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Autore Discussione: ANTIMAFIA - Ipotesi per un tavolo di lavoro  (Letto 17531 volte)
mammamaria
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« inserito:: Giugno 03, 2008, 10:46:34 am »

Da Gomorra:
[...] Francesco Schiavone Sandokan, Michele Zagaria e il clan Moccia erano i più importanti soci di Cirio e Parmalat in Campania. In tutto il casertano, in parte consistente del napoletano, in tutto il basso Lazio, in parte delle Marche e dell'Abbruzzo, in parte della Lucania, il latte distribuito dalla Cirio e poi dalla PAarmalat aveva conquistato il 90 % del mercato. Un risutlato ottenuto grazie all'alleanza stretta con la camorra casalese e alle tangenit che le aziende pagavano ai clan per mantenere una posizione di preminenza. Diversi i marchi coinvolti, tutti riconducibili all'impero Eurolat, l'azienda passata nel 1999 dalla Cirio di Cragnotti alla Parmalat di Tanzi.
[...]
Prima Cirio e poi Parmalat per ottenede il ruolo di cliente speciale avevano trattato direttamente con il cognato di MIchele Zagaria, latitante da un decennio e reggente del clan dei Casalesi. Il trattamento di favore era conquistato innanzitutto attraverso politiche commerciali. I marchi della Cirio e della Parmalat concedevano ai distributori uno sconto speciale - dal 4 al 6,5%, invece del consueto 3% circa - oltra a vari premi di produzione, così anche i supermercati e i dettaglianti potevano strappare buoni sconti sui prezzi: i Casalesi costruivano in questo modo un consenso diffuso nei confronti del loro predominio commerciale . DOve poi non arrivavano il pacifico convincimento e l'interesse comune entrava in azione la violenza [...] A pagare alla fine erano i consumatori: perchè in una situazione di monopolio e di mercato bloccato, i prezzi finali erano fuori da ogni controllo per mancanza di vera concorrenza.
[...]
In una situazione del genere Cirio e Parmalat risultavano ufficialmente "parti offese" cioè vittime di estorsioni, ma gli investigatori si sono convinti che il clima degli affari era relativamente disteso, e le due parti, le imprese nazionali e i camorristi locali, agivano con reciproca soddisfazione.
Mai Cirio e Parmalat avevano denunciato di subire in Campania le imposizioni dei clan [...] Nessuna ribellione, nessuna denuncia: la sicurezza del monopolio era meglio dell'incertezza del mercato. I soldi distribuiti per mantenere il monopolio e occupare il mercato campano dovevano essere giustificati nei bilanci delle aziende: nessun problema, nel Paese della finanza creativa e della depenalizzazione del falso in bilancio...
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 03, 2008, 10:49:43 am »

Da "Liberofuturo: Intervista a Enrico Colajanni":
[...]Addio Pizzo ha anche l’abitudine di costituirsi parte civile in procedimenti che riguardano il pizzo.
“Addio Pizzo fin dall’inizio si è costituita parte civile in questi processi, ovviamente per quei processi iniziati dalla sua nascita in poi. Tra l’altro svolgendo anche un ruolo molto importante e innovativo, come quando abbiamo deciso di costituirci parte civile anche contro l’imprenditore che nega: come confermato poi dai giudici, l’atteggiamento omertoso dell’imprenditore che nega contro l’evidenza dei fatti di avere pagato il pizzo, ha di fatto danneggiato il mercato, avvantaggiando un sistema che ne distorce le regole. Abbiamo già avuto un caso di riconoscimento della nostra costituzione di parte civile anche contro l’imprenditore. Non si può stare su questi temi con un piede da una parte ed un piede dall’altra: bisogna essere coerenti fino in fondo”
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mammamaria
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 03, 2008, 11:04:30 am »

Non solo Gomorra, ma anche una recente inchiesta di Report ha posto in evidenza come, molta imprenditoria italiana, seppur attraverso numerosi filtri, alla fine fonda il suo lavoro e le sue fortune su una serpeggiante forma di collusione: come altro vogliamo definire l'agire di chi, per far produrre una borsa, si rivolge alla fabbrichetta di riferimento offrendo una cifra troppo bassa per far svolgere un lavoro che fatto in regola avrebbe ben altri costi... imponendo in un certo senso a questa di rivolgersi ad altra realtà che ha costi del lavoro più bassi perchè in nero, perchè illeciti, e di norma legati alla criminalità organizzata?
Questo dovrebbe far riflettere, e vi giuro non parlo per amore della mia terra, ma per semplice buon senso. TUtte queste economie sommerse sono ricchezze estorte all'intero paese, ed un mercato assolutamente inquinato e distorto.
Tutto questo non fa male localmente, non rimane racchiuso nei confini campani o siculi, ma fa male all'intero paese.
Non può essere giustificazione l'essere "ostaggio" della Camorra o della Mafia. Non può a certi livelli essere attenuante il pericolo cui si va incontro non accettando il ricatto:
"“Il primo consistente nucleo di imprenditori che pagano è rappre sentato da imprenditori che il pizzo lo pagano senza che neanche gli venga richiesto." Dice ancora Colajani in quell'intervista. Le grandi firme che fanno le "gare d'appalto" tra le diverse fabbriche della camorra per realizzare le loro creazioni, solo dopo che tale meccanismo è stato scoperto hanno denunciato di essere vittime di pressioni... ma a giudicare dal vantaggio che ne ricavano sembrano poche le pressioni e grandi le soddisfazioni.
Questo è l'anello che deve essere fermato, interrotto.
Quando per il "ricattato" il beneficio ottenuto dal "ricatto" è evidente (vedasi Cirio e Parmalat), l'impresa DEVE essere considerata in qualche maniera collusa: per loro deve valere il reato di favoreggiamento. Denunciare solo una volta che si è stati "scoperti" non può trasformarli in vittime: restano complici.
Inoltre non so se esista un reato di questa natura, ma dovrebbero essere perseguiti anche per avere influenzato e inquinato il mercato.
Potrebbe essere questo uno spunto di riflessione per un tavolo di lavoro?
La lotta alla mafia dovrebbe essere il primo degli interessi di un partito di centro sinistra che voglia dirsi riformista, non credete?
« Ultima modifica: Giugno 04, 2008, 12:02:07 am da mammamaria » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 06, 2008, 09:27:49 pm »

Un argomento da approfondire riguarda il ruolo e il funzionamento delle società miste pubblico-privato e dei consorzi. Mi sembrano i luoghi, camere di compensazione, in cui si incontrano gli interessi di imprenditori, mafiosi e politici.
Osservo che si creano consorzi con qualsiasi pretesto: per promuovere qualche prodotto titpico, una tradizione locale, lo sviluppo industriale o turistico di un'area, la gestione delle emergenze.
I mafiosi si possono infiltrare come imprenditori mafiosi, come soci di imprenditori non mafiosi, come taglieggiatori di imprenditori. I politici portano i loro interessi elettorali da conciliare con gli interessi degli altri soci e possono anche avere qualche interesse economico a titolo personale.
Quando poi si tratta di consorzi per gestire emergenze è fatale che l'emergenza non finisca mai, altrimenti finirebbe il consorzio e questo non conviene a nessuno.
Le società miste le conosco meno, ma il meccanismo non dovrebbe essere molto diverso. 
« Ultima modifica: Giugno 06, 2008, 09:30:22 pm da pinopic1 » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 06, 2008, 09:38:08 pm »

pinopic1,

hai ragione e come questo decine d'altri temi saranno da approfondire.

Alla luce dei fatti, per noi qui, oggi l'urgenza è capire che la partecipazione al Gruppo deve essere, in quantità di persone attive e in determinazione a "fare",  più consistente.

La gratitudine verso le due Signore che come hai letto hanno realizzato l'ossatura della lettera, in me adesso diviene ansia perchè non me la sento di pubblicarla nel forum senza il loro consenso.

Prima regola di questo tipo di aggregazione decidere insieme a maggioranza.

Occorre che la comunicazione tra noi sia anche più sollecita.

Ma l'idea è buone e le attese per ciò che faremo non poche.  Adesso sta a noi!

Grazie del suggerimento e lieto di averti con noi... spero non solo come iscritto.

ciao
ggiannig     
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 27, 2008, 02:34:53 pm »

Dal momento che il lavoro di darwin sembra essere ad un punto piuttosto avanzato, che ne dite se proviamo a lavorare su questo? Visto anche che con piacere noto l'argomento essere urgenza anche per il PD, dal momento che ha uno spazio tutto suo sul sito.
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 02, 2008, 12:20:12 am »

Vivo a Bari e qui si sente chiaro nell'aria che la vita è bloccata, non si capisce bene il potere quale sia se i potentati legati alla gestione della cosa pubblica o se la malavita organizzata o tutte e due insieme.
Intanto ho ritrovato questo spunto che mi sembra interessante nel mentre cerco di ritrovare il dossier originale.
Citazione di: INFORM su Dossier Eurispes su N'drangheta calabrese
INFORM - N. 103 - 21 maggio 2008

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CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

L’Eurispes presenta il Dossier 2008 sulla ‘Ndrangheta calabrese

Un giro d’affari di 44 miliardi di euro per l’anno 2007, 131 cosche attive sul territorio regionale ma con una forte proiezione a livello mondiale.

Fara (presidente Eurispes): “Un vero e proprio Stato nello Stato, che deve preoccuparci in vista del funzionamento del nostro sistema economico e democratico”

Macrì (Direzione nazionale antimafia): “Un problema che riguarda il destino del Paese e dell’Unione Europea”

 

ROMA – Un giro d’affari che ammonta a 44 miliardi di euro per l’anno 2007 – tanto quanto il Prodotto interno lordo di Estonia e Slovenia messe insieme – quello all’attivo della ‘Nrangheta calabrese stimato nel Dossier “’Ndragheta Holding” curato dall’Eurispes e presentato stamani a Roma presso la sede della Federazione nazionale della stampa italiana.

“Un valore che, pur approssimando per difetto, è pari al 3% del Pil italiano – ha detto Gian Maria Fara, presidente dell’Istituto di ricerca – e che contribuisce a far giungere il fatturato complessivo delle organizzazioni criminali in Italia a 175 miliari di euro, configurando un vero e proprio Stato nello Stato, che deve preoccuparci in vista del funzionamento del nostro sistema economico e democratico”.

Sono dati fortemente allarmanti quelli che emergono da quest’analisi focalizzata sullo sviluppo della criminalità organizzata in Calabria nel corso degli ultimi anni e che pur tuttavia non occupano lo spazio che sarebbe necessario negli spazi di informazione, per cercare di capire maggiormente da un lato quale evoluzione le varie organizzazioni di stampo mafioso stanno con il tempo subendo e dall’altro, per intavolare una serio confronto sui mezzi più efficaci a contrastare il fenomeno.

Proprio per stimolare questa attenzione la presentazione del Dossier si svolge a Roma, nella sede della Fnsi, come ha ricordato lo stesso presidente Roberto Natale. “Noi giornalisti abbiamo un interesse diretto a che l’argomento venga trattato in questa sede – egli ha detto, aprendo l’incontro – proprio perché il farsi carico di questo tipo di informazioni si intreccia con la nostra responsabilità professionale. Sempre più spesso invece i fenomeni che vengono trattati sui media sono condizionati dalla loro sensibilità alla spettacolarizzazione e sempre meno invece selezionati in base alla loro rilevanza sociale”. Natale ha ricordato inoltre che, proprio mentre il tema della sicurezza sembra invadere tutti i canali informativi, non bisogna perdere di vista la relazione che l’aumento della criminalità organizzata intrattiene con la problematica.

Fara ha aggiunto quanto “la trascuratezza sia un atteggiamento che riscontriamo anche a livello istituzionale per un fenomeno come quello della’Ndrangheta che sta diventando sempre più forte e potente, per la sua capacità di riproduzione, la sua proiezione a livello internazionale e la sua impermeabilità. Pochi sono i pentiti della mafia calabrese perché è un’organizzazione a carattere fortemente familiare, in cui qualsiasi movimento innesca reazioni a catena difficilmente controllabili”. “Forte è poi la sua presenza, dovuta proprio a questa matrice familiare – ha aggiunto Fara – anche nei luoghi di insediamento dell’emigrazione calabrese all’estero, in Canada, in Australia o in Nord Europa”.

Su una quantità di Pil calcolato per l’Italia nell’ordine di 1.535 miliardi di euro, sommando il fatturato riconducibile all’economia sommersa nel nostro Paese – circa il 35% del Pil per un totale di 540 miliardi di euro – con il Pil afferente alle organizzazioni criminali, si giunge al totale di 700 miliardi di euro di questa economia nascosta. “L’economia criminale finisce per inquinare anche i percorsi dell’economia sana – ha concluso il presidente dell’Eurispes – e la nostra intenzione, attraverso questo Dossier, è di lanciare un segnale di allarme alle istituzioni perché, a seguito di questi numeri, sappiano far fronte alle difficoltà, mettendo a disposizione delle forze dell’ordine più mezzi per il contrasto delle mafie”.

Raffaele Rio, presidente dell’Eurispes Calabria, ha riassunto i dati più scottanti della documentazione, a cominciare dall’analisi dei proventi del fatturato della ’Nrangheta, derivanti da impresa e appalti pubblici, prostituzione, estorsione e usura, armi, ma anche traffico di medicinali e tabacco, manodopera preveniente dall’immigrazione clandestina, contraffazione, ecomafie e sofisticazioni alimentari. “E’ però il traffico di sostanze stupefacenti – ha detto Rio – la maggior fonte di profitto per le cosche calabresi: 27.240 miliardi di fatturato proviene da esso, il 62% circa del totale”. Gli omicidi riconducibili a motivi di associazione di stampo mafioso, che più incidono sul versante della sicurezza, sono stati in Calabria, negli anni dal 1999 al 2008, 202, registrando un aumento del 667%. In particolare la provincia di Crotone detiene il triste primato degli omicidi di stampo mafioso, seguita da Catanzaro e Reggio Calabria.

“Sul totale di tutte le intercettazioni svolte in Italia – ha aggiunto Rio, passando all’analisi dei dati sull’attività di contrasto alla ‘Nrangheta, – il 13,3% avviene nella Regione, mentre il valore del patrimonio sequestrato e confiscato alle cosche ‘ndrine ammonta a 231 milioni di euro sugli oltre 5,2 miliardi di euro confiscati dalla Direzione investigativa antimafia su tutto il territorio nazionale. 131 sono le cosche attive in Calabria e 38 sono i comuni sciolti in questi anni a causa di infiltrazioni mafiose su 409”. Infine, una sezione dell’analisi è stata riservata alla percezione della presenza e delle attività delle organizzazioni criminali da parte della popolazione locale “che ha partecipato attivamente alle nostre sollecitazioni – afferma Rio – indicando nelle pene poco severe, nell’insufficiente presenza delle istituzioni e nelle scarse risorse le cause scatenanti della diffusione della ’Nrangheta”.

Vincenzo Macrì, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, ha segnalato alcuni spunti di riflessione su cui lavorare per un più efficace contrasto di questo tipo di criminalità. “Dopo 20 anni di politica improntata al proibizionismo, l’introito maggiore dei ricavati di attività illecite è legato indiscutibilmente al consumo della droga – ha detto – e mi chiedo se non sia il caso di riparlare del problema con un approccio diverso. Anche il valore dei beni confiscati è molto esiguo rispetto ai beni derivanti da traffici mafiosi: non bisognerebbe piuttosto perseguire una politica che riduca alla radice la possibilità di acquisire invece nuovi beni? Infine, vi è il grande problema delle imprese che operano in queste aree. Impregilo e Condotte d’Acqua, due delle più importanti aziende italiane, si sono rivelate, secondo indagini investigative, fortemente permeabili alle infiltrazioni malavitose in Sicilia e Calabria, tanto che alla prima, in un caso, è stata richiesta la revoca della certificazione antimafia, ora in ricorso al Tar per tale provvedimento”. Macrì si chiede dunque “come sia ancora possibile pensare che, con così grandi introiti immessi nell’economia annualmente, le organizzazioni criminali non producano alcun effetto sull’economia sana e sulla nostra democrazia, compresa la formazione della rappresentanza politica. Si tratta quindi, non di un fenomeno relegato ad un ambito locale, ma del destino stesso del nostro Paese e dell’Unione Europea”.

Mario Spagnuolo, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, ha ricordato come, sulla base dei dati processuali acquisiti, la ‘Nrangheta stia subendo un processo di trasformazione camaleontico “da organizzazione che sfrutta in modo parassitario il contesto economico a soggetto che si pone invece come erogatore di servizi. Un processo pericoloso – ha detto – perché legittima una sorta di ruolo sociale della mafia all’interno del gruppo sociale”. Tra le nuove attività, lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina che viene gestita per fornire manodopera in nero alle aziende calabresi – al costo di 10 o 20 euro al giorno per persona – o avviata alla prostituzione. “Una fenomenologia – ha concluso Spagnuolo – che convive con la ‘Ndragheta più tradizionale, ma che necessità di nuove strategie e nuove risorse per un contrasto efficace a livello giudiziario e investigativo”. (Viviana Pansa - Inform)

Mi sembra che la parte evidenziata coincida anche su quanto scritto da mammamaria sul ruolo dei casalesi nel commercio.
Evidentemente è una evoluzione generalizzata.
Terrei però forte attenzione sul perché la criminalità organizzata detiene il controllo di tanta parte della ricchezza, capire perché riesce a produrre tanto e quali sono i canali di produzione di tale ricchezza e degli investimenti necessari. E' un'attività redditizia.
Però, non dovendo scrivere un trattato sulla malavita organizzata, la prima necessità mi sembra quella di individuare le proposte politiche perfronteggiare il problema.
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 02, 2008, 01:13:38 am »

io credo che, al di là delle risposte politiche, doverose e indispensabili, se si vuole veramente combattere le criminalità si dovrà fare un grandissimo e martellante lavoro sulle donne.

finché saranno loro a supportare gli uomini coinvolti accudendoli, amandoli e proteggendoli anche quando compiono nefandezze, non se ne uscirà.

la storia recente e la storia della civiltà ce lo dimostrano.

questa è una pesante responsabilità delle donne in generale e delle donne politiche in particolare.

e il fatto che nessuna di queste ultime vi abbia mai provveduto in modo approfondito dimostra quanto siano omologate ai loro rispettivi partiti, e quanto abbiano perso lo sguardo lucido sulla realtà del femminile.

non dovrebbero dimenticare che si trovano in politica spesso perché sostenute da altre donne che lì le hanno volute e hanno contato su di loro, e NON per ottenere briciole di approvazione dai loro colleghi di partito, che miseria.

ciao
paola
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 02, 2008, 02:50:33 am »

Il lavoro da fare per battere la criminalità organizzata, nello specifico nelle tre, quattro regioni meridionali più direttamente coinvolte e implicate (nessuna ne è immune), è certosino.
Però presuppone un impegno straordinario del governo centrale mirato anche a fare cultura di legalità.
Però questo governo ha forse le carte in regola e lo vuole???
Parrebbe proprio di no.
Anzi, io sono fortemente convinto che SB paghi il prezzo dei voti e della sua origine (libro di Travaglio) e che sia la longa manus (e che mano ... !!!???) al vertice del governo.
Ciao.
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 02, 2008, 10:21:12 am »

Mi sembra di capire che l'interesse c'è.... ok, mi metto al lavoro.
Vi presento prima una cosa che ho preparato lo scorso anno per la Festa dell'Unità Nazionale... ma ho bisogno di un pochino di tempo per sistemarla...
Paola, parla appunto delle donne e la mafia!
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 02, 2008, 03:37:33 pm »

E’ particolare il rapporto che le donne hanno con il dolore.
Probabilmente per una sorta di memoria atavica, che ha sempre voluto le donne mogli, madri, sorelle, figlie: una passetto indietro rispetto ai maschi di casa, ma reali colonne portanti della famiglia.

Alle donne la gestione della casa, alle donne l'educazione dei figli, alle donne il compito di mantenere la pace familiare, di preservare le tradizioni dai cambiamenti. Alle donne il compito di andare avanti nonostante stanchezza e difficoltà… anzi. E’ proprio quello il momento in cui la loro forza deve venir fuori maggiormente. Per la sopravvivenza della famiglia.

Nel dolore la reazione, la forza di andare avanti, senza lasciarsi schiacciare.

E questa particolare attitudine al dolore, questo ruolo imposto e accettato con sopportazione, è tanto più forte quanto più la vita diventa tradizione, quanto più siamo prossimi ai paesi del sud... quanto più ci avviciniamo alla cultura mafiosa.
Ed in fondo si tratta di uno stereotipo difficile da far morire, se non è solo la cultura che circonda le donne del sud, ma anche “lo Stato” a relegarle in tale ruolo: la responsabilità della donna è sempre stata considerata di tipo morale più che penale. Lo stesso punto di vista delle famiglie mafiose in fondo: la donna non può raggiungere posizioni di spicco, al massimo può favorire le pratiche illecite del congiunto... e quindi non è punibile. Nel 1983 viene proposto per Francesca Citarda, moglie di Giovanni Bontate il soggiorno obbligato e la confisca dei beni, in base alla legge La Torre che estende a familiari e prestanome dei mafiosi le indagini patrimoniali, allo scopo di confiscare quei beni di cui non sia provata la legittima provenienza. Il Tribunale di Palermo respinge tale richiesta: nella sentenza è specificato

"… pur nel mutevole evolversi dei costumi sociali, non ritiene il Collegio di poter con tutta tranquillità affermare che la donna appartenente ad una famiglia di mafiosi abbia assunto ai giorni nostri una tale emancipazione ed autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno e passivo che in passato aveva sempre svolto nei riguardi del proprio "uomo", sì da partecipare alla pari o comunque con una propria autonoma determinazione e scelta alle vicende che coinvolgono il "clan" familiare maschile.
Troppo lontane per ideologia, mentalità e costumanza sono le cosiddette "donne di mafia" dalle "terroriste" che purtroppo hanno avuto un ruolo di attiva partecipazione alle bande armate che tuttora attentano alla sicurezza dello Stato e all'ordine democratico" (Tribunale di Palermo, 1983)

Le terroriste… donne del nord, e come tali emancipate.

Le donne abituate a crescere nell’accettazione del dolore, dunque.
E dal dolore la rabbia. Dalla rabbia l’esigenza di verità e giustizia… una forma di vendetta che può avere risvolti simili ma diametralmente opposti: l’impegno civile e la rottura del muro di silenzio da una parte, il pieno coinvolgimento nelle attività della famiglia, fino al punto di diventare vere e proprie “madrine”, dall’altra.

In fondo quasi sempre sono storie che nascono dall'amore: per un compagno, per il padre, per un fratello, per un figlio.
Dal dolore di Maria Eleonora Fais, sorella della giovane Angela, giornalista siciliana, deceduta nel 1972 nella sciagura di Montagna Longa, nasce un bisogno di verità, un desiderio di giustizia, che si tramuta in impegno civile: la battaglia contro la base missilistica a Comiso al fianco di Pio La Torre, il movimento antimafia nato all'indomani della morte del deputato, compagno e amico.
La ricerca della verità diventa il filo conduttore dell'impegno di Maria Eleonora, al punto da renderla importante teste al processo sull'omicidio La Torre. Al punto da non renderla cieca di fronte alla realtà, consentendole per quella morte di puntare il dito anche contro esponenti del suo stesso partito, dai cui principi peraltro non ha mai preso le distanze, essendo per lei radice culturale e principio morale.

Ma la storia di Maria Eleonora non è tra le più note, probabilmente per come è nata: una sciagura aerea, su cui pesano più ombre che luci, liquidata come incidente i cui unici colpevoli sono risultati essere i due piloti, morti anche loro… e poi l’oblio. Pochi sono i giornalisti che l’hanno raccontata, e raramente fuori dai confini siciliani.
Il contesto in cui questa storia si è sviluppato è molto diverso da quelli di storie più note: non è la mafia a fargli da sfondo, quanto piuttosto gli anni di piombo della strategia della tensione. Non la consapevolezza dell’omertà, ma la percezione del depistaggio. La conclusione è analoga: dolore… un dolore da incanalare, da convogliare verso qualcosa di costruttivo: si è trasformata in detective, per indagare sulla morte della sorella, nella speranza di trovare delle prove che consentissero di riaprire il caso.
Una mente lucida, attiva, che si fa memoria storica delle vicende che riguardano l’intero paese, non solo la Sicilia. La sua esigenza di portare alla luce quelle verità che non si raccontano, la salvano dall’apparire solo una donna di mezza età, che dopo 35 anni ancora non si da pace.
La sua lingua non conosce omertà, e quando può raccontare lo fa a ruota libera: pur non essendo una storia di mafia la sua, è comunque avvolta in quel mantello di silenzio che sembra voler avvolgere preventivamente i fatti, perché “non si sappia”. La sua esigenza che la verità venga a galla, è battaglia culturale, civile e politica.
Sono molte le donne che si sono impegnate in questa battaglia:  quegli atteggiamenti omertosi, che sono propri delle culture mafiose, ma anche di certi ambienti politici, troppo strettamente a queste legati, in questi anni sono stati spesso battuti proprio grazie all’impegno collettivo di donne che a questa cultura si sono ribellate.

Quella di Felicia Impastato è una storia molto diversa da quella di Maria Eleonora Fais, ma per certi versi ha molte similitudini: Maria Eleonora ha sempre combattuto la mafia e la sua cultura, grazie ad una estrazione sociale e politica ben lontana da quegli ambienti. Felicia invece vi è stata immersa!
Figlia, moglie e cognata di uomini d’onore, ha contribuito a infondere in migliaia di persone, giovani soprattutto, quella cultura alternativa in cui ha avuto la fortuna di crescere Maria Eleonora. La denuncia esplicita, aperta, il rifiuto dei compromessi che ha divulgato sembrerebbero nascere dall’esperienza vissuta, conseguenza della tragica morte del figlio Peppino Impastato, ucciso dalla mafia per la sua attività di denuncia e opposizione , anche contro il suo stesso padre, i suoi amici… ma soprattutto contro il boss: Tano Badalamenti.
Peppino ha sfidato apertamente la mafia, ponendosi contro la sua stessa famiglia, che abbandona per proseguire la sua attività: la voce della verità diffusa per tutto il paese, attraverso le onde di Radio Aut.
In realtà in fondo è Felicia stessa l’involontaria fautrice della tragica fine di Peppino. Perché se Peppino è stato quel simbolo di rottura, familiare e sociale, è proprio grazie agli insegnamenti della madre, alle loro lunghe chiacchierate, all’amore per la letteratura, per la cultura. Un insegnamento diverso: lei per prima spezza quella perversa catena che avrebbe destinato i suoi figli (Peppino ha un fratello, Giovanni, che sarà al fianco di Felicia dopo la morte di Peppino, nella sua lotta contro l’omertà) ad un futuro di mafia, rompendo con quella classica educazione impartita ai propri figli dalle altre madri cresciute immerse nell’ambiente di Cosa Nostra,
Una responsabilità silenziosa e importante quella di Felicia:
“(…) Altro che lo stereotipo della donna che nella famiglia di mafia riproduce i valori mafiosi educandovi i figli sin dall’allattamento. Lei fu l’esempio contrario. Senza rompere la famiglia, senza infrangere le “regole dell’ubbidienza”, allevò i due figli ai valori della democrazia e li protesse nel loro cammino” (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa).
E’ stata lei, con la sua educazione a fare si che i suoi figli potessero intravedere la possibilità di una vita, una realtà diversa da quella mafiosa cui erano destinati.
Una responsabilità forte, che si traduce in una vera e propria rivoluzione all’indomani della morte di Peppino: non la vendetta, ma la ricerca della verità, che senza la sua presenza vigile non sarebbe mai arrivata. La morte di Peppino Impastato sarebbe stata destinata all’oblio: è il 9 maggio1978… lo stesso giorno della morte di Aldo Moro. Ucciso con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia: secondo la stampa, le forze dell’ordine e la magistratura, Peppino è un terrorista, rimasto vittima di un attentato da lui stesso organizzato. La scoperta di una lettera scritta molti mesi prima ne fa un suicida.
Se Felicia e Giovanni non si fossero trasformati in poliziotti e magistrati, se non avessero in questo modo sollecitato le giuste indagini tralasciate da chi ne aveva il dovere, oggi la verità sulla morte di Peppino sarebbe una altra: “fallito e terrorista”.
Felicia, dopo 20 anni di attesa attiva, raggiunge quindi il suo scopo, ma non basta: la mafia non si sconfigge con la vendetta, ma con la verità, la parola, la legalità. La mafia è fatta di mafiosi e di chi li sostiene. Di chi li protegge e di chi finge che non esistano. Di chi non vede e di chi se ne serve.
L’unica strada: continuare a parlarne. Ed è quello che ha fatto Felicia, fino all’ultimo istante della sua vita. E questa è l’eredità che ha lasciato.

Come Felicia Impastato, e prima di lei, Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale: quel figlio per il quale ha inutilmente per 10 anni chiesto giustizia. Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia nel 1955. Sindacalista a Sciara, sconosciuto paesino del Palermitano. Colpevole del suo impegno a favore dei poveri, di avere fondato a Sciara la prima sezione del sindacato, e la prima sezione del partito socialista.
Rompendo per prima lo schema dell’omertà, Francesca parlò, fece i nomi degli assassini. Francesca mostrò che si può denunciare la violenza mafiosa.

“Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. […] noi donne siamo, anzi dobbiamo essere le più forti. Le donne devono reggere la situazione (…)”.” (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa)
E’ Saveria che parla, madre di Roberto Antiochia, poliziotto, ucciso nell’85 insieme con il capo della Squadra Mobile Ninni Cassarà.
Dopo avere denunciato in una lettera aperta all’allora ministro degli interni, Oscar Luigi Scalfaro, le condizioni precarie e difficili in cui erano costretti a lavorare gli agenti della Squadra Mobile, che come il figlio rischiavano ogni giorno la vita, qualcuno disse che quella lettera era troppo ben scritta perché ne fosse autrice la madre di un poliziotto, e che si trattava soltanto di un basso attacco politico. Saveria, invece, era persona colta e sensibile, che ha fatto della parola la sua arma: la sua battaglia è stata l’affermazione della verità su quel delitto, denunciando la complicità che esisteva tra mafia e istituzioni.
Saveria ha parlato, ha parlato tanto, portando la sua testimonianza ed il suo ricordo di Roberto nelle scuole, le parrocchie, le biblioteche, i circoli di tutta Italia. Raccontando i fatti scevri da qualsiasi forma di retorica, trasmettendo, nonostante tutto la sua fiducia nelle parole, che anche se disarmate possono essere arma efficace per combattere la mafia.

La parola, girando in lungo e in largo per il paese: stessa scelta di un’altra figura di donna, diventata ormai emblematica. Rita Borsellino, la sorella del giudice “dai baffetti gentili”.
Rita, che all’indomani della strage di Via D’Amelio, cessa di essere farmacista e diventa testimone civile.
Viaggia, parla, racconta… accende le coscienze andando oltre: il suo impegno civile rompe gli schemi, per entrare nella politica, avviando un nuovo impegnativo percorso nel grande cammino di liberazione delle donne siciliane dalla mafia: si candida alla presidenza della Regione.

E di fianco a donne di simile forza, personaggi, fragili, piccoli, ma di immenso coraggio. Al punto da entrare nel mito: come Rita Atria.
Rita, sorella di Nicola Atria, figlia di don Vito Atria. Mafiosi, uccisi da mafiosi. Per amore del fratello e del padre, piegata dalla violenza mafiosa, stanca del peso di un dolore troppo grande per i suoi 17 anni, angosciata e combattiva, decide di ribellarsi alla mafia, rompendo il cerchio dell’omertà.
Una scelta difficile, pesante da reggere da sola, visto che la madre la allontana, considerandola una infame. La sua vita da collaboratore di giustizia non è per nulla facile: unico conforto, essere in compagnia di una ragazza altrettanto coraggiosa, Paola Aiello, la moglie di Nicola. E la consapevolezza di stare facendo qualcosa di giusto, di importante, e di avere vicino a se la figura rassicurante di Paolo Borsellino. All'indomani della strage di Capaci, Rita non regge:
“Rita vide crollare il nuovo mondo ‘fatto di cose semplici’ che aveva appena fatto in tempo a respirare grazie a quel giudice dai baffetti gentili (…) D’improvviso si sentì sola. (…). Sette giorni dopo la strage di via D’Amelio, Rita si affacciò sul terrazzo (…) Si gettò dal settimo piano”. (da Le Ribelli, di Nando Dalla Chiesa)
Al suo funerale ci fu una larga partecipazione. Soprattutto giovani. Soprattutto donne. Meno che sua madre.
Una figura tragica quella di Rita. Ma probabilmente l'immagine che ha più della tragedia greca è quella di Vincenzina Marchese: moglie di Leoluca Bagarella e sorella di Pino Marchese. Il suo matrimonio è un momento importante, in quanto segna l'avvicinamento dei corleonesi alla famiglia di Palermo.
Il pentimento di Pino è un momento di profonda lacerazione per lei: potere e onorabilità del marito Bagarella sono pregiudicate. Ma peggio ancora della vergogna è il dolore per la consapevolezza delle azioni del marito. Da sempre desiderosa di diventare madre, perde il figlio durante la gravidanza. Considera questo un segno del divino: colpe troppo grandi gravano sul marito, e la consapevolezza di queste la rendono non meno responsabile. Il peso è troppo grande... si impicca.
Un pentito racconta che nel vedere in televisione e sui giornali le immagini dei crimini, delle stragi che vedevano coinvolto il marito, e che andavano ben oltre il semplice delinquere per la crudeltà di tali gesti, tra cui l'omicidio del piccolo Di Matteo Vincenzina urlò alla volta del marito “Come può il signore darci un figlio se tu ammazzi i bambini?!”

Donne: madri, sorelle, figlie. E i loro sentimenti, che hanno rappresentato l'inizio di una rivoluzione che ha in qualche modo cambiato un piccolo frammento di mondo.
La manifestazione del dolore e della volontà di ribellione ad un universo che da sempre massacra la Sicilia, con il suo carico di false tradizioni e valori sbagliati: le lenzuola... un simbolo al femminile!
Le lenzuola del corredo da sposa. Le lenzuola insanguinate stese alla finestra a testimonianza della deflorazione... il matrimonio è stato consumato.
E lenzuola bianche, pulite, fresche, esposte ancora una volta alle finestre, ma a testimoniare la ribellione, la rottura, il rifiuto di quel mondo. Quante lenzuola sono state ai balconi per manifestare il no della Sicilia alla mafia!
E quante continuano a sventolare oggi sugli stessi balconi? Sempre meno. Quasi una rinuncia a lottare.
Mentre sempre più frequentemente la mafia diventa donna. Non semplici complici ma parte attiva, pur se non con il diritto all'affiliazione: non serve.
Nel tempo sono diventate sempre di più le donne di mafia, che si sono trovate a gestire gli affari di famiglia, dall'estorsione alla riscossione del pizzo, al traffico di droga, fino ad incarnare la figura di vere e proprie “madrine”. Già dal 1995 il fenomeno si è reso evidente: 89 donne denunciate per il 416bis... associazione mafiosa!

Sempre meno lenzuola bianche...

Nel suo diario, dopo aver appreso la morte di Paolo Borsellino, Rita lascia queste parole:
“Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.“
Ha ragione Rita, perché la mafia è soprattutto un fatto culturale.
Abbiamo iniziato parlando di donne, del loro ruolo, di come siano le depositarie di questa cultura che tramandano quasi inconsapevolmente da anni. Ed è per questo che vorremmo concludere con l’ultima storia di donna: la storia di Carmela.
Carmela Iaculano, moglie di Pino Rizzo boss legato ai corleonesi di Provenzano. Arrestato per associazione mafiosa nel 2002, Rizzo continua dal carcere la sua attività, dettando i suoi doveri attraverso dei bigliettini, che anche Carmela contribuisce a portare fuori dal carcere e consegnare a destinazione.
Il 3 maggio viene arrestata e liberata dopo poco perché le vengono concessi gli arresti domiciliari. E al suo rientro, la sorpresa: “Mamma questa è vita secondo te?”
Le figlie la esortano a collaborare, a raccontare la verità, tradire il marito e la famiglia: grazie a lei il Consiglio Comunale di Cerda viene sciolto per infiltrazioni mafiose, e il Pubblico Ministero mette le mani su un filmato girato in parlatorio nel Carcere di Palermo, che mostra come fanno i boss a comunicare con l’esterno.

La testimonianza di Carmela:
“Mi manca la mia terra, il mare, il sole, ma mi piace questa nuova Carmela: mi sento pulita, libera, sono una persona normale come tutti, non sono più impigliata in quella ragnatela che è la mafia che ti stringe fino a non farti più respirare. La mafia non finirà mai, fino a quando la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici continuano ad abbassare la testa e ad aver paura di dire no e di denunciare...allora sì che la mafia non finirà mai”

Siamo partite parlando di donne, del loro ruolo, di come siano depositarie di questa cultura. E vi abbiamo parlato di loro, donne che hanno deciso di interrompere questa catena, perché siano di esempio ad una nuova generazione di donne: perché siano depositarie di una cultura nuova, diversa.
Perché la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici smettano di abbassare la testa.
Perché comincino a denunciare.
Perché il silenzio schiaccia, è complice, uccide quanto la lupara.
E allora noi vogliamo cominciare a raccontare…
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 02, 2008, 03:54:30 pm »

Ho voluto postare questo documento, soprattutto per indicare quanto il fenomeno mafioso (includo nel termine tutte le mafie, anche la camorra, che ha caratteristche molto diverse da quelle che riconsciamo tutti alla mafia) sia tanto un fatto culturale, su cui la politica e i governi hanno molto da lavorare. L'unico modo per fermare il dilagare della mafia: solo spezzando questa catena si riesce a fermare il processo.

"Siamo partite parlando di donne, del loro ruolo, di come siano depositarie di questa cultura. E vi abbiamo parlato di loro, donne che hanno deciso di interrompere questa catena, perché siano di esempio ad una nuova generazione di donne: perché siano depositarie di una cultura nuova, diversa.
Perché la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici smettano di abbassare la testa.
Perché comincino a denunciare.
Perché il silenzio schiaccia, è complice, uccide quanto la lupara."

Questa abitudine a "raccontare" e "testimoniare" di cui sono state protagoniste tante donne e di cui Rita Borsellino è solo l'esempio più noto, è stata all'origine di una presa dicoscienza che sta attraversando la sicilia, da cui sono nate associazioni come Addio Pizzo.
Vi lascio nei post successivi le parole di questa associazione e quelle di Libero Futuro, l'associazione antiracket nata in memoria di Libero Grassi.
Aggiungo le parole di Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica palermo che molto si è occupato di mafia... poi verremo anche al discorso delle "economie", cui faceva riferimento darwin. e a tal proposito posto le parole di chi si occupa di "antiriciclaggio".

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« Risposta #12 inserito:: Luglio 02, 2008, 04:03:58 pm »

Il 29 giugno del 2004, nell’ anniversario della morte di Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dalla mafia per la sua solitaria ribellione al pizzo, le vie principali di Paleremo si ritrovano tappezzate da una serie di piccoli adesivi listati a lutto: un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità. Un popolo che non paga il pizzo, è un popolo libero.

Ma cominciamo dall’inizio, da quella sera in cui un gruppo di ragazzi, seduti davanti ad una birra, ha deciso di dire basta. E ce lo facciamo raccontare da uno dei protagonisti di questa strana “rivoluzione”: Manlio Buiarelli, della associazione Addio Pizzo.

Manlio, vorremmo capire con il tuo aiuto cosa è questa associazione, cosa è il pizzo, e parlare un po’ di mafia, che in fondo non fa mai male, visto che se ne parla poi così tanto poco, se non in caso di morti o di arresti. Vuoi raccontarci cosa è Addio Pizzo?

“Cosa è Addio Pizzo: Addio Pizzo è una associazione, nata spontaneamente da un gruppo di ragazzi che aveva la semplicissima volontà di aprire un pub. Nel momento stesso in cui decisero di fare questo, si resero conto di doversi assumere anche l’onere di dover combattere contro il pizzo: aprire un pub a Palermo significa, come per tutte le attività commerciali, dover pagare il pizzo alla mafia. Questa cosa, che per noi e per molti giovani palermitani è una cosa assolutamente da rifiutare, totalmente assurda, ha portato a elaborare, a pensare, a decidere di. Di ribellarsi soprattutto perché quello del pizzo era ormai un sistema di routine, abbastanza consolidato, quasi normale nella nostra vita , da decidere di creare una associazione che potesse parlare di questo. Tutto è iniziato con i famosi attacchini, come si può leggere anche nel nostro sito: dei manifesti che dall’oggi al domani vennero appesi lungo una delle strade principali che attraversa tutta Palermo, che dicevano: “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Questo fu un primo segnale fortissimo, tanto che i media, ma anche un po’ i politici posero attenzione su questa cosa. Venimmo subito allo scoperto, con i nostri nomi e i nostri volti, per far capire a tutti che il problema del popolo palermitano, del popolo siciliano, è quello di avere accettato come normale questo sistema, soprattutto senza capire che accettarlo vuol dire anche che fare la spesa tutti i giorni diventa indirettamente, ma anche direttamente, un sostentamento alla mafia stessa. E di li poi è nata l’associazione che negli anni ha avuto sempre più partecipanti, una risonanza mediatica sempre più importante, un numero di soci sempre maggiore.”

Venendo a questo racconto che hai fatto e che si può leggere anche nel sito, vi è un punto molto bello, molto importante, che è un po’ il nodo delle mie curiosità. Ipotizzando, fantasticando sull’apertura di questo pub, che doveva essere come volevate voi, con la musica e l’atmosfera che piace a voi, sorge la domanda… cito testualmente: “…e se poi ci vengono a chiedere il pizzo che facciamo? ...no, non lo paghiamo! ... minchia, però se ci rifiutiamo solo noi poi ci bruciano il locale. Ma che palle! Ma è mai possibile che devono pagare tutti senza fiatare? E non mi vengano a dire che non è così! ... ma di che mi preoccupo, sto solo fantasticando... ma è mai possibile che in questa città uno non si può fare nemmeno le seghe mentali in santa pace?!” (http://www.addiopizzo.org/nascita.asp) Il punto è proprio quello: “se ci rifiutiamo solo noi, poi ci bruciano il locale”. E’ ovvia la paura di chi ha una attività commerciale, di ristorazione, imprenditoriale davanti a questo rischio. L’operazione di Addio Pizzo richiede quindi una forma di coraggio molto forte a queste persone: si sente un po’ una vena di critica a chi cede a questo ricatto, ma si può dare la colpa materialmente, a chi in fondo ha solo paura?

“Effettivamente, cosa che diciamo spesso, quando vieni in contatto con la realtà che vive un commerciante, di chi paga il pizzo, alla fine ne riesci a capire le motivazioni. Nel senso che riesci davvero a capire il perché, la dinamica, il sistema economico, e un po’ tutte quelle che sono le problematiche che vive il commerciante, ed arrivi a capire anche il fatto che comunque ognuno poi reagisce in modo diverso: chi non ha il coraggio, chi non può fare altrimenti… che E’ un vero sistema che si è venuto a creare, che si regge sul fatto che si pensa non possa essere scardinato per la paura: di vedersi bruciato il negozio, di attentati, ritorsioni. Il fatto però di cominciare, dare inizio a qualcosa, che sia qualcosa di vero, tangibile, basato sulla condivisione, la partecipazione di tutti, in cui ognuno faccia la sua parte, dalla magistratura alle forze dell’ordine, ai cittadini, porterebbe tutto questo a sparire. Ritrovarsi in una associazione, in cui sai di poter denunciare e ricevere da parte di questa delle forme di garanzie, nonché qualcuno che ti segue, ti sostiene, ti fa acquistare fiducai: una volta che si innesca questo meccanismo, ti rendi conto che le cose possono cambiare. Ed in effetti stanno cambiando. Spesso e volentieri le denunce che sono state fatte non hanno neanche una finalità morale, non è per volontà di combattere la mafia, ma discorso strettamente economico: parecchi commercianti sono ridotti sul lastrico, non ce la fanno più economicamente. E da questo è nato anche il concetto di “consumo critico”, un filone importantissimo nato da addio pizzo, così come l’associazione Libero Futuro, l’associazione antiracket. Il consumatore deve capire che questo sistema economico deve essere scardinato perché è l’economia che regge in piedi la mafia: preferire per i propri acquisti quel commerciante che ha denunciato il pizzo, e che quindi effettivamente ha bisogno di aiuto, significa contribuire ad innescare un meccanismo che toglie risorse alla mafia e allo stesso momento stimola il commerciante a denunciare.”

Sembra di capire, quindi, che il problema del pizzo, e un po’ la stessa persistenza della mafia sono soprattutto un fatto culturale.

“Le motivazioni sono tantissime: perché sono motivazioni storiche, sono sociologiche, sono psicologiche, sono culturali…. Per arrivare a questo sistema le motivazioni sono tante, anche politiche. Il problema è che bisogna superare ed arrivare a capire che quello che siamo portati a pensare essere totalmente irrealizzabile, sia invece fattibile. Al di la della realtà oggettiva, per cui il 90% dei commercianti paga il pizzo e chi non lo paga in genere è perché assolutamente colluso, quello che sta accadendo è importante: il fatto che 5 asnni fa potesse nascere una associazione che riuscisse a fare quanto stiamo facendo, con la risonanza che sta avendo, lavorando semplicemente sulla partecipazione il dare coraggio e fiducia ai commercianti, ascoltare le loro esigenze, era assolutamente impensabile ma è successo. Ma in realtà doveva essere diverso da così, perché noi stiamo assolvendo un compito che non è il nostro, ma una precisa funzione politica, civile, dello stato… perché non si è mai fatto? Perché si è vissuto di una totale inerzia e collusione con tutto questo sistema. Però è bastato poco.”

Nel leggere la vostra storia si ha una percezione molto particolare: ho avuto la sensazione di rivedere quell’azione quasi piratesca che svolgeva con la sua radio Peppino Impastato.
“Peppjno impastato si trovava in una condizione storica politica molto diversa da questa, lui era veramente un don chisciotte, perché viveva in una cultura molto più imperniata di mafia rispetto ad oggi, ma nonostante tutto è riuscito a lasciare un messaggio che per noi è un tesoro inestimabile. Così come tutti i “martiri della causa”, nostro punto di riferimento.”

Sembra di capire, da quello che dici, che in questo momento, ci sia una sorta di ventata di aria buona.

“Forse sarà una congiunzione storica, probabilmente anche culturale, in cui ci sono una serie di fenomeni che sono sicuramente la costanza, il lavoro svolto dai magistrati che ad oggi hanno, non dico azzerato, ma di sicuro colpito duramente quelli che sono i vertici mafiosi, come ripete spesso il procuratore Grasso. Sicuramente in questo momento c’è un sistema di autonomia dei singoli quartieri: la cupola non è di sicuro azzerata ma di certo molto in difficoltà. Gli ultimi eventi, gli ultimi arresti, il fatto che ci siano comunque delle denunce e delle confessioni portano a pensarlo. E contemporaneamente il fatto che ci sia questa possibilità per i commercianti di capire che non era poi così impensabile reagire, è qualcosa che da vita. Noi stessi ci rendiamo conto che tutto quello che sta accadendo anche solo 5 anni fa sarebbe stato impensabile, l’associazione non sarebbe riuscita a sopravvivere. Oggi c’è una attenzione mediatica sicuramente diversa, una lotta alla mafia sicuramente costante. Ma c’è soprattutto un interesse culturale dei giovani, quelli della mia generazione cresciuta dopo gli attentati di falcone e borsellino: qualcosa che rimane in maniera indelebile nella nostra memoria, e che porta a crescere nella cultura dell’antimafia. Elementi questi che sono ancora pochi rispetto a quelli che dovrebbero essere: mancano una attenzione politica e civile. Ma siamo convinti che questa sia la strada buona. Come lo stesso Falcone ha sempre detto: il fenomeno mafioso è un fenomeno umano, e come tale, come è nato, dovrebbe morire.

In base a quello che dici viene da pensare che ci siano buoni margini di speranza. Io però stavo notando una cosa che mi ha colpito non poco. Il 27 dicembre dello scorso anno, Repubblica di Palermo ha reso noto il nome dei commercianti che erano registrati nel libro mastro di Lo Piccolo: il principio del giornale è stato quello di considerare il commerciante non una vittima, ma un po’ un colluso, in quanto accetta il ricatto e gli da anche linfa. Per questo motivo loro hanno reso noto questi nomi, ma la reazione è stata quella della perquisizione della sede di Repubblica da parte della Procura. E oltre questo evento ce ne sono stati altri che hanno interessato gli organi di stampa, così come è successo al Giornale di Sicilia e altre realtà. Non va un po’ in controtendenza rispetto a questa ventata di speranza che sentivo nelle tue parole?
“La situazione va un po’ inquadrata: intanto la notizia era vera fino a un certo punto perché non c’era un riscontro veritiero tra i nomi registrati nel libro mastro e quanto è stato pubblicato da Repubblica. Poi bisogna avere sempre i piedi per terra, in quanto il fenomeno è all’inizio, un fenomeno embrionale e che solo ora sta cominciando ora ad avere dei risultati: c’è quindi la necessità in questo momento di proteggere i nostri commercianti. Da questo episodio poi è nata la discussione se il commerciante sia più vittima o più complice. Nel momento in cui veniamo da te commerciante e ti aiutiamo e chiediamo di denunciare, ma tu ti sottrai a questa possibilità, con noi o con la magistratura che sia, e rispondi di non avere nulla a che fare con tutto questo, allora si che diventa una forma di collusione nei confronti della mafia, perché la possibilità di venirne fuori la stai avendo, ma con questo atteggiamento stai contribuendo a mantenere saldo il sistema.”

Venendo alla realtà che è fuori dalla Sicilia, si ha un po’ la tendenza a pensare alla mafia come un fenomeno locale. E questo vale in particolare per il pizzo, perché, se possiamo essere a conoscenza di forme di collusione di notevoli dimensioni con la politica e gli affari, il pizzo difficilmente riesce ad essere sentito come qualcosa che possa toccare qualcuno al di fuori della Sicilia o del sud in generale. Vedo però, dalla barra in alto, che il vostro sito è tradotto in numerose lingue, mostrando una volontà di estendere molto al di fuori della Sicilia l’interesse al problema: come fatto culturale, di conoscenza, magari anche di solidarietà, o perché non è solo un fenomeno siciliano?
“No, non è un fenomeno solo siciliano perché abbiamo anche avuto riscontro del fatto che, più o meno, sotto forma diversa ma è un fenomeno italiano, e non solo. E’ qualcosa che esiste un po’ in tutti i paesi. Ma in particolare la nostra è la volontà di far capire che questo tipo di uso, consolidato e quasi normale, è un fenomeno di cui bisogna parlare, di cui non averne paura ma anzi da combattere. Ed è possibile farlo solo con la condivisione, la partecipazione, la divulgazione, la nascita di associazioni, le manifestazioni. Ed internet è uno strumento ideale allo scopo: internet è una piazza continuamente in movimento, la possibilità costante di rendersi visibile.”

Dal momento che lo scopo di questa intervista è proprio quello di far arrivare il più lontano possibile questa vostra denuncia, dacci l’indirizzo del sito, perché chi legge possa visitarlo
“www.addiopizzo.org. Qui troverete un pò di tutto, la storia, chi siamo, cosa facciamo, quali sono le nostre mainfestazioni, il nostro pensiero, le nostre azioni”

Solo un assaggio dei contenuti: leggo dal vostro sito dell’American Contact. Di cosa si tratta?
“Si tratta di uno dei più importanti negozi di ottica di Palermo, che ha deciso di ribellarsi e denunciare il pizzo. Subito dopo la denuncia ha subito un furto abbastanza ingente. A questo va aggiunto che, come spesso capita dopo aver denunciato il pizzo, il commerciante accusa un brusco crollo della clientela. Qui si va ad innestare il discorso che facevamo più su, del “Consumo critico”: spingere il consumatore a fare acquisti che non abbiano solo valenza economica ma anche morale: se vado a comprare i miei occhiali all’American Contact, che ha denunciato ed è oggi in difficoltà, ho la certezza di non sostenere la mafia e nello stesso momento aiuto e premio chi ha avuto il coraggio di dire basta.. Per dare maggiore forza a questo pensiero, l’8 marzo c’è stata l’inaugurazione di un “Punto Pizzo Free”. Un luogo dove vengono raccolti tutti quelli che sono i prodotti dei commercianti che hanno denunciato il pizzo. Se tu consumatore non ha i voglia o tempo di andarti a cercare i negozi che hanno denunciato, sai che in questo punto puoi trovare i loro prodotti, ed in questo modo sostenere il consumo critico, senza fare troppi sforzi!”
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 02, 2008, 04:05:44 pm »

Lo scorso novembre nasce Libero Futuro, l’associazione antiracket dedicata a Libero Grassi. Tutto questo avviene in una sala gremita, quando, solo nel 2005, Confindustria e Associazione Nazionale dei Magistrati organizzarono un  convegno per parlare del fenomeno del racket, ma nessun commerciante di Palermo partecipò, e la sala rimase vuota.
Cosa è cambiato da allora?
Lo chiediamo ad Enrico Colajanni, presidente di Libero Futuro che, in occasione della presentazione dell’associazione dichiarò: “Adesso è il momento giusto per smettere di pagare il pizzo e denunciare”. Perché? Cosa c’è di diverso oggi?

“E’ cambiato tantissimo, naturalmente. Nel 2005 c’era sostanzialmente un silenzio delle istituzioni, e in città non se ne parlava molto. C’era una sorta di convivenza generalizzata con il fenomeno, che si tentava in qualche modo di nascondere. Naturalmente sotto la situazione ribolliva, in quanto era intollerabile chele cose andassero avanti così, dopo la morte di Libero Grassi, dopo le stragi.
Già nel 2004 era iniziata una sorta di rivolta quasi generazionale, con i ragazzi di Addio Pizzo, che poi è proseguita crescendo lentamente, mobilitando cittadini e imprenditori, e poi alla fine è sfociata, tra le altre cose, nella costruzione di una associazione antiracket. E’ esplosa al punto che, in breve tempo, ci siamo trovati a gestire moltissimi casi di denuncia: gli imprenditori hanno cominciato a superare la paura, a rompere il luogo comune che la mafia è in qualche modo onnipotente, a capire che avevano una forze per le mani soprattutto se erano uniti. Quindi diciamo che tutto questo, chiaramente accompagnato dalle azioni delle forze dell’ordine e della magistratura, ha creato una situazione nuova, che ha consentito di riempire quel teatro, soprattutto di una grandissima energia che, sinceramente, non dimenticherò mai.”

Con l’arresto di Lo Piccolo, le forze dell’ordine hanno messo le mani su un archivio di nomi di imprenditori, artigiani e commercianti che pagano il pizzo. Quanto è vasto questo fenomeno, e quanto sono ampi gli interessi legati ad esso? Immagino ci sia un notevole giro di affari dietro la richiesta del pizzo. Quanto questo giro di affari, e quanto queste economia vengono poi a pesare su quelle che sono le economie della regione, e di conseguenza, alla fine, anche di quelle del Paese?
“Il pizzo, anche il più piccolo è essenziale all’azione mafiosa, probabilmente non tanto per l’entità della richiesta effettuata sul singolo commerciante, quanto per il fatto che la mafia tende ad imporre una gestione del territorio. Ma quando si arriva a imprenditori più grossi si capisce che lo scenario è ben altro. E il fine chiaro, evidente ed ultimo dell’organizzzione mafiosa di distorcere essenzialmente le regole del mercato e di avvantaggiare le proprie imprese, le imprese degli imprenditori amici, collusi, e di deprimere le imprese degli imprenditori onesti. Questo con vari gradi di complicità, anche della pubblica amministrazione: talvolta si tratta di complicità, talvolta di  intimidazione. E’ quindi un sistema complesso che tende a stravolgere le regole del mercato: c’è un giro di affari straordinario gestito direttamente dai mafiosi. Basti pensare e questo atto di sequestro che c’è stato di recente, riferibile a beni di Lo Piccolo e di Provenzano, dove si parla di 150 milioni di euro. Vediamo il caso della Calcestruzzi, per esempio, una impresa completamente consegnata nelle mani dei mafiosi. C’è un enorme giro di affari che loro gestiscono direttamente, così come impressionanti sono le dimensioni del mercato che condizionano, spostando risorse da una azienda all’altra, favorendone alcune e deprimendone altre. Per la Sicilia il risultato è del tutto evidente: la combinazione di un sistema mafioso e di un sistema politico inefficiente e colluso portano la Sicilia ad un tasso di crescita assolutamente inadeguato agli standard europei”

C’è qualcuno che il pizzo non lo paga, però non tanto per un coraggioso rifiuto, ma perché a quanto pare non gli è mai stato neanche richiesto. La mafia su cosa basa la sua scelta delle imprese a cui rivolgersi o meno?
“Il primo consistente nucleo di imprenditori che pagano è rappresentato da imprenditori che il pizzo lo pagano senza che neanche gli venga richiesto. A questi poi si aggiungono altri imprenditori che, a seguito di pressioni più o meno forti, più o meno violente, cedono. E poi noi sappiamo che c’è una quantità di imprenditori che vengono evitati accuratamente perché sono poco conosciuti, o perché non ci si fida di loro in quanto potenziali “sbirri”. SI tratta di persone che hanno magari dichiarato pubblicamente di essere indisponibili, o perché ogni volta che hanno subito un furto o una intimidazione hanno chiamato le forze dell’ordine, e quindi vengono ritenute inaffidabili, non avvicinabili. Una loro denuncia potrebbe comportare una serie di arresti e quindi in questo senso un indebolimento del sistema di raccolta che è naturalmente un sistema molto complesso e consistente. Di conseguenza dal momento che la mafia non fa mai una questione di principio ma di soldi, alla fine se l’80% paga e il 20% non paga, per loro va benissimo: se hanno un consolidato dell’80% perché far saltare un meccanismo chiedendo alla persona sbagliata?
E la conferma di questo la abbiamo dal fatto che, in una sorta di decalogo che è stato trovato tra le carte di Lo Piccolo c’era scritto “non chiedere il pizzo a parenti di poliziotti, parenti di magistrati…” una vera indicazione ad evitare persone potenzialmente per lo stesso estorsore. Questo implica però anche che a questo punto è consigliabile resistere fin dal primo approccio, in quanto garanzia di non essere tocca: garanzia non assoluta ma abbastanza probabile.”

Quanto è stata importante in questa fase della lotta alla mafia, la posizione di Confindustria nei confronti di quegli industriali che continuano a non voler denunciare. E quanto le istituzioni in generale stanno contribuendo in questo particolare momento?
“Per quanto riguarda le istituzioni è presto detto, nel senso che, fatte salve le istituzioni più classiche dello stato nazionale, che sono le forze dell’ordine e la magistratura, per il resto abbiamo il vuoto pneumatico. Basti pensare al tasso di condannati che ci sono in politica. Basti pensare alle modalità con cui viene amministrata la cosa pubblica. Basti pensare al fatto che il comune di Palermo, tanto per fare un esempio, non si è mai costituito parte civile durante un processo, di fianco a quegli imprenditori che hanno denunciato. Non fanno questo e non fanno neanche il loro dovere quando si tratta di fare appalti o selezione delle imprese: dal punto di vista delle istituzioni pubbliche locali, l’inadeguatezza è assolutamente ancora abnorme.
Per quanto riguarda invece la posizione di Confindustria è una questione più complessa: è stata indubbiamente molto importante la presa di posizione di Lo Bello, il presidente regionale di Confindustria. Una presa di posizione così forte ci ha rincuorato moltissimo, perché abbiamo sentito improvvisamente allentarsi un po’ l’attenzione su di noi (ndr. l’associzione Antiracket), che cominciava ad avere un ruolo un po’ vistoso anche nella aule giudiziarie. Il problema è che naturalmente siamo vigili e attenti, perché alle parole bisogna far seguire i fatti. Il che vuol dire fare pulizia effettiva, allontanare i finti imprenditori, gli imprenditori collusi, vuol dire cambiare completamente orientamento in una organizzazione che poi ha una grande influenza.  E’ un processo che va seguito con attenzione, e che, se è concreto lo seguiamo ovviamente con grandissima soddisfazione. Uno degli obiettivi che ci poniamo è quello di cambiare le istituzioni e le loro politiche, siano esse istituzioni locali, enti economici, piuttosto che associazioni di categoria rappresentativi: noi vediamo che molti di questi imprenditori che ricoprono cariche di un certo rilievo, hanno delle ambiguità che vanno chiarite, cancellate. Addirittura tempo fa era stato eletto vicepresidente della camera di commercio per una decina di giorni, ed è tuttora nella giunta camerale, una persona che è strettamente imparentato al boss Della Calza – Spadaio. C’è ancora moltissima strada da fare e non intendiamo fare sconti a nessuno, per cui salutiamo con grande piacere e soddisfazione le prese di posizione, però poi devono seguire dei fatti concreti:vorremmo assistere al concreto allontanamento degli imprenditori collusi e soprattutto vorremmo vedere associazioni di categoria accompagnare gli imprenditori a denunciare.”

Libero Futuro nasce un po’ dall’esperienza di Addio Pizzo, di cui se non sbaglio sei uno dei fondatori, e da Consumo Critico che da Addio Pizzo è nato. E’ un punto di arrivo o un punto di partenza? Cosa si propone, e cosa materialmente fa l’associazione?

“Parlare di Addio Pizzo ci vorrebbe un po’ di tempo, perché ha una storia semplice e complessa allo stesso momento: è un movimento di consumo critico che mette insieme consumatori e imprenditori, nel tentativo di creare uno spazio anche economico pulito, che sia accogliente per gli imprenditori che decidono di denunciare, e non lasciarli soli. Tutto questo movimento ha  determinato un fermento nel mondo imprenditoriale che ha prodotto denunce, un cambio di mentalità che stiamo registrando, per cui anche precipitosamente abbiamo dovuto costruire una associazione antiracket che fosse adeguata alla nuova situazione che si andava creando. Dal momento che nessuno prendeva questa iniziativa, i ragazzi di Addio Pizzo si sono rimboccati le maniche ed hanno dato vita ad una associazione di imprenditori che svolge una funzione di servizio per quegli altri colleghi che decidono di denunciare ma non sanno in che direzione andare, in quale ufficio rivolgersi, e soprattutto non sanno che cosa li aspetta. L’associazione Antiracket fa esattamente questo: li rasserena, li tutela, li sorregge. Addio Pizzo è un elemento straordinario perché poi con il Consumo Critico crea una situazione di solidarietà che li protegge effettivamente. Questo è un lavoro essenziale, perché un imprenditore che si trova in una aula di tribunale da solo è troppo debole, se non è rassicurato, accompagnato da altri imprenditori.”

Addio Pizzo ha anche l’abitudine di costituirsi parte civile in procedimenti che riguardano il pizzo.
“Addio Pizzo fin dall’inizio si è costituita parte civile in questi processi, ovviamente per quei processi iniziati dalla sua nascita in poi. Tra l’altro svolgendo anche un ruolo molto importante e innovativo, come quando abbiamo deciso di costituirci parte civile anche contro l’imprenditore che nega: come confermato poi dai giudici, l’atteggiamento omertoso dell’imprenditore che nega contro l’evidenza dei fatti di avere pagato il pizzo, ha di fatto danneggiato il mercato, avvantaggiando un sistema che ne distorce le regole. Abbiamo già avuto un caso di riconoscimento della nostra costituzione di parte civile anche contro l’imprenditore. Non si può stare su questi temi con un piede da una parte ed un piede dall’altra: bisogna essere coerenti fino in fondo”

Quindi condivide la scelta de La Repubblica di Palermo che ha deciso di pubblicare la lista dei nomi degli imprenditori presenti nell’archivio di Lo Piccolo e che non hanno voluto denunciare?

“Devo dire di no. Molto spesso indagini così complesse che non si racchiudono in un semplice atto giudiziario, rivelate in questo modo, vengono compromesse. Abbiamo prova tangibile di casi concreti che quella pubblicazione ha danneggiato, rischiando anche di compromettere seriamente le indagini. Ci vorrebbe un maggiore senso di responsabilità da parte degli organi di stampa: non delle regole, ma la consapevolezza che può esserci un modo di agire molto più prudente che tenga conto delle situazioni concrete, una diversa dall’altra. La pubblicazione recente dei nomi e dei fatti, di dettagli dei verbali degli imprenditori che hanno cominciato a collaborare in una situazione come quella attuale di Palermo, dove c’è si collaborazione, ma le paure sono ancora molte, è una azione dannosa. Gli imprenditori che stiamo cercando di convincere a denunciare di fronte a questi fatti si tirano indietro: “se io denuncio il mio nome la mia azienda vengono pubblicati sul giornale”… in questo modo la gente la spaventa. Se i giornalisti avessero il buon senso di raccontare i fatti omettendo di dire il nome dell’impresa, almeno in una prima fase, si attenuerebbe l’effetto devastante che ha avuto fino ad oggi,. Siamo fortemente contrari a questo modo spregiudicato di fare giornalismo, soprattutto quando sembrano cercare il fatto eclatante senza tenere conto del lavoro che si sta facendo per convincere queste persone a denunciare. L’uso così spregiudicato di informazioni danneggia questo percorso e scredita le istituzioni che hanno lasciato fuoriuscire queste informazioni. Basterebbe comprendere che agiamo tutti in una situazione difficile, in cui è il caso di evitare di sovresporre l’imprenditore, non perché reticente ma perchè creare personaggi simbolici può essere pericoloso. Preferiamo distribuire la responsabilità, la visibilità su tanti imprenditori e non su pochi eroi solitari.”

Spesso per chi osserva questi eventi dall’esterno, si è avuta nel tempo la sensazione di avere periodicamente inferto duri colpi alla mafia, di avere tagliato la testa alla piovra. Però bene o male, anche quando i capi sembrano essere fuori circolazione, perché arrestato o sotto processo, ogni volta in realtà sembra che la mafia si riprenda, si rigenera, cambi volto. Oggi però si ha la sensazione come se ci fosse un vento positivo che sta scuotendo la Sicilia. Solo una sensazione o c’è qualcosa di vero? Può essere questa una strada per sconfiggere la mafia?
“Non c’è da farsi grosse illusioni: la mafia è un fenomeno che dura da secoli. Saremmo degli illusi se pensassimo di risolvere il problema in poco tempo. Naturalmente bisogna essere anche ottimisti e capire cosa avviene nella società: stanno avvenendo dei fatti epocali, che siano essi legati alla globalizzazione o semplicemente un fatto generazionale. Sta di fatto che c’è una situazione insopportabile: Sicilia, Calabria, gran parte del Sud Italia vive in Europa, e non possono continuare a vivere in questa condizione  di arretratezza come una sorta di malattia cronica che paralizza, altrimenti il nostro futuro, il destino dei nostri figli è di dover andare via perché non c’è sviluppo, non ci sono aziende estere che investono. Insomma ci sono una serie di indicatori molto preoccupanti, che dicono che bisogna voltare pagina. E questo lo stanno cominciando a capire le nuove generazioni che non sopportano più quello che hanno sopportato i loro padri. C’è un evidente elemento di rottura, ma naturalmente è una strada lunghissima perché il problema della Sicilia, il problema mafioso, il problema sociale va ben oltre il pizzo: il pizzo per noi è un grimaldello per coinvolgere i cittadini in una battaglia, in una presa di coscienza. Ma è una lotta enorme quella che c’è da fare: bisogna cambiare le istituzioni, la politica, la classe dirigente: c’è una rivoluzione straordinaria da fare. Forse la speranza è che indebolendo seriamente la mafia si possano risolvere anche gli altri problemi con maggiore facilità. Forse è un volo pindarico il mio, una acrobazia, ma sicuramente stiamo contribuendo a creare uno spazio più libero, un’area virtuosa di autodifesa comprendendo il territorio ad una organizzazione che non è solo quella militare ma va oltre. Noi fondiamo tutto sulla consapevolezza che questo fenomeno va combattuto non solo dalle forze dell’ordine ma anche dal cittadino, da ogni singolo imprenditore, altrimenti il cammino si riperpetuerà. Questo è il nostro principio guida: ogni singolo consumatore deve fare quotidianamente la sua scelta ed ogni imprenditore non deve aspettare che sia lo stato a mettere in galera il loro estorsore ma denunciare, fare arrestare e rifiutarsi di pagare perchè altrimenti ci sarà un altro mafioso che andrà a riscuotere il pizzo. E partendo da questo può darsi che pian piano nel tempo potremo anche ristabilire regole democratiche alla politica all’economia e rideterminare quelle condizioni di sviluppo che meritiamo, ma che in questa condizione non avverrà. Credo che la rottura sia avvenuta anche per questa consapevolezza che la situazione così non può andare avanti.
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 02, 2008, 04:07:44 pm »

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Uscendo fuori dall’argomento “informazione”, abbiamo avuto modo di parlare con i ragazzi di Addio Pizzo, ed abbiamo avuto una bella sensazione: la sensazione di respirare un’aria nuova in Sicilia, una voglia rinnovata di legalità. Si vede che sono ragazzi che hanno raccolto l’eredità di Falcone e Borsellino e che Rita Borsellino ha sapientemente raccontato in giro per le scuole. E anche tutto quello che succede da qualche anno a questa parte, dalla cattura di Provenzano a quella di Lo Piccolo, la presa di posizione di Confindustria nei confronti degli imprenditori che pagano il pizzo e che non hanno voluto denunciare. E' una sensazione reale quella di un nuovo corso in sicilia o è solo una bella sensazione ma che poggia sul nulla.

“E’ una buona ed autentica sensazione di novità, che viene da energie sane e vivaci autentiche della società siciliana, di giovani che hanno individuato nel pizzo il sottile ricatto endemico che colpisce tutti. In sicilia intere generazioni non hanno percepito il pericolo reale della mafia se non di fronte al piombo e alla gente martoriata per strada, perchè si riteneva che la mafia fosse altro da noi, altro dal tessuto sociale, quasi un corpo estraneo con il quale non dovevi fare i conti, se non trafficavi in droga, se non eri iscritto ad alcuna cosca e non eri iscritto a consorterie di alcun genere e facevi la tua tranquilla vita, probabilmente con la mafia non ci facevi i conti. Questa era l’opinione pubblica dominante. Il pizzo rileva invece che con la mafia, con il racket con la forza intimidatrice della sopraffazione della mafia chiunque può fare i conti. Chi legittimamente aspira ad un futuro migliore avviando una attività commerciale o imprenditoriale, si vede tassare indebitamente dalla mafia: una specie di soprattassa sicurezza. Questo è il modo in cui intere generazioni di commercianti e imprenditori hanno preso consapevolezza del fenomeno mafioso, ne hanno subito il ricatto e spesso hanno trovato un accomodamento. Il pizzo è la forma più subdola di mantenimento di un rapporto con l’organizzazione anche da parte di persone che legittimamente possono dirsi per bene, salvo nascondere in un angolo remoto della loro coscienza la cessione di una parte della loro liberta e del loro profitto a questa organizzazione” 

Quello del pizzo è un fenomeno più strettamente legato alla sicilia, perché dovrebbe interessare il resto del paese. Solo per una questione di solidarietà o c’è altro tipo di coinvolgimento del resto del paese?
“Intanto contesto il fatto che il pizzo sia un fenomeno solo siciliano. Potrei con una battuta potrei dire che oltre i cervelli abbiamo esportato anche il meglio della criminalità e dunque anche il modello di imposizione del racket lo abbiamo esportato in altre regioni del paese. Lo gestiscono anche meglio dei siciliani per esempio i calabresi. Ma al di la di questo su tutto questo c’è un problema: cosa vogliamo che sia la sicilia? Un mercato di consumi? Un luogo dove far nascere attività commerciali, attività di megastore, di outlet? Vogliamo che sia questo? Io lo contesto alla radice, ma comunque questo mi pare il modello prevalente e allora bisogna che qualcuno sappia che non c’è libertà di impresa dove c’è ricatto, non c’è libertà di impresa e autentica impreditoria dove c’è imposizione di soprattassa mafiosa, dove c’è una sicurezza a sovranità limitata delegata per buona parte alle organizzazioni criminali e mafiose. Se solo si accetta il modello neoliberista ci si dovrebbe rendere conto che quel modello cozza pesantemente con un tessuto criminale endemico: il pizzo è una forma di negoziato che espone un negoziante per bene alla necessità di trattare con i criminali,. E quando tratti cedi un po’ di te: cedi soldi e cedi disponibitlià. E attravero la forma sottile del pizzo si spiegano tante reti di interessi occulti che raccontiamo sulle pagine dei giornali tutti i giorni di persone insospettabili che si mettono al servizio della criminalità magari solo per ricambiare un favore, uno sconto sulla tassa esosa che gli era stata chiesta. 
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