, lontano. Ora sto recuperando un po’ di dialogo con mia figlia Priscilla, di tanto in tanto mi manda degli sms. Ma Tony, il grande, l’ho perso. Io lo so, ne sono certo, mi serve aiuto. Ma non so neanche se il mio male si chiama depressione. O se è solo il bisogno di ritrovare l’amore dei miei figli.

Testo raccolto da Barbara Rossi
22 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #79 inserito:: Ottobre 23, 2008, 04:51:35 pm »

IL PARERE DELLO PSICHIATRA


Caro Sperandeo, si lasci salvare da noi

Una volta toccato il fondo, dove ci si macera aspettando che la la luce torni a scaldare, si può risalire


Caro Sperandeo, lei il primo passo l’ha già compiuto.
È questa richiesta d’aiuto. Disperata, com’è disperato ogni grido di dolore che preme per uscire. Ma il grido stesso nasconde il germe della rinascita. Ora le spetta intraprendere il cammino.

BISOGNA ACCETTARE L'AIUTO DEI MEDICI - Si inizia in un solo modo, su questo non transigo: accettando l’aiuto dei medici. Dovrà recuperare il rapporto con se stesso, anche con il suo fisico. Poi potrà dedicarsi a ricostruire il legame con i suoi ragazzi. Un padre che si autocommisera e si vuole annientare con le sigarette non sarà mai accettato dai propri figli.

SUPERARE IL SENSO DI COLPA - Venga da noi, si faccia aiutare a superare quel senso di colpa che la schiaccia. Non si spaventi se le proporremo una cura farmacologica da seguire per il tempo necessario e una psicoterapia di supporto. Non vuol dire che lei passerà il resto della sua vita su un lettino. Smettere di fumare sarà un altro momento decisivo, come liberarsi da un mucchio di scorie che la trascinano verso l’autodistruzione. Determinazione e pazienza: vedrà, le troverà. Vedendo in lei una nuova luce, i suoi figli riacquisteranno fiducia nella figura paterna, che tornerà a essere un punto di riferimento. Ma ricordi: tutto comincia quando accetterà di aver bisogno di aiuto. Questa è la più grande manifestazione d’affetto che lei può far giungere ai suoi ragazzi. Verrà ascoltato e premiato. E piano, come dice il poeta, tornerà a riveder le stelle. Tornerà a sorridere, con quell’intensità che l’ha resa un grande attore.

Rosanna Cerbo
psichiatra
22 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:54:22 pm »

Helg Sgarbi strappa 7 milioni per il suo silenzio alla ricca ereditiera dell'impero Bmw

Diceva che la mafia lo minacciava di morte e voleva essere risarcita

"Paga 40 milioni o svelo tutto" Il ricatto del gigolò alla manager


dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO

 

È stata ricattata per mesi e costretta a pagare sette milioni e mezzo di euro per mettere a tacere il gigolò svizzero che aveva registrato i loro incontri erotici e minacciava di spedire il dvd alla stampa tedesca: ma alla seconda, enorme richiesta di denaro - 40 milioni - Ursula Susanne Klatten, 45 anni, azionista della Bmw e titolare di alcune importanti aziende farmaceutiche, ha denunciato l'amante e i suoi complici, sfidando la prevedibile eco mediatica dell'affaire.

Lui, Helg Sgarbi, 41 anni, prestante, poliglotta (otto lingue compreso l'arabo ed il cinese), è stato così arrestato insieme al socio Ernano Barretta, 63 anni, capo di una setta religiosa nata a Pescosansonesco di Pescara e proprietario dell'agriturismo "Rifugio Valle Grande": era Barretta il "regista" che filmava gli incontri amorosi del compare. Insieme poi ricattavano le prede.

Il nome di Susanne Klatten e quello di altre sue amiche, anch'esse milionarie, cadute nella stessa rete, era stato finora protetto dal riserbo della Procura e della squadra mobile di Pescara. Ma nei giorni scorsi è stato emesso l'avviso di conclusioni delle indagini e sono venuti fuori i verbali della vicenda, che coinvolge una delle donne più note della imprenditoria internazionale.

Susanne Klatten infatti è un'ereditiera chiave nel casato dei Quandt, azionista di riferimento della Bmw delle cui azioni detiene il 46% insieme alla madre Johanna e al fratello Stephan. Possiede anche il 50 % di Altana, uno dei colossi tedeschi del medico-farmaceutico, e attualmente investe in Nordex, un big dei mulini a vento per la produzione di energia. È da sempre nelle classifiche mondiali della ricchezza e del successo, a cominciare da quella di Forbes.

La storia giudiziaria in Abruzzo comincia il 15 febbraio scorso, quando la procura di Monaco di Baviera contatta quella di Pescara per una rogatoria dopo l'arresto di Helg Sgarbi. L'inchiesta viene affidata al sostituto procuratore Gennaro Varone, che ordina intercettazioni ambientali e telefoniche nella sede della setta e nelle abitazioni di Barretta e dei familiari e poi il sequestro dei beni loro intestati: due milioni di euro trovati nascosti nell'intercapedine di un tetto, appartamenti, fabbricati, terreni e auto di lusso (tra queste una Lamborghini, una Ferrari, una Rolls Royce Silver Shadow, una Limousine).

Tutti acquistati con i sette milioni di euro estorti a Susanne Klatten e con un'altra decina di milioni pagati dalle sue amiche che avevano relazioni con Helg Sgarbi.

Molti altri milioni di euro, oltre 20 secondo gli investigatori, sono però già al sicuro, investiti dai due complici a Sharm El Sheik, in paesi dell'America latina e nelle banche dei paradisi fiscali. E nascosti sono ancora i filmini degli incontri amorosi di Sgarbi con le facoltose signore tedesche. I convegni avvenivano in lussuosi alberghi di mezzo mondo, ma soprattutto a Monaco di Baviera e a Montecarlo. Helg Sgarbi e Ernano Barretta prendevano sempre due stanze comunicanti. In una avevano luogo gli incontri di Sgarbi con le spasimanti, l'altra stanza diventava una vera e propria sala di regia dalla quale Barretta filmava e registrava tutto.

Poi i rapporti tra il gigolò svizzero e le sue donne s'interrompevano e Sgarbi, inventandosi storie pietose - come quella di essere minacciato dalla mafia italo americana - chiedeva un "aiuto" economico. Susanne Klatten è stata convinta così a sborsare sette milioni e mezzo di euro, le sue amiche due o tre milioni a testa, più altri regali.

Ma i due soci successivamente gettavano la maschera e aumentavano la posta chiedendo altro denaro, tanto denaro, per evitare che i filmini degli incontri fossero
resi pubblici.

Il primo avvertimento arriva alla Klatten il 2 novembre 2007. L'ultimo - una lettera e un dvd - è del 12 dicembre successivo, e contiene la richiesta di 40 milioni di euro, poi ridotti a quattordici. Dovevano essere consegnati in un albergo di Montecarlo: ma la donna a quel punto avverte la polizia e fissa un appuntamento per il 14 gennaio di quest'anno.

Al rendez-vous però Helg Sgarbi, anziché incontrare la signora, trova i poliziotti tedeschi, che lo arrestano per truffa ed estorsione. Anche le amiche della Klatten sporgono denuncia e la vicenda si allarga a macchia d'olio, arrivando a coinvolgere anche i servizi segreti tedeschi.



(31 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #81 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:58:10 pm »

31/10/2008 (7:50) - LA STORIA

Un treno salva i fratelli in fuga dai talebani
 
Donne e bambini in fuga dalla provincia di Kunduz, Afghanistan
 
Trovati sul Cuneo-Ventimiglia: «I genitori? Sgozzati a Kabul»


M. NEIROTTI e A PRIERI
LIMONE PIEMONTE (CUNEO)


Lei quindici anni, lui tredici. Chiusi ciascuno nel proprio giubbotto di stoffa ruvida, in uno scompartimento del convoglio Cuneo-Ventimiglia, che parte dall’Italia, taglia 42 chilometri di territorio francese e arriva al mare. Silenziosi e spauriti.
«Afghanistan. Afghanistan», ripetono arresi e sollevati agli uomini della Polizia di Frontiera in borghese che li controllano. E quando l’ispettore chiede se sono soli, domanda dei genitori, insieme, lenti e muti e in lacrime, strisciano tutti e due la mano sulla gola.

Alle 9,30 di ieri una goccia di tragedia lontana ha rappresentato se stessa al controllo di Limone Piemonte. Fratello e sorella, lei incinta di sette mesi, seduti a guardar fuori, indifferenti a quegli uomini che si avvicinano. Poi vedono i tesserini, capiscono «polizia», ma capiscono anche che vogliono aiutarli. Poche parole, il trasferimento in ufficio, assistenti sociali, un interprete, memoria di sangue e brandelli di viaggio. Poi la quiete in una comunità in Liguria.
L’ispettore capo, che non vuole il nome sul giornale («nessuno in prima fila sotto i riflettori, noi siamo una squadra»), è diviso tra i passaggi della prassi e l’emozione di uomo: «Per noi è diventata, purtroppo, un’abitudine. Andiamo in borghese per non spaventare. Alcuni ragazzi - dal Maghreb, dalla Romania - fuggono al primo dubbio e così sfuggono all’aiuto». Invece questi due no. Rimangono seduti tra passeggeri sorpresi pure loro dalla rapidità di quel che avviene: «Siamo la polizia. Passport? Documenti?». Niente. Nessuna risposta. «Tranquilli. Vogliamo aiutarvi. Venite con noi».

In ufficio, a Limone, viene l’assistente sociale. Ma c’è un problema di lingua. Una pattuglia sta accompagnando da Cuneo un impiegato di origine afghana. Sarà lui l’interprete. Intanto si prova. Tentativi per sapere qualche cosa di più. «Mamma? Papà?». In italiano, in inglese. Parole che, forse, aprono una breccia, un contatto, uno spiraglio di comprensione. Le lacrime scendono con il ritmo delle gocce da una boccetta di ansiolitico. Alzano il braccio, distendono la mano destra e la fanno scorrere sulla gola. «Taleban», dicono. E «Taleban», stesso gesto, per il papà del bambino che dilata il ventre della ragazzina.

Gli agenti portano panini, Coca Cola, sorridono, tentano un dialogo che non c’è. Loro li fissano come per leggere sui volti e sulle divise che cosa succederà. Succede che arriva questo signore e incomincia a parlare adagio nella loro lingua. E il racconto diventa da simbolico concreto, seppur tutto da verificare, da inseguire nelle pieghe di un itinerario che dilata tempi, sofferenze, passaggi di mano in mano di chi si occupa dei viandanti della disperazione. Si dicono originari dell’area di Kabul. Stretti uno all’altra ripetono di aver perso i genitori per una lama nella gola così come lacerato è finito il fidanzatino-padre di lei. E tracciano un itinerario che perde sicurezza man mano che si va avanti: la Turchia prima, e di qui la Grecia. Nascondigli nei Tir. Un imbarco e il mare e dal mare l’Italia. Ancona? Brindisi? Non sanno rispondere, «forse», «no», «ma». Da lì fino al Piemonte, ancora non è chiaro come.

Intanto, la loro serata è in una comunità. Senza cinismo, con la malinconia dell’esperienza, dicono che il dialogo proseguirà «se non fuggono», come capita con tanti cui viene trovato un riparo. Ma la ragazzina ora ha bisogno di un’assistenza medica, di una sosta da quella fuga che, vista così, sembra disordinata e casuale, una storia ancora da inseguire nelle sue verità, nei suoi echi, nelle sue paure.
 

da lastampa.it

 
 
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« Risposta #82 inserito:: Novembre 02, 2008, 10:46:29 pm »

In ostaggio dell'amianto


Enrico Fierro


Pericolo amianto. Chiudetevi in casa. Sbarrate finestre e balconi. Non uscite. E se uscite non respirate. E' questo l'ordine diramato dalla società privata «Eurokomet» alle migliaia di persone che vivono a Borgo Ferrovia, un quartiere di Avellino. Un volantino affisso davanti a tutti i palazzi che ha riportato alla memoria dei vecchi i bombardamenti americani del '43.

Ora, però, la gente trema per quella moderna peste che ammorba la vita di vecchi e giovani, donne e uomini: l'amianto. Quello che per anni un imprenditore senza scrupoli ha sotterrato nel cortile della sua fabbrica, «L'Isochimica», ammassato nei capannoni, sversato nei fiumi, nelle campagne, dentro i boschi dell'Irpinia. Da vent'anni il mostro è lì col suo veleno nella pancia, i capannoni malamente sigillati, e quintali di amianto chiusi in bare di cemento ormai lacerate dalle crepe.

Nessuno ha mai seriamente pensato alla bonifica di quel concentrato di morte. Tentò il Comune, ma il costo era elevato: 2 milioni e mezzo di euro. Furono anche fatte delle ricerche utilizzando i georadar per capire quanto amianto ci fosse nel sottosuolo. Solo tentativi, inutili chiacchiere. Fino all'arrivo di «Eurokomet», l'impresa privata che ha affisso il volantino («fino al 31 marzo 2009, tenete gli infissi chiusi ed evitate di stendere biancheria») e che si appresta a fare la bonifica. Ma qui la storia cambia registro. Ci parla di suoli e speculazioni e del tentativo di costruire dove c'erano le fabbriche centri commerciali, palazzi, uffici: la nuova frontiera degli affari nel Sud. Il consorzio che gestisce l'area industriale tre anni fa ha avviato le procedure per rientrare in possesso dei suoli Isochimica. «La legge ce lo consente - dice il presidente dell'Asi Pietro Foglia - abbiamo già fatto una offerta al curatore fallimentare. Siamo un ente pubblico e possiamo offrire garanzie per la bonifica. Il curatore conosce le nostre intenzioni dal 2005, non ci ha ancora dato una risposta».

Risposta che è invece arrivata ai privati di «Eurokomet», un'azienda fondata nel 2003 da un commercialista, Sergio De Lisa, e dai suoi figli. «Progettazione di programmi pubblicitari, organizzazione di spettacoli, gestione di hotel e ristoranti, somministrazione di alimenti», queste le sue poco rassicuranti «specializzazioni». Spettacoli e hotel a parte, De Lisa è riuscito ad ottenere dal curatore fallimentare, l'avvocato Leonida Gabrieli, un diritto di prelazione per l'acquisto dei 45mila metri quadrati dell'«Isochimica» con l'impegno al risanamento. La confusione è tanta e l'affare è grosso, quei suoli valgono oro, sono collegati alla ferrovia, vicinissimi al raccordo autostradale, nella parte pianeggiante della città. Un business tra i 7 e i 9 milioni di euro. «Una brutta storia, meglio portare tutte le carte in procura». Giuseppe Di Iorio, ex sindacalista Cgil, è membro del Consiglio di amministrazione dell'Asi e vuole vederci chiaro. Ma le polemiche non impressionano Sergio De Lisa. Un personaggio molto noto ad Avellino. Negli anni ottanta da consigliere provinciale del Psdi fu uno dei protagonisti dell'affaire prefabbricati pesanti per i terremotati.

Anni Ottanta, Milano da bere e Sud da sbranare, gli anni di Elio Graziano. Uno dei padroni della città. Era amico dei potenti ministri socialisti Claudio Signorile e Carmelo Conte quando sbarcò ad Avellino con la sua «Isochimica». Una fabbrica destinata a liberare dall'asbesto vetture e treni. Trecento operai, tremila carrozze «scoibentate», 20mila quintali di amianto accumulato. Un lavoro ad altissimo rischio fatto nel cuore del quartiere, a pochi metri dalle case, da un campo sportivo, da un asilo, dalle scuole elementari e medie, dal parco giochi per i bambini. Il veleno dentro la vita delle persone. Ai sindacati che ponevano problemi di sicurezza per gli operai, Graziano rispondeva a modo suo: «Non mi scassate i coglioni che in questa città la disoccupazione è tanta e la gente è arrapata di lavoro». Era sicuro di sé l'ex ferroviere diventato ingegnere chimico in Francia. Gli amici della «sinistra ferroviaria», quella di Signorile e Rocco Trane, gli avevano assicurato miliardi di lire con la fornitura del tnt (tessuto non tessuto), quello delle lenzuola d'oro per le cuccette dei treni, e poi ad Avellino aveva legato con altri potenti della politica. Era diventato «'o presidente» della squadra di calcio, serie A, e in tribuna d'onore sedeva con De Mita, con Mancino e con Salverino De Vito, il ministro del Mezzogiorno. Tutti insieme a gridare «Forza Lupi». Intanto un lupo vorace, l'amianto, divorava la vita degli operai e della gente del quartiere. La stessa che ieri è scesa in piazza per il diritto alla salute e al futuro.

«Mia sorella Annamaria aveva 47 anni quando è morta di tumore. Io stesso sto male, ho un carcinoma al retto e problemi ai polmoni». Antonio Esposito ha vissuto per anni con la sua famiglia in una casa di campagna a pochi metri dalla fabbrica. «Lo vedevamo l'amianto quando lo portavano via nelle cassette. Erano matasse bianche». Fibre di asbesto che la gente ha respirato per anni. Mentre il Comune di Avellino si limitava a classificare l'«Isochimica» «azienda di seconda classe», non pericolosa. «Sono stato in quella maledetta fabbrica dall'83 all'88. Nei primi anni lavoravamo senza protezioni. Solo dopo sono arrivate le mascherine di plastica. Quando ci obbligarono a mettere gli scafandri fu un problema, perché rallentavano il lavoro. E allora i «capi» ci dicevano di togliercelo così facevamo prima. Tanti colleghi sono morti, tantissimi si sono ammalati». Sergio ora ha seri problemi di respirazione e ogni due anni si sottopone ad esami clinici. Pino, invece, oggi lavora al Comune. «Ma lo sai che mangiavamo accanto alle cataste di amianto, che non avevamo tute, che tornavamo a casa con i vestiti sporchi di quella merda?».

L'«Isochimica» ha chiuso i battenti nel 1989, Graziano è stato travolto dagli scandali e dai fallimenti. Gli operai si sono dispersi. Non tutti hanno avuto la fortuna di assistere allo strano finale di questa storia.
«Sì è una storia strana, non conosciamo quale sia il progetto del privato, quali le sue esperienze in campo industriale» dice Foglia, il presidente dell'Asi. L'ultima riunione tra «Erokomet», Asl, Arpac e Asi c'è stata giovedì scorso ed è finita con un altro rinvio. Per il rappresentante del Comune di Avellino «mancavano notizie sulle modalità delle operazioni di bonifica».

Insomma, non è chiaro quali tecnologie verranno applicate, quali misure di sicurezza per la salute delle persone del quartiere saranno adottate. Solo nebbia. Nando Romano è un poliziotto ed è presidente della Circoscrizione: «Ho chiesto spiegazioni e sono stato allontanato. Ora ho una sola preoccupazione capire quali danni ha fatto l'amianto, per questo chiedo alla gente del quartiere di raccontare ai nostri uffici quanti morti per tumore hanno avuto in famiglia, quali problemi di salute hanno».

Nella chiesa del quartiere dedicata a San Francesco c'è un enorme murale che Ettore de Conciliis disegnò nel 1965. Fece scandalo quell'opera che parlava di guerre e di atomica. Si vedono i volti di Pasolini, di Di Vittorio e di folle che circondano il santo. Sofia Loren è una mamma coperta di stracci che alza le braccia al cielo in un mondo di macerie. La guerra seminava morte, ora il male si chiama amianto. Le macerie sono quelle lasciate da anni di malapolitica e da una famelica speculazione.


Pubblicato il: 02.11.08
Modificato il: 01.11.08 alle ore 20.57   
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 10, 2008, 06:42:43 pm »

Il piccolo Javier Morena aveva cinque anni

Messico: uccidono bambino con un'iniezione di acido solforico

I rapitori hanno deciso di sopprimerlo quando hanno saputo che la polizia era sulle loro tracce
 

CITTA' DEL MESSICO - Lo hanno ucciso brutalmente, iniettandogli una siringa d'acido solforico nel cuore dopo aver scoperto che la polizia era sulle loro tracce. E' finito tragicamente il sequestro del piccolo Javier Morena, bambino messicano di soli 5 anni, rapito lo scorso 26 ottobre da 5 gangster a Iztapalapa, quartiere operaio di Città del Messico. I rapitori volevano chiedere poco più di 18 mila euro di riscatto alla famiglia, ma quest'ultima non avendo i mezzi per pagare qualsiasi somma, ha deciso di contattare la polizia e di mostrare una foto di Javier durante una trasmissione televisiva. A questo punto i gangster, tra cui una donna e un minorenne, hanno preso la fatale decisione di uccidere il bambino. Gli costerà cara: sono stati tutti arrestati e adesso rischiano di passare il resto dei loro giorni in galera

RAPIMENTO - Il bambino è stato rapito mentre giocava in un centro commerciale. I genitori, che lavorano al mercato ortofrutticolo, non sono ricchi e vivono in una casa modesta, hanno subito pensato al sequestro di persona visto che negli ultimi tempi sono aumentati a dismisura i rapimenti di persone che non appartengono a famiglie agiate, a cui però si può estorcere un pur modesto riscatto. Laura Vega, la mamma, di Javier ha setacciato per tre giorni tutti gli angoli di Iztapalapa, dalle case più povere ai bordelli dove numerosi bambini di strada sono costretti a prostituirsi, ma non ha trovato traccia del suo Javier. A questo punto si è rivolta alla polizia che si è messa sulle tracce del piccolo. Dopo che la foto di Javier è stata mostrata in un programma televisivo andato in onda su una televisione locale, un tassista ha chiamato le autorità affermando di aver accompagnato il bambino della foto in una casa fuori città. Il piccolo piangeva ed era in un compagnia di un teenager che affermava di essere suo fratello

NUOVA SEPOLTURA - La polizia immediatamente eè corsa all'indirizzo indicato dal tassista, ma non ha trovato più nessuno. Secondo gli inquirenti appena i banditi hanno visto la foto del piccolo in tv, si sono fatti prendere dal panico e hanno deciso di sbarazzarsene. Dopo averlo ucciso atrocemente, lo hanno seppellito su una collina fuori città. Il suo corpicino è stato recuperato qualche ore dopo dalle autorità su ordine del procuratore generale Miguel Mancera ed è stato sepolto lunedi scorso in una bara bianca vicino la casa della sua famiglia. I gangster sono stati velocemente acciuffati e portati in galera. Ma ciò non consola il dolore della madre: nonostante la pena capitale sia stata abolita tre anni fa in Messico, la donna ha invitato i giudici a ricorrervi per punire i colpevoli: «Cosi potranno capire ciò che ha sofferto il mio bambino» ha concluso la donna.


Francesco Tortora
09 novembre 2008(ultima modifica: 10 novembre 2008)


da corriere.it
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 26, 2008, 10:56:38 am »

La Procura militare di Roma ha completato l'inchiesta sull'eccidio dei nostri militari avvenuto nel 1943 per mano tedesca.

Otmar Muhlhauser ordinò le fucilazioni

Cefalonia, chiusa l'indagine "Processate quell'ufficiale"

di ALBERTO CUSTODERO

 
LA PROCURA militare di Roma ha chiuso l'indagine preliminare per la strage di Cefalonia. E si prepara a chiedere il rinvio a giudizio dell'unico indagato, Otmar Mühlhauser, il sottotenente tedesco che, il 23 settembre del '43, alla Casetta Rossa, fece fucilare il comandante della divisione Acqui, generale Antonio Gandin, e altre decine di ufficiali. Nei giorni scorsi, all'anziano ex sottotenente del Reggimento 98 dei "cacciatori alpini" (i gebiergsjäger), due carabinieri inviati dal procuratore militare Antonino Intelisano e dal sostituto Gioacchino Tornatore hanno notificato, per rogatoria, la chiusura indagini.

Mühlhauser, 88 anni (ne aveva 23 nel settembre del 1943), mastro pellicciaio, vive a Dillingen sul Danubio, nel cuore della Svevia, a 100 chilometri da Monaco. Ora ha 20 giorni di tempo per depositare a Roma la sua memoria difensiva, dopodiché la procura chiederà il suo rinvio a giudizio. In quel momento, chiederanno di costituirsi parti civili Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco, e Paola Fioretti, figlia di Giovanni Battista, capo di stato maggiore, entrambi fucilati alla Casetta Rossa.

L'ex ufficiale Mühlhauser, per la verità, non è la prima volta che finisce sotto processo. Fu indagato nel 1967 in Germania, ma il processo fu insabbiato un anno dopo. Una seconda indagine a suo carico avviata il 12 settembre del 2001, è stata conclusa con una sentenza choc della procura di Monaco: "Archiviazione perché - secondo il giudice tedesco - i soldati italiani a Cefalonia erano traditori, e quindi andavano trattati come i disertori tedeschi: fucilati".

Anche nel nostro Paese l'eccidio di Cefalonia ha avuto nel Dopoguerra una travagliata vicenda giudiziaria. Scrive lo storico Giorgio Rochat: "Negli anni Cinquanta in Italia furono processati 30 ufficiali tedeschi accusati della strage, tutti assolti nel '60 anche per gli ostacoli frapposti dai ministri Martino e Taviani, più preoccupati di non creare difficoltà al governo tedesco che di rendere giustizia ai caduti italiani".

Quell'"insabbiamento" in nome di una ragion di Stato non s'interruppe nel 1980, quando Sandro Pertini, denunciando la "congiura del silenzio", dichiarò che "l'olocausto di Cefalonia fu dimenticato per omertà tedesca e ignoranza italiana". E neppure nel 1994, quando fu trovato in un armadio nascosto nei sotterranei degli uffici giudiziari militari (il cosiddetto "armadio della vergogna"), fra tanti fascicoli "dimenticati" sulle stragi nazifasciste, anche quello con il numero 1188 relativo all'eccidio di Cefalonia. Anche allora fu "dimenticato".

S'è dovuto attendere quasi un decennio, perché la procura militare romana, all'indomani delle archiviazioni choc avvenute in Germania, aprisse finalmente, il 30 ottobre del 2007, un fascicolo sulla strage. E questo nonostante il mastro pellicciaio Mühlhauser non abbia mai negato il suo ruolo nella fucilazione degli ufficiali italiani alla Casetta Rossa.

Anzi, fin dal 1967 è, si può dire, reo confesso, avendo allora, e poi ancora nel 2004, spiegato e ribadito ai giudici tedeschi nei minimi dettagli come comandò il plotone d'esecuzione che sterminò gli ufficiali della Acqui. È ora quella sua confessione resa il 24 marzo del 2004 negli uffici di polizia criminale del Land Baviera - e acquisti dalla procura militare romana - a inchiodarlo alle sue responsabilità dinanzi la giustizia italiana.

"Ricevetti l'ordine di fucilare gli italiani dal maggiore Klebe. Per primo fu condotto Gandin, il maggiore Klebe gli lesse la sentenza della corte marziale nella quale il generale veniva condannato a morte mediante fucilazione. Dopo la lettura, il maggiore chiese al condannato se voleva essere giustiziato con gli occhi bendati, ma Gandin rifiutò la benda". "A quel punto - dichiara ancora Mühlhauser - Klebe si rivolse direttamente a me dicendomi "attenda al suo ufficio". Poco prima di impartire l'ordine "fate fuoco", il generale urlò "Viva l'Italia, viva il re". Subito dopo crollò a terra".

È sufficiente questa ammissione per rinviare a giudizio l'ottantottenne mastro pellicciaio, processarlo e condannarlo? Non si avvarrà anche lui, come tutti gli ufficiali tedeschi nella sua situazione e con il suo grado, dell'esimenti di aver obbedito durante la guerra ad un ordine superiore? L'ordine di "non fare prigionieri", del resto, arrivò direttamente da Hitler, infuriato con gli italiani a Cefalonia perché, dopo l'Armistizio, non solo rifiutarono, il 9 settembre, l'ordine di resa e di consegnare le armi ai tedeschi. Ma, dopo un referendum fra i soldati, le impugnarono, il 14, contro gli ex alleati nazisti. L'epilogo fu una carneficina: degli 11 mila soldati e 525 ufficiali presenti a Cefalonia, 3800 furono trucidati in settembre, e 1360 affogarono durante il successivo sgombero per mare. Per l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, "fu in quel momento che nacque la Resistenza italiana".

(26 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #85 inserito:: Novembre 29, 2008, 09:48:12 am »

Il caso: Catania, 29 anni, stroncato da un tumore.

Altre 4 le vittime

Morire nell'aula dei veleni memoriale di un ricercatore

dai nostri inviati FRANCESCO VIVIANO e ALESSANDRA ZINITI


CATANIA - Lo chiamava "il laboratorio della morte". A Raffaella, la sua fidanzata, a suo padre Alfredo, lo aveva detto più volte: "Quel laboratorio sarà anche la mia tomba". Una stanza di 120 metri quadri, tre porte e tre finestre non apribili, due sole cappe di aspirazione antiche e inadeguate e tutte le sostanze killer, le sue "compagne" di studio e lavoro lasciate lì sui banconi, nei secchi, in due frigoriferi arrugginiti: acetato d'etile, cloroformio, acetonitrile, diclorometano, metanolo, benzene, con vapori e fumi nauseabondi e reflui smaltiti a mano.

Lì dentro il laboratorio di farmacia dell'Università di Catania nel quale sognava di costruire il suo futuro, Emanuele, "Lele" Patanè, negli ultimi due anni aveva visto morire e ammalarsi, uno dietro l'altro, colleghi ricercatori, studenti, professori amministrativi: Maria Concetta Sarvà, giovane ricercatrice, entrata in coma mentre era al lavoro e morta pochi giorni dopo; Agata Annino stroncata da un tumore all'encefalo; Giovanni Gennaro, tecnico di laboratorio, ucciso anche lui da un tumore. E poi quella giovane ricercatrice, al sesto mese di gravidanza, che aveva perso il bambino per mancata ossigenazione. E diagnosi di tumori a raffica: per uno studente, per una docente, per la direttrice della biblioteca, per un collaboratore amministrativo. Fino a quando, nel dicembre 2003, è toccato a lui. Ad Emanuele, 29 anni, un ragazzone forte e sportivo, laureato con 110 e lode, idoneo all'esercizio della professione farmaceutica, dottore di ricerca, stroncato in meno di un anno da un tumore al polmone.

Il suo diario, adesso, è finito agli atti dell'inchiesta che tre settimane fa ha portato al sequestro e all'immediata chiusura del laboratorio di farmacia dell'Università e alla notifica di avvisi di garanzia per disastro colposo ed inquinamento ambientale all'ex rettore dell'Università ed attuale deputato dell'Mpa Ferdinando Latteri e al preside della facoltà Angelo Vanella, ad altri sette tra docenti e responsabili del laboratorio di farmacia. Da anni, ha già accertato l'indagine, sostanze chimiche e residui tossici utilizzati giornalmente venivano smaltiti attraverso gli scarichi dei lavandini, senza alcuna tutela per chi in quel laboratorio studia e lavora. Adesso, dopo la denuncia dei familiari di Emanuele Patanè, alle ipotesi di reato si è aggiunta anche quella di omicidio colposo plurimo e lesioni. Per i cinque morti e i dodici ammalati che negli ultimi anni in quegli ambienti hanno vissuto.

"Quello che descrivo è un caso dannoso e ignobile di smaltimento di rifiuti tossici e l'utilizzo di sostanze e reattivi chimici potenzialmente tossici e nocivi in un edificio non idoneo a tale scopo e sprovvisto dei minimi requisiti di sicurezza". Così Emanuele comincia le cinque pagine datate 27 ottobre 2003, tre mesi prima della sua morte. È stato l'avvocato Santi Terranova a consegnare in Procura il tragico diario ritrovato nel computer del giovane ricercatore. Nei giorni scorsi, dopo aver sentito del sequestro del laboratorio disposto dal procuratore di Catania Vincenzo D'Agata, l'anziano padre di Emanuele, Alfredo Patanè, 70 anni, si è ricordato di quelle pagine lette nel pc del figlio.

"Quel memoriale Lele lo voleva consegnare ad un avvocato per denunciare quello che accadeva lì dentro, che lì dentro si moriva - racconta - Ma l'avvocato a cui si era rivolto gli aveva detto che ci volevano dei testimoni perché contro i "baroni" dell'Università non l'avrebbe mai spuntata...". Adesso saranno i sostituti procuratori Carla Santocono e Lucio Setola a valutarne la valenza.

Emanuele evidentemente si rendeva conto delle condizioni di estremo pericolo in cui lavorava, ma la paura di perdere la sua opportunità di carriera deve averlo fatto continuare. E così particolarmente grande fu la sua amarezza quando il coordinatore del dottorato di ricerca, Giuseppe Ronsisvalle, ("nonché proprietario della facoltà di Farmacia", scrive) gli negò la borsa di studio, a lui, unico partecipante al concorso, solo perché ormai ammalato di tumore. Meglio conservare la borsa di studio per l'anno successivo per un altro studente. "Io non avevo nessuna raccomandazione - scrive Emanuele - mi chiedo come sia possibile che un concorso pubblico venga gestito in questo modo, senza nessuna trasparenza, legalità, senza nessun organo di controllo".

Lele racconta così i suoi due anni trascorsi in quel laboratorio, fino al luglio 2002, quando anche per lui arrivò la terribile diagnosi. "Durante il corso di dottorato, trascorrevo generalmente tra le otto e le nove ore al giorno in laboratorio per tutta l'intera settimana, escluso il sabato. Non c'era un sistema idoneo di aspirazione e filtrazione, c'erano odori e fumi tossici molto fastidiosi e spesso eravamo costretti ad aprire le porte in modo da fare ventilare l'ambiente". C'erano due cappe di aspirazione antiquate "quindi lavorare lì sotto era lo stesso che lavorare al di fuori di esse". "Dopo la diagnosi della mia malattia, cioè nel 2002, una di questa cappe è stata sostituita con una nuova. Le sostanze chimiche, i reattivi ed i solventi erano conservati sulle mensole, sui banconi, in un armadio sprovvisto di sistemazione di aspirazione e dentro due frigoriferi per uso domestico tutti arrugginiti. Dopo avere trascorso l'intera giornata in laboratorio avvertivo spesso mal di testa, astenia ed un sapore strano nel palato come se fossi intossicato".

Lele aveva annotato uno per uno tutti i suoi colleghi scomparsi e ammalati: "Sono tutti casi dovuti ad una situazione di grave e dannoso inquinamento del dipartimento e sicuramente non sono da imputare ad una fatale coincidenza. La mancata accortezza nello smaltimento dei rifiuti tossici e l'utilizzo di sostanze e reagenti chimici in assenza dei minimi requisiti di sicurezza ha nuociuto e potrà ancora nuocere se non verranno presi solerti provvedimenti". Ma nessuno, fino alla presentazione dell'esposto da parte dei familiari di Emanuele, si era accorto che quel laboratorio si era trasformato da anni in una fabbrica di morti.


(29 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #86 inserito:: Novembre 30, 2008, 10:50:31 pm »

30/11/2008
 
Assassini e brutte figure
 
LORENZO MONDO

 
Sui due assassini di Erba non c’è molto da dire, quel misto di stupidità e ferocia lascia impietriti, ci inchioda davanti al «mysterium iniquitatis». È possibile invece soffermarsi, quasi toccando terra, sulle figure di contorno per tirarne qualche lezione. Lasciamo stare l’asserzione dei difensori che i loro assistiti sono innocenti o, se colpevoli, matti: in linea con una logica processuale che, come capita per il linguaggio di altre istituzioni, non ha alcun rapporto con il senso comune. Ma trovo impareggiabile l’arringa dell’avvocato Enzo Pacia, là dove spicca il volo appoggiandosi a una spicciola erudizione e a una retorica tribunizia: «Nulla mi commuove di più della sordità di Beethoven, della cecità di Galileo, del pianto di un innocente in carcere». Ma sì, sta parlando di Olindo e della sua sposa, convocati con sprezzo dell’umorismo in un consesso di spiriti magni.

È stato il solo momento di buonumore in una vicenda sconvolgente. Perché altrove, se riso c’è stato, ha dovuto piegarsi in sarcastico sdegno.
Alludo alla sortita di Azouz Marzouk, il marito di Valeria Castagna e padre del piccolo Youssuf. Dal carcere dove si trova per spaccio di cocaina, ha fatto pervenire alla Corte, con sorprendente tempismo, mentre si era in attesa della sentenza, una strana storia: i suoi genitori hanno ricevuto in Tunisia la visita di uno sconosciuto, il quale asserisce che a compiere la strage di Erba non sono stati i due imputati ma altre persone.

È stato un chiaro espediente per richiedere la sospensione del processo e ottenere, chissà, un rinvio del provvedimento di espulsione che lo attende all’ormai prossimo termine della pena.

I giudici non hanno abboccato, Azouz ha attenuato il senso delle sue dichiarazioni. Resta il fatto che per un momento si è schierato, con sinistro opportunismo, tra i difensori della diabolica coppia che gli ha massacrato la moglie e il figlioletto.

Il pianto a ciglio asciutto, l’ombroso desiderio di una giustizia vendicativa, cancellati dalla speranza di starsene in Italia, di continuare i suoi loschi traffici. Penso ai parenti delle vittime che hanno dovuto sopportare anche questa. E mi auguro che, quando giunga il momento, non si levino recriminazioni per il rimpatrio dello sgradevole personaggio, che potrà vivere laggiù accanto ai suoi dilettissimi morti.

da lastampa.it
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 03, 2008, 12:09:06 pm »

Gli spinelli. L’elenco dei suoi ragazzi. La notte dell’omicidio

Tutti gli uomini di Amanda

Aspettando il processo, seconda puntata del diario in cui la principale imputata del delitto di Perugia si confessa


Fiorenza Sarzanini per il Magazine


Quando arrivi a Perugia usi un “quaderno di colore giallo”, continui a scrivere quello che accade durante la giornata, i pensieri, le sensazioni. Ormai ti sei sistemata nella villetta di via della Pergola. E un giorno scrivi, in tedesco.

E allora qui c’è qualcosa di strano. Sono seduta in cucina e fumo con le mie compagne di casa. Tra un po’ andiamo a mangiare la pizza, se loro vengono. Ovviamente sono in forma. È stato l’hashish che abbiamo fumato. E quindi sono in forma. Ho giocato a scacchi con un amico di Laura. E così ho deciso che devo scrivere almeno una pagina in tedesco… Qui bisogna decidere di non fumare. In Italia e anche in Germania è una grande possibilità poter fumare perché le sigarette sono sopra ogni cosa. Generalmente le persone fumano e quindi non fumare è una decisione. Le mie compagne di casa vogliono fumare con me perché è un modo di fare amicizia e socializzare. Io ho già fumato hashish. E penso che queste persone ne avranno un grande influsso, come per James.

Il 18 ottobre sei all’università. Ma alle lezioni non presti grande attenzione, il tuo interesse è proiettato su altro. Scrivi in italiano e fai alcuni errori, ma quello che hai in testa lo spieghi in maniera chiara.

Ci sono io nella mia classe della cultura italiana, è perché devo ascoltare alle informazioni sulla politica italiana. Grazie a Dio io non ho un esame per questa classe. Non posso ascoltare. Invece penso al ragazzo dietro a me, perché lui è più interessante per me. Lui gioca a calcio. Ma quando penso alle mie emozioni ho l’ordine dei ragazzi in mente: Dj: lo amo, ma lui non è qui e infatti non posso vederlo fino a luglio (tra nove mesi). Spyros: non mi piace il suo corpo, ma lui ha una personalità che mi piace molto. Penso che ha una buona mente. Non sono sicura, ma credo che siamo amici. Giacomo: il mio vicino. Timido, ma molto simpatico. È anche uno studente che suona la chitarra. Penso che gli piaccio, ma non ho parlato molto con lui perché è timido e perché parla soltanto italiano. Jodoro: non sono sicura sul suo nome, ma lui è un uomo della mia classe che mi piace e ho già parlato un po’ con lui.

È come se fossi sempre a caccia di maschi. Elenchi le tue conquiste e sembra che le esibisca come trofei. Nel diario c’è un’altra lista, ma il contenuto è sempre lo stesso: “Persone con le quali ho fatto sesso”. Ci sono quattro nomi chiusi con una parentesi graffa che comprende Seattle e New York. Altri tre di Firenze e Perugia. Poi il tuo commento:

Interessante no? Penso che significhi che la mia vita sessuale non corrisponde alla mia romantica vita emotiva. Dichiarazione ovvia perché l’unico di cui sono innamorata (anche se per la verità non è l’unico con il quale voglio fare sesso) è incredibilmente lontano. Mi manca il contatto emotivo che riguarda palesemente la nostra vita sessuale. Ciò che è strano è il fatto che ho avuto partner migliori, più esperti/con più esperienza, ma niente paragonato al contatto emotivo che ho sentito soltanto con Dj. Mi fa pensare che in questo caso il sesso sia inutile, be’, non inutile ma sempre deludente a meno che io non riesca a stabilire un contatto emotivo con qualcuno. Ma, in verità, tutto ciò che riesco a pensare è solo quanto vorrei stare con lui. Forse non me ne rendo conto, ma per ora questo è veramente ciò che provo. Cosa provo ora? Mi piace abitare con le mie compagne. Mi piace mangiare. Mi piace mangiare.

Quando arrivi in cella e rimani da sola, hai tempo per pensare. E la tua mente ricomincia a vagare. Allora scrivi di nuovo, aggiungi dettagli sulla sera del delitto, poi li modifichi, riesci addirittura a costruire un’altra versione che pensi possa scagionarti. E invece ottiene l’effetto di apparire completamente fuori di testa.

Oh mio Dio! Sono un po’ sconvolta perché ho appena parlato con la suora e finalmente ricordo. Non può essere una coincidenza. Ricordo ciò che stavo facendo con Raffaele quando la mia amica è stata uccisa! Siamo entrambi innocenti! Ecco perché: dopo cena Raffaele ha cominciato a lavare i piatti in cucina mentre io gli facevo un massaggio alla schiena… Dopo abbiamo fumato marijuana… Abbiamo cominciato a parlare di noi e di che tipo di persone siamo. Abbiamo parlato del fatto che io sono meno problematica e organizzata di lui e di come lui sia molto organizzato a causa del periodo che ha trascorso in Germania. È stato durante questa conversazione che Raffaele mi ha raccontato del suo passato. Del fatto che ha avuto una terribile esperienza con le droghe e con l’alcool. Mi ha raccontato di quando si è recato con alcuni amici a un concerto e in quell’occasione avevano fatto uso di cocaina, marijuana, che lui aveva bevuto rhum e di quando, dopo il concerto, ormai completamente “fuori”, aveva realizzato che cosa terribile avesse combinato e aveva deciso di cambiare. Mi ha raccontato di quando in passato si era tinto i capelli di giallo e di un’altra volta che si era fatto tagliare i capelli in un modo particolarmente stravagante. Aveva anche l’abitudine di portare gli orecchini. Si era conciato così perché quando era bambino giocava con i videogiochi e guardava Sailor Moon, la protagonista di un cartone giapponese e per questo non era considerato granché dai compagni di scuola, che lo prendevano in giro. Gli raccontai che neanche io, quando frequentavo la scuola superiore, ero molto benvoluta perché a scuola pensavano che fossi lesbica. Parlammo dei suoi amici, del fatto che non avevano smesso di drogarsi e di giocare con i videogiochi e di quanto lui fosse dispiaciuto per loro. Par lammo di sua madre, di come era morta, mi disse che si sentiva in colpa perché l’aveva lasciata da sola prima della sua morte… Questo è ciò che è veramente accaduto e potrei giurarlo. Mi spiace di non averlo ricordato prima e mi dispiace di aver dichiarato che avrei potuto essere a casa quando è successo. Ho detto quelle cose perché ero confusa e spaventata. Non ho mentito quando ho detto che pensavo che l’assassino fosse Patrick. In quel momento ero molto stressata e ho veramente pensato che fosse lui l’assassino. Ma ora ricordo che non posso sapere chi è l’assassino perché io non sono tornata a casa. So che la polizia non ne sarà contenta, ma questa è la verità. Non so perché il mio ragazzo abbia raccontato delle bugie su di me, ma penso che sia spaventato e neanche lui ricordi bene. Ma questo è ciò che so, questo è ciò che ricordo.

Maschi, sesso, droga, alcool. Ti ubriachi, ti fai le canne, stai in giro la notte. Questo raccontano di te. La polizia verifica, fruga nella tua vita, fra i tuoi oggetti. Esplora il tuo lato più intimo, cerca nel tuo computer e nel telefonino. Scopre che l’hai spento poco prima che Meredith tornasse a casa e lo hai riacceso soltanto la mattina dopo. Strano. Scopre che prima hai mandato un Sms a Patrick e lui ti ha subito risposto. Strano. Scopre che tu hai raccontato di essere stata tutta la sera a casa di Raffaele, ma lui dice che invece sei uscita. Strano. Tutto troppo strano. E allora devi tornare alla polizia, rispondere ad altre domande. Ricordare, ricostruire, giustificare. (…) Troppo spesso l’immagine che dai di te non coincide con quella che è stata raccontata da altri. Lo sai e perciò provi a mettere ordine.

Nei giorni scorsi sono stata chiamata in molti modi, una povera ragazza, una bugiarda una brava ragazza, una prigioniera. Le persone mi hanno parlato dolcemente, mi hanno urlato, colpito, mi hanno fatto molte domande. In questo periodo non ho conosciuto qualcuno in cui avere fiducia. Anche nel buio ho avuto paura del mio ragazzo perché non so che cosa è successo e non so chi ha fatto questo… Da sola o con la polizia, io temo la mia mente. Immagino l’orrore che la mia amica può aver subito nei suoi momenti finali. La mia immaginazione diventa sempre più precisa con le domande della polizia. Per un istante vedo la mia amica violentata prima di essere uccisa. Io posso solo immaginare che cosa ha provato in quei momenti spaventata, ferita, violentata. Ma di più immagino che cosa ha provato quando il sangue è uscito da lei. Che cosa ha sentito? E la mamma? Disperazione? Ha avuto il tempo di trovare pace o alla fine ha avuto solo terrore?

Parli di Raffaele, speri che ti difenda: “Sinceramente voglio vederlo di nuovo. Perché no? Lui è un buon ragazzo in una brutta situazione come me”. Pochi giorni prima avevi scritto che volevi incontrarlo e chiedergli “perché hai raccontato bugie su di me, visto che questa è una cosa che non capisco”. Poi i tuoi pensieri si trasformano quasi in una supplica.

Spero che esco presto (venerdì!!!).
Spero che vedo la mia famiglia presto.
Spero che posso parlare con Dj presto.
Spero che sono negli Stati Uniti per Natale.
SPERO CHE I GIUDICI CREDONO A ME.
Voglio essere liberata, sono degna di essere liberata. Liberami!
Liberami! Liberami! Voglio tornare a casa!!!


Fiorenza Sarzanini
02 dicembre 2008(ultima modifica: 03 dicembre 2008)


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« Risposta #88 inserito:: Dicembre 05, 2008, 09:42:17 am »

5/12/2008 (7:25) - NELL'ALESSANDRINO

"Paga o diciamo che hai toccato la nostra bambina"

Giuseppe Papalia 63 anni, si uccide dopo aver ceduto ai ricatti

L'uomo si uccide: innocente, temeva lo scandalo

SELMA CHIOSSO

CASTELNUOVO SCRIVIA
(ALESSANDRIA)


Sembrava un suicidio. Anche se la figlia Marina non ci ha mai creduto. L’aveva ripetuto a tutti: ai carabinieri, in Procura, in tv: «Qualcuno stava ricattando mio padre e lo ha ucciso o lo ha portato alla disperazione fino a togliersi la vita». E aveva ragione. Tre persone sono state denunciate per «estorsione e morte come conseguenza di altro delitto». Ora, a indagini chiuse, il pm ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Il giallo di Giuseppe Papalia, 63 anni, muratore di Castelnuovo Scrivia, paese in provincia di Alessandria, inizia il 28 marzo 2007, quando l’uomo scompare e termina il 6 maggio, quando viene trovato impiccato nel cantiere di un’abitazione in costruzione. A 100 metri da casa. Due elementi creano il mistero: i piedi per terra e il cappellino dell’Inter in testa. In tasca ha un paio di biglietti e da questi partono le indagini. Sono fogli che imitano grossolanamente la carta intestata della Procura di Tortona.

C’è scritto di un procedimento penale per molestie sessuali verso una ragazza di 16 anni. Basta pagare per uscire dai guai. E così fa Papalia, uomo semplice, che conosce la ragazza, perché è una lontana parente, ma che con lei non ha mai avuto a che fare. Ma ha il terrore di infangare la famiglia. Sposato, padre di due figli, si sente morire di vergogna per una storia falsa. E’ fine febbraio 2007. In due mesi, quasi ogni giorno incontra la sedicenne, a cui consegna, 200, 300, 500 euro per volta. Diventa taciturno. Ma a tutti dice che gli fa male una gamba. E’ marzo, quando si rivolge al suo datore di lavoro e si fa anticipare 2 mila euro. Poi va in banca e chiede un prestito di 5 mila euro. Li esige in contanti.

Dice che li deve dare a un compaesano come anticipo per una casa che intende comprare in Calabria. Intanto continuano a spillargli denaro. Sono lontani parenti, emigrati dalla Calabria da un anno. Abitano a Isola Sant’Antonio, paese poco distante da Castelnuovo. La mente di tutto, secondo i carabinieri, è Teresa Angela Camillo, madre della ragazza. Prende i soldi che la figlia consegna e li versa sul conto. Ma a reinvestire il denaro, spesso, è il convivente della donna, Salvatore Caccamo, 26 anni. Dal 7 al 19 marzo i prelievi si fanno incalzanti. L’ultimo è di 1600 euro. E’ la sera del 28 marzo. Papalia è appena rincasato, quando il cellulare squilla. Prende un marsupio e dice alla moglie «Torno subito, ho dimenticato una cosa in cantiere». Invece sparisce.

La famiglia si dispera. In paese arriva la troupe di «Chi l’ha visto? », il sindaco Gianni Tagliani attiva un link sul sito del Comune. Ed è la sera del 6 maggio quando un passante sente un odore insopportabile provenire dal cantiere. Appeso a tondino di ferro della soletta del piano interrato penzola impiccato, e in stato di decomposizione, il corpo di Papalia. Il marsupio giallo non c’è più. Forse è stato il pacchetto dell’ultima consegna. Ma in tasca ci sono i foglietti infamanti. Il controllo incrociato dei conti correnti rileva in uno, quello di Papalia, i prelievi e nell’altro, quello di Teresa Angela Camillo, i versamenti.

I Ris di Parma individuano nel pc della donna lo strumento per scrivere i foglietti. Con un filo di voce Marina, la figlia, al tenente colonnello Giuseppe Bevacqua e al capitano Giorgio Sanna ha semplicemente detto: «Grazie». Ieri, Valeria Arduino pm di Tortona, ha chiesto il rinvio a giudizio per Teresa Angela Camillo e Salvatore Caccamo. La posizione della ragazza è stata stralciata e se ne occuperà la Procura dei minori. I tre sono tornati in Calabria.

da lastampa.it
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« Risposta #89 inserito:: Dicembre 15, 2008, 11:48:38 pm »

15/12/2008 (13:Fico - TRAGEDIA

"Aiutatemi ho 300 quintali addosso"
 
Silvia, 19 anni è morta al Maria Vittoria

Tram investe una ragazza in corso Potenza
 
Sotto il tram, fino all’ultimo guida i soccorsi

MASSIMO NUMA
TORINO


La voce di Silvia arriva da sotto il vagone numero 2 del tram «9». Sono le 19,34 di sabato. Appena travolta sulle strisce (distratta dal cellulare?) e trascinata per una decina di metri. Un passante l’avvicina, è già in contatto con il 115 dei vigili del fuoco. Silvia è cosciente, sta parlando - con il suo telefonino - con i genitori. Adesso però è in linea con l’operatore del 115. Sembra il set di Grey’s Anatomy, il telefilm Usa dedicato agli interventi d’urgenza, ma è tutto vero, purtroppo. «Sì, sono io, la ragazza sotto il tram...». La voce arriva da laggiù, dal ventre buio, dalle lame tagienti di ferro e dalla selva di cavi. «Come ti senti? Senti male, dove?», le dice calmo l’operatore. «Le gambe e l’addome, sento male dappertutto... ho trecento quintali addosso... non posso muovermi».

Piange un po’, Silvia, e le fanno coraggio. E’ come cullata dai suoi angeli custodi. Come se fosse la loro figlia, sorella, moglie. I medici del 118 stanno arrivando, i vigili del fuoco - in pochi secondi - hanno già deciso come intervenire per sollevare il vagone. Con una grande gru, perché i marciapiedi alti non consentono di usare i martinetti idraulici. Coordina Vincenzo Bennardo, il funzionario che guida le due squadre. Una manciata di secondi, mentre Silvia riesce ancora a parlare con i genitori, la mamma e il papà che nel frattempo hanno raggiunto la fermata del tram, a pochi metri di distanza. Vorrebbero correre ad abbracciarla, a tenerla per mano. Ma non si può. I nastri passati sotto il pavimento del mezzo; il braccio della gru che lo solleva, dolcemente, di 30 centimetri, quanto basta per inserire i martinetti.

I medici e gli infermieri del 118 s’infilano sotto il vagone, la raggiungono. Quel piccolo tratto è diventata una camera operatoria. Compiono le prime operazioni. I sedativi. Gli anti-dolorifici. I farmaci salvavita. E Silvia, così, è stretta tra le braccia di altri angeli, perché così le saranno sembrati, in quei pochi minuti di lucida coscienza, di vita vera, scivola nel sonno. Il telefonino al suo fianco, ultimo contatto con il mondo. Senza più dolore, con la consapevolezza di avere avuto, al suo fianco, sino all’ultimo secondo, i suoi genitori e i familiari. Non soffrirà più un solo istante. La posano sul marciapiede, per tentare di fermare le emorragie interne, per cercare di ridurre l’entità delle lesioni. Ci vorrebbe un chirurgo subito, ma si decide di trasferirla al Maria Vittoria. Non si può aspettare. Tempi velocissimi, l’ambulanza scortata dai vigili urbani, il traffico bloccato. Muore poco dopo il ricovero.

Angelo R., 41 anni, da tre alla Gtt, è l’autista del «9». Sotto choc. Disperato: «Ho azionato i freni immediatamente, con i dispositivi d’emergenza, mi è finita sotto... L’ho vista ma era troppo tardi». Cinque, sei metri di frenata. «Vuol dire che il mezzo procedeva a velocità bassa - spiegano i responsabili della Gtt -, aspettiamo i risultati dell’inchiesta. Il tram, modello «5000», costruito nel ‘90 è considerato tra i più sicuri. Ora è stato sequestrato.

Ci sono tre testimoni. Due autisti Gtt e un passante. Tutti e tre affermano di aver visto la ragazza passare sulle strisce pedonali (comunque veramente poco illuminate) con il rosso. Ma la verità, forse, è ancora lontana.

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