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Autore Discussione: MARCHIONNE - LE STRATEGIE Il suo metodo caso di studio ad Harvard  (Letto 30132 volte)
Arlecchino
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« Risposta #45 inserito:: Luglio 23, 2018, 12:41:00 pm »

L’ANALISI

Sul marchio Jeep si fonda la scommessa del nuovo piano industriale

La riunione del vertice di Fiat Chrysler si è trovata ieri di fronte a un compito impossibile, la sostituzione di Sergio Marchionne. Non si può pensare infatti a un successore che prenda il suo posto, perché Marchionne il suo ruolo se lo è disegnato e ritagliato prima al Lingotto e poi ad Auburn Hills. Prima di lui non esisteva e dopo di lui sarà qualcosa di diverso, con una missione differente dalla sua, che se l’è largamente inventata, soprattutto nei primi dieci di guida di Fiat e di Fca dopo, quando se lo è definito quasi giorno per giorno.
Certo, resta il problema della sua eredità che è, insieme, cospicua e ingombrante. In primo luogo c’è da gestire un piano industriale 2018-2022, che Marchionne ha presentato lo scorso 1° giugno, ma che non sarà più lui a realizzare. È vero che era già nei programmi che fosse così, perché il suo mandato sarebbe dovuto scadere nella primavera del 2019, con la presentazione del bilancio. Ma ora le circostanze danno a questo passaggio un carattere più concitato, accentuandone i lati problematici. A questo cambio il consiglio Fca giunge un po' in ritardo, avendone forse sottovalutato le criticità e la congiuntura per alcuni versi drammatici che sta vivendo il sistema dell’auto a livello internazionale e che ne acuisce gli elementi di incertezza.
Oggi l’industria dell’auto sta mutando di pelle e di assetto sotto la spinta involontariamente convergente della tecnologia, che sta prefigurando scenari imprevisti, e della politica economica della presidenza Trump, che sembra puntare a una svolta protezionistica generalizzata. Per quanto riguarda il primo profilo, comunque si risolva la sfida lanciata da Elon Musk con la sua Tesla, è vero che alcune delle sue profezie si stanno per avverare, magari ad opera di altri produttori. Piattaforme elettriche, auto a guida assistita e autonoma, vetture concepite come computer non sono più i progetti assurdi di un visionario, ma i programmi operativi di tutte le maggiori case produttrici e dei loro principali fornitori. D'altro lato, anche quella di Trump potrebbe generare una rivoluzione sul piano della riconfigurazione dei mercati internazionali, seppure a partire da un'ipotesi demenziale come il protezionismo. Giovedì scorso sono convenuti a Washington i rappresentanti di tutta l'industria per cercare di spiegare al governo tutte le buone ragioni per cui una tariffa protezionistica potrebbe fare un gran danno all'automotive Usa. Non a caso, sono state consegnate oltre duemila note con tutte le obiezioni possibili alla politica governativa. Si vedrà se riusciranno a far recedere il presidente dai suoi propositi.
Mike Manley, che è un vero car gay di Detroit, dovrà misurarsi da subito con un simile scenario di trasformazione. Lo farà da una posizione di forza, perché è alla testa dei due marchi che oggi mietono i risultati migliori sui mercati, Jeep e Ram. Ma è su Jeep che si appuntano le attese più consistenti perché rappresenta la punta di lancia dell'offerta di prodotto di Fca. Oggi è questo il marchio su cui si fonda la scommessa del nuovo piano industriale. La performance di vendita è molto buona, non solo sul mercato nordamericano, ma anche in Europa e persino in Italia, dove le immatricolazioni delle vetture Jeep si è raddoppiata nel corso del primo semestre del 2018. Mantenere e incrementare questo ritmo di crescita è determinante per lo stabilimento di Melfi, dove si producono le Renegade (senza dimenticare che molte di esse hanno preso fino a oggi la strada dell'America).
Più interrogativi desta la sorte degli altri due marchi al centro del piano industriale, Alfa Romeo e Maserati, quelli che in un futuro non remoto potrebbero confluire in una sola unità, il presidio del «polo del lusso». Qui la partita appare più delicata perché la crescita in Europa del marchio Alfa, nel primo semestre di quest'anno, c’è stata, sì, ma non travolgente, reggendosi fondamentalmente su due modelli, Stelvio e Alfa, di cui il primo sta andando bene, meno invece il secondo. Maserati sconta invece una battuta d'arresto. Ma i numeri attuali non bastano per fare una concorrenza efficace alle auto di Mercedes, Bmw, Audi, Toyota e così via, in Europa ma nemmeno in Italia. Occorrerà investire e molto per ampliare rapidamente la gamma d'offerta, se si vorranno davvero incalzare i concorrenti. Ma, nello specifico, il piano industriale è apparso reticente, perché non ha dato scadenze precise agli investimenti previsti. Questo nodo dovrà essere sciolto presto, se ci si vorrà avvicinare alla quota quasi temeraria delle 400 mila vetture indicata come obiettivo per il 2022.
Mike Manley ha in definitiva davanti a sé un compito non solo arduo, ma un po' da inventare, un po' come ha fatto Marchionne in passato. Dovrà anche scegliere un proprio stile di gestione. E dovrà dimostrare di essere un bravo car Guy in generale, sensibile e capace di fronte alla realtà italiana come ha saputo esserlo a Detroit.

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Giuseppe Berta

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« Risposta #46 inserito:: Luglio 23, 2018, 01:35:31 pm »

L’ANALISI

La scommessa di Umberto Agnelli: in fabbrica un uomo della finanza

Alla fine dello scorso aprile, riepilogando i risultati del primo trimestre 2018, Sergio Marchionne aveva annunciato che la Fca era giunta, con oltre un miliardo di utili, a sorpassare la General Motors, il colosso americano sotto le cui insegne il gruppo torinese sembrava destinato a finire 15 anni prima, quando stava rischiando la bancarotta. Non solo. La Fca era anche in procinto di abbattere il debito, che si trascinava dietro dall’inizio del 2005, quando si dava pressoché scontato negli ambienti politici che la Fiat, l’ammiraglia del capitalismo italiano, sarebbe passata nelle mani delle banche creditrici. Essendo riuscito nell'impresa, a capo del tandem tra Fiat e Chrysler, che ben pochi, dopo la fusione tra le due firme dell’auto, ritenevano capace di una simile performance, Marchionne aveva lasciato capire chiaramente che intendeva concludere il suo mandato («La possibilità che resti nel gruppo dopo il 2019 - aveva detto - è tra zero e nessuna»). Non prima però di portare a termine un nuovo piano industriale per il futuro, una sorta di “rivoluzione” nelle fabbriche del gruppo, in quanto destinato, da un lato, alla realizzazione entro il 2021 di vetture elettriche e ibride a guida semi-autonoma, e dall’altro, a dare a addio negli stabilimenti di assemblaggio italiani alla Panda e alla Punto, per concentrare la produzione sui Suv, le Jeep e su modelli di alta gamma come Alfa Romeo e Maserati.
Eppure ben pochi avevano immaginato nel 2004 quando Umberto Agnelli, dopo la scomparsa l’anno prima dell'Avvocato, aveva cooptato Marchionne nel Board della Fiat per via delle capacità di cui aveva dato prova nella SGS, che il nuovo arrivato, in dimestichezza più con il mondo della finanza che con quello industriale, avrebbe potuto eccellere nelle nuove vesti di un manager al massimo livello, altrettanto risoluto nelle sue decisioni che sagace nell’organizzazione aziendale, al punto da allestire un efficace gioco di squadra, e per di più dotato di un singolare fiuto nell’orientarsi con successo in un mercato così difficile e continuamente mutevole come quello delle quattro ruote. Di qui l'indirizzo (dalla trasformazione del gruppo italo-americano in un perenne cantiere all'avveduta distribuzione ai soci di pochi dividendi, da un’attenzione assidua alle innovazioni tecnologiche all’elezione di un veicolo come la Jeep a prestigioso brand globale della Casa, nonché a principale voce attiva del bilancio della Exor) che Marchionne ha impresso, di concerto con John Elkan, a un percorso ancorché arduo e in alcuni momenti particolarmente accidentato come quello della Fca.
Di fatto sono stati questi i cardini della strategia vincente e, nel contempo, del «mito» che lungo la strada non solo i mass media hanno finito per creare intorno a questo personaggio pur schivo è riservato per indole e formazione, e incline per il resto a lavorare silenziosamente badando al sodo e mai pago dei risultati via via acquisiti. Del resto, le uniche sortite in pubblico che Marchionne si concedeva erano dovute alla sua passione per la Ferrari (di cui era divenuto presidente e amministratore delegato) che lo portava ogni volta che poteva, a presenziare ai box della “rossa” di Maranello in occasione delle gare della Formula Uno.

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Valerio Castronovo

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« Risposta #47 inserito:: Luglio 24, 2018, 12:34:12 pm »

L'era Marchionne è finita. Il nuovo ad di Fiat Chrysler è Mike Manley

Il responsabile del marchio Jeep assume la guida del gruppo dopo il cda straordinario convocato a causa del prolungarsi della degenza del manager italo-canadese, le cui condizioni stanno peggiorando.

Elkann: "Scelta di continuità aziendale"

21 luglio 2018, 19:50

L'era Marchionne è finita. Il nuovo ad di Fiat Chrysler è Mike Manley
Sergio Marchionne non è più l'amministratore delegato di Fiat Chrysler. Al suo posto è stato designato Mike Manley, responsabile del marchio Jeep e membro del Group executive council (Gec) dal primo settembre scorso. Secondo Automotive News, la guida della Ferrari andrà invece a Louis Camilleri, attuale numero uno di Philip Morris e già membro del cda della Rossa.

Peggiorano le condizioni di Marchionne
L'era Marchionne termina quindi con un anno di anticipo rispetto alle previsioni. Il manager italo-canadese è ricoverato, secondo le informazioni ufficiali, in una clinica svizzera per un intervento chirurgico e la sua degenza sembra protrarsi più delle previsioni. Dopo che in settimana "sono sopraggiunte " complicazioni inattese durante la convalescenza post - operatoria, "si sono ulteriormente aggravate nelle ultime ore" le condizioni del manager, comunica "con profonda tristezza" una nota di Fca in cui si dice che "il dottor Marchionne non potrà riprendere la sua attività lavorativa". Il Consiglio di Amministrazione di Fca ha espresso "innanzitutto la sua vicinanza a Sergio Marchionne e alla sua famiglia sottolineando lo straordinario contributo umano e professionale che ha dato alla società in questi anni".

Chi è il nuovo ad
Responsabile dal 2009 del marchio Jeep e, dall'ottobre del 2015, del brand Ram, Manley, 54 anni, nato in Gran Bretagna, è anche membro del Group Executive Council (GEC) di Fca dal primo settembre 2011. In precedenza, ha ricoperto il ruolo di Chief operating officer Asia (Apac) e ha diretto le attività internazionali di Chrysler fuori dell'area Area Nafta con la responsabilità di implementare gli accordi di cooperazione per la distribuzione dei prodotti del gruppo Chrysler attraverso il network internazionale di Fiat. Da dicembre 2008, inoltre, è stato Executive vice president - International sales e global product planning operations: in questa posizione, è stato responsabile della pianificazione prodotto e di tutte le attività di vendita al di fuori del Nord America.
Ha un Master of Business administration (Mba) conseguito presso l'Ashridge Management College.

L'era Marchionne è finita. Il nuovo ad di Fiat Chrysler è Mike Manley
 Mike Manley
La svolta della carriera di Manley, sottolinea il Corriere, arriva proprio quando viene nominato presidente e ad del marchio Jeep: "Lo aveva ammesso anche lui in una recente intervista: «La vera svolta della mia carriera c’è stata quando mi hanno dato l’incarico di guidare il marchio Jeep». Il marchio, aveva spiegato, «aveva grandi potenzialità di crescita e le abbiamo sfruttate bene, in meno di un decennio siamo passati da poco più di 300 mila veicoli venduti l’anno a 1,4 milioni e l’obiettivo è di salire ancora». Il merito del rilancio, insomma, in parte va proprio a lui".

"Tanto che nel 2011 gli viene offerto di entrare a far parte del Group executive council, l’organismo decisionale responsabile della supervisione dell’andamento operativo del business e delle decisioni su alcune scelte operative", prosegue il quotidiano, "si tratta del più alto organo decisione dopo il consiglio di amministrazione di FCA. Dal 2015 è anche a capo del marchio Ram, brand specializzato nella produzione di pickup e van. E anche qui Manley ha consolidato i buoni risultati: come ha spiegato qualche mese fa, dal 2009 il brand ha registrato una crescita del 163%".

Elkann: Marchionne un mentore e soprattutto un amico
L'amministratore delegato uscente di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, "per me è stato una persona con cui confrontarsi e di cui fidarsi, un mentore e soprattutto un amico. Ci ha insegnato a pensare diversamente e ad avere il coraggio di cambiare, spesso anche in modo non convenzionale, agendo sempre con senso di responsabilità per le aziende e per le persone che ci lavorano". Così il presidente del gruppo, John Elkann, nella nota in cui il Lingotto ha ufficializzato la sostituzione del manager italo-canadese con Michael Manley.

Marchionne "ci ha insegnato che l’unica domanda che vale davvero la pensa farsi, alla fine di ogni giornata, è se siamo stati in grado di cambiare qualcosa in meglio, se siamo stati capaci di fare una differenza. E Sergio ha sempre fatto la differenza, dovunque si sia trovato a lavorare e nella vita di così tante persone. Oggi, quella differenza continua a farla la cultura che ha introdotto in tutte le aziende che ha gestito e ne è diventata parte integrante. Le transizioni che abbiamo appena annunciato, anche se dal punto di vista personale non saranno prive di dolore, ci permettono di garantire alle nostre aziende la massima continuità possibile e preservarne la cultura. Per me - ha concluso Elkann - è stato un privilegio poter avere Sergio al mio fianco per tutti questi anni. Chiedo a tutti di comprendere l’attuale situazione, rispettando la privacy di Sergio e delle persone che gli sono più vicine.

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Da - https://www.agi.it/economia/mike_manley_il_nuovo_ad_di_fca-4184529/news/2018-07-21/
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« Risposta #48 inserito:: Luglio 25, 2018, 05:00:44 pm »

Com'è Marchionne

Se potesse leggere e comprendere, il manager si farebbe grasse risate dei necrologi che gli sono dedicati ancora in vita.

Più che su di lui, bisognerebbe riflettere su come media, opinion leader, intellettuali, politici e sindacalisti politically correct (cioè cooptati dal pensiero unico) ne stanno raccontando le gesta

Scritto da LORIS CAMPETTI 23 luglio 2018

Obituary in inglese, necrologio in italiano. “Coccodrillo”, invece, è il modo un po’ indecente usato nelle redazioni dei giornali per indicare l’articolo scritto in memoria del defunto. Per averlo pronto al momento giusto, cioè quando le agenzie ufficializzano il decesso del destinatario delle lacrime, il coccodrillo dev'essere compitato in anticipo, scritto già alle prime avvisaglie di una grave malattia o quando il protagonista ha superato i novant’anni; e dev’essere conservato religiosamente nel cassetto, pronto per l’uso. Forse non sono abbastanza cinico, oppure come giornalista valgo poco, fatto sta che ho sempre cercato di evitare di piangere il morto già da vivo. Dunque mi limiterò a digitare poche considerazioni su Sergio Marchionne, l’uomo che da vivo ha già conquistato il massimo immaginabile degli obituary. Se potesse leggere e comprendere, il manager si farebbe grasse risate. Più che su Marchionne, rifletterei su come media, opinion leader, intellettuali, politici e sindacalisti politically correct (cioè cooptati dal pensiero unico) ne stanno raccontando le gesta.

Scelgo il termine inglese, obituary, per rispetto nei confronti del personaggio, colui che “ha salvato la Fiat” dal catastrofico fallimento”, “il manager col golfino” che ha globalizzato un’azienda provinciale (ma quando mai?) sottraendola alla piccineria della provincia (Torino) e della nazione (l’Italia). Grazie a lui la Fiat oggi si chiama Fca (altro che Fabbrica Italiana Automobili Torino!), parla inglese e se c’è ancora qualche stabilimento aperto in Italia è solo grazie agli ammortizzatori sociali e ai soldi e ai sostegni della collettività nazionale e ai sacrifici degli operai e degli ex operai dell’automobile. E’ lui che ha preparato la propria successione alla Fiat, alla Cnh e alla Ferrari: due inglesi e un maltese, l’unico italiano in corsa, Altavilla, è stato trombato ed è in uscita dal caravanserraglio. Anche chi in passato ha criticato qualche scelta di Marchionne oggi dice: aiuto, arrivano i capi stranieri, che ne sarà di noi, che ne sarà di Mirafiori? Sì, perché adesso Mirafiori pullula di lavoratori, grazie alla strategia di Marchionne? Dio acceca chi vuol perdere e Marchionne ha avuto la capacità egemonica di cooptare anche gran parte di chi avrebbe dovuto essere l’antagonista.

Fateci caso: se un operaio muore di lavoro in fabbrica o nei campi normalmente è colpevole: di non aver fatto attenzione, di non aver rispettato le regole di sicurezza. Anche Sergio Marchionne probabilmente è morto di lavoro, mai un attimo di riposo, sempre preso da strategie, finanza, joint venture, visioni, acquisti e vendita di titoli, di fabbriche, di uomini e donne, la sua giornata “inizia alle 3,30” come ha più volte detto ai cronisti l’amministratore delegato della Fca. Ma lui, a differenza degli operai, non ha colpe, non ha compiuto errori. Gli ultimi quindici anni li ha passati al comando della più potente famiglia capitalistica italiana e di uno dei più antichi marchi automobilistici mondiali.

I due Marchionne
Primo Marchionne: tra le sue prime dichiarazioni una in particolare lasciò sperare in un cambiamento della secolare filosofia della Fiat e della famiglia proprietaria: l’incidenza del costo del lavoro per fare un’automobile non va oltre il sei-sette per cento rispetto ai costi totali per l’azienda. Dunque il problema non sono gli operai, i loro stipendi, i loro diritti e i loro sindacati, ma la strategia della proprietà e la capacità e la visione del management. E da questi secondi elementi che dipende gran parte della produttività. E scusate se è poco.

Secondo Marchionne: costo eccessivo della mano d’opera, troppi lacci e lacciuoli, troppo potere sindacale. In cambio del lavoro, ha detto a Pomigliano, quindi a Mirafiori e poi dovunque, dovete rinunciare a scioperi e diritti, via il contratto nazionale per avere un’aspettativa di futuro. Ci credettero quasi tutti, con l’esclusione della Fiom e tra gli applausi del centrosinistra, del centrodestra, della destra estrema, dei sindacati compatibili.

Il Marchionne filosofo
Ha descritto con parole semplici e chiare, come sua abitudine, la nuova way of life, il principio regolatore del nuovo ordine capitalistico e politico mondiale: noi siamo una nave da guerra e abbiamo un obiettivo: conquistare un porto, un’isola, un braccio di mare. I rematori stanno sotto, in mezzo le varie figure sociali necessarie alla navigazione e al combattimento e sopra, al comando, ci sono io. Abbiamo tutti lo stesso obiettivo militare e strategico, tra noi non può esserci conflitto perché siamo sulla stessa barca (è finita la lotta di classe verticale). Allora chi è il nemico? Ovvio, l’altra nave da guerra che vuole conquistare lo stesso porto, la stessa isola, lo stesso braccio di mare. I nemici dei nostri rematori sono i rematori della nave da guerra concorrente (e siamo alla lotta di classe orizzontale, cioè alla guerra tra poveri). Ha fatto strada e proseliti, Marchionne, con la sua filosofia. E’ uscito da Confindustria e ha espulso i sindacati indipendenti perché ha decretato la fine dei corpi intermedi e perché per il secondo Marchionne la “fedeltà” è tornata a farla da padrona, più e prima della qualità. Ora il capo di Confindustria dice: “Aveva ragione lui”, idem i capi dei sindacati devoti. E già quando Marchionne era al top e non aveva sentori del male, al massimo si schiantava senza troppi danni a duecento all’ora con la Ferrari nel suo paese-rifugio svizzero, il capo del Pd Matteo Renzi decretava: “E’ più utile lui agli operai che la Cgil”, e il suo accolito Fassino: “Se fossi un operaio voterei sì”.

“Visionario”, “Coraggioso”, “geniale”, “tenero”
Lo piange e lo elogia in anticipo anche Farinetti il figlio del partigiano, Franzo Grande Stevens lo paragona a Voltaire e Bertinotti precisa: “Non si attaccano gli uomini sul personale ma per cosa rappresentano”. Marchionne che non può essere criticato rappresenta il capitalismo che si può attaccare, come se tutti i capitalisti fossero uguali, Olivetti e Agnelli per me pari sono? Il vecchio Olivetti diceva che nella sua azienda chi guadagnava di più non poteva avere uno stipendio più di sei volte maggiore di chi guadagnava di meno, Marchionne guadagnava cinquecento volte più di un suo operaio di terzo livello, senza calcolare stock option e benefit. Cioè un qualsiasi Cipputi dovrebbe lavorare cinquecento anni per guadagnare quel che Marchionne guadagnava in un anno soltanto.

Un po’ italiano, un po’ canadese, un po’ svizzero (per il fisco). Americano nel profondo e, come da sempre la famiglia Agnelli, governativo. Democratico con Obama per mettere le mani sulla Chrysler, filo-Trump per salvare il salvabile e il primo a chiudere fabbriche in Messico per produrre automobili là dove l’uomo dei dazi vuole che si produca: negli Usa. Con Obama aveva già trasportato innovazione e ricerca dall’Italia oltre oceano. Filo-Renzi, amore corrisposto, anche se dal sindaco d’Italia il manager con il golfino si aspettava di più.

Se penso a tutte le cose che ho scritto negli anni contro il truce Romiti, lo “sciafela leun” (schiaffeggia leoni), oggi mi viene da dire: preferivo Romiti, avversario vero e leale, non era Voltaire ma voleva battere il nemico in campo aperto e non espellendolo dal certame cambiando le regole.

Comunque, Marchionne, quando verrà il tuo giorno, che la terra ti sia lieve.

LORIS CAMPETTI

Loris Campetti ha lavorato al “manifesto” dalla seconda metà degli anni Settanta fino al 2012, occupandosi in particolare di lavoro, sindacato e economia. Collabora con testate italiane e straniere. Saggista, è autore di "Non Fiat" (Cooper Castelvecchi), "Ilva connection" (Manni) e "Non ho l’età/ Perdere il lavoro a 50 anni" (Manni). Nelle librerie, nei prossimi giorni, "Ma come fanno gli operai. Precarietà, solitudine, sfruttamento. Reportage da una classe fantasma" (Manni)

Da - https://ytali.com/2018/07/23/come-marchionne/
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 25, 2018, 05:04:25 pm »

IL RITRATTO

Cosa succede ora a Fca con Manley?
Gli scenari: fusione, alleanza o vendita

Perché Torino ha scelto il capo della Jeep, primo straniero alla guida del Lingotto.
Quei colloqui in Cina e le ipotesi della Hyundai.

Ecco gli scenari

Di Bianca Carretto

Michael Manley, il nuovo amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles, non ha nulla di somigliante con Sergio Marchionne, l’ex numero 1 di Fca e Ferrari scomparso oggi, mercoledì 25 luglio, all’età di 66 anni. Inglese, longilineo, senza apparenti slanci emotivi (come dimenticare gli abbracci forti di Sergio), abituato a vivere più in America che in Europa, soprattutto non in Italia. Si è occupato dei mercati asiatici ed è Ceo di Jeep, il marchio più remunerativo del gruppo. Forse questa è stata la ragione principale della sua scelta, da parte di un board che si trova di fronte ad una svolta epocale dopo l’uscita di Marchionne.

La storia di Manley
Si è messo già al lavoro. Il primo appuntamento è stato, lunedì e martedì, la riunione a Torino, al Lingotto, del Gec (Group Executive Council), l’organismo decisionale del gruppo, costituito dai responsabili dei settori operativi e da alcuni capi funzione e guidato dall’amministratore delegato. In tutto una ventina di top manager che fanno quindi riferimento a Manley. Il Gec - articolato in quattro strutture principali: ambiti regionali, brand, processi industriali, funzioni corporale - si riunisce una volta al mese in sedi diverse e la scelta di Torino era già stata fatta. Il secondo, mercoledì stesso, con gli analisti, per presentare i conti di Fca.

Una società che ora potrà decollare sempre più verso gli Stati Uniti, dove il brand Jeep viene maggiormente prodotto. Il possibile spostamento dall’altra parte dell’Atlantico — già temuto dai sindacati della Fim- Cisl che chiedono in una nota a Manley continuità industriale, accelerazione degli investimenti e sicura occupazione per le fabbriche italiane — potrebbe anche essere una conseguenza legata alla politica di Trump che condiziona ormai tutte le case costruttrici europee e non solo. La minaccia del presidente americano di imporre dei diritti doganali del 25% sulle vetture importate condiziona qualsiasi scelta.

L’industria dell’automobile ha sempre costituito un simbolo politico molto forte negli Stati Uniti, le vetture prodotte in Europa e in Asia contano, nella realtà, meno di un quarto del mercato. La metà dei veicoli venduti negli Usa sono costruiti in loco (oltre il 55%), più un altro 25% in Canada e in Messico. In questi ultimi anni le case straniere hanno stanziato miliardi di dollari in Usa per attivare nuovi stabilimenti, sviluppando il loro business. Nel solo primo trimestre del 2018 queste ultime, hanno superato i veicoli costruiti negli Stati Uniti dalle tre «big» di Detroit, Gm, Ford e Fca. Questo panorama, dopo l’uscita di Marchionne, non accelera quel processo di convergenze verso altre industrie del settore. Marchionne non ha mai voluto vendere ma ha sempre sostenuto che «é necessario pulire il titolo di Fca dai suoi componenti non strettamente automobilistici per creare più valore per gli azionisti».


Manley, oltre ad affrontare lo sviluppo della vettura elettrica e autonoma che necessita di forti investimenti, dovrà scegliere un partner per avere il sostegno necessario, indispensabile, in questo incerto settore, in costante mutazione. Il piano industriale presentato da Marchionne il 1 giugno era indubbiamente un segnale mandato ad un possibile alleato. Giovedì scorso Fca ha avviato lo scorporo di Magneti Marelli che sarà registrata sia alla Borsa di Amsterdam che a quella di Milano, secondo un documento che Reuters ha potuto consultare, seguendo la procedura analoga a quella messa in atto per Cnh Industrial e Ferrari. Secondo gli analisti, Magneti Marelli, può valere tra i 3,6 e i 5 miliardi di euro. I mercati finanziari si aspettavano da Marchionne un altro dei suoi colpi di teatro, la scoperta di una collaborazione concreta. Manley, che conosce l’Asia, potrebbe approcciare Hyundai che più volte è stata ritenuta adatta per una cooperazione industriale. Un’ipotesi intrigante anche se il marchio Jeep, iconico per gli americani, non potrà mai essere traghettato al di fuori del territorio a stelle e strisce. Si parla anche molto di una divisione ad hoc per i marchi Alfa Romeo e Maserati, il famoso polo del lusso che necessita di investimenti elevati per decollare un’immagine ancora troppa flebile. Interessati potrebbero essere gli americani di Ford che hanno in cantiere già sia l’auto senza guida che quella elettrificata. Manley non ha un compito di rapida soluzione, considerando che dovrà prima capire il mondo Fca, nella sua complessità.

25 luglio 2018 (modifica il 25 luglio 2018 | 12:16)
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Da - https://www.corriere.it/economia/18_luglio_25/cosa-succede-ora-fca-manley-scenari-fusione-alleanza-o-vendita-morto-sergio-marchionne-202dd238-8ff1-11e8-9e3d-9a7bf81b9c8e.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 25, 2018, 05:39:28 pm »

Marchionne, una storia riformista

Se ci sono ancora Pomigliano e Melfi è grazie a lui. Senza di lui si vedono già nuvole all'orizzonte
 
Molto prima della sinistra, Sergio Marchionne aveva capito che la sfida dei riformisti è accettare la globalizzazione e in un certo senso “sfruttarla” per costruire qualcosa di avanzato.

La socialdemocrazia europea e mondiale invece in questi anni si è baloccata nella coltivazione dell’orticello nazionale, difendendo “il welfare in un solo paese” (il proprio) e le bellissime conquiste degli anni Sessanta e Settanta. Intanto il mondo andava avanti, seppellendo le vecchie certezze e ponendo i riformisti dinanzi a domande nuove: come reggere le sfide della mondializzazione, dell’automazione, della conoscenza, dell’impoverimento crescente di tanta parte del pianeta?

Ecco, mentre la socialdemocrazia si rinchiudeva, l’avversario impazzava, con tutti i mezzi, fino al big crash del 2008. E fu in quel torno di tempo che un uomo venuto dal nulla chiamato Sergio Marchionne si trovò lì, all’appuntamento con una storia nuova: prendere la globalizzazione per le corna, se si può dir così.

E vinse la sfida. “Senza di lui non sarebbe stata possibile l’operazione con Chrysler che ha salvato la Fiat”: in 16 parole Piero Fassino, uno che la Fiat l’ha conosciuta bene, sintetizzò tempo fa quell’impresa. E invece Marchionne salvò la Fiat, una volta compreso, come disse a Gabetti davanti a due uova strapazzate, che “la Fiat è tecnicamente fallita”. Andando negli USA per la gigantesca operazione Chrysler, salvò gli stabilimenti. I posti di lavoro. Se esiste ancora Mirafiori, pur irriconoscibile dagli anni della “Torino operaia e socialista” raccontata da tanti sindacalisti nel Novecento, lo si deve a lui. Se ci sono ancora Pomigliano e Melfi è grazie a lui.

Ricordate il drammatico referendum? “Lo stabilimento di Pomigliano era sostanzialmente chiuso – ha ben rievocato il capo della Fim Marco Bentivogli – quasi tutti i lavoratori erano a casa, inizialmente la Fiat pensava, dopo il no della Fiom, che noi ci saremmo accodati ma Fim, Uilm, Ugl e Fismic furono intransigenti nel proseguire il negoziato e arrivammo all’accordo. Pomigliano doveva avere un futuro, e così fu nonostante dentro Fiat, e non solo, una parte del vertice puntava sul ‘no corale’ di tutto il sindacato, per poter andar via veramente dall’Italia, perché dopo Pomigliano, ci sarebbero state Melfi, Cassino e Mirafiori. Quel ‘sì’ invece, riaprì la partita. E Marchionne mantenne il patto con noi”.

Senza di lui – perché questo è il crudele destino suo, un destino che molto evoca della singolarità della sua anomala biografia –  si vedono già nuvole all’orizzonte. In tempi di sovranismi e nazionalismi, la lezione di Sergio Marchionne è una bussola per quei riformisti che hanno il compito di vincere su un destino che pare segnato.

Da - https://www.democratica.com/focus/marchionne-fiat-fca-riformismi-pomigliano-mirafiori-torino/
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« Risposta #51 inserito:: Agosto 01, 2018, 05:14:19 pm »

L'analisi.
Marchionne e il capitalismo, ha lasciato un segno in due modelli differenti

Giorgio Ferrari
mercoledì 25 luglio 2018

Era destinato a non piacere a nessuno: gli italiani lo consideravano un alieno e gli americani un perfezionista durissimo. Mancherà a entrambi

Sergio Marchionne (1952-2018)

Se riuscissimo per un istante a liberarci dell’abbraccio un po’ soffocante con cui detrattori storici e ammiratori dell’ultima ora circondano oggi Sergio Marchionne, avremmo ben chiaro un fatto: questo manager figlio di un maresciallo dei carabinieri, partito da Chieti e approdato in Canada, in Svizzera, e poi a Auburn Hills, Michigan per guidare una Fca americana e internazionale che non era più Fiat ma in fondo un po’ ancora lo era, era destinato a non piacere a nessuno.

Non agli italiani, che l’hanno immediatamente considerato un alieno, un traditore della Confindustria, uno spietato servo del padrone capace unicamente di accontentare gli interessi dell’azionista e quasi per nulla quello dei dipendenti, ridotti per sua mano a poche decine di migliaia; e in fondo nemmeno agli americani, che nel funambolico manager che era riuscito a salvare la Fiat vendendola di fatto alla Chrysler senza poter dire chi delle due ci avesse davvero guadagnato vedevano anche loro un perfezionista maniacale, arrogante e durissimo ('ruthless', spietato, diceva di sé) anche senza essere un vero wasp. Non meravigliamoci troppo. Marchionne si ergeva come il Colosso di Rodi alla confluenza di due mondi che mal si conciliano fra loro: una gamba poggiava su quello maxweberiano-postfordista fondato sul conflitto e sul puro spirito del capitalismo caro agli americani, l’altra su quello consociativo-familistico caro agli italiani (e non solo a loro). In entrambi ha lasciato un segno profondo.

Soprattutto in America, dove ha ammaliato sia Obama sia Trump: il primo per come ha sedotto e accontentato la working class dell’automotive (il cui voto confluì massiccio garantendogli la rielezione del 2012), il secondo per come – in modo trionfalmente americano – ha avuto quel successo che è alla base del mito fondante del Nuovo Mondo. E che il mondo fosse davvero nuovo lo aveva capito da tempo: non solo portando la testa e la cassa della Fiat a Londra e a Amsterdam, ma recidendo molte delle sue radici in Italia a favore di una visione globale che i poco coraggiosi capitani d’industria nostrani (chi si ricorda ormai di Raul Gardini e Carlo De Benedetti, che negli anni Ottanta affollavano fra l’ammirazione mondiale le copertine di Time e Newsweek?) oggi nemmeno osano pensare. «Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia», ammise un giorno, riconoscendo con Max Weber il pericolo della virgiliana auri sacra fames, la sacra (ma soprattutto esecrabile) cupidigia dell’oro. Ma capì anche che l’etica degli affari postulata un secolo prima non era più attuabile. Più di ogni altra cosa detestava la mediocrità e la sciatteria. Lascia scritto: «Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere, non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno». Esemplare quasi come quella sua stranota considerazione, quasi un epitaffio: «Non ho mai capito perché gli operai americani mi ringraziano per aver salvato loro la pelle, mentre quelli italiani vorrebbero farmela». In realtà lo sapeva benissimo: per un decennio ha regnato su due mondi diversi, nessuno necessariamente migliore dell’altro. Mancherà certamente a entrambi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://www.avvenire.it/economia/pagine/marchionne-e-il-capitalismo-ha-lasciato-un-segno-in-due-modelli-differen
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« Risposta #52 inserito:: Agosto 10, 2018, 05:22:24 pm »

IL PERSONAGGIO

Il manager che cambiò Fiat e un po’ l’Italia

Sergio Marchionne se ne è andato. Rimane la sua eredità, consistente e radicale. Una eredità con una doppia, ambivalente, natura: Marchionne è stato sia un uomo di sistema sia un outsider. Negli Stati Uniti e in Italia. Allo stesso tempo un capobranco e un maverick, i capi di bestiame privi di marchio lasciati liberi di correre nelle praterie del Far West.
Il manager italocanadese ha modificato profondamente l’industria dell’auto internazionale. In questo non è stato mai solo. Lui è l’ultimo di uno schiatta di manager provenienti da altri settori che, poco per volta, dagli anni Novanta hanno preso piede in una industria dominata per un secolo dai car guy, i ragazzi dell’auto americani e tedeschi, per lo più ingegneri cresciuti con l’ossessione della produzione e delle tecnologie e senza esperienze in altri campi.
Il manager italocanadese ha lasciato un segno indelebile nella economia, nella società e nella politica italiane. In questo, da un certo punto in avanti, è stato solo. Ma soltanto da un certo punto in avanti. Nei suoi primi anni, ha infatti operato insieme alle banche e ai sindacati del nostro Paese per evitare il disonore del fallimento alla Fiat. È stato un autentico uomo di sistema, in grado di collaborare pienamente con le banche che hanno garantito alla Fiat e alle finanziarie degli Agnelli Elkann il sostegno necessario e capace di tessere relazioni proficue e personali con i sindacalisti italiani, perfino quelli della Fiom-Cgil. La scossa al corpo morto della Fiat non si poteva dare senza l’accordo – o, almeno, la stima e il rispetto reciproco – del sindacato. Di tutto il sindacato. È il periodo del “Marchionne socialdemocratico” che piace alla sinistra. In realtà, dietro quella formula si cela un “Marchionne manifatturiero e produttivista”, che sa che la Fiat si risana ripartendo dalle fabbriche, e si riflette anche la sua identità personale: figlio di un carabiniere, con simpatie giovanili di sinistra e senza alcuna sottomissione o senso di inferiorità verso il corpo elitario novecentesco che fino ad allora aveva dominato da Torino, per un secolo, il Paese.
Poi, nel 2009, capitano due cose. La prima è che convince Barack Obama a cedere la Chrysler alla Fiat. La seconda è che non riesce a indurre la Merkel e il sindacato tedesco a dargli la Opel. Il fallimento del progetto a tre fulcri –Italia, Stati Uniti e Germania – porta alla definitiva americanizzazione della Fiat. I referendum del 2010 di Pomigliano d’Arco e di Torino e l’uscita nel 2011 da Confindustria sono il risultato dell’ingresso della globalizzazione nelle fabbriche italiane, con l’idea che la contrattazione nazionale sia un non senso logico, non comprensibile dagli investitori internazionali e inadatto a gestire organismi manifatturieri e finanziari internazionalizzati. E nell’organismo Fiat-Chrysler inizia a scendere rapidamente la quota – sul fatturato e sugli addetti – dell’Italia, che alla fine si attesterà – per entrambi gli indicatori – sotto il 10 per cento.
Lo scontro con la Fiom sfiora la violenza, almeno verbale. E si ripercuote sul suo rapporto con il Paese. È di allora la frase, pronunciata di fronte alle accuse di incostituzionalità delle nuove relazioni industriali Fiat a un convegno dei Cavalieri del lavoro: «In Italia qualcuno ha aperto le gabbie e sono usciti tutti».
Marchionne è, in Italia, solo. Ma, in quel momento, non lo è negli Stati Uniti. Non solo per il rapporto con Barack Obama, che vede in lui il manager che ha evitato l’assorbimento di Chrysler in una delle due altre case automobilistiche di Detroit e l’attuatore del suo neo-ambientalismo industriale basato sulla introduzione negli Stati Uniti di automobili più piccole e con consumi più bassi. Marchionne è un uomo di sistema anche per via del legame con lo Uaw - lo United Auto Workers – che cede alla Fiat quote crescenti di Chrysler alla Fiat e che diventa una sorta di funzione aziendale aggiunta in azienda. Qua lo scontro con la Fiom è durissimo. Là lo Uaw è il principale partner di Marchionne per ribaltare le vecchie (e inefficienti) logiche di gestione degli impianti. Gli operai e i sindacalisti americani amano Marchionne più dei funzionari e dei dirigenti industriali di vecchia scuola, che si ritrovano tagliati fuori dal World Class Manufacturing, metodo di gestione comune dei plants fra Michigan e Ohio.
Marchionne, dunque, affina nel tempo questa sua natura elementare e ambigua, articolata e nitida. In Italia, le classi dirigenti raccolte intorno a Matteo Renzi, soprattutto nel periodo della “rottamazione” antisistema, guardano con ammirazione la sua capacità – industriale, finanziaria e di diritto societario - di creare dalla Fiat e da Chrysler la Fca e di essere parte integrante del grande cambiamento americano incentrato su Barack Obama. In questo passaggio – fra il 2012 e il 2015 – in Italia Marchionne è più “cercato dagli altri” di quanto non sia “con gli altri”. E raccoglie non poche critiche. In particolare, i suoi progetti industriali di miglioramento del paesaggio industriale italiano – con la valorizzazione di Alfa Romeo e di Maserati – non sono apprezzati da chi ne osserva la continua rimodulazione al ribasso: il polo del lusso, già ipotizzato nel 2014 all’incontro con gli investitori a Auburn Hills, diventa sempre più sottile e aereo, i numeri prospettati non si raggiungono, il desiderio di un corpo a corpo con i tedeschi – un modello di Alfa per ogni modello di Bmw – si trasforma in una chimera.
Marchionne è, negli Stati Uniti, un uomo solo nel 2015. Il progetto di fusione con General Motors non incontra i favori del management di quest’ultima, delle classi dirigenti della Detroit Area e del Michigan, della presidenza americana e di Wall Street. È, quella, la mancata chiusura del cerchio del suo progetto imprenditoriale.
Marchionne è morto ieri. Ha detto John Elkann: «L’uomo, l’amico se ne è andato». I discorsi di Marchionne erano densi di riferimenti letterari. Un paio di volte ha citato Emily Dickinson. Chissà se ha mai letto i suoi versi: «Ha una sua solitudine lo spazio, solitudine il mare e solitudine la morte».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
@PaoloBricco
Paolo Bricco

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180726&startpage=1&displaypages=2
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 10, 2018, 05:46:40 pm »

La squadra di top manager il vero nodo per il nuovo corso

Al vertice del mercato europeo Manley potrebbe designare un italiano

Con un piano industriale ambizioso, che punta alla svolta dell’elettrificazione, alla guida autonoma e al potenziamento entro il 2020 dei marchi chiave (Jeep in testa seguito da Alfa Romeo e Maserati), la squadra dei manager in Fca diventa un elemento chiave per dare esecuzione a un programma che porterebbe il Gruppo italoamericano a diventare un reale competitor dei più grandi gruppi automobilistici.
Fra i primi impegni che attendono il nuovo amministratore delegato di Fca Mike Manley (e il Cfo Richard Palmer) c’è quello di sostituire il dimissionario Alfredo Altavilla nel ruolo di responsabile del mercato Emea. Lo stesso Altavilla, che di fatto ha sbattuto la porta viste le sue ambizioni di salire sul trono di Fiat Chrysler, pur motivando l’intenzione di lasciare il Gruppo «per perseguire altri interessi professionali» ha assicurato il suo supporto fino alla fine di agosto a Manley che ha assunto ad interim la carica di Chief operating officer dell’area Emea (Europa, Africa e Medio Oriente). E si tratta di una delle aree più strategiche per il gruppo italoamericano. Certo il vecchio Continente non ha le prospettive di crescita della Cina (dove i numeri di Fca restano contenuti), ma i numeri sono imponenti: nell’area Ue allargata all’Efta nel 2017 sono state vendute 15,6 milioni di auto (8,7 nei primi sei mesi del 2018 ed Fca ha commercializzato oltre un milione di vetture (856mila nei primi mesi) con volumi simili; il mercato europeo è quindi per Fca strategico.
Fra le ipotesi emerse nelle ultime ore c’è l’ipotesi che Manley potrebbe designare al vertice del mercato europeo un manager italiano, visto che a lui toccherà il compito di confrontarsi con i sindacati e le istituzioni oltre a occuparsi dell’allocazione e armonizzazione degli stabilimenti. Non dimentichiamoci che in Italia, in Polonia e anche in Turchia ci sono fabbriche fondamentali e i poli produttivi di brand strategici come Alfa Romeo in primis, di grande blasone come Maserati e regionali ma sempre importanti come Fiat. E proprio sul marchio italiano, il piano industriale ha previsto una riorganizzazione della gamma con modelli nuovi il cui sviluppo è affidato al ramo nostrano di Fca. Tra l’altro in Italia dovrebbe essere prodotta la baby Renegade Jeep, altro punto da gestire per il nuovo Ceo che proprio sul marchio Usa si giocherà la partita.
Fra i candidati alla successione (ipoteticamente ci sarebbe secondo indiscrezioni Pietro Gorlier, attuale responsabile di Mopar (la divisione componenti e parti speciali) e di Magneti Marelli, società quest’ultima in uscita dal Gruppo con il conseguente possibile via libera di Gorlier al governo delle attività del vecchio continente. Un super manager, sorta di ufficiale di collegamento, tra i vari brand potrebbe non essere indispensabile visto che Fca è organizzata con responsabili globali e regionali dei singoli brand.
Tra i papabili ci potrebbe essere Daniele Mele, attuale deputy Ceo di Emea, già inserito nell’organigramma o ancora Antonino Filosa, al momento numero uno per Fca del cruciale mercato latino-americano. Fra gli impegni del successore di Alfredo Altavilla (o dello stesso Manley) ci potrebbe essere il possibile cambio dei vertici di alcune funzioni all’interno della regione Emea, per essere pronto subito dopo la pausa estiva a rispondere alle richieste sui nuovi modelli e sugli impianti dove verranno prodotti sulla base di quanto annunciato a giugno nel piano industriale.
Da definire anche la nuova piattaforma su cui si baseranno i due brand premium Alfa Romeo e Maserati visto che l’ipotesi di scorporo dal resto del gruppo resta prematura fino a quando Alfa Romeo non farà margini adeguati. Infine Manley deve fare affidamento sul marketing e qui l’uomo chiave è il francese Olivier François.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Mario Cianflone

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180726&startpage=1&displaypages=2
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 25, 2018, 06:11:50 pm »

LE STRATEGIE
Il suo metodo caso di studio ad Harvard

B. Bertoldi e R. S. Kaplan

Il nostro obiettivo era studiare come era stato fatto in Chrysler. Ci siamo dovuti ricredere: l’eccezionalità del caso era il gruppo di leader che in pochi mesi aveva fatto ribattere il cuore di un’azienda in arresto cardiaco attraverso visione, dedizione e convinzione fuori dal comune.
La teoria manageriale ha definito che leadership ha a che fare con il cambiamento: definire la direzione, allineare le persone, motivarle e ispirarle; e che management ha a che fare con la complessità: pianificare e fare budget, organizzare e assegnare le risorse, controllare e fare problem solving. Nelle aziende le due attività sono svolte da figure diverse; nelle università le due scienze sono studiate da scuole diverse. Marchionne ha creato un nuovo stile fondendo leadership e management: uno stile che prevede di gestire un gruppo di leader pianificando, facendo problem solving, decidendo con il gruppo seduta stante; facendo tutto questo il leader guida un gruppo di leader non di manager.
Questo nuovo stile di leadership ha bisogno che tre elementi siano eccezionali: il gruppo, i suoi membri e il suo leader. Un gruppo per essere eccezionale ha bisogno di un significato, di una sfida che valga la pena di essere affrontata: nelle parole di Marchionne: «Siamo qui e lo facciamo perché abbiamo una missione». Il gruppo non ha struttura piramidale con cariche definite, ognuno è giudicato in base a come fa il suo lavoro; non è una democrazia, è una comunità basata sul merito e la passione. Il gruppo è anche un’aristocrazia perché essere parte di un gruppo di manager eccezionali ti definisce come tale; non vi si partecipa per soldi o per ego ma per essere parte della missione.
I membri di un gruppo eccezionale devono essere: volontari, neofiti e dedicati. Volontari perché entrare a far parte del gruppo è difficile, solo i più bravi riescono ed è un onore. La mentalità da neofita è necessaria per risolvere in modo nuovo, con soluzioni ingenue problemi complessi. Senza la dedizione non è possibile eccellere: non hai tempo per la vita reale se stai facendo la storia. In una delle conversazioni avvenute durante la ricerca Marchionne disse: «Tutti i membri del progetto 500 avevano meno di quarant’anni. Non sapendo che quello che dovevano fare era impossibile, lo hanno fatto. Il mio ruolo è stato di assicurarmi che non facessero cose stupide e di proteggerli dalla cultura di allora che sapeva solo dire non si può fare».
Il leader di un gruppo eccezionale deve essere un pragmatico sognatore, mettere nel gruppo persone migliori di lui, rimanere sempre il più intelligente nella stanza. Il pragmatico sognatore rende la missione concreta e seducente. Scovare i talenti che possono fare cose che il gruppo non sa fare è necessario per rendere il gruppo migliore del suo leader e della somma dei singoli.
Le riunioni del gruppo sono momenti di tensione positiva in cui ogni membro mette tutto sé stesso per affrontare e risolvere i problemi dei suoi colleghi e dell’azienda. In questi momenti il leader deve essere riconosciuto come il più intelligente nella stanza. Nelle parole di un membro del Gec: «Durante gli incontri la tensione è palpabile, è come se si deformasse la realtà e tutto andasse più veloce. Te ne accorgi quando Sergio esce: è come passare da un 45 giri a un 33, tutto si rallenta». La cadenza mensile delle riunioni dei comitati impone il ritmo al gruppo con un sistema simile a una pentola a pressione dove i leader si trasformano da acqua a vapore e “cucinano i problemi” più velocemente, il Cfo misura i tempi di cottura e l’hr verifica la tenuta delle guarnizioni e attiva la valvola di sfiato quando c’è troppa pressione. Il leader decide il piatto da cucinare e ne definisce gli ingredienti.
In 14 anni la capacità di violare i confini della scienza manageriale guidando un gruppo di leader ha permesso cose straordinarie ed impensabili: le resurrezioni di Fiat e di Chrysler sono le più evidenti ma ve ne sono molte altre. La dedizione di un leader straordinario alla guida di uno straordinario gruppo di leader ha reso possibile tutto questo, come ci ha detto Marchionne durante la ricerca: «Tutte le 300mila persone di Fiat Chrysler guardano ininterrottamente i loro leader. Il leader deve essere onesto nel suo lavorare per il meglio dell’azienda e deve essere un esempio, sempre. Se li tradisci una volta, sei finito. Hai perso la fiducia che ispiri. Come Ceo ho solo due diritti: quello di scegliere i leader con cui lavorare e i valori che guidano l’azienda». Sono questi i valori che ha ricordato nell’ultima sua apparizione pubblica in occasione della consegna della Jeep Renegade all’Arma: «Mio padre era un maresciallo dei Carabinieri. Sono cresciuto con l’uniforme a bande rosse dell’Arma e ritrovo sempre i valori con cui sono cresciuto e che sono stati alla base della mia educazione: la serietà, l’onestà, il senso del dovere, la disciplina, lo spirito di servizio».
Oggi certo è un giorno triste ma è soprattutto un giorno di responsabilità per quel gruppo di leader che ora ha il privilegio di dover preservare la cultura che Marchionne ha lasciato e di continuare nell’impegno a perseguire la missione di Sergio e delle aziende cui lui ha ridato la vita.
Quando all’Harvard Business School abbiamo iniziato la ricerca per Sergio Marchionne at Chrysler eravamo convinti che l’eccezionalità del caso fosse nelle tecniche e nelle operazioni di finanza applicate nei primi 18 mesi. La teoria manageriale aveva stabilito da tempo che per eseguire un turnaround si fermano le vendite per non bruciare cassa, si bloccano gli investimenti e si taglia costi e persone.

Il nostro obiettivo era studiare come era stato fatto in Chrysler. Ci siamo dovuti ricredere: l’eccezionalità del caso era il gruppo di leader che in pochi mesi aveva fatto ribattere il cuore di un’azienda in arresto cardiaco attraverso visione, dedizione e convinzione fuori dal comune.
La teoria manageriale ha definito che leadership ha a che fare con il cambiamento: definire la direzione, allineare le persone, motivarle e ispirarle; e che management ha a che fare con la complessità: pianificare e fare budget, organizzare e assegnare le risorse, controllare e fare problem solving. Nelle aziende le due attività sono svolte da figure diverse; nelle università le due scienze sono studiate da scuole diverse. Marchionne ha creato un nuovo stile fondendo leadership e management: uno stile che prevede di gestire un gruppo di leader pianificando, facendo problem solving, decidendo con il gruppo seduta stante; facendo tutto questo il leader guida un gruppo di leader non di manager.
Questo nuovo stile di leadership ha bisogno che tre elementi siano eccezionali: il gruppo, i suoi membri e il suo leader. Un gruppo per essere eccezionale ha bisogno di un significato, di una sfida che valga la pena di essere affrontata: nelle parole di Marchionne: «Siamo qui e lo facciamo perché abbiamo una missione». Il gruppo non ha struttura piramidale con cariche definite, ognuno è giudicato in base a come fa il suo lavoro; non è una democrazia, è una comunità basata sul merito e la passione. Il gruppo è anche un’aristocrazia perché essere parte di un gruppo di manager eccezionali ti definisce come tale; non vi si partecipa per soldi o per ego ma per essere parte della missione.
I membri di un gruppo eccezionale devono essere: volontari, neofiti e dedicati. Volontari perché entrare a far parte del gruppo è difficile, solo i più bravi riescono ed è un onore. La mentalità da neofita è necessaria per risolvere in modo nuovo, con soluzioni ingenue problemi complessi. Senza la dedizione non è possibile eccellere: non hai tempo per la vita reale se stai facendo la storia. In una delle conversazioni avvenute durante la ricerca Marchionne disse: «Tutti i membri del progetto 500 avevano meno di quarant’anni. Non sapendo che quello che dovevano fare era impossibile, lo hanno fatto. Il mio ruolo è stato di assicurarmi che non facessero cose stupide e di proteggerli dalla cultura di allora che sapeva solo dire non si può fare».
Il leader di un gruppo eccezionale deve essere un pragmatico sognatore, mettere nel gruppo persone migliori di lui, rimanere sempre il più intelligente nella stanza. Il pragmatico sognatore rende la missione concreta e seducente. Scovare i talenti che possono fare cose che il gruppo non sa fare è necessario per rendere il gruppo migliore del suo leader e della somma dei singoli.
Le riunioni del gruppo sono momenti di tensione positiva in cui ogni membro mette tutto sé stesso per affrontare e risolvere i problemi dei suoi colleghi e dell’azienda. In questi momenti il leader deve essere riconosciuto come il più intelligente nella stanza. Nelle parole di un membro del Gec: «Durante gli incontri la tensione è palpabile, è come se si deformasse la realtà e tutto andasse più veloce. Te ne accorgi quando Sergio esce: è come passare da un 45 giri a un 33, tutto si rallenta». La cadenza mensile delle riunioni dei comitati impone il ritmo al gruppo con un sistema simile a una pentola a pressione dove i leader si trasformano da acqua a vapore e “cucinano i problemi” più velocemente, il Cfo misura i tempi di cottura e l’hr verifica la tenuta delle guarnizioni e attiva la valvola di sfiato quando c’è troppa pressione. Il leader decide il piatto da cucinare e ne definisce gli ingredienti.
In 14 anni la capacità di violare i confini della scienza manageriale guidando un gruppo di leader ha permesso cose straordinarie ed impensabili: le resurrezioni di Fiat e di Chrysler sono le più evidenti ma ve ne sono molte altre. La dedizione di un leader straordinario alla guida di uno straordinario gruppo di leader ha reso possibile tutto questo, come ci ha detto Marchionne durante la ricerca: «Tutte le 300mila persone di Fiat Chrysler guardano ininterrottamente i loro leader. Il leader deve essere onesto nel suo lavorare per il meglio dell’azienda e deve essere un esempio, sempre. Se li tradisci una volta, sei finito. Hai perso la fiducia che ispiri. Come Ceo ho solo due diritti: quello di scegliere i leader con cui lavorare e i valori che guidano l’azienda». Sono questi i valori che ha ricordato nell’ultima sua apparizione pubblica in occasione della consegna della Jeep Renegade all’Arma: «Mio padre era un maresciallo dei Carabinieri. Sono cresciuto con l’uniforme a bande rosse dell’Arma e ritrovo sempre i valori con cui sono cresciuto e che sono stati alla base della mia educazione: la serietà, l’onestà, il senso del dovere, la disciplina, lo spirito di servizio».
Oggi certo è un giorno triste ma è soprattutto un giorno di responsabilità per quel gruppo di leader che ora ha il privilegio di dover preservare la cultura che Marchionne ha lasciato e di continuare nell’impegno a perseguire la missione di Sergio e delle aziende cui lui ha ridato la vita.
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Bernardo Bertoldi e Rob Steve Kaplan

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