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Autore Discussione: Tavolo n° 2 Straordinari...  (Letto 38250 volte)
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« inserito:: Maggio 29, 2008, 12:47:16 am »

Coordinatore:  darwin 


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« Ultima modifica: Giugno 24, 2008, 04:10:11 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:35:33 pm »

Ovviamente sarei disponibile alla partecipazione. Il tema della redistribuzione della ricchezza e del modello di sviluppo, che è sotteso all'idea dell'intervento sugli straordinari, va a nozza con il problema posto da Veltroni sugli ultimi dati ISTAT.
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Arturo Infante detto Darwin detto Mac
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 02, 2008, 01:39:09 pm »

Inserirei un motivo di riflessione citando un articolo apparaso su Affari & Finanza di Repubblica.

Citazione di: Affari & FInanza

La competitività non dipende dal costo del lavoro 
I salari italiani sono più bassi che negli altri paesi avanzati, che però guadagnano lo stesso quote di mercato. D'altra parte i livelli di Cina o India sono irraggiungibili. Sarebbe ora di affrontare il problema nei suoi termini reali
Marco Panara


Una multinazionale europea (non italiana) nel settore meccanico, che ha stabilimenti in 23 paesi, ha messo a confronto il salario orario che paga ai suoi dipendenti. Le differenze sono impressionanti: si va da 28,69 euro l' ora in Svezia fino a 0,49
euro l' ora in India. Quella multinazionale ha stabilimenti anche in Italia dove, per un' ora di lavoro, spende 18,03 euro. Per rendere più chiaro il confronto abbiamo preso la remunerazione in Italia (18,03 euro = 100) e misurato su questa base la remunerazione di un' ora di lavoro negli altri paesi.
Anche tenendo conto che non è un dato generale ma una esperienza specifica e concreta, quello che ne emerge dovrebbe farci riflettere molto.  Per un' ora di lavoro in Germania quella multinazionale spende una volta e mezzo rispetto a quanto spende
in Italia, il trenta per cento in più lo spende negli Stati Uniti, il 15 per cento in più in Francia. Solo l' 8 per cento in meno lo spende in Spagna e il 10 per cento in meno in Corea.
 
__________________________________________________________________________
COSTO ORARIO DEL LAVORO
_________________________________________________________________
Paese                                     Euro all'ora                      Indice (Italia = 100)
Svezia                                    28,69                             159,12
Germania                                 27,14                             150,53
Giappone                                 25,42                             140,99
Stati Uniti                                24,29                             134,72
Francia                                    20,88                            115,81
Belgio                                      19,71                            109,32
Italia                                       18,03                            100,00
Spagna                                    16,72                            92,73
Corea                                      16,39                            90,90
Portogallo                                 6,01                             33,33
Turchia                                    5,23                             29,01
Repubblica Ceca                        4,54                             25,18
Ungheria                                  4,33                             24,02
Argentina                                 4,12                             22,85
Brasile                                     3,43                             19,02
Messico                                   2,97                             16,47
Polonia                                    2,55                             14,14
Sud Africa                                2,25                             12,48
Marocco                                  2,10                             11,65
Cina                                        1,98                             10,98
Romania                                   1,74                             9,65
Tunisia                                     1,52                             8,43
India                                        0,49                             2,72

 
___________________________________________________________________________
 
 
Se si passa agli altri il confronto è assolutamente impari: rispetto all' Italia un' ora di lavoro in Portogallo costa un terzo, un po' meno costa in Turchia, un quarto nella Repubblica Ceca e in Ungheria, per scendere fino a un decimo in Cina e Romania e un quarantesimo in India. Non tutti gli stabilimenti producono le stesse cose e richiedono lo stesso livello di formazione, ma non sempre e non necessariamente il livello di sofisticazione delle produzioni corrisponde al livello dei salari.
Non ci interessa qui comprendere cosa aspetta la multinazionale in questione a spostare tutte le sue attività in India, avrà  per fortuna  le sue ragioni. Quello che ci interessa è capire cosa ci dice questo confronto sull' Italia e sui suoi destini. 
La prima cosa che ci dice è che il costo del lavoro in Italia è tra i più bassi nel gruppo dei paesi industrializzati. Tra quelli censiti in questa occasione solo la Spagna e la Corea sono sotto di noi e neppure di molto, mentre la maggioranza ha un costo del lavoro più alto, e questo non sembra essere un vincolo determinante per esempio alla capacità di mantenere o accrescere la propria quota del commercio mondiale.  Il fatto che l' Italia perda posizioni nel commercio mondiale mentre la Germania o il Giappone, che hanno un costo del lavoro sostanzialmente più alto, invece no, ci fa capire con chiarezza che non è il costo del lavoro la chiave della nostra perdita di competitività né per un suo eventuale recupero.

Abbiamo impegnato anni a discutere e scontrarci su questo punto, ma basta guardare i dati della tabella che pubblichiamo per capire che tutto quel tempo e quell' impegno sono stati spesi male: l'abisso che ci separa non solo dall' India e dalla Cina, ma anche dalla Repubblica Ceca e dall' Ungheria è tale che  a meno di un impoverimento generalizzato e rivoluzionario del nostro paese  èimpensabile e non auspicabile colmare.
Il problema però esiste, perché la perdita di competitività dell' Italia non dipende dal fatto che lavoriamo poco, poiché anzi lavoriamo più ore della media dell' Europa a 15, dipende piuttosto dal fatto che ciascuna ora di lavoro non sempre produce tutto il valore che sarebbe necessario per consentirci di essere sicuri del nostro presente e
ottimisti sul nostro futuro.
Ci sono molti modi per capire meglio la natura di questo problema. Andrew Warner, senior economist alla Millennium Challenge Corporation, ha fatto uno studio accurato sulla produttività del lavoro nei vari paesi, e uno dei parametri che adotta è la crescita del pil per ora lavorata. Ebbene, tra il 1995 e il 2000 la crescita del pil per ora lavorata è stata del 9,20 per cento in Irlanda, paese leader di questa classifica, tra il 2,2 e il 2,6 per cento nel Regno Unito, in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, solo dell' 1,73 per cento in Italia, fanalino di coda tra i 18 paesi presi in considerazione.
In quello stesso studio Warner individua quattro barriere alla crescita della produttività oraria e mette a confronto su di esse i vari paesi. Le barriere sono: la formazione, l' organizzazione del lavoro, le normative e la qualità delle infrastrutture. In tutti e quattro la posizione dell' Italia è peggiore di quella degli altri grandi paesi industrializzati e, nel caso delle infrastrutture, è tra le peggiori in assoluto. Le conclusioni alle quali questa analisi ci porta è che puntare sulla compressione del costo del lavoro per rilanciare la competitività dell' Italia non solo non è realistico ma rischia di essere un grave errore strategico. Il che non vuol dire che il costo del lavoro è una variabile indipendente, ma che in questo momento della storia e dell' economia mondiale, quello su cui si deve incidere assai più che il costo è invece il contenuto del lavoro.
Bisogna aumentare da una parte la produttività e dall' altra il valore delle cose prodotte, in maniera tale da remunerare adeguatamente il lavoro e il capitale e consentire di porre le premesse per un aumento costante ed economicamente sostenibile dei redditi e del benessere futuro. E' una questione che riguarda tutti, la politica e le istituzioni, la pubblica amministrazione, le imprese e i sindacati. La scelta è tra puntare sulla crescita della produttività e del valore delle produzioni, oppure  come è accaduto negli ultimi anni  limitarsi a mantenere il modello produttivo e competitivo esistente cercando finché possibile di tenerlo in piedi comprimendo i costi.

Ovviamente non ci possiamo permettere di buttare via nulla, né sarebbe giusto farlo, quindi lo sforzo che le imprese stanno facendo per restare a galla è legittimo e anche lodevole. Se però dopo la resistenza non si passa alla crescita, per molti rischia di essere solo un prolungamento dell' agonia.
Ma cosa vuol dire scegliere di puntare sulla crescita della produttività e del valore delle produzioni? Vuol dire cambiare mentalità. Vuol dire concentrarsi sui problemi veri e impegnarsi per rimuovere le barriere all' aumento della produttività, investire in tecnologia, in formazione, in qualità manageriale. Vuol dire aumentare la flessibilità del lavoro, che serve come il pane, ma che è utile al sistema se rende più efficiente l'organizzazione del lavoro, e diventa invece negativa se rende il lavoro precario al solo scopo di abbassarne il costo. Vuol dire esaminare ogni legge, già in vigore o nuova, valutandone la comprensibilità, la semplicità di applicazione, l' effetto sulla modernizzazione del sistema. Vuol dire rischiare uscendo dai settori tradizionali non aspettandosi di raccogliere già domani. Vuol dire capire che i problemi dell'Italia di oggi non sono quelli di vent' anni fa e che gli strumenti di vent'anni fa non sono più quelli giusti per risolverli.
 
Questo articolo è stato pubblicato su Affari & Finanza de La Repubblica
 


Quindi evidentemente la strada presa è la peggiore.
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Arturo Infante detto Darwin detto Mac
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 03, 2008, 11:44:27 am »

Darwin -  (Amiche e Amici)


penso che la materia sia così specifica che sarà difficile affiancarti per chi non è in grado di farlo con conoscenza di causa.

Personalmente non sono affatto contrario a che un documento nato qui sia il frutto del lavoro di pochi e anche di uno soltanto di noi.

A due condizioni che la stesura proceda in tempi adeguati, con dati certi e che il Gruppo approvi l'opera.

ciao
gianni

PS: Cosa ne pensate? Siete d'accordo di invitare Darwin a proseguire anche da solo nella sua azione?  Io lo sono.
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 03, 2008, 11:55:33 am »

Daccordissimo!
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 07, 2008, 12:01:13 am »

anch'io sono d'accordo.

se eventualmente trovassi della documentazione che da altre o simili visuali possa accrescere il materiale su questo tema lo sottoporrò a Darwin, fidando completamente nella sua preparazione e coscienza politica, entrambe eccellenti anche verso le politiche femminili (cosa che, come potranno tutti immaginare, mi rassicura molto  Occhiolino

ciao
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 07, 2008, 01:06:32 am »

Non ho neppure io competenze specifiche tali da inserirmi in un tema tanto diffficile. Al più posso dare un contributo "critico" sulla base di esperienze e opinioni del tutto personali che possano risultare di spalla(etta) a Darwin e non sentirsi del tutto solo soletto.
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 10, 2008, 12:19:48 am »

Mi scuso per il lungo silenzio dovuto a motivi non piacevoli.
Mi va bene questa croce con la promessa di voi tutti di lettura attenta e critica.
Ovviamente oltre i motivi suddetti sono alla ricerca di un buon fardello di documentazione sui principi chiave di redistribuzione del reddito ed incremento di produttività.
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 11, 2008, 12:40:51 am »

Mi scuso per il lungo silenzio dovuto a motivi non piacevoli.
Mi va bene questa croce con la promessa di voi tutti di lettura attenta e critica.
Ovviamente oltre i motivi suddetti sono alla ricerca di un buon fardello di documentazione sui principi chiave di redistribuzione del reddito ed incremento di produttività.

ciao darwin, puoi contare anche su di me per la lettura "attenta e critica" che tu auspichi da noi, per quello che può valere in questo caso, data la mia scarsa competenza in merito.

p.s. spero che le cose ora vadano meglio, ti faccio i miei auguri più sinceri.

ciao
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 12, 2008, 12:18:42 am »

Carissimi per una prima riflessione partirei dall'enunciato della proposta governativa.

Detassazione straordinari
Al fine di incrementare la produttività del lavoro, nel secondo semestre 2008 a partire dalla busta paga di luglio, lo straordinario e i premi di produttività dei dipendenti nel settore privato sarà tassato del dieci per cento. La misura è valida per i redditi non superiori a 30 mila euro. Il provvedimento è stato emanato in via sperimentale e dura fino a dicembre 2008.

Cerco una esemplificazione individuando le parole chiave.
Reddito inferiore ai 30.000 euro.
Tassazione degli straordinari al 10%.
Tassazione dei primi legati alla produttività al 10%.
Tetto massimo del reddito con tassazione ridotta 3.000 euro.

Rivedendo gli scaglio IRPEF interessati abbiamo una massimo ammontare di:
390 per i redditi più bassi fino a 15.000 euro
510 per i redditi fino a 28.000 euro
760 per i redditi oltre i 28.000 euro

Insomma dai 32 ai 63 euro circa mensili.

La cosa vale circa da un terzo alla metà del valore indicabile come contingenza. Non è poi specificato se i redditi per incremento di produttività sono i premi di produzione aziendali o i premi ad personam erogati per valutazione obiettivi aziendali.

Questo provvedimento avrebbe 2 obiettivi: ridistribuire ricchezza per le famiglie in crisi e migliorare la produttività. La leva sarebbe quella della motivazione sul lavoro ed il riconoscimento del merito.

Veniamo al primo punto.
Se il problema è quello della quarta settimana allora è un po' difficile pensare che anche i 62 euro mensili in più (il massimo) possano coprire i bisogni della quarta settimana, dare serenità e far riprendere slancio alla domanda. Siamo in un mercato unico europeo, un'unica moneta e prezzi al consumo molto più allineati che nel passato.
Allora dobbiamo guardare al gap delle retribuzioni italiane rispetto a quelle dell'area euro.
Se guardiamo le statistiche delle retribuzioni medie sono necessarie cifre moltiplicate di un fattore cinque, rispetto a quelle indicate dal provvedimento.
Inoltre una parte dell'incremento retributivo in busta paga prospettato è legato a dei meccanismi in cui oltre alla partecipazione del dipendente contano molto fattori di scelta imprenditoriale, investimenti sul prodotto, sul ammodernamento del ciclo produttivo scelte strategiche dell'azienda, in cui il dipendente di solito non mette nulla di proprio. Mi riferisco ai premi di produttività e la valutazione degli obiettivi laddove ci siano mutue scelte dei lavoratori tramite la loro rappresentanza e l'azienda. Spesso questi non sono contemplati per le piccole e medie imprese.
Allora tutto è legato al riconoscimento degli straordinari, cioè il raggiungimento del riconoscimento economico previsto dal provvedimento è legato solo all'allungamento dell'orario di lavoro, una sottospecie di cottimo.
Tutto si gioca sul costo del lavoro, ancora oggi. Abbiamo il costo del lavoro fra i più bassi in Europa, l'economia è asfittica ed ancora la nostra classe dirigente punta a salvaguardare il profitto col minimo capitale investito. Insomma con un'economia asfittica nella domanda ancora usiamo ricette oramai logore, bocciabili in ogni università.
Cito un interessante articolo di Fabrizio Montanari (Università di Modena e Reggio Emilia) su Ticonzero (newsletter della Bocconi) per individuare alcuni spunti.

Citazione di: Fabrizio Montanari
1 – L’importanza dei sistemi di incentivazione
La retribuzione monetaria ha tradizionalmente assunto il ruolo di bilanciare la
relazione di scambio tra i lavoratori nella loro prestazione d’opera e le imprese nella
remunerazione dello sforzo del lavoro ricevuto. Il sistema retribuito, o premiante,
occupa una posizione centrale come elemento regolatore delle relazioni tra persone
ed organizzazioni, le cui risultanti possono essere interpretate almeno rispetto a tre
distinte visioni:
•   un rapporto di scambio economico, nella sua versione più semplice di
•   scambio tra lavoro e remunerazione;
•   un rapporto di scambio psicologico attraverso il quale si definiscono e si regolano le attese reciproche, con particolare riferimento ai principali diritti e doveri;
•   un rapporto di appartenenza che definisce i prestatori di lavoro come membri dell’impresa e persone che compongono il soggetto economico dell’impresa stessa.
Qualunque sia l’interpretazione di fondo del rapporto tra persone ed organizzazione, è indubbio che esso contenga una relazione di scambio regolata dal sistema premiante. Le variabili di base dei sistemi di remunerazione sono riassumibili in tre classi: i contributi forniti dal prestatore di lavoro all’impresa; le ricompense ottenute; gli algoritmi di correlazione tra contributi e ricompense, ossia le logiche di parametrazione dei contributi rispetto alle ricompense.
Tanto in letteratura quanto nella pratica manageriale si sono sviluppati negli anni numerosi studi ed approcci volti ad individuare le logiche che permettessero un più equo, efficace ed efficiente legame tra contributi erogati ed incentivi offerti1.
Il tema del rapporto tra comportamenti individuali e sistema di incentivi è di grande attualità. Negli ultimi anni, numerosi libri e articoli hanno enfatizzato l’importanza del fattore umano per il successo delle organizzazioni: le aziende che vogliono avere successo nei mercati globali devono dotarsi di un adeguato capitale umano con abilità, competenze e capacità migliori rispetto a quello dei propri concorrenti (e.g. Cappelli, 1999; Pfeffer, 1994, 1998). Il riconoscimento della centralità delle persone nella determinazione del vantaggio competitivo conduce ad una maggiore attenzione alle pratiche di gestione delle risorse umane, soprattutto ai sistemi retributivi. Questi ultimi, infatti, rappresentano uno degli strumenti più importanti per attrarre, trattenere e motivare le persone con le caratteristiche idonee al perseguimento degli obiettivi aziendali (Costa, 1997). I sistemi di incentivi costituiscono anche un potente mezzo per allineare gli obiettivi individuali con quelli organizzativi, minimizzando fenomeni di azzardo morale o selezione avversa (Eisenhardt, 1989, Roberts, 2007). In altre parole, attraverso l’implementazione di adeguati sistemi di incentivi è possibile ridurre il potenziale di opportunismo e allineare i comportamenti individuali con quelli desiderati dall’organizzazione.

Quindi ad un nuovo modo di intendere il rapporto lavoratore impresa i saggi nostri governanti oggi puntano tutto sul capitale lavoro e nulla sugli investimenti per migliorare sia la redditività del prodotto, sia la capacità produttiva per ora lavorata, sia la costruzione di una migliore collaborazione lavoratore – impresa.
Poi ci chiediamo perché la nostra economia sia asfittica.
Veniamo al secondo punto: la produttività.
Ci sono due modi di intendere la produttività: la prima è la quantità di prodotto e di fatturato per persona impiegata nel ciclo produttivo; la seconda è la quantità di prodotto e di fatturato per ora lavorata.
La scelta del governo va tuta vero la prima concezione, ho un dipendente ne devo ricavare il massimo, con il minimo investimento possibile.
La seconda dipende dalla professionalità delle risorse, dalle scelte di posizionamento sul mercato, dagli investimenti sul prodotto, dagli investimento sul miglioramento del ciclo produttivo per adattarlo a professionalità più alte e più remunerate.
Non a caso dal provvedimento sono escluse tutte le fasce di lavoratori a più alta professionalità. Ricordiamoci di un altro fattore critico che è dato dallo scarso impiego di lavoratori a più alta preparazione formativa nella produzione. In Italia ci sono meno diplomati e laureati nel ciclo produttivo e spesso sono impiegati per qualifiche non adeguate. Abbiamo presente i laureati che finiscono per aspirare ad impieghi con contratti atipici nei call center.
La conclusione è che l’intervento proposto dal governo è ampiamente negativo, non risolve nulla e tende ad ampliare ancora tendenze negative della nostra economia. Direi che comunque l’uso della leva fiscale per ridistribuzione del reddito non è vincente e non risolve il problema.
Le imprese hanno già attinto a piene mani con la riduzione del cuneo fiscale, nulla è andato verso i lavoratori. Ciò che allo stato attuale era stato possibile fare è stato fatto.
Cosa fare allora.
La proposta deve andare verso l’attirare fondi ed investimenti sul settore produttivo per ammodernare sia il prodotto che il ciclo di produzione. Le ricette del laisse faire del liberismo degli anni ottanta hanno prodotto oggi la crisi dei su prime, perché è facile investire in prestiti a chi non arriva a fine mese, e un ruolo di primo piano nell’esplosione dei prezzi delle materie prime, con meccanismi in cui girano in compra vendita solo carte e non prodotti.
Alcune proposte possono essere:
       innalzamento della tassazione sui redditi finanziari al 20%, come dappertutto nel mondo occidentale;
       rivedere i percorsi formativi della scuola e dell’università per favorire il miglioramento delle competenze;
       invogliare capitali italiani e stranieri per investimenti su produzioni ad alto contenuto tecnologico e/o artigianali di pregio, utilizzando la leva fiscale, il miglioramento delle infrastrutture fisiche e di comunicazione digitale;
       esercitare un ruolo politico di mediazione affinché i contratti nazionali recepiscano la necessità di ridistribuire il reddito verso i lavoratori dipendenti;
       incentivare, con la leva fiscale, la formazione sul lavoro per favorire la riconversione della produzione;
       istituire una contrattazione di secondo livello che favorisca il riconoscimento del merito nella partecipazione ai risultati aziendali e che non penalizzi i lavoratori delle piccole e medie imprese che spesso non hanno un’adeguata rappresentanza sindacale.
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 12, 2008, 12:14:13 pm »

Mi sembra una analisi molto interessante, darwin. Sulle proposte mi trova particolarmente daccordo l'ultimo punto, anche se ad essere sincera, trovo che si stia parlando di qualcosa di un pò irreale.
Mi spiego: oltre al "lavoro atipico", che ormai atipico non è più in quanto più diffuso di quello "tipico", ci sono molte situazioni intermedie. Esempio: pur essendo assunte con regolare contratto, nella catena di negozi Extyn le commesse hanno un fisso e poi se vogliono guadagnare uno stipendio normale devono vendere. Hanno la percentuale. Le situazioni di questo tipo sono estremamente diffuse ed è difficilissimo gestirle.
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 12, 2008, 11:43:30 pm »

Si mammamaria il secondo livello può essere un terreno minato per le piccole e medie imprese, laddove la storia sindacale è quasi insignificante rispetto ad altre realtà.
Per fare un buon secondo livello ci vorrebbe un sindacato più aperto a forme di relazioni con le imprese che veda il rapporto impresa - dipendente in modo diverso. Troppo spesso il sindacato opera per una contrattazione tesa a livellare i livelli retributivi e spesso l'aumento richiesto è molto lontano sia dalle reali esigenze dei lavoratori, sia da quanto le aziende sono disposte a concedere in maniera più articolata. Così spesso l'aumento contrattuale è meno della metà dell'aumento che molte aziende concedono a molti dipendenti per meritocrazia, ovviamente questo rende evanescente la credibilità del sindacato.

Sarebbe interesante proporre forme contrattuali di riconoscimento:

  • sia del raggiungimento dei risultati previsti aziendali generalizzato a tutti i dipendenti;
  • sia il riconoscimento per coloro che hanno espresso migliore professionalità.


Esempio molto positivo del primo punto fu il primo contratto Omnitel (oggi Vodaphone) di secondo livello. Furono raggiunti premi da 6 - 7 zeri (in lire) al conseguimento dei risultati del primo e secondo anno.
Per il secondo bisognerebbe introdurre criteri di valutazione che oltre al raggiungimento di obiettivi individuali misurabili, comprenda anche la valutazione che questi non siano conseguiti solo con l'allungamento dell'orario di lavoro. Questa parte è un po' complicata perché alcuni livelli inquadramentali nei vari contratti prevedono la non rilevazione dell'orario di lavoro. Cioé privilegiare la creatività e la capacità di innovazione e non la sola disponibilità oraria.
Bisognerebbe riuscire a normare questa parte, con una buona capacità di confronto in cui il sindacato deve porsi in modo nuovo e trovare al forza politica di rappresentare queste esigenze dei lavoratori.
Per il caso da te citato, simile a ciò che avveniva anche nel passato con la valutazione del portafoglio ordini degli agenti di zona, c'è bisogno di una rappresentanza sindacale al tavolo delle trattative a prescindere dalle tessere presenti. In molte realtà, come quella da te citata, deve essere la normativa di legge a rendere impossibile perseguire il dipendente che vuole iscriversi al sindacato meglio del troppo generico sanzionamento del comportamento antisindacale e convincere l'azienda che tanto al tavolo si deve sedere lo stesso con il sindacato, anche se cerca di osteggiare la presenza in azienda. Inoltre la parte variabile della retribuzione non deve andare a coprire il minimo livello retributivo dignitoso, il cottimo non mi sembra sia stato depenalizzato, ancora oggi.
Questi criteri affiancati a leve di tipo fiscale che favoriscono un innalzamento del contributo professionale nella produzione dei beni e servizi, alla creazione di strutture (agenzie) di coordinamento orizzontale (territoriale) e verticale (per categoria merceologica) per favorire la ricerca ed innovazione può portare alla riduzione del gap retributivo fra l'Italia ed il resto del mondo avanzato.
E' inutile girare intorno, oltre alle cure di urgenza per la crisi che attanaglia molte famiglie, è necessaria una nuova visione dell'economia italiana, solo quando avremo allineato la nostra economia a quelle avanzate per contenuto innovativo potremo uscire dall'emergenza.
Poi ci sarebbe tutto un discorso da fare per la produzione artigianale, sopratutto quella di qualità, che rischia di vedersi svuotare come lo furono le nostre campagne nel secondo dopoguerra. Qui bisognerebbe incidere sulla scolarizzazione di base e la possibilità di poter accedere a centri di formazione specifici, ad un discorso compatibile sull'apprendistato ed alla creazione, a livello di amministrazione locale, di opportune pratiche di distretto urbano e provinciale.
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 13, 2008, 11:00:05 am »

Dato che l'argomento di cui stiamo parlando è affine, in quanto per il lavoro dipendente è straordinario, ma per il lavoro atipico è norma, e dato che di mondo del lavoro si parla, una riflessione sugli atipici la possiamo fare qui o è preferibile altro tavolo?
Perchè al di la del discorso del precariato e della cattiva retribuzione il lavoro atipico non ha praticamente tutele, ed è un universo demotivante ed umiliante che al contrario potrebbe diventare una incredibile leva sia per la produttività di una azienda sia per un reale soddisfacimento del lavoratore.

Altra perplessità strettamente inerenti gli straordinari: ci sono molte situazioni e molte aziende che fanno fare straordinari, che però non figurano in busta... un tempo erano i cosiddetti "fuori busta", oggi spesso non vengono neanche considerati e retribuiti. Come trattare questi casi?

Scusa, non riesco a fare molto più che lanciare sassi (sperando che non me li rilanci indietro   Ghigno) ma non so rendermi utile più di così sull'argomento.
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 14, 2008, 09:31:27 pm »

Innanzi tutto i sassi sono utili perché portano riflessioni ed approfondimenti anche per strade non viste.
Sì certo la proposta di detassazione sul lavoro straordinario apre la finestra a tutta la concezione del mondo produttivo e del lavoro.
Il lavoro straordinario, fra l'altro, possiamo vederlo anche come una parte di retribuzione precaria, c'è fino a quando c'è la possibilità di rendere questo più economico dell'incremento della forza lavoro in periodi di crescita.
Fra l'altro, se non sbaglio, si è aperta la porta, non direttamente, al lavoro a chiamata .. giornaliera. Cioé un ragazzo ha partita IVA e viene chiamato come "consulente" quando c'è bisogno. Questa pratica mi sembra diffusa, per esempio, fra le aziende di servizi.
Il problema fondamentale del lavoro precario in Italia è che questo orbita in quantità su attività a basso profilo professionale, mentre l'esempio degli Stati Uniti i contratti a termine sono frequenti per profili professionali elevati e che quindi, anche con grande mobilità territoriale, si reinseriscono subito, giovandosi nel frattempo di consistenti guadagni nel tempo di occupazione.
Qui emerge tutta le debolezza dell'economia italiana, ieri su Repubblica c'era un bell'articolo di Spaventa sulla mancanza di investimenti sull'innovazione in Italia che posto di seguito per non appesantire ulteriormente la mia logorrea.
Il lavoro atipico va completamente ridisegnato nella normativa per evitare la precarizzazione a vita, una cosa è avere contratti a tempo determinato per categorie professionali ad alto contenuto di conoscenza, in cui il soggetto è garantito proprio dalla sua professionalità, un'altra creare call center per affibbiare carte di credito che sono in realtà una forma di prestito (a tassi molto alti) per lucrare sugli interessi (e aggravare la crisi economica di molte famiglie fino ai crack per eccesso di sofferenze). Spesso molti laureati in materie umanistiche finiscono lì perché sanno almeno parlare in modo convincente in italiano, sul prodotto offerto ai clienti e sul cammino professionale proposto stendo un velo pietoso. Così questi giovani potranno pagarsi la pizza o la discoteca il sabato, incontreranno persone nella stessa situazione con la speranza di metter su famiglia e finiranno prima depressi e poi, a volte, disperati.
Ovvio che chi è in attesa di un rinnovo di contratto nei mesi successivi sorvola su qualche ora in più di lavoro prestato.
Non comprendo come si passi da quello che in passato era l'apprendistato per l'inserimento nel mondo del lavoro a questo disastro.
Proposte formali di giuslavoristi ed economisti per rivedere la normativa se ne vedono poche in giro. Il problema è sopratutto di far invertire la rotta all'economia che, spinta dagli spiriti che più che animali mi sembrano sprovveduti, sta superando il punto di rottura di ogni equilibrio. Dalla speculazione dei subprime a quella sulle materie prime, si sposta solo il tereno di razzia, a pagare sono sempre gli stessi e la domanda potrebbe bloccarsi sul mercato con un effetto domino spaventoso. Si può avere lo stesso effetto delle economie chiuse e pianificate, cioé la carestia come in Corea del Nord.
Ritornando ai terreni di razzia: mi sembra che la sfida fra allevatori e coltivatori fu vinta dai coltivatori, non sono un antropologo ma penso che ad un certo punto le comunità che seppero coltivare soppiantarono quelle più "animose" che vivevano di raccolto e caccia. La forza dell'Ulivo e delle proposte di Prodi era proprio lì: ridiventare coltivatori e non razziatori.
Evitando i giri troppo elevati sui massimi sistemi cercherò qualcosa sul rapporto fra lavoro atipico e straordinari, quali sono i mutui rapporti.
Ovviamente nel precedente post parlavo di premi di produzione e provvedimenti meritocratici ad personam che non riguardano i precari, che spesso ci mettono tanto impegno, se si vuole migliorare la produttività e la professionalità del lavoro perché non inserire il riconoscimento almeno dei premi di produzione nella retribuzione dei precari per il rateo di collaborazione di competenza anche dopo il termine della collaborazione.
Così si introdurrebbe anche un po' di concorrenza fra le aziende per fare migliori proposte e non solo la guerra fra poveri.
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 14, 2008, 09:34:28 pm »

Citazione di: Repubblica da rassegna stampa del PD
Le colpe delle imprese

Luigi Spaventa - La Repubblica

Esistono mille buone ragioni per modificare il sistema contrattuale nel mercato del lavoro: non solo un miglioramento di efficienza; ancor più, come argomentano da tempo Pietro Ichino, Tito Boeri, Pietro Garibaldi, una riduzione delle iniquità causate dalla coesistenza di un assetto rigido e antiquato con esperimenti di liberalizzazione privi di reti di protezione, normativa e sindacale.

Fra quelle ragioni, tuttavia, ve n´è una che persuade proprio poco, perché non regge alla verifica. Al convegno di Santa Margherita dei "giovani imprenditori" (che non devono essere poi tanti, se nel 2006 in neppure il 2 per cento delle imprese industriali gli imprenditori avevano non più di 35 anni, mentre in oltre 50 per cento ne avevano più di 56), la presidente signora Guidi ha sostenuto che un maggior spazio della contrattazione aziendale (e magari individuale) risolverebbe il problema della bassa produttività del lavoro.

Ma si può davvero credere che il disperante andamento negli ultimi sette anni – nell´industria manifatturiera produttività in calo nel quinquennio 2001-2005 e piatta nell´ultimo biennio – sia imputabile all´assetto contrattuale nazionale, e non piuttosto a scelte ragionate delle imprese?

Se il livello e la dinamica della produttività del lavoro dipendessero in prevalenza dall´impegno dei lavoratori, pur condizionato dal regime contrattuale, dovremmo concludere che negli ultimi vent´anni si è verificato un impigrimento collettivo della cosiddetta forza lavoro. Si sa invece che le determinanti principali sono la dotazione di capitale e, ancor più, il ritmo dell´innovazione, che migliora l´efficienza dei processi produttivi ed è misurato dalla produttività totale dei fattori. Nell´industria in senso stretto (un aggregato più ampio della manifatturiera) il calo della produttività del lavoro fra il 2001 e il 2006 è spiegato da una riduzione ancor più vistosa della produttività totale dei fattori, mentre è aumentata di poco l´intensità di capitale.

L´industria italiana, dunque, non ha innovato (la spesa privata in ricerca e sviluppo in rapporto al prodotto è pari alla metà di quella media europea) e ha investito poco. Le ragioni? Usiamo le parole di una relazione della Banca d´Italia, che fra i problemi della bassa crescita dell´economia italiana mette al primo posto «la capacità di innovare del sistema produttivo»: «L´aumento nella flessibilità dell´utilizzo, la lunga fase di moderazione salariale e la rapida crescita dei flussi migratori hanno reso meno costoso l´impiego del fattore lavoro rispetto al capitale». Si è scelto così un modello basato sulla crescita dell´occupazione piuttosto che sull´investimento e sull´innovazione; e neppure troppo attento al merito individuale, se è vero che «i premi aziendali sembrano poco correlati ai risultati».

L´andamento della produttività dipende dunque da scelte libere, e legittime, delle imprese, che il regime contrattuale non sembra aver condizionato più di tanto (se non, come, si è visto, per una maggiore flessibilità). Piuttosto, al di là di noti condizionamenti esterni (eccesso di regolazione, inadeguatezza delle infrastrutture pubbliche, istruzione insufficiente), vi erano condizionamenti interni al sistema produttivo: soprattutto una struttura dimensionale e una composizione della produzione difformi da quelle dei maggiori Paesi europei, che hanno ostacolato l´adattamento al nuovo mondo della tecnologia e della concorrenza internazionale.

L´investimento, l´innovazione, e dunque la produttività, sono inversamente correlati alla dimensione; i processi di riconversione produttiva sono lenti e costosi. Non sorprende che, per anni, queste difficoltà abbiano provocato scelte difensive e di retroguardia e, pertanto, gli esiti di produttività sopra richiamati.
Le scelte delle imprese non dipendono, grazie a Dio, da un contratto, nazionale o aziendale (e si vorrebbe che non dipendessero per nulla da interventi pubblici).
Ma esiste un altro contratto implicito, che alla lunga ne indirizza i comportamenti in vista del profitto: quello del libero scambio in un mercato globale. Gli effetti, benefici, si cominciano a vedere. Da un paio d´anni, mentre è aumentata la mortalità nell´universo delle imprese, quelle che rimangono si rafforzano, per sopravvivere: «La crescente pressione competitiva…e la disciplina del cambio…sono tra i principali fattori che hanno messo in moto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano, attraverso un´intensa riallocazione di risorse…in favore delle imprese più efficienti e profondi cambiamenti nelle strategie aziendali».

È ripresa la crescita delle esportazioni; in alcuni settori l´andamento della produttività ha invertito il segno. La riforma del sistema contrattuale serve: ma, per creare sviluppo, serve soprattutto che il cambiamento del modello seguito per troppo tempo dalle imprese italiane continui e si consolidi.
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