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Autore Discussione: Storia di un'adozione  (Letto 3322 volte)
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« inserito:: Luglio 10, 2007, 03:21:47 pm »

Storia di un'adozione
Maurizio Chierici


Nei giorni dei corvi e delle spie, la storia di Massimo e Maria, milanesi sui 30 anni, non varrebbe la pena d’essere raccontata: banale, trasparente, acqua fresca. Inutile pedinare e registrare. Non eccita nessuna Betulla, più o meno in divisa. Briciole inutili di umanità. Un anno fa marito e moglie senza figli hanno deciso di adottare un bambino. Le procedure stanno finendo: lente ma è la lentezza della quale Maria e Massimo riconoscono l’opportunità.

Da un colloquio all’altro il loro progetto cambia. Quando pensavano a un figlio, vedevano questo figlio come cosa propria; lentamente si sono resi conto che non doveva essere così. Lo volevano straniero e fra i bambini lontani preferivano un bambino dell’America Centrale perché - in modo diverso - marito e moglie sono legati a quella realtà. Piano, piano hanno capito che le porte andavano lasciate aperte: nessuna prevenzione se arrivava un piccolo latino, o africano o italiano. «Ci hanno fatto ragionare e ci siamo messi in gioco». L’importante è che un bambino senza famiglia trovi una famiglia.

Una volta riconosciuti idonei a fare i genitori, restano prigionieri della burocrazia. Altra attesa: un anno, due, forse tre. E intanto un bambino sta aspettando che i protocolli si esauriscano... Una storia come tante ma il caso vuole che questa s’intrecci con la professione di chi racconta la vita degli altri. E la conclusione ripropone il grande vuoto che separa la quotidianità di marito e moglie milanesi, da un mondo senza speranza ai confini delle nostre vacanze.

Un giornalista parla di cose che quasi tutti sanno: radio, tv, internet le distribuiscono con la fretta delle slot machine. La fiducia dell’approfondire le cose che tutti sanno dipende dalla convinzione che ogni essere umano somigli all’altro, non importa dove è nato e come vive. Perché la maggioranza delle persone del pianeta condivide le stesse sensazioni, angoscia per frustrazioni invisibili, per lo più dolori da raccogliere in una definizione che è sempre la stessa in latitudini sconosciute: paura e insicurezza dovute all’esclusione. Il mondo progredisce e loro sempre lì con gli stessi problemi: mangiare, un tetto, un filo di luce e l’acqua e le malattie da curare coi medicinali scaduti che la carità internazionale fa arrivare goccia a goccia.

Non hanno voglia di pensare al testamento biologico o se il loro funerale possa essere in latino. O se il mondo libero ha talmente bisogno di petrolio da accendere piccole e grandi guerre per puntellare l’ordine economico che traballa. Ma la non notizia di oggi diventa notizia perché anni fa un testimone era finito nei panni di chi aveva paura; i ricordi tornano dal passato. Nel 1981 un gruppo di giornalisti italiani visita in Salvador uno strano campo profughi: raccoglie i figli di genitori assassinati dalle squadre della morte. Bimbi di pochi mesi, bambini di 4 o 5 anni. Stagione delle piogge. Strisciano nel fango sotto la tettoia delle colline verso Chalatenango. Due suore salvadoregne distribuiscono bicchieri di plastica: acqua e purea di fagioli. Nient’altro.

Ma quando avranno l’età quale scuola potrà accoglierli? Una piccola madre risponde con malinconia: nessuno bambino vivrà così a lungo da poter andare a scuola. Verminosi, tubercolosi. Chi ce la fa sarà a prova di pallottola. Assieme a Italo Moretti e all’operatore Romolo Paradisi il testimone vuota le tasche: quanto costa il soggiorno in un istituto più o meno normale? Cento dollari l’anno. Mettono assieme 600 dollari. Sei bambini, mormora la suora. Scegliete. E i giornalisti scappano senza alzare un dito e il Corriere della Sera e il Tg2 documentano questa disperazione.

Al ritorno in Italia il giornalista trova la lettera di una ragazza appena sposata. Lavora a Mani Tese ed è sconvolta. Vuole adottare tutti i bambini possibili. Si chiama Sabina, il marito è Gianpiero, tecnico dell’Enel. Vivono in tre stanze a Saronno. Genitori giovani impegnati portare via i bambini dal fango. Spariscono per rifarsi vivi un anno dopo: sono andati in Salvador ed hanno trovato quattro fratellini nascosti nella casa della nonna. Una notte le squadre della morte hanno portato via i genitori per seppellirli chissà dove. I problemi di quel Salvador erano problemi che nessuno ha risolto: continuano ad inondare le cronache 2007 di ogni parte del mondo. La violenza non cambia, l’ipocrisia continua. Venticinque anni fa l’America di Reagan non sopportava la Chiesa dei poveri disegnata dal Concilio Vaticano II: preti rossi, preti comunisti, soprattutto perché a quella chiesa dei poveri si aggrappavano non solo il vescovo Romero o i sacerdoti o le suore assassinate dalle milizie di Orden, militari in borghese, scarpe e armi dell’esercito regolare nutrito dai 6 milioni di dollari quotidiani messi a disposizione dal finanziamento ufficiale della Washington di Reagan-Bush padre doverosamente impegnati nella lotta al comunismo. Quella chiesa dei poveri rappresentava la speranza estrema dei contadini poveri subito definiti contadini comunisti: pretendevano dal latifondo delle multinazionali fazzoletti di terra per piantare i fagioli della sopravvivenza attorno a distese di caffè e cacao. Padre e madre dei quattro fratellini avevano pagato questa alterigia.

Un anno dopo Sabina e Gianpiero telefonano al testimone con l’allegria trattenuta di chi ha realizzato una parte del sogno: sono andati in Salvador e sono tornati con due fratellini piccoli, Napoleone (pochi mesi) e Lucilla, che appena cammina. Difficile imbarcare nel viaggio Jolanda e Maria, 5 e 7 anni. La legge italiana del tempo chiudeva le porte obbligando ad attese estenuanti, e gli sposi di Saronno sono tornati a casa passando dalla Svizzera. Non se la sentivano di abbandonare nel Salvador affamato e sconvolto due bambini destinati a non sopravvivere alla precarietà. In treno da Zurigo a Lugano e una domenica pomeriggio Napoleone e Lucilla attraversano Chiasso fra le sigarette e la cioccolata dei contrabbandieri innocenti di ogni week end. Ma Sabina e Gianpiero devono aver pensato al destino diverso che divideva gli orfani della stessa famiglia. E nel ’83, appena la legge italiana cambia, Gianpiero rifà il viaggio in Salvador e torna a Saronno con le altre due bambine. Maria e Jolanda vivono consapevolmente la meraviglia di un viaggio fantastico. Dalla baracca senza luce attraversano gli aeroporti e scoprono dove sono finiti i fratelli, soprattutto con quali piaceri: subito dopo il riabbraccio si chiudono in bagno per lavarsi i denti, due, tre, dieci volte, sapore di menta.

Storia come tante che non fa notizia anche se cambia la vita di quattro orfani alla deriva in un paesino del quale i giornali hanno smesso di interessarsi dopo che il vescovo Romero, dodici religiosi (cattolici e protestanti) e quattro gesuiti, rigorosamente «comunisti», sono stati eliminati e la democrazia dei paesi liberi ha finalmente insediato la felicità del liberismo occidentale. La storia è tutta qui, modesti aggiornamenti. Gianpiero e Sabina hanno cambiato casa con l’aiuto delle loro famiglie preoccupate per quei quattro bambini stretti nelle tre stanze. Gianpiero Borghi continua il lavoro di tecnico in un’impresa area Enel, mentre Sabina Siniscalchi dopo Mani Tese va e viene da Roma, da un anno deputato di Rifondazione Comunista. Napoleone sta laureandosi in scienze della comunicazione; Jolanda fa l’ingegnere; Lucilla ha lasciato scienze politiche per la reception di un grande albergo, mentre Maria è infermiera all’ospedale Sacco di Milano, reparto diabetologia. Massimo Di Giuseppe, il marito col quale divide l’urgenza di accogliere un bambino troppo solo nella casa troppo grande di Bollate, insegna Popoli, Cultura e Confessioni religiose in età moderna e contemporanea all’università Iulm di Milano e all’università di Bologna, polo Ravenna. Ha scritto saggi su La Pira, Turoldo, Balducci; sta concludendo una lunga ricerca dedicata alle popolazioni indigene del Messico e dell’America Centrale.

«Ho avuto la possibilità di avere due nuclei familiari», ricorda Maria che ha difeso ogni piega della memoria, dall’ultimo sguardo della madre quando le squadre della morte la portavano via, agli sguardi attenti dei genitori che l’hanno aiutata a crescere. «Aiuteremo il bambino a diventare adulto senza dimenticare la cultura dalla quale è stato rifiutato». Resta la curiosità: perché un’extracomunitaria strappata alla sofferenza sta lottando per impedire che la stessa sofferenza avvilisca la vita di chi non può difendersi, mentre i brianzoli del paese accanto, o i bergamaschi, o i veneti che hanno sudato l’Europa con le valige di cartone, una volta rientrati nel benessere seppelliscono il passato nella xenofobia e nel disprezzo per lo straniero che li aveva angosciati quando sospiravano in terra straniera? Il testimone ricorda lo smarrimento di Maria nelle luci dell’aeroporto dove cominciava la sua seconda vita, e lo sbalordimento dei bambini della Val Camonica «deportati» in Italia da Winterthur, Svizzera, perché figli di immigrati, quindi senza il diritto di crescere nell’esilio accanto ai genitori. Due maturità diverse: Maria affronta il passato per impedire solitudini che devastano il cuore mentre gli ex bambini bresciani lo negano con la tessera e il fazzoletto verde delle leghe antistranieri.

Forse dipende dal diverso valore respirato nelle famiglie a proposito della ricchezza invisibile della solidarietà o del piacere del denaro al quale non resiste un’infinità di desideri. Vite quasi parallele che si dividono: chi non se la sente di dimenticare la solitudine di quand’era vittima e chi fa la voce grossa per imitare i padroni di casa che deportavano gli intrusi, rumorosi e rompipalle. Che erano loro, prima della fabbrichetta e dei dané.

mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 09.07.07
Modificato il: 09.07.07 alle ore 8.36   
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