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« Risposta #1 inserito:: Giugno 25, 2008, 05:42:10 pm » |
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Memorie di un iscritto
Vittorio Emiliani
Sono stato iscritto per circa vent’anni, dal ’58 al ’78, ad un partito, quello socialista, prima in Lombardia e poi a Roma, e ho vissuto la stagione delle sezioni, delle federazioni provinciali e delle correnti. Che, all’inizio e per non pochi anni, ebbero per me un ruolo altamente formativo. Nelle sezioni si discuteva a viso aperto, accanitamente, persino troppo secondo qualcuno, a volte fino a notte fonda. A Roma, negli anni 70, da giornalista, mi infilavo nelle assemblee di sezione del Pci.
Una volta, al Tiburtino, rischiai di dover votare dopo un dibattito, anche generazionale, addirittura bruciante fra chi ancora sosteneva la “superiorità” dell’Urss e chi parlava di America e di Europa senza paraocchi. Andavo per borgate vecchie e nuove e un punto ineludibile di riferimento erano le sezioni di partito, soprattutto quella del Pci. Poi, via via, le correnti sono degenerate in centri di potere e le luci delle sezioni si sono accese con sempre minore frequenza, fino a restare spente. Nel Psi, fallita la riforma ipotizzata dagli intellettuali di Mondoperaio, Bettino Craxi si era preso “tutto sulle spalle” il partito (come disse nel 1990) facendone un partito-persona. In direzione si discuteva pochissimo, e se qualcuno ci provava, veniva guardato come un pericoloso disturbatore. Nel Pci la vicenda è stata ancor più tormentata e complessa, dopo la Bolognina. E però quanto e come si discuteva prima di arrivare “a dare la linea”. Altrimenti, come si sarebbe potuto vincere, a Roma, nel 1976?
Ora sono iscritto, da qualche mese, ad un Circolo del Pd, a Tor di Nona, quartiere un tempo fra i più popolari di Roma, oggi media borghesia acculturata. Prima delle doppie elezioni (generali e romane) c’era molta vivacità, molto fervore. Poi la doppia legnata. Soprattutto quella del Campidoglio, inattesa e violenta. Qualcuno ha promosso un dibattito di base sulla cocente sconfitta? Dall’alto si è subito ammonito “non laceriamoci”. Confesso di non capire. Fra non discutere e lacerarsi c’è pur qualcosa in mezzo. La sola riflessione che abbiamo letto attribuiva l’insuccesso a Roma (che è poi il solo insuccesso vero, il 33 per cento delle politiche non lo è) ad un non meglio precisato “umor nero” dei romani. Un po’ poco, onestamente. Psicologismo banale, l’avrebbe bollato un qualunque vecchio Comitato centrale del Pci o del Psi. Il gruppo dirigente avrebbe fatto meglio a proporre agli iscritti dei circoli (che non sono pochi) analisi, riflessioni, opinioni, chiamandoli a misurarsi con esse. Invece, “non laceriamoci”. Così, discussione quasi a zero, anzi, fragoroso silenzio. Faccio politica dai banchi del liceo, da oltre mezzo secolo, non avevo mai assistito ad una simile fuga dalla realtà.
Come iscritto ai circoli del Pd, sinora sono stato chiamato a convalidare, di fatto, scelte piovute dall’alto, non si sono trovate forme convenienti per consultarmi per i temi fondamentali di un programma politico che fosse alternativo a quello del Pdl e che andasse davvero “dentro” ai problemi sofferti del Paese e della sua capitale. Tantomeno sono stato interpellato, per un modesto parere, consultivo per carità, sulla individuazione di candidati alle politiche che attraessero consensi. Anzi la scelta dei nominati è avvenuta nel più accentrato dei modi. Al loft di Sant’Anastasia anche per le più lontane regioni. Salvo poi parlare, dopo l’insuccesso elettorale, per qualche giorno, di “partito del Nord” inseguendo in modo del tutto congiunturale il successo radicato, localistico, della Lega.
Per qualche giorno, ripeto, mentre il decentramento dovrebbe essere un fatto, un vissuto quotidiano, ordinario, normale. La decisione sul chi mettere in lista dovrebbe avere questo respiro, dovrebbe investire le realtà locali, di base (gli effetti positivi li abbiamo toccati con mano a Vicenza vincendo in pieno Veneto leghista e forzista), e fornire gli elementi decisivi per le strategie nazionali. Ad elezioni avvenute, si può ben dire che le liste confezionate con mediazioni invece tutte accentrate erano poco rinnovate, poco attraenti, con giovani scelti a volte in base a criteri che lasciavano per lo meno perplessi.
Ieri ho letto su questo giornale una interessante opinione di Giovanna Melandri: mai più dovremo andare a candidare un sindaco a Roma senza primarie. Condivido. Occorre che la politica del Pd trovi “ordinariamente” momenti forti di elaborazione a livello regionale e locale. A Roma si è detto (dopo) che la scelta di Francesco Rutelli quale candidato-sindaco (scelta da lui accettata assai più che sollecitata, credo) a distanza di anni dalle due prime riuscite sindacature, non era stata felice, che l’elettorato l’aveva vissuta come quella di un cavallo di ritorno, eccetera. Valutazioni, allo stato dei risultati, fondate.
Ma, anche qui, domando: era proprio impossibile organizzare una rapidissima consultazione (sottolineo due volte, “consultazione”) degli iscritti del Pd a Roma - tutti, o quasi tutti, siamo ormai reperibili per telefono, sms, e-mail o, in modo primordiale, via fax - al fine di avere una indicazione sul candidato-sindaco che fosse la più convinta, la più condivisa soprattutto, tale da mobilitare il maggior numero di energie, tale da evitare che tanta gente, al ballottaggio, restasse al mare o in campagna, non si impegnasse o addirittura desse un voto “disgiunto” (pazzesco, ma vero in migliaia e migliaia di casi) Alemanno-Zingaretti? Io continuo a credere che fosse possibile. Come credo possibile l’uso di questo strumento per l’elezione degli organismi regionali del Pd. Penso pure che, così facendo, si sarebbe rimobilitato e rimotivato il “popolo delle primarie” che, datemi retta, non ne può più di schermaglie e rese dei conti (quelle sì) al vertice, che vuole poter contare nelle scelte di fondo, che ha sempre saputo che le tirate di Grillo (ma dov’è finito?) sono brodaglia populista, qualunquistica, anche abbastanza stantia e sospetta. Ma, ripeto, non vuol essere più chiamato soltanto per qualche rito più o meno unanimistico, che ha guardato ai successi di Vicenza o di Udine come alla riprova della bontà di scelte fortemente condivise. Richiesta da far propria se si vuole una democrazia matura e moderna.
Di una cosa che non prende forma si dice a livello popolare: non campa e non crepa. Se continua a non campare, il Pd creperà al prossimo insuccesso elettorale. E sarà grave, gravissimo. In generale i giovani non sanno dove iscriversi, a quale “sportello” rivolgersi per dar corso ad un impegno politico. Fondati i circoli, bisogna dar loro voce, chiamarli decidere su qualcosa di rilevante. Ricominciano i “girotondi”, il Pd non vi partecipa: finirà anche per “condannarli”?
Da tempo sorgono comitati spontanei - sui problemi urbanistici, per esempio - anche in regioni amministrate da sempre dalla sinistra ed ora dal centrosinistra (soltanto in Toscana più di cento comitati e si riuniscono il 28 a Firenze). In campagna elettorale sono stati “demonizzati” dai vertici del Pd come fenomeni eversivi, come cartelli del No e basta, incapaci di controproposte. Balle. Sono fenomeni di democrazia di base che hanno proposte, correttivi, soluzioni da avanzare, ma non trovano nei partiti una sponda. La sponda che noi invece trovavamo - lo constatava di recente Fulco Pratesi, fondatore del Wwf, che non è certo un estremista eversivo - nei partiti della sinistra per battaglie che si chiamavano Parco del Ticino, del Delta del Po o del Cilento, recupero dei centri storici, da Bologna a Taranto, aeroporto di Cervia ad un passo da Sant’Apollinare in Classe (aeroporto inutile, e sventato, che mi ricorda tanto quello minacciato ora ad Ampugnano vicino a Siena) e così via.
Concludo: i circoli come il mio di Tor di Nona vivranno, e con esso un pezzo di Pd, se non dibatteranno soltanto di sampietrini o di tavolini, se potranno discutere di politica, e soprattutto decidere, concorrere a decidere. Di ratificare scelte paracadutate dall’alto non se ne può già più. Da un pezzo.
Pubblicato il: 25.06.08 Modificato il: 25.06.08 alle ore 9.18 © l'Unità.
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