Cerco di mettere un po' d'ordine in quanto scritto, per passare da una citazione di intenzioni a qualcosa di meno fumoso da affidare a tutte le vostre rimostranze.
La proposta di detassazione degli straordinari ha sollevato grande clamore ed è stata invocata come misura di ridistribuzione efficace del reddito prodotto e di interesse per le sorti sociali ed economiche del Paese.
Noi non la pensiamo così, pensiamo che dietro questa proposta ci sia una concezione non aderente alle necessità di una società moderna e che tenda più che altro a garantire la redditività massima del capitale investito, col minimo rischio a danno di tutta la società.
Per una riflessione partiremmo dall'enunciato della proposta governativa.
Detassazione straordinariAl fine di incrementare la produttività del lavoro, nel secondo semestre 2008 a partire dalla busta paga di luglio, lo straordinario e i premi di produttività dei dipendenti nel settore privato sarà tassato del dieci per cento. La misura è valida per i redditi non superiori a 30 mila euro. Il provvedimento è stato emanato in via sperimentale e dura fino a dicembre 2008. Cerchiamo una esemplificazione individuando le parole chiave.
- a) Reddito inferiore ai 30.000 euro.
- b) Tassazione degli straordinari al 10%.
- c) Tassazione dei primi legati alla produttività al 10%.
- d) Tetto massimo del reddito con tassazione ridotta 3.000 euro.
Rivedendo gli scaglioni IRPEF interessati abbiamo una massimo ammontare di:
390 per i redditi più bassi fino a 15.000 euro
510 per i redditi fino a 28.000 euro
760 per i redditi oltre i 28.000 euro
Insomma dai 32 ai 63 euro circa mensili.
Quindi l’intervento vale circa da un terzo alla metà del valore indicabile come perdita del potere d’acquisto per inflazione.
Questo provvedimento avrebbe 2 obiettivi: ridistribuire ricchezza per le famiglie in crisi e migliorare la produttività. La leva sarebbe quella della motivazione sul lavoro ed il riconoscimento del merito.
Veniamo al primo punto: ridistribuzione della ricchezza. E' un po' difficile pensare che anche i 62 euro mensili in più possano dare serenità e far riprendere slancio alla domanda. Siamo in un mercato unico europeo, un'unica moneta e prezzi al consumo molto più allineati che nel passato.
Allora dobbiamo guardare al gap delle retribuzioni italiane rispetto a quelle dell'area euro.
Se guardiamo le statistiche delle retribuzioni medie sono necessarie cifre moltiplicate di un fattore cinque, rispetto a quelle indicate dal provvedimento.
Inoltre una parte dell'incremento retributivo in busta paga prospettato è legato a dei meccanismi in cui oltre alla partecipazione del dipendente contano molto fattori di scelta imprenditoriale, investimenti sul prodotto, sul ammodernamento del ciclo produttivo scelte strategiche dell'azienda, in cui il dipendente di solito non mette nulla di proprio. Ci riferiamo ai premi di produttività e la valutazione degli obiettivi laddove ci siano mutue scelte dei lavoratori tramite la loro rappresentanza e l'azienda. Spesso questi non sono contemplati per le piccole e medie imprese.
Allora tutto è legato al riconoscimento degli straordinari, cioè il raggiungimento del riconoscimento economico previsto dal provvedimento è legato solo all'allungamento dell'orario di lavoro.
Tutto si gioca sul costo del lavoro, ancora oggi. Abbiamo il costo del lavoro fra i più bassi in Europa, l'economia è asfittica ed ancora la nostra classe dirigente punta a salvaguardare il profitto col minimo capitale investito.
Ancora dietro questa proposta si cela anche una forte discriminazione di genere, anche per tutta la concezione del welfare espressa dalla maggioranza.
Si propongono tagli di tassazione a scapito dei servizi sociali, come si spera che le donne possano vivere completamente la propria vita e contemporaneamente poter accedere alla maggiore remunerazione degli straordinari?
E' solo il culmine di una manovra tutta tesa ad impoverire ulteriormente le nostre tasche e la nostra vita.
Circa il significato che oggi dovrebbe avere un diverso rapporto fra produttività e retribuzione per favorire il merito citiamo un interessante articolo di Fabrizio Montanari (Università di Modena e Reggio Emilia) su Ticonzero per individuare alcuni spunti.
1 – L’importanza dei sistemi di incentivazione
La retribuzione monetaria ha tradizionalmente assunto il ruolo di bilanciare la relazione di scambio tra i lavoratori nella loro prestazione d’opera e le imprese nella remunerazione dello sforzo del lavoro ricevuto. Il sistema retribuito, o premiante, occupa una posizione centrale come elemento regolatore delle relazioni tra persone ed organizzazioni, le cui risultanti possono essere interpretate almeno rispetto a tre distinte visioni:
• un rapporto di scambio economico, nella sua versione più semplice di
• scambio tra lavoro e remunerazione;
• un rapporto di scambio psicologico attraverso il quale si definiscono e si regolano le attese reciproche, con particolare riferimento ai principali diritti e doveri;
• un rapporto di appartenenza che definisce i prestatori di lavoro come membri dell’impresa e persone che compongono il soggetto economico dell’impresa stessa.
Qualunque sia l’interpretazione di fondo del rapporto tra persone ed organizzazione, è indubbio che esso contenga una relazione di scambio regolata dal sistema premiante. Le variabili di base dei sistemi di remunerazione sono riassumibili in tre classi: i contributi forniti dal prestatore di lavoro all’impresa; le ricompense ottenute; gli algoritmi di correlazione tra contributi e ricompense, ossia le logiche di parametrazione dei contributi rispetto alle ricompense.
Tanto in letteratura quanto nella pratica manageriale si sono sviluppati negli anni numerosi studi ed approcci volti ad individuare le logiche che permettessero un più equo, efficace ed efficiente legame tra contributi erogati ed incentivi offerti.
Il tema del rapporto tra comportamenti individuali e sistema di incentivi è di grande attualità. Negli ultimi anni, numerosi libri e articoli hanno enfatizzato l’importanza del fattore umano per il successo delle organizzazioni: le aziende che vogliono avere successo nei mercati globali devono dotarsi di un adeguato capitale umano con abilità, competenze e capacità migliori rispetto a quello dei propri concorrenti (e.g. Cappelli, 1999; Pfeffer, 1994, 1998). Il riconoscimento della centralità delle persone nella determinazione del vantaggio competitivo conduce ad una maggiore attenzione alle pratiche di gestione delle risorse umane, soprattutto ai sistemi retributivi. Questi ultimi, infatti, rappresentano uno degli strumenti più importanti per attrarre, trattenere e motivare le persone con le caratteristiche idonee al perseguimento degli obiettivi aziendali (Costa, 1997). I sistemi di incentivi costituiscono anche un potente mezzo per allineare gli obiettivi individuali con quelli organizzativi, minimizzando fenomeni di azzardo morale o selezione avversa (Eisenhardt, 1989, Roberts, 2007). In altre parole, attraverso l’implementazione di adeguati sistemi di incentivi è possibile ridurre il potenziale di opportunismo e allineare i comportamenti individuali con quelli desiderati dall’organizzazione.
Quindi ad un nuovo modo di intendere il rapporto lavoratore impresa i saggi nostri governanti oggi puntano tutto sul capitale lavoro e nulla sugli investimenti per migliorare sia la redditività del prodotto, sia la capacità produttiva per ora lavorata, sia la costruzione di una migliore collaborazione lavoratore – impresa.
Sono interessanti il ruolo dei diversi livelli di contrattazione e delle organizzazioni dei lavoratori.
Sarebbe interessante proporre forme contrattuali di riconoscimento:
• sia del raggiungimento dei risultati previsti aziendali generalizzato a tutti i dipendenti;
• sia il riconoscimento per coloro che hanno espresso migliore professionalità.
Per il secondo bisognerebbe introdurre criteri di valutazione che oltre al raggiungimento di obiettivi individuali misurabili, comprenda anche la valutazione che questi non siano conseguiti solo con l'allungamento dell'orario di lavoro. Cioè privilegiare la creatività e la capacità di innovazione e non la sola disponibilità oraria.
Per le azienda di piccole dimensioni ed a alto contributo di contratti atipici, precari o flessibili, c'è bisogno di una rappresentanza sindacale al tavolo delle trattative a prescindere dalle tessere presenti.
Questi criteri affiancati a leve di tipo fiscale che favoriscono un innalzamento del contributo professionale nella produzione dei beni e servizi, alla creazione di strutture (agenzie) di coordinamento orizzontale (territoriale) e verticale (per categoria merceologica) per favorire la ricerca ed innovazione può portare alla riduzione del gap retributivo fra l'Italia ed il resto del mondo avanzato.
Non parliamo poi dell'esclusione degli statali dalla riduzione del carico fiscale sugli straordinari.
Emergono per gli statali ci sono due pregiudizi:
• che gli statali siano lavoratori di serie B;
• che ci sia un'intollerabile visione di condanna per chi non ha mezzi propri per acquisire i
servizi offerti dallo stato, per cui si offre il servizio meno valido possibile (un'autentica esclusione di cittadinanza per chi non è ricco).
Veniamo al secondo punto: la produttività. Ci sono due modi di intendere la produttività:
la prima è la quantità di prodotto e di fatturato per persona impiegata nel ciclo produttivo;
la seconda è la quantità di prodotto e di fatturato per ora lavorata.
La scelta del governo va tutta vero la prima concezione, ho un dipendente ne devo ricavare il massimo, con il minimo investimento possibile.
La seconda dipende dalla professionalità delle risorse, dalle scelte di posizionamento sul mercato, dagli investimenti sul prodotto, dagli investimento sul miglioramento del ciclo produttivo per adattarlo a professionalità più alte e più remunerate.
Non a caso dal provvedimento sono escluse tutte le fasce di lavoratori a più alta professionalità. Un fattore critico in Italia è dato dallo scarso impiego di lavoratori a più alta preparazione formativa nella produzione, ci sono meno diplomati e laureati nel ciclo produttivo e spesso sono impiegati per qualifiche non adeguate.
A testimonianza del dibattito riportiamo un articolo pubblicato da Marco Panara su Affari & Finanza di Repubblica.
La competitività non dipende dal costo del lavoro
I salari italiani sono più bassi che negli altri paesi avanzati, che però guadagnano lo stesso quote di mercato. D'altra parte i livelli di Cina o India sono irraggiungibili. Sarebbe ora di affrontare il problema nei suoi termini reali
Marco Panara
Una multinazionale europea (non italiana) nel settore meccanico, che ha stabilimenti in 23 paesi, ha messo a confronto il salario orario che paga ai suoi dipendenti. Le differenze sono impressionanti: si va da 28,69 euro l' ora in Svezia fino a 0,49 euro l' ora in India. Quella multinazionale ha stabilimenti anche in Italia dove, per un' ora di lavoro, spende 18,03 euro. Per rendere più chiaro il confronto abbiamo preso la remunerazione in Italia (18,03 euro = 100) e misurato su questa base la remunerazione di un' ora di lavoro negli altri paesi.
Anche tenendo conto che non è un dato generale ma una esperienza specifica e concreta, quello che ne emerge dovrebbe farci riflettere molto. Per un' ora di lavoro in Germania quella multinazionale spende una volta e mezzo rispetto a quanto spende in Italia, il trenta per cento in più lo spende negli Stati Uniti, il 15 per cento in più in Francia. Solo l' 8 per cento in meno lo spende in Spagna e il 10 per cento in meno in Corea.
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COSTO ORARIO DEL LAVORO
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Paese Euro all'ora Indice (Italia = 100)
Svezia 28,69 159,12
Germania 27,14 150,53
Giappone 25,42 140,99
Stati Uniti 24,29 134,72
Francia 20,88 115,81
Belgio 19,71 109,32
Italia 18,03 100,00
Spagna 16,72 92,73
Corea 16,39 90,90
Portogallo 6,01 33,33
Turchia 5,23 29,01
Repubblica Ceca 4,54 25,18
Ungheria 4,33 24,02
Argentina 4,12 22,85
Brasile 3,43 19,02
Messico 2,97 16,47
Polonia 2,55 14,14
Sud Africa 2,25 12,48
Marocco 2,10 11,65
Cina 1,98 10,98
Romania 1,74 9,65
Tunisia 1,52 8,43
India 0,49 2,72
Se si passa agli altri il confronto è assolutamente impari: rispetto all' Italia un' ora di lavoro in Portogallo costa un terzo, un po' meno costa in Turchia, un quarto nella Repubblica Ceca e in Ungheria, per scendere fino a un decimo in Cina e Romania e un quarantesimo in India. Non tutti gli stabilimenti producono le stesse cose e richiedono lo stesso livello di formazione, ma non sempre e non necessariamente il livello di sofisticazione delle produzioni corrisponde al livello dei salari.
Non ci interessa qui comprendere cosa aspetta la multinazionale in questione a spostare tutte le sue attività in India, avrà per fortuna le sue ragioni. Quello che ci interessa è capire cosa ci dice questo confronto sull' Italia e sui suoi destini.
La prima cosa che ci dice è che il costo del lavoro in Italia è tra i più bassi nel gruppo dei paesi industrializzati. Tra quelli censiti in questa occasione solo la Spagna e la Corea sono sotto di noi e neppure di molto, mentre la maggioranza ha un costo del lavoro più alto, e questo non sembra essere un vincolo determinante per esempio alla capacità di mantenere o accrescere la propria quota del commercio mondiale. Il fatto che l' Italia perda posizioni nel commercio mondiale mentre la Germania o il Giappone, che hanno un costo del lavoro sostanzialmente più alto, invece no, ci fa capire con chiarezza che non è il costo del lavoro la chiave della nostra perdita di competitività né per un suo eventuale recupero.
Abbiamo impegnato anni a discutere e scontrarci su questo punto, ma basta guardare i dati della tabella che pubblichiamo per capire che tutto quel tempo e quell'impegno sono stati spesi male: l'abisso che ci separa non solo dall' India e dalla Cina, ma anche dalla Repubblica Ceca e dall' Ungheria è tale che a meno di un impoverimento generalizzato e rivoluzionario del nostro paese è impensabile e non auspicabile colmare.
Il problema però esiste, perché la perdita di competitività dell' Italia non dipende dal fatto che lavoriamo poco, poiché anzi lavoriamo più ore della media dell' Europa a 15, dipende piuttosto dal fatto che ciascuna ora di lavoro non sempre produce tutto il valore che sarebbe necessario per consentirci di essere sicuri del nostro presente e ottimisti sul nostro futuro.
Ci sono molti modi per capire meglio la natura di questo problema. Andrew Warner, senior economist alla Millennium Challenge Corporation, ha fatto uno studio accurato sulla produttività del lavoro nei vari paesi, e uno dei parametri che adotta è la crescita del pil per ora lavorata. Ebbene, tra il 1995 e il 2000 la crescita del pil per ora lavorata è stata del 9,20 per cento in Irlanda, paese leader di questa classifica, tra il 2,2 e il 2,6 per cento nel Regno Unito, in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, solo dell' 1,73 per cento in Italia, fanalino di coda tra i 18 paesi presi in considerazione.
In quello stesso studio Warner individua quattro barriere alla crescita della produttività oraria e mette a confronto su di esse i vari paesi. Le barriere sono: la formazione, l' organizzazione del lavoro, le normative e la qualità delle infrastrutture. In tutti e quattro la posizione dell' Italia è peggiore di quella degli altri grandi paesi industrializzati e, nel caso delle infrastrutture, è tra le peggiori in assoluto. Le conclusioni alle quali questa analisi ci porta è che puntare sulla compressione del costo del lavoro per rilanciare la competitività dell' Italia non solo non è realistico ma rischia di essere un grave errore strategico. Il che non vuol dire che il costo del lavoro è una variabile indipendente, ma che in questo momento della storia e dell' economia mondiale, quello su cui si deve incidere assai più che il costo è invece il contenuto del lavoro.
Bisogna aumentare da una parte la produttività e dall' altra il valore delle cose prodotte, in maniera tale da remunerare adeguatamente il lavoro e il capitale e consentire di porre le premesse per un aumento costante ed economicamente sostenibile dei redditi e del benessere futuro. E' una questione che riguarda tutti, la politica e le istituzioni, la pubblica amministrazione, le imprese e i sindacati. La scelta è tra puntare sulla crescita della produttività e del valore delle produzioni, oppure come è accaduto negli ultimi anni limitarsi a mantenere il modello produttivo e competitivo esistente cercando finché possibile di tenerlo in piedi comprimendo i costi.
Ovviamente non ci possiamo permettere di buttare via nulla, né sarebbe giusto farlo, quindi lo sforzo che le imprese stanno facendo per restare a galla è legittimo e anche lodevole. Se però dopo la resistenza non si passa alla crescita, per molti rischia di essere solo un prolungamento dell' agonia.
Ma cosa vuol dire scegliere di puntare sulla crescita della produttività e del valore delle produzioni? Vuol dire cambiare mentalità. Vuol dire concentrarsi sui problemi veri e impegnarsi per rimuovere le barriere all' aumento della produttività, investire in tecnologia, in formazione, in qualità manageriale. Vuol dire aumentare la flessibilità del lavoro, che serve come il pane, ma che è utile al sistema se rende più efficiente l'organizzazione del lavoro, e diventa invece negativa se rende il lavoro precario al solo scopo di abbassarne il costo. Vuol dire esaminare ogni legge, già in vigore o nuova, valutandone la comprensibilità, la semplicità di applicazione, l' effetto sulla modernizzazione del sistema. Vuol dire rischiare uscendo dai settori tradizionali non aspettandosi di raccogliere già domani. Vuol dire capire che i problemi dell'Italia di oggi non sono quelli di vent'anni fa e che gli strumenti di vent'anni fa non sono più quelli giusti per risolverli.
Pensiamo che si indichi chiaramente che il problema della produttività in Italia non è legato ad un aumento delle ore lavorate.
Qui emerge tutta le debolezza dell'economia italiana, su Repubblica è stato pubblicato un articolo di Spaventa sulla mancanza di investimenti sull'innovazione in Italia.
Le colpe delle imprese
Luigi Spaventa - La Repubblica
Esistono mille buone ragioni per modificare il sistema contrattuale nel mercato del lavoro: non solo un miglioramento di efficienza; ancor più, come argomentano da tempo Pietro Ichino, Tito Boeri, Pietro Garibaldi, una riduzione delle iniquità causate dalla coesistenza di un assetto rigido e antiquato con esperimenti di liberalizzazione privi di reti di protezione, normativa e sindacale.
Fra quelle ragioni, tuttavia, ve n’è una che persuade proprio poco, perché non regge alla verifica. Al convegno di Santa Margherita dei "giovani imprenditori" (che non devono essere poi tanti, se nel 2006 in neppure il 2 per cento delle imprese industriali gli imprenditori avevano non più di 35 anni, mentre in oltre 50 per cento ne avevano più di 56), la presidente signora Guidi ha sostenuto che un maggior spazio della contrattazione aziendale (e magari individuale) risolverebbe il problema della bassa produttività del lavoro.
Ma si può davvero credere che il disperante andamento negli ultimi sette anni – nell’industria manifatturiera produttività in calo nel quinquennio 2001-2005 e piatta nell’ultimo biennio – sia imputabile all’assetto contrattuale nazionale, e non piuttosto a scelte ragionate delle imprese?
Se il livello e la dinamica della produttività del lavoro dipendessero in prevalenza dall’impegno dei lavoratori, pur condizionato dal regime contrattuale, dovremmo concludere che negli ultimi vent’anni si è verificato un impigrimento collettivo della cosiddetta forza lavoro. Si sa invece che le determinanti principali sono la dotazione di capitale e, ancor più, il ritmo dell’innovazione, che migliora l’efficienza dei processi produttivi ed è misurato dalla produttività totale dei fattori. Nell’industria in senso stretto (un aggregato più ampio della manifatturiera) il calo della produttività del lavoro fra il 2001 e il 2006 è spiegato da una riduzione ancor più vistosa della produttività totale dei fattori, mentre è aumentata di poco l’intensità di capitale.
L’industria italiana, dunque, non ha innovato (la spesa privata in ricerca e sviluppo in rapporto al prodotto è pari alla metà di quella media europea) e ha investito poco. Le ragioni? Usiamo le parole di una relazione della Banca d’Italia, che fra i problemi della bassa crescita dell’economia italiana mette al primo posto «la capacità di innovare del sistema produttivo»: «L’aumento nella flessibilità dell’utilizzo, la lunga fase di moderazione salariale e la rapida crescita dei flussi migratori hanno reso meno costoso l’impiego del fattore lavoro rispetto al capitale». Si è scelto così un modello basato sulla crescita dell’occupazione piuttosto che sull’investimento e sull’innovazione; e neppure troppo attento al merito individuale, se è vero che «i premi aziendali sembrano poco correlati ai risultati».
L’andamento della produttività dipende dunque da scelte libere, e legittime, delle imprese, che il regime contrattuale non sembra aver condizionato più di tanto (se non, come, si è visto, per una maggiore flessibilità). Piuttosto, al di là di noti condizionamenti esterni (eccesso di regolazione, inadeguatezza delle infrastrutture pubbliche, istruzione insufficiente), vi erano condizionamenti interni al sistema produttivo: soprattutto una struttura dimensionale e una composizione della produzione difformi da quelle dei maggiori Paesi europei, che hanno ostacolato l’adattamento al nuovo mondo della tecnologia e della concorrenza internazionale.
L’investimento, l’innovazione, e dunque la produttività, sono inversamente correlati alla dimensione; i processi di riconversione produttiva sono lenti e costosi. Non sorprende che, per anni, queste difficoltà abbiano provocato scelte difensive e di retroguardia e, pertanto, gli esiti di produttività sopra richiamati.
Le scelte delle imprese non dipendono, grazie a Dio, da un contratto, nazionale o aziendale (e si vorrebbe che non dipendessero per nulla da interventi pubblici).
Ma esiste un altro contratto implicito, che alla lunga ne indirizza i comportamenti in vista del profitto: quello del libero scambio in un mercato globale. Gli effetti, benefici, si cominciano a vedere. Da un paio d’anni, mentre è aumentata la mortalità nell’universo delle imprese, quelle che rimangono si rafforzano, per sopravvivere: «La crescente pressione competitiva…e la disciplina del cambio…sono tra i principali fattori che hanno messo in moto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano, attraverso un’intensa riallocazione di risorse…in favore delle imprese più efficienti e profondi cambiamenti nelle strategie aziendali».
È ripresa la crescita delle esportazioni; in alcuni settori l’andamento della produttività ha invertito il segno. La riforma del sistema contrattuale serve: ma, per creare sviluppo, serve soprattutto che il cambiamento del modello seguito per troppo tempo dalle imprese italiane continui e si consolidi.
La conclusione è che l’intervento proposto dal governo è ampiamente negativo, non risolve nulla e tende ad ampliare ancora tendenze negative della nostra economia.
Diremmo che comunque l’uso della leva fiscale per ridistribuzione del reddito non è vincente e non risolve il problema.
Cosa fare allora. PropostaLa proposta deve andare verso l’attirare fondi ed investimenti sul settore produttivo per ammodernare sia il prodotto che il ciclo di produzione.
Alcune proposte possono essere:
a) innalzamento della tassazione sui redditi finanziari al 20%, come dappertutto nel mondo occidentale;
b) rivedere i percorsi formativi della scuola e dell’università per favorire il miglioramento delle competenze;
c) invogliare capitali italiani e stranieri per investimenti su produzioni ad alto contenuto tecnologico e/o artigianali di pregio, utilizzando la leva fiscale, il miglioramento delle infrastrutture fisiche e di comunicazione digitale;
d) esercitare un ruolo politico di mediazione affinché i contratti nazionali recepiscano la necessità di ridistribuire il reddito verso i lavoratori dipendenti;
e) incentivare, con la leva fiscale, la formazione sul lavoro per favorire la riconversione della produzione;
f) istituire una contrattazione di secondo livello che favorisca il riconoscimento del merito nella partecipazione ai risultati aziendali e che non penalizzi i lavoratori delle piccole e medie imprese che spesso non hanno un’adeguata rappresentanza sindacale, per la partecipazione ai seguenti risultati sulla base:
1) sia del raggiungimento dei risultati previsti aziendali generalizzato a tutti i dipendenti;
2) sia il riconoscimento per coloro che hanno espresso migliore professionalità.
Quindi la proposta di detassazione sul lavoro straordinario apre la finestra a tutta la concezione del mondo produttivo e del lavoro.
Il lavoro atipico va completamente ridisegnato nella normativa per evitare la precarizzazione a vita. Pensiamo che l'economia non possa essere solo quella dei call center a basso contenuto di competenze. Spesso molti laureati finiscono lì perché sanno parlare in modo convincente in italiano.
Ovvio che chi è in attesa di un rinnovo di contratto nei mesi successivi sorvola su qualche ora in più di lavoro prestato.
E' inutile correre di più da precario se gli altri corrono con i treni, questa è la lezione che dovremmo imparare dagli ultimi anni della nostra storia economica.
Il problema è sopratutto di far invertire la rotta all'economia che, spinta dagli spiriti che più che animali sembrano sprovveduti, sta superando il punto di rottura di ogni equilibrio. Dalla speculazione dei subprime a quella sulle materie prime, si sposta solo il terreno di razzia, a pagare sono sempre gli stessi e la domanda potrebbe bloccarsi sul mercato con un effetto domino spaventoso.
Si deve garantire che tutti i dati macro economici garantiscano la necessaria crescita dell'economia per poter distribuire ricchezza ma si deve anche decidere dove far pendere l'ago della bilancia per la ridistribuzione della ricchezza.
Dal punto di vista teorico le soluzioni vincenti sono quelle cooperative, tutti abbiamo sentito parlare di John Nash e della teoria dei giochi non a somma zero.
Questo ha ricadute sul concetto di welfare e sulla concezione dei servizi offerti al cittadino, dai servizi amministrativi, sanitari, formazione ed educazione, sicurezza, difesa, etc..
Fa un po' venire la pelle d'oca l'idea che alcuni servizi possano essere garantiti sub iudice al cittadino, che ci sia l'idea che lucrare sui servizi basilari di competenza di uno Stato possa introdurre efficienza che arricchisca tutti. L'esempio della sanità statunitense è lì a monito, qualche anno fa si parlava di trenta milioni di esclusi, che devono accontentarsi di servizi simili a quelli erogati negli stati più poveri.
Ritornando al tema i servizi di ogni tipo offerti al cittadino questi sono fondamentali per lo stare insieme, quindi è un grande valore per tutta la comunità - società.
Ripeto senza servizi sociali efficienti come possono le donne vivere appieno tutta la loro vita?
O stanno chine a far gli straordinari senza altra prospettiva che sbarcare il lunario o hanno una vita piena senza pensare a sbarcare il lunario.
Uno dei maggiori contributi offerti dal precedente governo è stato la trattazione della spesa pubblica operata da Padoa Schioppa, a rileggerlo si trovano analisi e soluzioni evidenti.
Bisogna considerare che la spesa sembra troppo elevata perché la ricchezza non cresce, ma la spesa è in linea con gli altri paesi europei come valore assoluto.
Perciò c'è bisogno di ristrutturare completamente il funzionamento dei servizi garantiti dallo stato, ammodernare il "ciclo produttivo" per renderlo più efficiente ed aumentare la quantità e la qualità dei servizi offerti.
Questo rende più simile gli interventi di politica di gestione delle retribuzioni a quelle del privato, se vuoi servizi e vuoi impegno allora devi garantirti personale competente e motivato, andando a concorrere con le aziende private.
Anche qui la soluzione non può essere di pretendere maggiori prestazioni orarie per supplire la mancanza di professionalità e mezzi, ma di dare quanto serve per allinearci con i paesi industrializzati.
Purtroppo oggi siamo in attesa che la pretesa del reddito da investimento finanziario di far assorbire minime risorse per i servizi dello stato, per lasciare più alti margini di guadagno alla propria speculazione, porti ai ciclici disastri da avvelenamento dei pozzi che abbiamo visto nella storia.
Siamo proprio smemorati ed è proprio vero che chi non comprende gli errori fatti nella storia e condannato a ripercorrerli.
E' inutile girare intorno, oltre alle cure di urgenza per la crisi che attanaglia molte famiglie, è necessaria una nuova visione dell'economia italiana, solo quando avremo allineato la nostra economia a quelle avanzate per contenuto innovativo potremo uscire dall'emergenza.