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Autore Discussione: D’Alema, la sindrome del migliore  (Letto 2598 volte)
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« inserito:: Maggio 31, 2008, 04:51:35 pm »

D’Alema, la sindrome del migliore


di Antonio V. Gelormini


E’ da quando portava i calzoni corti che è abituato a primeggiare e
confrontarsi con riferimenti e appellativi che alla lunga, vuoi o non vuoi,
ti formano e ti segnano per tutta la vita. Tanto per cominciare, alla
nascita lo chiamano già: Massimo. A nove anni, da pioniere comunista, è
capace di far dire a Palmiro Togliatti, il Migliore di allora: “Capirai, se
tanto mi dà tanto questo farà strada”. E la strada, nel partito e per il
partito, è stata quella di una vita. Sempre in prima linea, senza spostarsi
mai di un centimetro.

Maturare la consapevolezza di non essere, ma ancor più di non sentirsi,
secondo a nessuno è stato alla lunga un processo quasi naturale. Stoffa e
tempra non sono mai mancati. Le tappe della sua carriera lo testimoniano in
maniera inequivocabile. Un po’ meno le modalità con cui i traguardi sono
stati, di volta in volta, conquistati. Anche se poi i brillanti risultati,
quasi sempre perseguiti, ne hanno inevitabilmente legittimato le scelte.

Si ha l’impressione che ad essere il primo ci abbia fatto il callo. Tanto da
vivere con fastidio, quasi maniacale, il solo fatto che qualcuno possa
camminargli davanti. Insomma, spazio a tutti: quando lo meritano. Ma
possibilmente e rigorosamente sempre un passo dietro a lui.

Nasce da questo l’insofferenza spontanea e negata nei confronti dell’altro
“figlio del partito”. Dell’altro “bravo della classe”.  Quello più amato dai
compagni. Che da sempre, è vero, riconoscono lui come leader maximo, ma ogni
qualvolta c’è da scegliere è all’altro che fanno affluire sempre una valanga
di voti. E’ come un incubo. Una sorta di “fattura” che lo perseguita, da
quando quel compagno con gli occhialoni cominciò a fargli “ombra” già ai
tempi delle Frattocchie.

Che si trattasse di quello dei fax, per la segreteria del Pds, o di quello
delle Primarie per la segreteria del Pd, il popolo lo ha sempre preferito e
sommerso di consensi. Una legittimazione il cui piacere, al “migliore”, non
è mai stato concesso di assaporare. Davvero insopportabile. Come
l’accorgersi del rischio di perdere quota e terreno nei confronti del centro
e di quel mondo cattolico, che dà segno di preferire l’interlocutore più
ecumenico e più in sintonia con modi e linguaggi curiali, meno spigolosi e
poco taglienti.

La brizzolatura avanza, ma a fare il padre nobile nel partito nuovo proprio
non ci sta. A suo parere, Walter continua troppo a giocare con le ombre.
Sarà la passione per il cinema, ma la sua frontiera è posizionata troppo
lontana. Lui, invece, è abituato a confrontarsi con strategie e visioni
molto più pragmatiche. Magari il punto d’arrivo sarà comune, ma su come e
quando arrivarci le posizioni restano inevitabilmente divergenti.

Decisione, strategia e organizzazione del partito rappresentano il suo pane
quotidiano. Certo gli Affari Esteri lo affascinano e ogni tanto sembra voler
prendere e distanze dai fatti di casa nostra. Ultimamente sono i temi
filosofici e letterari a tener campo con la sua Fondazione. In verità, è
fremente l’attività sottotraccia dei suoi proconsoli; per schierare
opportunamente le truppe in vista di un congresso, che più tardi arriverà
meglio gli consentirà di predisporre le forze sul territorio.

E’ come se l’antagonismo storico tra Giovanni Amendola e Pietro Ingrao
riprendesse forma, nella contesa attuale tra un rinnovato riformismo
migliorista e l’inossidabilità di un approccio più radicale alla politica,
declinato nella versione critica di un più moderno “massimalismo”.

Brandendo il vessillo della laicità, cerca il recupero di una sinistra
smarrita. E’ come se volesse ricordare a tutti che lui i Vangeli con l’Unità
non li avrebbe mai pubblicati. A meno che Famiglia Cristiana non avesse
deciso di regalare in allegato, non dico il Capitale di Karl Marx, ma almeno
“Le lettere dal carcere” di Antonio Gramsci.         
(gelormini@katamail.com)               

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