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Autore Discussione: GIANNI BAGET BOZZO.  (Letto 22692 volte)
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« inserito:: Aprile 22, 2008, 12:12:43 pm »

22/4/2008
 
Che fare con Bertinotti (e senza di lui)
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Che fare senza Bertinotti? E che fare con Bertinotti? Questo è l'interrogativo delle due assemblee di Roma e di Firenze, una legittima e l'altra auto-convocata. Eppure tali assemblee parlavano il medesimo linguaggio: quello di Bertinotti. E' il compagno Fausto ad aver deciso che il partito fedele alla tradizione comunista dovesse essere assai diverso da quelli che nascevano in Francia, Spagna e Germania. Tutti gli altri partiti post-comunisti mantenevano fedeltà alla classe e al territorio, accettavano il ruolo di perenne minoranza - ma con buone prospettive di successo.

Fausto ha voluto dare un nuovo slancio al partito pensandolo come il «movimento dei movimenti», nella convinzione che, cambiando la struttura materiale del capitalismo, sarebbe nata un'alternativa ad esso, non più quella della classe operaia, ma di tutte le condizioni umane. I movimenti erano la vera alternativa e occorreva dare ad essi una forma politica. Così il principio della lotta al capitalismo poteva essere aggiornato, ma non dimenticato; si poteva dire che i rifondatori erano contro il sistema e ne gestivano le contraddizioni interne.

Al tempo stesso Bertinotti ha voluto fare del suo partito una forza di governo, dando forma ad un soggetto politico estraneo alla cultura comunista. Esso poteva dirsi veramente «sinistra», visto che i diessini uscivano dalla loro identità per fondare un partito assieme ai democristiani con l'ambizione di diventare una forza di centro, di prendere il posto della Democrazia Cristiana. Sulla carta il progetto di Bertinotti era fascinoso: mantenere l'utopia anti-capitalista ed andare al governo era il massimo dell'offerta politica. Le assemblee di Roma e di Firenze assumono i due lati opposti del sistema di Bertinotti, anche se indicano la medesima procedura: un congresso nazionale libero da ogni ipoteca di gruppo dirigente. L'assemblea di Firenze riprende il tema dell'alternativa al capitalismo riproponendo la questione della identità comunista. Paolo Ferrero impersona questa tendenza: lo scioglimento del partito di Bertinotti nelle componenti che si richiamano al marxismo ed al comunismo, un rifacimento del partito in chiave diversa, senza nessuno dei temi bertinottiani: né movimentismo né partito di governo.

Nichi Vendola vuole invece salvare il partito bertinottiano sia nella sua componente istituzionale che in quella movimentista, ponendo i termini del movimento nelle minoranze culturali - un tema potenzialmente trasversale - e mantenendo il profilo istituzionale del partito.

Tutti i termini del pensiero di Bertinotti si sono spaccati e gli uni sono ora contrapposti agli altri. Mentre i partiti comunisti europei hanno mantenuto il legame con il popolo reale, anche se minoritario, quello di Bertinotti ha puntato ad uno schieramento di tutte le minoranze, pensando che ciò fosse possibile data la crisi del capitalismo che Fausto pensava in atto e che rendeva possibile inserirsi all'interno delle problematiche reali anche dei partiti al governo, specie del Partito Democratico.

In nessun punto come nel nostro paese la sinistra alternativa si è staccata dalla terra ed è salita in cielo. Ha così creato una massa di contraddizioni che ora la frammentano indefinitamente e non rendono possibile alcuna soluzione unitaria né alcuna figura istituzionale. Il radicamento di Rifondazione negli Enti locali e nelle Regioni può offrire uno spazio proprio, ma subalterno al Partito Democratico. Anche questo fatto sarà un termine di frattura. Questo magma di disillusioni bollenti, tutte vissute come espressione di un pensiero, in qualche modo come verità dogmatiche, crea una situazione pericolosa per il nostro paese, dove, proprio da queste situazioni, nell'incrocio tra il '68 ed il Pci, è nato il terrorismo.

La destra, in particolare la Lega, ha potuto offrire qualche soluzione, visto che essa ha posto i temi della legalità, del territorio, della proprietà come problemi diffusi e incarnati, che esprimono cioè interessi vitali del cittadino-lavoratore come persona. La classe come mito è finita da tempo. Il fatto importante non è che la destra abbia vinto le elezioni, ma che la sinistra si sia annullata da un lato nella speranza di diventare la nuova Dc, dall'altro lato scegliendo di rimanere un partito anti-sistema capitalistico, preferendo l'identità ideale alla rappresentanza reale di interessi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:57:25 pm »

25/5/2008
 
SuperMarta poco super
 
GIANNI BAGET BOZZO

 
Genova sembrava uscita dalla storia, la guidava una sinistra che aveva deciso di gestirla come un territorio prezioso, come una rendita. Il governo era un governo del «mattone», il porto non aveva futuro.

Le iniziative della giunta Biasotti di aprire il Terzo Valico lasciate cadere, la gronda tra i due ingressi periferici dell’autostrada anch’essa sepolta.

Il mugugno genovese non fa notizia, è come un rumore di fondo che si esaurisce nel mero suono. Sembrava che tra la sinistra e Genova vi fosse un’intesa: non fare notizia. Ma la storia è entrata egualmente nella città. Vi è entrata nel porto, quando il presidente di centrodestra, Giovanni Novi, ha pagato un prezzo politico a Paride Battini, console dei «camalli», dandogli un’area che non gli spettava e un contributo a cui non aveva diritto. Ora Novi è sotto processo e la magistratura controlla tutta l’area portuale. Un porto governato dai giudici e dai finanzieri non è più un porto, è solo un territorio. Ma i genovesi non reagiscono e non reagisce nemmeno il centrodestra che ha designato Novi. I giovani non hanno futuro in una città che si guarda morire non pensandosi.

L’unica cosa certa sembravano le istituzioni tutte a sinistra, che trattavano con tutte le corporazioni. La sinistra stava spegnendo la luce in una città ridotta ad offrire spazi all’attività edilizia residua gestita dalle cooperative emiliane. E poi il tumulto nasce dalle istituzioni, non nasce dai partiti, ma proprio dal personale nelle istituzioni. Il ciclone investe la principale «industria» genovese che, paradossalmente, è il Comune di Genova. Non nel personale dei partiti storici ma in quello dei giovani rampanti, con cui Marta Vincenzi ha pensato di modernizzarsi, di farsi notizia. La «sindaco» ha dimenticato che la sapienza della sinistra governava Genova, non cercando notizia ma gestendo il potere. Era la ricetta perfezionata dal sindaco Giuseppe Pericu, che ha moltiplicato i posti di potere privatizzando l’industria comunale e affidandola a società per azioni che versano il passivo nel bilancio del Comune.

La Vincenzi ha voluto essere diversa. Non a caso l’errore chiave è il suo portavoce Francesca, con alcuni giovani assessori e consiglieri comunali, che hanno costituito un giro di affari in cui sembrano coinvolte anche le cosche calabresi. Ora super Marta ha fatto notizia, ma ha distrutto la sua amministrazione. Le ha tolto il senso politico, da lei voluto, quello di essere immagine per la città. La novità ha distrutto il potere silenzioso che, fino ad ora, era appartenuto a Claudio Burlando, presidente della Regione. Ma Burlando, anch’egli travolto dai problemi dell’area degli Erzelli, è stato costretto a fare un comunicato per dire, con la testimonianza dei suoi autisti, che non manda il figlio a scuola con l’auto della Regione. Ciò significa che il presidente è al di sotto di ogni sospetto.

Crolla così l’ultima cosa certa che c’era a Genova: le istituzioni immobili. Il vento della notizia le ha travolte. E tutta la città è sgomenta e sdegnata ad un tempo, il mugugno genovese che tutto subisce si è rivelato un’autopunizione per la città. Che sarà di Genova se nemmeno la sinistra è più affidabile? La Vincenzi dice di essere stata «tradita», ma un sindaco non può dire di non sapere. Per un sindaco non contano le buone intenzioni, contano i buoni fatti e i fatti della Vincenzi non sono buoni. Se si sentisse responsabile politicamente della sua azione amministrativa, le competerebbe il dovere morale di dare le dimissioni.

I partiti coinvolti si sono chiamati fuori, ma uno dei coinvolti nell’inchiesta, ora agli arresti domiciliari, Giuseppe Profiti, ha avuto addirittura la solidarietà del Vaticano che, rispettando le competenze della magistratura, dice di attendere la sua assoluzione. Profiti sarà stato un buon amministratore, come si dice, ma ogni uomo ha due lati, quello di luce e quello di ombra: è un piccolo dottor Jekyll e mister Hyde. Scomodare la Santa Sede per un imputato amico sembra troppo: e sembra troppo che il dottor Profiti sia stato ricevuto dal Papa nel suo viaggio a Savona, quando la notizia dell’arresto era ormai nell’aria. Genova, dunque, fa notizia eccome. È strano che una disavventura giudiziaria che ha coinvolto la sinistra genovese e savonese sia giunta a scoppiare anche in piazza San Pietro. Infine Genova la Superba: quando torna a fare la storia, la fa in grande.

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da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 10, 2008, 10:00:43 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:45:12 pm »

26/6/2008
 
Ma Gramsci non è il gramscismo
 
 
 
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Era imprevedibile che il primo dibattito di cultura politica nel centrodestra avvenisse sulle colonne di questo giornale, in seguito a una leggera provocazione di Lucia Annunziata. Ma su di essa sono intervenuti due dei maggiori dirigenti di Forza Italia, Sandro Bondi e Fabrizio Cicchitto, con toni differenti, ma egualmnete impegnati a ritrovare un Gramsci maestro universale.

Gramsci è una figura dominante del Novecento italiano, a lui si devono le matrici della rivoluzione comunista come nazionale, come compimento della storia italiana, come possibilità di unire in una sintesi unica Rinascimento, Risorgimento e Rivoluzione. Sta anche a lui porre in modo politicamente determinante la questione dei cattolici.

Tutto il nuovo del comunismo italiano sta in lui. E quel «nuovo» è la chiave della penetrazione del Pci nella cultura italiana nelle professioni, nelle istituzioni, nella magistratura: la rivoluzione attraverso la conquista della società civile, e non attraverso il suo annullamento, come pensava Lenin.

Gramsci fu certamente provocato dall'esempio di Mussolini che realizzò una rivoluzione antiborghese e non anticapitalista e anti istituzionale, creando come suo proletariato un partito fascista di massa.

Gramsci fu letto dalla giovane generazione democristiana negli anni '50: e la conquista che Fanfani fa del partito in nome della «terza generazione» democristiana ricalca nel mondo cattolico il concetto del partito come intellettuale di massa proprio di Antonio Gramsci. Così il Pci si pensò come il partito nazionale, la forma politica della Repubblica e, attraverso la conquista della cultura e del personale delle istituzioni, riuscì, nel '94, a rimanere l'unico partito costituzionale in Italia: la società civile, attraverso i magistrati, aveva fatto fuori tutti gli altri.

Il «gramscismo» certo è altra cosa da Antonio Gramsci: e la figura morale dell'uomo è quella di un martire della coscienza e della libertà, che testimoniò con la sua vita, ma non con il suo pensiero. Gramsci è un monoteista ferreo, crede in un unico dio, la rivoluzione. E l'egemonia è quella di una fusione tra Riforma, Rinascimento, Risorgimento e Rivoluzione, una totalità spiegata nelle sue componenti. Augusto Del Noce ha sostenuto che il pensatore omogeneo a Gramsci fosse Giovanni Gentile e che Benedetto Croce fosse un avversario ideale ma non un omologo culturale.

Forza Italia, l'opera di Berlusconi, è una lotta contro il gramscismo realizzato. Consiste nell'opporre il popolo come unità primaria democratica per impedire che il gramscismo, realizzato attraverso la società civile nelle istituzioni, distrugga la dimensione popolare della nazione.

Berlusconi organizza quello che il gramscismo ha escluso: i cattolici, i socialisti, la gente comune, il proletariato, il sottoproletariato, le donne. Il fatto che la cultura politica determini solo l'area di influenza gramsciana come legittima crea il movimento berlusconiano come protesta del popolo minuto, del popolo comune. Non della massa, concetto fascista e comunista, ma dei tanti singoli, delle persone che si sentono legittimati alla lotta politica dal fatto che le istituzioni e l'opinione pubblica sono governati dal gramscismo. Esso ha avuto successo, ha fatto del Pci, pur con mutato nome, la chiave della legittimità politica e della dignità intellettuale. Berlusconi vince sulla libertà nel '94, sulla legalità oggi: rivolge il suo appello ai sentimenti primari, alle emozioni originarie dei cittadini. E dà ad esse un risvolto democratico liberale nella sua persona. Se non ci fosse stato Berlusconi, forse la Lega avrebbe dato altri frutti e la violenza dei cittadini comuni avrebbe creato ben altro che le ronde. E le ronde non si contrastano con i girotondi. Chiamare rischio di fascismo questo fatto democratico è un esempio della ragione astratta come oppio degli intellettuali.

bagetbozzo@ragionpolitica.it
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Luglio 14, 2008, 12:12:13 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 10, 2008, 10:00:25 am »

8/7/2008
 
La forza di Obama "spiritual"
 
 
 
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Quando John Kennedy si candidò a presidente degli Stati Uniti, pose il problema di un cattolico a capo della nazione «bianca, anglosassone, protestante», nata come riforma presbiteriana o laicale nel nuovo Occidente. Per Barack Obama non si è posto il problema. Eppure è certamente un diverso, la diversità fa parte del suo fascino politico (o del suo possibile rigetto) ma non costituisce problemi di compatibilità. Barack è profondamente connesso alla cultura religiosa afroamericana, a un cristianesimo degli schiavi, a cui i colonizzatori offrivano le parole di un altro popolo oppresso, gli ebrei, in cui essi chiedevano una resurrezione sia religiosa che politica: e la chiedevano come comunità. Gli ebrei ottennero dai persiani vincitori la possibilità di tornare in Giudea con la protezione dello Stato imperiale. Così accadde negli Stati Uniti agli schiavi africani. Gli afroamericani non hanno costruito una propria identità religiosa o politica. Ma l’America, al prezzo di una sanguinosa guerra civile, ha concesso al popolo degli schiavi la dignità di essere popolo americano.

La repubblica stellata aveva fatto più per gli schiavi africani di quello che Artaserse II aveva compiuto per gli ebrei esiliati nelle sue terre. Così vi è un modo afroamericano d’essere americani: mantiene un vivido linguaggio di autoidentificazione comunitaria, senza però proporre alcuna contrapposizione all’ideale americano, sentito come il potere liberatore. Anche quando il pastore che è stato il direttore spirituale di Obama aggredisce l’America, lo fa all’interno dell’America. Ne viene il singolare linguaggio religioso di Obama, ben al di fuori della contrapposizione tradizionale tra chi è per la scelta o per la vita nella questione dell’aborto. Obama tende a parlare un linguaggio inclusivo: è la sua fortuna e la sua abilità. Poiché la comunità afroamericana non era in grado di escludere nessuno, Barack Obama si può permettere di includere tutti, creando un linguaggio che ha una forte religiosità, ma nessuna forma di religione in quanto formulazione dottrinale distinta. Agisce piuttosto sul piano dei comportamenti e dei sentimenti che su quello delle culture e delle politiche.

Ne nasce così un paradosso: Barack è compatibile con tutte le politiche, anche con quelle che ha sinora escluso nella sua linea ostile al presidente Bush nella guerra in Iraq. Eppure fa un passo verso l’elettorato tradizionalmente schierato sui temi favorevoli alle Chiese come quello dell’attuale presidente americano: Barack riprende interamente il programma di Bush di sostegno all’assistenza sociale e solidale promossa dai gruppi religiosi. Nel candidato afroamericano, che ha così fortemente innovato il linguaggio religioso dandogli nuova forza, non troviamo niente di politico. Barack Obama ha praticato quello che, nel linguaggio cattolico, si chiama, con Jacques Maritain, il «primato dello spirituale». Ma l’ha talmente praticato bene che da esso non possiamo dedurne nessuna conseguenza politica. Se dovessimo rimanere nel registro della comunione afroamericana, dovremmo pensare che non sarà episodica la simpatia per Israele. Nelle parole dei salmi biblici i popoli schiavi si sono tante volte riconosciuti.

Israele potrebbe essere un riferimento della spiritualità della «lingua d’argento» che ha incantato gli americani oltre le frontiere di appartenenza. Il risultato di questa scelta indica la forza del linguaggio spirituale in America, ben oltre i termini della religione civile tradizionale; è tanto forte da creare movimenti d’opinione che non si attendevano. Persino l’invenzione di un modo nuovo di raccolta dei fondi tra i piccoli offerenti, tanto dinamico e consistente che il candidato Obama rinuncia al finanziamento pubblico. Se vincesse le elezioni, l’Europa, da sempre integrata politicamente con gli Usa, si sentirà a disagio di fronte a un candidato che vorrà dare senso ideale ai suoi atti politici: il che non è molto europeo. Il «primato dello spirituale» permette a Obama di condurre alle elezioni i democratici, senza aver risolto alcun problema di carattere strettamente politico. E anzi persino usando come motivo dello straordinario consenso il fatto di non avere scelte pregiudiziali. La presidenza deve essere ancora tutta scritta.

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« Risposta #4 inserito:: Luglio 27, 2008, 11:12:28 am »

26/7/2008
 
Berlusconi, il volto e il vuoto
 
 
 
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore.

Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.

Nel 2008 le cose sono andate diversamente.

Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?

Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.

Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l'autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi. Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica. La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato. La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell'accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica. A ciò si aggiunge il fatto che l'indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l'impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale. Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?

Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia. Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto. Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista. Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore. Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.

Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.

Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.

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« Risposta #5 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:21:49 am »

5/8/2008
 
Le donne vescovo doppia crisi anglicana 
 
GIANNI BAGET BOZZO


 
La chiesa anglicana era l’esempio di una unità che cercava di comprendere sia il principio cattolico che il principio protestante. Essa conservava del principio cattolico il concetto della successione episcopale come elemento fondante dell’identità della chiesa. Del concetto protestante essa riceveva il tema del rapporto individuale del credente con la salvezza mediante il dono della fede giustificante. Ora essa entra in crisi in ambedue i suoi principi, quello cattolico e quello protestante, in forme diverse. La decisione dell’ordinazione delle donne a vescovo comporta la negazione della continuità tra Cristo e la chiesa che è il fondamento del principio cattolico. Non avendo il Cristo costituito un apostolo donna, il carattere maschile del sacerdozio esprime la continuità fisica con la fondazione di chiesa operata dal suo fondatore, e quindi della preesistenza della chiesa come comunione alle scelte dei singoli fedeli. Questo è il principio cattolico che è comune ai cattolici e agli ortodossi, sia quelli greco slavi che quelli orientali.

Contatti interrotti con cattolici e ortodossi
Perciò la decisione in linea di principio di elevare donne alla dignità episcopale comporta la variazione di un concetto essenziale della chiesa anglicana che la rendeva omogenea alle chiese che accettano la successione apostolica come fondamento della chiesa e il suo rapporto con il suo fondatore. Non sarà possibile creare una condizione speciale per i vescovi dissidenti dalla decisione del sinodo della chiesa d’Inghilterra, come era accaduto con l’ordinazione delle donne al sacerdozio presbiterale. E questo interrompe i contatti con le Chiese cattoliche e ortodosse e pone il problema di una divisione della chiesa anglicana tra cattolici e protestanti proprio mentre essa si fondava sul superamento della divisione storica del secolo XVI.
Ma al tempo stesso il principio della letteralità della Scrittura come fondamento dell’identità della chiesa viene leso dalla decisione di ammettere alla dignità sacerdotale ed episcopale omosessuali praticanti come ha fatto la chiesa episcopale americana. Ciò crea un contrasto con l’evangelismo delle chiese anglicane d’Africa che in grande maggioranza non intendono comunicare con la chiesa episcopale americana con cui la chiesa d’Inghilterra rimane in comunione.
Ciò mostra che il tema delle differenze dottrinali costituisce il fondamento dell’identità delle chiese e che è proprio il tema delle verità della fede quello che fonda le differenze ecclesiali ed anche le motivazioni dei singoli ad aderirvi.

Uniti non più dall’ecumenismo ma dalla paura
L’ecumenismo come forma di unione universale delle chiese, quasi che le formule in cui esse esprimono il dogma potesse essere superato in un abbraccio senza identità fondato solo sulla volontà di essere una sola chiesa, non ha avuto successo. L’ecumenismo ha però tolto l’estraneità delle Chiese l’una e all’altra e ha indotto al dialogo: ciò ha avvantaggiato la chiesa cattolica che può accettare il dialogo come principio e mantenere la sua unità fondata sul primato papale. La formula in cui viene professata la fede definisce l’esistenza di ogni chiesa sul particolare del suo modo d’essere. Ma al tempo stesso le minacce al Cristianesimo nel mondo tendono a unire i cristiani innanzi ai medesimi problemi. E la diversità delle formule indica le possibilità di approcci diversi che possono avere ciascuno la propria efficacia.
E la sfida del tempo determina anche una percezione dell’unità dei cristiani nella differenza delle chiese. L’idea di una chiesa di chiese che stava all’inizio dell’ecumenismo come ipotesi fondatrice viene così meno ed è sostituita dalla percezione della differenza e del superamento dell’ostilità. L’ecumenismo della chiesa unica è dunque caduto ed è rimasto il dialogo delle chiese divise ma unite di fronte al problema della testimonianza cristiana nella società globale. Differenza e unità sono complementari alla realtà della chiesa in un tempo di così grandi cambiamenti della condizione umana sulla Terra.

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« Risposta #6 inserito:: Agosto 10, 2008, 10:06:59 am »

9/8/2008
 
Il Pdl come la Dc nel '48
 
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Destra e sinistra sono nate dal Parlamento inglese e, nei termini assolutamente empirici, indicavano il superamento delle differenze tra anglicani e i non conformisti nella convergenza verso la corona. Fu la fine della guerra religiosa e civile che mise in crisi l’Inghilterra nel secolo XVII. Le due differenze ecclesiastiche diventavano differenze politiche, si consideravano parti del medesimo sistema.

Ciò potrà accadere quando la lunga guerra civile sarà finita e non ora, mentre è in corso. Sinistra e destra in Italia sono diventate categorie sovraccariche: l’una, destra, di rigetto; l’altra, sinistra, di adesione. E così i due termini non definiscono e i partiti Pd e Pdl devono essere nominati senza aggettivi e senza definizioni: come organizzazioni.

Sembrerebbe che alla sinistra abbia giovato il suo essere sovraesposta all’uso politico, ma ciò le ha creato un problema. Sinistra è diventata un valore assoluto, in cui essere più a sinistra vuol dire avere più valore. Ma accade curiosamente che il Pd possa essere detto di sinistra solo impropriamente, perché esso tende ad assumere una funzione di centro nella sua unione con i democristiani della Margherita e di popolari e quindi la qualifica di sinistra non è più sufficiente a definirlo.

D’altro lato il carattere valoriale del termine fa sì che i partiti «antagonisti» possano, grazie alla rottura con il Pd, definirsi ancora come la vera sinistra. E la difficoltà per il Pd è che la sinistra come categoria politica beneficia dell’appoggio di un partito intellettuale che controlla l’accademia e la stampa e fa di essa il partito dell’identità costituzionale. Nella storia che condusse al Pd la differenza tra centro sinistra con il trattino e quella senza fu fondamentale. Ora ha prevalso con il Pd quella senza, ma nemmeno essa viene più indicata. E’ come se nel Pd il termine di sinistra diventasse un problema, come lo è quello di destra nel Pdl. L’impossibilità di usare i termini propri, destra e sinistra, indica che la legittimazione reciproca non è ancora avvenuta. Le tensioni interne al Partito democratico mostrano che vi è ancora il problema del centro sinistra con trattino perché l’alleanza con Casini viene cercata come rilegittimazione al centro, come se il Pd non fosse stato abbastanza. Il fatto che nelle elezioni politiche il Pd abbia perso voti a destra e ne abbia guadagnati a sinistra mostra che l’operazione del Pd è fallita e che l’area di destra gli è preclusa.

Così è accaduto che del cambiamento del paese in questi anni abbia approfittato la coalizione di Berlusconi, che è riuscito a fare dei suoi temi il criterio della legittimità della politica. Essa non si può fondare altro che sui termini di libertà, di autorità e di identità che sono oggi il sentimento prevalente nel paese, anche a sinistra. E il centrodestra, che può definirsi tale senza problemi, può vincere non solo le elezioni ma diventare esso, la forza politica più delegittimata, il criterio della legittimità politica.

Vi è una analogia tra vittoria del centrodestra e quella della Dc nel ‘48. Anche allora la vittoria dello scudo crociato fu prodotta da una mobilitazione popolare senza partito attorno alle parrocchie e i temi fondamentali furono quelli di garantire la libertà, preservare l'autorità dello Stato, salvare l’Italia. La maggioranza del centrodestra si è prodotta e questo è il fatto nuovo, attorno a sé stessa, senza organizzazioni preesistenti. La debolezza dei partiti che compongono il Popolo della libertà è ben evidente ma, come nel ‘48, e questa volta in modo autonomo e consistente, l’elettorato si è costituito attorno ai temi dello Stato, dell’Italia e della libertà come un fatto spontaneo e dopo una battaglia durata anni. Il fatto della vittoria del centrodestra è un fatto definitivo perché i temi posti dall’attuale maggioranza sono problemi del popolo che vota a sinistra e non può più definirsi nei termini legati alla questione sociale del secolo scorso. Come nel ‘48 la maggioranza opposta alla sinistra ha vinto al Nord e al Sud e questo nonostante la presenza determinante della Lega al Nord. E la formazione di Bossi ha avuto successo nel Nord in quanto legata alla visione del sistema Italia nel suo insieme e quindi al superamento di ogni nordismo separatorio. Nelle precedenti elezioni dopo il ‘94 la sinistra aveva per sé il tema della legittimità costituzionale storica e del sostegno della cultura politica. Dopo la vittoria berlusconiana del 2008, questi temi non sono più sufficienti a costituire un’alternativa politica.


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« Risposta #7 inserito:: Settembre 07, 2008, 04:45:53 pm »

7/9/2008
 
La Lega e i vincoli di carne
 
 
 
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 
Il federalismo fiscale è un vero problema, ma non è un problema fiscale. È la prospettiva di differenziare il Paese assecondando la sua diversa geografia; il Nord padano ha possibilità diverse dalla penisola mediterranea che può crescere nello sviluppo del traffico del mare di mezzo, un incrocio tra l’Asia e l’Europa. Ma ciò chiede anche una forte tenuta dello Stato e questo non può essere che opera dello Stato nazionale. I ministri della Lega Nord hanno tenuto banco sui due temi, Maroni ha diretto il ministero dell’Interno, Calderoli ha elaborato la riforma del federalismo fiscale. Ne è nata una certa egemonia del discorso leghista, anche perché la sinistra ha ritenuto che la sua sconfitta sia nata proprio dalla cancellazione del sentimento di classe per quello di territorio e ha pensato che la Lega avesse il monopolio di questo tema.

Del resto la stessa modifica dell’articolo quinto della Costituzione nel 2001, fatto dalla maggioranza Amato, era stato visto come un tentativo di dissociare il voto leghista dalla Casa delle Libertà, il che non avvenne. Si è perso così di vista che la maggioranza del 2001, l’opposizione del 2006 e di nuovo la maggioranza del 2008 erano avvenute attorno a Silvio Berlusconi, cioè attorno al tema della libertà dello spazio del privato, sul tema classico che divide la destra dalla sinistra e che in Italia era anche frutto del rigetto di un’egemonia della sinistra nelle istituzioni.

È stato un voto di moderazione e tradizione, ha preso il posto del voto alla Dc e ai partiti di centro: un voto dunque tradizionale, omogeneo a quello del ’94. La domanda di sicurezza e di regolamento dell’immigrazione era un fatto nuovo ma si inseriva nel voto antico del Paese e non era certo un voto di intolleranza. Non è un caso che Berlusconi volesse qualificarsi ancora come un uomo che difendeva la proprietà privata del singolo: e ciò apparve nel fatto che l’unica cosa che egli ottenne fu quella di togliere l’Ici dalla prima casa. Non è un caso che Bossi abbia chiesto di reintrodurla come necessaria ai Comuni e Calderoli abbia accettato di costituirla con l’imposta generale dei Comuni per le funzioni da essi esercitate verso i proprietari delle case.

La cultura della Lega Nord è diversa; e lo scopo della riforma fiscale imposta da Calderoli consiste nel fatto di aumentare i poteri locali a partire dai Comuni, mantenendoli tutti, anche le Province, così come sono ora: una riforma del potere dal centro verso il locale, associando a ciascun ente un’imposta distinta. La Lega è un partito di amministratori e di sindaci, la maggioranza dei suoi deputati sono sindaci dei Comuni del Nord e vedono il Paese come un insieme di Comuni. E la funzione di Stato la pensano ancora certamente affidata alla polizia locale capace di essere in contatto con i cittadini. Questo dipende dalla cultura della Lega che è una cultura della comunità, cioè del vincolo etico e etnico che unisce i singoli tra loro in un vincolo carnale che costituisce la loro identità prima. È per questo ethos comunitario che la Lega ha forza e costituisce una militanza. Non è un caso che essa abbia cercato radici etniche persino nel culto del dio Po, perché il vincolo etico e etnico è fondamentale nella sua concezione. La Lega ha compreso bene il problema dell’identità e pensa che l’unità carnale sia la miglior condizione per dare ai cittadini il senso comunitario: è il lombardo, più che il cittadino, che conta nella concezione leghista.

Per questo Bossi è diventato un simbolo sacro e, come tutti i simboli sacri, la sua infermità giova al suo carisma, mostra che chi fa appello a motivi carnali è più forte del suo corpo, che il corpo politico del re dà forza al corpo fisico del leader. Non è perciò un bene che il tema federale, gestito solo con il linguaggio della Lega, sembri, a destra come a sinistra, un cedimento della cultura vincitrice. Se il federalismo fiscale deve andare innanzi, non deve essere a detrimento della dimensione della nazione Italia e del suo Stato. Il sentimento della nazione non è etnico, è civile e nasce dalla tradizione cattolica e da quella laica. È significativo che Berlusconi abbia voluto affiancare i temi del federalismo fiscale con un classico tema di libertà, il tema della riforma della magistratura, sia della sua efficacia sia del suo equilibrio interno. Cioè un tema classico della cittadinanza e dello Stato nazionale. È bene quindi che il partito più votato dagli italiani, il Popolo della Libertà, equilibri con le sue parole l’impressione che il federalismo fiscale sia una proprietà della Lega Nord.

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« Risposta #8 inserito:: Settembre 11, 2008, 09:02:28 am »

11/9/2008
 
Il risveglio di Genova nel nome di Siri
 
 
GIANNI BAGET BOZZO
 

Il cardinale Giuseppe Siri e il cardinale Angelo Bagnasco sono ambedue genovesi e sono divenuti, l’uno e l’altro, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana.

La personalità del cardinale Siri ebbe un ruolo nella Chiesa nei tempi del Concilio, ma soprattutto nei tempi del postconcilio.
Scopo fondamentale della sua azione fu quello di affermare che il Vaticano II manteneva come vincolante la tradizione della Chiesa e quindi non poteva essere presentato come un nuovo inizio, il principio di una Chiesa diversa da quella che essa era stata nell’epoca moderna. Comprendere il moderno non significava farne il criterio di lettura e di interpretazione delle unità della tradizione nel tempo. La sua ferma posizione servì a mantenere i molti cattolici nella Chiesa conciliare e a permettere che l’opera di Paolo VI, tesa a mantenere intatta l’autorità del Papa sulla Chiesa, ottenesse il consenso universale del Concilio e del postconcilio, evitando un uso alternativo alla tradizione del concetto di collegialità.

Il clero e il laicato cattolico genovese sostennero anche posizioni diverse più sensibili al tema dell’aggiornamento come programma iniziale del Concilio, basti pensare alle figure e alle opere di ecclesiastici genovesi come Emilio Guano e Franco Costa. Nonostante la grande considerazione che per Siri ebbero i papi del Concilio e del postconcilio, la diocesi genovese sembrò segnata dalla posizione sull’arcivescovo e quindi come una resistenza al rinnovamento globale voluto dal Vaticano II. Per questo Genova non ebbe più nel suo clero candidati alla dignità episcopale in Italia.

Le cose cambiarono con il pontificato di Benedetto XVI, che formalizzò la posizione del Papato circa il Vaticano II, sostenendo che vi erano due letture del Concilio: una che lo vedeva come rottura e un nuovo inizio e l’altra come continuità della tradizione. Ciò dava riconoscimento alla lettura che era stata propria del cardinale Siri. E da allora le nomine degli ecclesiastici genovesi alla dignità episcopale o a incarichi della Santa sede sono divenute uno degli elementi significativi dell’attuale pontificato. La nomina del cardinale Bagnasco agli stessi incarichi che furono del cardinale Siri indica un riconoscimento che la differenza genovese, come risultava dal lungo episcopato di Siri, era un fatto positivo. Essa ha posto l’accento sull’identità della Chiesa in se stessa, sulla sua dimensione essenziale di parole e di sacramento, sulla novità reale della grazia.

Con Angelo Bagnasco un genovese ritorna a dirigere la Chiesa di Genova e al tempo stesso la Chiesa italiana. I tempi sono grandemente diversi e nel mondo occidentale vi è la tendenza a definire questo tempo come postcristiano in cui il Cristianesimo vale come memoria e non più come interpretazione del mondo e dell’uomo.

Genova e l’Italia rappresentano ancora un’eccezione rispetto a questo clima, il Papa e la Chiesa sono ancora riconosciuti come autorità storica e invocati come capacità di dare letture del tempo tecnologico del mondo e della società globale. Ciò comporta un elemento di contrasto con una visione postcristiana del mondo che nel nostro Paese non è dominante.

E conduce a porre l’accento sulla Chiesa in se stessa, sull’identità della persona che il Cristianesimo ha rivelato al mondo. Non a caso la liturgia come espressione della Chiesa nella sua pienezza fu così cara al cardinale Siri come a papa Ratzinger e torna nelle tematiche di governo del cardinale Bagnasco. Egli può dire di governare ancora una Chiesa di popolo, una realtà rara in Europa. E forse il fatto che la Chiesa italiana, grazie anche al cardinale Siri, abbia manifestato con tanta chiarezza il suo sentimento della differenza ecclesiale ha mantenuto una dimensione popolare come caratteristica propria.

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« Risposta #9 inserito:: Novembre 05, 2008, 08:13:29 am »

5/11/2008
 
La Bibbia e le borse impazzite
 
GIANNI BAGET BOZZO

 
Papa Ratzinger continua la sua opera di recupero della tradizione della Chiesa come condizione della sua identità. Proprio gli avvenimenti che hanno circondato il Sinodo e hanno veduto una grande crisi del capitalismo occidentale, che veniva dopo quella del comunismo, permettono di sciogliere il mito conciliare e postconciliare secondo cui la Chiesa si deve aggiornare sulla storia. Non a caso lo stesso concetto di storia è entrato in discussione e credo che il cristiano dei nostri giorni possa avere verso le realtà della società umana il sentimento dell’Ecclesiaste, cioè della ripetizione degli eventi umani. L’uomo, che può con la scienza e la tecnica tutto conoscere e quasi tutto operare, non è più adatto al governo di se stesso e della sua società delle generazioni che lo hanno preceduto. Per questo ricorrere alla tradizione della Chiesa come al filo aureo che esprime la parola di Dio in Cristo per tutti i tempi e tutte le storie significa fondare la propria casa sulla roccia secondo la parola evangelica.

Il Sinodo dei vescovi che si è tenuto a Roma nei medesimi giorni delle borse impazzite avrà certamente avuto presuli sensibili al mito dell’aggiornamento e dell’adattamento. Ma l’impronta del Papa ha dominato il Sinodo, perché anche i vescovi più legati alla memoria conciliare avvertono che solo la lettura nella Chiesa della Parola di Dio permette loro di collegare le generazioni di là dei tempi che le separano.

Papa Ratzinger ha vissuto il disagio della fede e della teologia da quando l’esegesi, anche quella cattolica, ha considerato i testi biblici come meri testi, separati l’uno dall’altro e scomponibili nei loro frammenti e nelle tradizioni che essi incorporano. Questa esegesi è conforme alla Riforma protestante entro cui essa è nata per cui la giustificazione del credente non modifica colui che la riceve: e così il singolo testo biblico non cambia senso quando esso viene raccolto dalle assemblee religiose sia ebraiche che cristiane nel canone biblico. In questo modo la lettura che un credente riformato fa della Bibbia è frutto del suo spirito, non è la ricerca della parola di Dio immanente nella Scrittura.

Nei tempi postconciliari la lettura dei testi come documenti letterari e come testimonianza dei fatti è divenuta prevalente anche tra i cattolici sicché i testi sono divenuti relativi e i fatti improbabili. Il criterio della Chiesa d’Occidente e d’Oriente è quello di leggere la Bibbia come un documento unitario in cui il senso unico è il Cristo e soprattutto ritiene che sia la Chiesa come «opera proprio dello Spirito Santo» (Agostino) il soggetto che legge la Scrittura per trovare in essa il volto di Cristo. È solo in questo senso che la nota frase di Gerolamo secondo cui chi ignora la Scrittura ignora Cristo è chiaramente comprensibile.

La lettura che la Chiesa fa della Bibbia pone l’Antico Testamento, la Bibbia ebraica, come profezia del Cristo ed è in questo modo che il lettore trova in quanto parte della Chiesa la parola di Dio nel testo scritturale. La ricerca con metodi appartenenti alle diverse scienze di interpretazione è certamente significativa, ma non costituisce né una premessa né un obbligo per leggere la parola di Dio nella Bibbia. E, non a caso uno dei temi del Sinodo, e forse quello più significativo, è che lo spazio della Scrittura è quello sacro, cioè quello della liturgia. Così è visibile che, dopo la lunga influenza della Riforma protestante nella teologia e nell’esegesi postconciliare, il Papa conduce anche nel Sinodo i cattolici verso una vicinanza con le Chiese ortodosse, mettendo in luce pensieri che appartengono al cattolicesimo e insieme sono caratteristici delle Chiese ortodosse. La presenza del patriarca di Costantinopoli al Sinodo dei vescovi e il suo magnifico discorso, molto conforme al genio della sua tradizione ma capace di fare risuonare la tradizione cattolica, indica che è nata una nuova realtà che non è più l’ecumenismo come abbiamo conosciuto.

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« Risposta #10 inserito:: Novembre 26, 2008, 11:18:55 am »

26/11/2008
 
Il dialogo impossibile su Dio
 
GIANNI BAGET BOZZO

 
Benedetto XVI ha firmato una lettera a Marcello Pera, con un elogio per il suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori).
Il dialogo questa volta ha funzionato, perché il senatore laico è divenuto cristiano in quanto liberale e professa le radici cristiane della libertà moderna. Ma il Papa e il senatore sono concordi nel dire che il dialogo interreligioso non è possibile. Paolo VI introdusse, con l’Ecclesiam suam, il termine «dialogo», che ha avuto grande successo ma ha generato un equivoco: far pensare alla compatibilità del cattolicesimo con tutte le culture.
Il concetto di cattolicesimo come dottrina e come identità culturale è andato così perduto. Quanto papa Benedetto abbia fatto, quand’era ancora cardinale, per riaffermare il «logos» cristiano contro il «dialogo» divenuto parola dominante, appare chiaro nella Dominus Jesus del 2000, trincea dottrinale di fronte al dilagare del dialogo in occasione dell’anno giubilare. Ciò mostra che il cardinale non condivideva lo «spirito di Assisi» per quanto riguarda i rapporti interreligiosi. Lo spettacolo del primo convegno, quando gli animisti sacrificarono un gallo in una chiesa, non si ripete più.

Non meraviglia perciò che il Papa dichiari, nell’intervento sul libro di Pera, che «il dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile». Per questo Benedetto ha fatto della parola «logos» il fondamento della sua esposizione dottrinale dei rapporti tra fede e ragione, tra Chiesa e cultura. La piena valorizzazione del termine «logos» è propria della Chiesa cattolica e di quelle ortodosse. Non vale più come espressione dell’armonia tra grazia e natura nelle comunità nate dalla Riforma protestante, in cui fede e grazia salvano la persona ma non perfezionano la natura umana. E di «logos» è impossibile discutere con le grandi religioni mitiche: l’induismo, il buddhismo, il confucianesimo, ridivenuto forma culturale in Cina.
La «sorgente greca» che la Chiesa ha incorporato è un termine che fonda il cattolicesimo ma non ne semplifica i rapporti con le altre religioni.
Certamente non li semplifica nemmeno con l’Islam, per cui la natura è un atto di pura volontà divina senza consistenza propria e la ragione non ha alcuna autorità se non all’interno dell’esegesi letterale delle fonti islamiche. Dove non c’è «logos» non vi può nemmeno essere dialogo.

La cultura protestante ha determinato largamente il cattolicesimo postconciliare, a partire dalla lettura della Bibbia e dall’interpretazione della modernità, ma nessun dialogo ha raggiunto un qualche effetto nei rapporti istituzionali e dottrinali tra cattolici e protestanti. Qualcosa che possiamo chiamare «dialogo» esiste ancora, soprattutto nei rapporti tra cattolici e Islam, e ha forse l’utilità di far aumentare la conoscenza del mondo nato dal Corano all’interno della Chiesa, per comprenderlo meglio e capire il fascino che può avere in Occidente. Ma il dialogo con il mondo islamico avviene soprattutto per sollecitare la comprensione musulmana della libertà religiosa e quindi favorire la libertà della condizione cristiana nei Paesi islamici. È, come dice il Papa nella lettera a Pera, un intervento sulla cultura e non sulla religione.

Nel discorso di Ratisbona il Papa ha mostrato la differenza radicale tra la concezione cristiana del «Logos», inteso come verità di Dio nel mondo e del mondo in Dio, e il Dio islamico fondato sulla volontà divina oltre la natura e oltre ogni ragione. Il Dio del Corano è diverso dal Dio della Bibbia e soprattutto dal Dio di Gesù Cristo. I rapporti tra Chiesa e Islam avvengono soprattutto attraverso gli Stati, che sono un’eredità dell’Occidente nel mondo islamico e non hanno autorità religiosa. Nemmeno quello saudita, dove il re è custode dei luoghi santi, della Mecca e di Medina, ma non è fonte di conoscenza religiosa.

L’ecumenismo inter-cristiano è divenuto diplomazia del buon vicinato e ha efficacemente sostituito la mutua condanna, ma non è in grado di raggiungere alcuna unione tra Chiese. Il dialogo con le religioni è divenuto quindi un’estensione della diplomazia cattolica verso gli Stati e verso le istituzioni delle grandi religioni. Ma non ha la base di «logos» e non è quindi vero dialogo. È una relazione inter-istituzionale che ha un significato politico e non dottrinale o religioso. Il suo fine è far crescere nel mondo la libertà e quindi, di fatto, uno spazio non religioso come accaduto in Occidente. Ciò mostra, ancora una volta, la connessione tra cattolicesimo e libertà moderna. Quello che insieme Benedetto XVI e Marcello Pera sostengono.

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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:35:21 am »

3/12/2008
 
Moro, la Dc e il dialogo sconfitto
 
GIANNI BAGET BOZZO

 
Gli Anni 2000 sono risultati così diversi dagli Anni 1900 che di questi si perde la memoria. In un tempo in cui il presente è tutto, il futuro è un problema, il passato non è più un maestro di vita, ciò che è stato perde i suoi diritti. Il tempo comincia con l’oggi e del «doman non v’è certezza». È perciò un atto meritorio dell’Università Luiss di Roma dedicare domani un convegno alla figura più drammatica dell’Italia nella guerra fredda: Aldo Moro. Di guerra fredda morì, perché tentò di dare forma politica al Paese, alla maggioranza italiana di allora, composta da cattolici e da comunisti. Dai «due vincitori» delle elezioni, come disse a Benevento dopo il voto del ’76.

Ma il caso Moro ha, per la sua potenza simbolica, un fascino particolare. È un dramma perfetto: personale, familiare, di sinistra, politico, istituzionale. Moro cercò di creare negli interstizi della guerra fredda un’eccezione italiana in cui un partito comunista, il più grande dell’Europa occidentale, accettava con il suo segretario la tesi che il socialismo si poteva costruire all’ombra della Nato. Forse era troppo ardito sperare che il partito di Togliatti rompesse i vincoli con l’Urss, troppo radicato il mito del «socialismo realizzato» da noi: un Paese credente, in cui il comunismo, assunta la forma d’una religione popolare, si conciliava con il culto della Madonna e dei santi. Gramsci aveva voluto proprio questo. L’Italia era stata un’eccezione ai tempi della guerra fredda perché il Paese è sede del Papato e Roma intendeva parlare anche col potere sovietico e non diventare un avamposto dell’Occidente. Ma l’ipotesi che la sede romana del cattolicesimo fosse così forte da essere una tale eccezione, era un concetto troppo ardito. Sia vera o falsa la tesi di Giovanni Galloni che vede nell’assassinio di Moro la vendetta di Kissinger, è certo che le Br eseguirono su lui una sentenza che aveva l’approvazione di Washington e di Mosca.

La storia di Moro non è inclusa nella storia Dc se non in parte. La sua vita politica e anche quella nel carcere Br fu tesa a mostrare che l’idea del dialogo, con cui Paolo VI affrontava il postconcilio, era politicamente praticabile. Moro non intese il dialogo come cedimento: evitò l’errore di Dossetti e Fanfani di fare della sinistra Dc la chiave del rapporto col Psi, poi col Pci. Anche le lettere dal carcere sono la testimonianza di una vita politica e del dialogo come principio che l’ispirava. La sua coerenza nell’estrema sventura fu intesa come debolezza. Di una cosa Moro volle essere garante: che tutta la Dc fosse presente nei governi che nascevano con una maggioranza prima col Psi e poi col Pci. Il criterio che guidò Moro nel dialogo fu l’unità della Dc. Ma il dialogo era una categoria politica sufficiente? Una scelta papale che interpretava il Vaticano II aveva la forza di diventare un fatto spirituale e politico in Italia? La vicenda di Moro ci dice di no. Le sorti di cattolici e comunisti si bipartirono definitivamente dopo la sua morte.

Ricordo che la prima lettera di Moro fu indirizzata al ministro dell’Interno, Cossiga, e che vi era il chiaro appello a non farsi incantare dalla «ragion di Stato». Fu per questa parola che, chiamato dal direttore del Secolo XIX Afeltra cui la lettera era giunta a dare un consiglio sulla sua autenticità e quindi sulla sua pubblicazione, risposi che il termine «ragion di Stato» era della penna di Moro. Sua la tesi che i conflitti presenti nella società non fossero conflitti di Stati, ma conflitti nei popoli e che, per salvare la democrazia, occorreva usare uno strumento che desse dignità politica alle parti coinvolte, anche se non erano governi in esilio o forme istituzionali o paraistituzionali. Il dialogo teorizzato da Paolo VI come forma di presenza della Chiesa nelle modernità diveniva per Moro uno strumento politico di cui non solo la comunità internazionale, ma nessun singolo Stato era in grado di fare a meno. La ragione di rivoluzione è la più radicale delle ragioni di Stato: e le implacabili Br non risposero all’atto solenne con cui Paolo VI cercò di coinvolgerle nel dialogo da esse cercato con le istituzioni mediante l’appello diretto ai brigatisti di salvare Aldo Moro «senza condizioni», cioè senza trattativa delle Br con lo Stato. Le Br non consideravano la Chiesa come potere, volevano il riconoscimento del potere reale: quello dello Stato italiano che non ebbero.
 
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:13:03 am »

16/12/2008
 
Dall'anima all'embrione
 
GIANNI BAGET BOZZO
 

Lo sviluppo indefinito della scienza e della tecnica create dall’Occidente e il costituirsi attorno a esse della società mondiale ha chiuso il tempo delle utopie della ragione e del fascino della rivoluzione sociale imponendo problemi nuovi. Riguardano il corpo fisico dell’umanità: demografia, energia, ecologia, sono i termini reali che investono l’uomo e pongono il problema del suo limite in un momento in cui la sua azione sembra quasi creatrice. Ciò riguarda anche il corpo umano diventato protagonista dell’immagine, della comunicazione e delle possibilità di modificazione del suo modo naturale di esistenza. È come se una seconda natura manufatta dall’intelligenza umana si aggiungesse alla creazione, andando oltre il principio di selezione naturale.

La Chiesa cattolica ha avuto difficoltà a comporsi col pensiero moderno, col primato della ragione storica e il fascino dell’utopia: ha dovuto misurarsi con esso e subirne i contraccolpi. Ma in questa umanità carnale in cui il fisico riprende i suoi diritti e il corpo la sua realtà, la Chiesa si trova molto meglio. Per quanto sia forte la sua sorgente greca, la Chiesa è fondata sull’incarnazione, sul Verbo fatto a carne. Per questo papa Ratzinger ha scelto con fermezza, sin da quand’era cardinale, di porre l’accento sull’inviolabilità dell’embrione. In quest’inviolabilità assoluta vi è l’idea del Dio creatore e della legge che, con un precetto concreto, prescrive il rifiuto della soppressione dell’embrione e della sua manipolazione. La Chiesa pone l’accento sulla salvezza dell’embrione come prima poneva l’accento sulla salvezza delle anime e lo fa per stabilire il principio del limite umano sulla creazione e sulla vita, e fondare il valore assoluto dell’uomo. Non a caso la dichiarazione della Congregazione si chiama Dignitas personae. Vuol ribadire che l’embrione è persona, anche se la fine della metafisica impedisce di dare al termine il suo pieno significato. Lo fa senza parlare dell’anima, linguaggio interdetto dal carattere fenomenologico della scienza, come la stessa istruzione dice, ma annunziando la vita divina che il Cristo ha donato all’uomo nel Figlio incarnato. Pone così a tutela dell’embrione il proprio della fede cristiana: la divinizzazione dell’uomo in Cristo. Ma in questo modo essa parte da un principio antichissimo proprio dei cristiani che, come dice la Lettera a Diogneto (II Secolo), non praticavano l’aborto, differentemente dal costume diffuso. E difende il principio della non manipolabilità del corpo umano, oggi spinta sino alla clonazione.

Certo la Chiesa sa che vi è un consenso su questi principi o sulle loro conseguenze anche tra coloro che non praticano la fede. Il diritto della scienza e della tecnica di manipolare l’uomo è contestato non solo dalla Chiesa ma anche dalla coscienza dell’Occidente, nata come Cristianità. Questa ecologia del corpo umano ha ancora più consenso di quello che riguarda l’altro problema del limite: l’ambiente e la convivenza sulla Terra delle generazioni future. Vi è in questo un sentimento religioso e il sentimento del limite che la natura impone all’uomo: il fatto su cui s’è innestato il linguaggio religioso. Ma con questo il Papa ottiene anche il superamento del fascino dell’utopia che ha dominato il periodo postconciliare e fatto del mondo cristiano una zona di espansione del linguaggio utopico, rivoluzionario, sovversivo dell’idea di Chiesa cattolica. In questo Benedetto XVI può pensare di offrire al linguaggio cattolico il senso della sua identità, anche se a prezzo del dissenso dei fedeli, come nel caso dell’aborto praticato anche da credenti. Gregorio Magno ha scritto che il compito del Papa è quello di sentinella della fede e dell’identità della Chiesa. Il documento della Congregazione sulla bioetica non aggiunge niente al già noto, ma lo ribadisce esaminando tutte le possibilità che la manipolazione, quando ha per fine solo la sua onnipotenza, può infliggere al corpo umano.

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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:19:38 am »

4/1/2009
 
Se cala pure l'audience del Papa
 
GIANNI BAGET BOZZO
 

La notizia pubblicata sui giornali, secondo la quale il pubblico alle udienze di papa Ratzinger sarebbe diminuito, ha suscitato il problema se Benedetto XVI abbia il consenso del suo popolo o se egli sia soltanto una conseguenza del pontificato di Giovanni Paolo II, l’espressione della necessaria continuità con un pontefice che ha segnato la storia della Chiesa e del mondo.

Ma Ratzinger ha espresso, anche sotto il pontificato di Wojtyla, i fondamentali del cattolicesimo. Lo fa ora da Papa con autorità e chiarezza.
Realizza ciò che il suo «amato predecessore» ha intensamente voluto. Ci sono alternative a Benedetto XVI? C’è un altro modo di governare la Chiesa, se non quello di esprimerla come Chiesa cattolica, dando al cattolicesimo un significato proprio, una continuità dottrinale e un’identità?

Con il linguaggio dei Padri della Chiesa
Quando diciamo i «fondamentali» del cattolicesimo, intendiamo l’annuncio cristiano come si è espresso alle origini della Chiesa: Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio. E difatti Benedetto XVI ha scelto il linguaggio dei Padri della Chiesa come suo linguaggio, in cui il messaggio non appare più solamente come dogma, cioè come limite al pensiero, ma come Mistero che richiede la partecipazione interiore e la disciplina esteriore, la mistica e la morale, l’etica e perfino la politica.

Sono le circostanze esteriori che hanno imposto la necessità di un linguaggio chiaro riguardo ai fondamentali del cattolicesimo: la Chiesa cattolica si trova sottoposta ad una pressione congiunta, che comprende vari fattori.

Mentre emergono la Cina, l’India e l’Islam
Il primo è l’emersione delle grandi nazioni pagane, come la Cina e l’India, difficilmente accessibili al messaggio cristiano se non in termini individuali. Non è pensabile che la Cina e l’India cedano all’annuncio cristiano come cedettero l’ellenismo e la romanità. Non a caso Joseph Ratzinger ha sottolineato come il logos greco e l’universalità romana facciano parte, insieme con l’Antico Testamento, del messaggio cattolico.

Il secondo fattore è la pressione dell’Islam, che esso esercita sia con la sua potenza di messaggio, che può affascinare anche menti occidentali per la sua radicalità religiosa, sia con la persecuzione esteriore della presenza cristiana nelle terre musulmane.

Il terzo fattore sono la scienza e la tecnica, che invadono l’Occidente tendendo a fare dell’uomo il re-creatore dell’uomo, a cacciare quindi Dio dall’esistenza umana, sostituendolo con la concezione dell’uomo come unico decisore sul suo corpo.

Sono tre sfide che richiedono al cattolicesimo di essere se stesso, anche per garantire l’identità cristiana delle altre Chiese, che tutte subiscono la medesima sfida, soprattutto in Occidente. L’ecumenismo della carità credente richiede che la Chiesa cattolica rimanga tale, ossia che esprima la differenza cristiana per tutte le Chiese.

I tempi attuali sono molto lontani da quelli del Concilio Vaticano II e ricordano piuttosto la Chiesa del 1800, isolata dal pensiero culturalmente dominante. Il consenso dei credenti in papa Ratzinger è scritto nella loro identità di cattolici.

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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:23:08 am »

24/2/2009
 
Dietro lo scisma ricucito

 
GIANNI BAGET BOZZO
 
L’ incidente che ha turbato i rapporti tra Santa Sede e comunità ebraica è stato chiuso con l’annuncio del viaggio di papa Benedetto in Israele e in Giordania, confermato dal primo ministro Olmert. Ma si è ancora posto il problema se veramente il piccolo gruppo di Ecône e la ricomposizione dello scisma lefebvriano valessero un incidente di così ampio rilievo, tale da coinvolgere anche l’opinione del cancelliere tedesco Angela Merkel. Eppure il Papa ha riaffermato l’intenzione di continuare i rapporti con la comunità lefebvriana dopo che il suo superiore, Bernard Fellay, ha confermato l’adesione alla condanna del negazionismo.

Non è certo la dimensione del gruppo di Ecône a porre il problema; lo è invece la tesi, ricorrente nel mondo cattolico e fuori di esso, secondo cui il Vaticano II ha costituito una rottura tra Chiesa pre-conciliare e post-conciliare, abbracciando talmente la modernità da divenire il contrario della Chiesa di Pio IX e di Pio X. Infatti negli anni di Paolo VI, durante il Concilio e subito dopo, l’ingresso della teologia nella pubblicistica comune e il dibattito su tutti i temi aperti nel mondo cattolico aveva dato l’impressione che la rotturanon fosse consistita in un arricchimento del linguaggio, ma nella sua alterazione. Quindi il problema posto dal vescovo Lefebvre andava ben oltre i termini dello scisma reale, che egli aveva preparato e poi consumato. L’azione dei papi, da Paolo VI a Benedetto XVI, è stata tutta rivolta a mostrare che gli sviluppi avvenuti col Concilio erano in continuità con l’implicito della tradizione cattolica e si fondavano su posizioni antiche. In particolare, si può prendere come esempio proprio l’antigiudaismo, che poté essere usato dall’antisemitismo dell’800 comeun suo supporto,mache rimase fermo nella convinzione del valore di Israele e della sua appartenenza morale e spirituale al mondo della salvezza, sino alla fine della storia. Il carisma di Ratzinger, anche da cardinale, fu quello di unire la continuità nella tradizione con la riforma della Chiesa attuata dal Concilio.Maquesta posizione espressa da Papa all’inizio del pontificato chiedeva di essere testimoniata con l’apertura verso la comunità che aveva creato uno scisma e che aveva rifiutato l’autorità papale? La comunità di Ecône si era indurita nella sua separazione, le sue posizioni pre-conciliari erano diventate anti-conciliari, lo scisma era divenuto la realtà della sua identità?

Papa Benedetto non ha seguito questo giudizio, ha praticato verso Ecône le medesime aperture che il Concilio aveva stabilito verso le Chiese ortodosse e le comunità protestanti, cercando motivi di convergenza. Il fatto che i lefebvriani accettassero sempre formalmente l’autorità papale e il primato petrino era una strada per ottenere la possibilità del superamento dello scisma. Ciò avrebbe provato che il sentimento cattolico di continuità nella tradizione era più forte dell’attaccamento a dimensioni che la storia aveva posto in altra luce col passare del tempo. Era stato un dramma della coscienza cattolica accettare la grande variazione conciliare e post-conciliare; ogni fedele aveva dovuto affrontare il problema dell’identità della sua fede. Risolvere lo scisma significa riconoscere lo sforzo fatto da milioni di fedeli per ritrovare nel linguaggio che i teologi formulavano l’identità del significato dottrinale e spirituale oggetto della loro fede. La Chiesa è tesa a mantenere l’unità della fede non solo nello spazio,ma anche nel tempo. In questo la fatica del post-Concilio ha riequilibrato la figura della Chiesa. La speranza conciliare e post-conciliare di un mondo riappacificato con lamodernità non si è realizzata nella forma auspicata dai teologi, perché l’avvento della scienza e della tecnica ha posto l’uomo di fronte a problemi assai diversi dalla questione sociale che il comunismo aveva posto al Concilio. La sfida del tempo unisce la Chiesa e le permette di chiudere le ferite antiche, di fronte a un laicismo totale e all’islam traboccante nella sua coscienza religiosa.Come forma di linguaggio, sia quello pre-conciliare che quello post-conciliare chiedono un aggiornamentonuovo. Papa Benedetto ne fornisce la chiave.

bagetbozzo@ragionpolitica.it
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