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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 148945 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 07, 2008, 06:13:41 pm »

7/10/2008 - Società
 
Il sesso non c'entra, ecco perché gli uomini tradiscono
 
 
Un nuovo studio Usa rivela le cause del tradimento: quasi il 92% sostiene che i problemi in camera da letto non costituiscono il motivo principale
 
 
Il sesso non è la prima causa del tradimento da parte degli uomini. Lo rivela uno studio condotto da Gary Newman, consigliere matrimoniale e studioso statunitense. Newman per scrivere il suo ultimo libro “La verità sul tradimento” ha raccolto centinaia di pareri di uomini e mariti, fedeli e non. Ebbene, il 92% degli uomini che tradiscono hanno rivelato che il sesso non è il motivo principale.

Quali allora le ragioni? “Molti uomini hanno detto di non sentirsi abbastanza apprezzati dalle mogli – spiega Gary durante lo show di Oprah Winfrey di cui è ospite – E’ stata la mancanza di attenzioni a spingerli a tradire.

Gli uomini, al contrario di quello che può sembrare, sono esseri molto emotivi e sensibili”. “Il fatto di non sentirsi apprezzati li rende insicuri – continua – e li spinge a cercare un’altra donna che possa garantire loro le giuste attenzioni. Gli uomini appaiono forti e potenti, ma dentro sono insicuri tanto quanto le donne. Gli uomini hanno una mentalità vincente e bisogna farli sentire vincenti”. Newman conclude la sua analisi rivolgendosi direttamente alle donne: “Non abbiate paura di lodare il vostro partner, fatelo sentire apprezzato per ciò che fa. D’altra parte se ci sposiamo è perché vogliamo tutti la stessa cosa. E poi più diamo, più riceviamo”.

Lo studio rivela che solo il 7% degli infedeli ha confessato alle mogli il proprio tradimento di libera iniziativa, mentre il 55% ha negato di avere un’altra relazione pur dopo essere stato messo a dura prova.
 
da lastampa.it
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 09, 2008, 05:49:49 pm »

La nostra voce per gli ultimi

Ingrid Betancourt


Tre mesi fa guardavo cosa faceva il Parlamento Europeo dal fondo della foresta amazzonica, e la mia grande aspirazione era che altre persone, tante persone, potessero parlare in questo Parlamento a nostro nome mentre noi eravamo prigionieri della follia degli uni e dell’abbandono degli altri. So bene che avete pensato a me in questi anni difficili. Ho un ricordo preciso del vostro impegno accanto alle nostre famiglie quando il mondo non si interessava al destino degli ostaggi colombiani e che parlarne poteva suscitare chissà quali sospetti. Ascoltavo nella giungla la radio che trasmetteva i dettagli di una seduta che si svolgeva in questa sala. Non avevo immagini, solo le parole dei giornalisti. Da questa sala, grazie a voi, e al vostro rifiuto alla rassegnazione, mi è arrivato il primo aiuto. Siete stati voi, più di cinque anni fa, a farmi capire di non essere sola.

Se sono riuscita a mantenere la speranza in questi anni e se sono riuscita a riavvicinarmi alla vita, se sono riuscita a portare la mia croce giorno dopo giorno, è perché sapevo di esistere nei vostri cuori. Pensavo: possono cancellarmi fisicamente, ma nei vostri pensieri il mio nome e il mio volto respingevano l’oblio.

Ecco perché quando ho rimesso piede nel mondo della libertà, dal primo momento ho pensato di venire in questa casa che sento mia. Devo dirvi che tutto ciò che avete detto o fatto non è stato mai vano. Le vostre parole mi hanno liberato molto prima di tornare fisicamente nel nostro e vostro mondo.

Grazie. Grazie a ciascun parlamentare. Grazie di aver aperto il cuore ad un dramma così lontano dai vostri impegni. Ecco perché ho pensato alla creazione di uno status per le vittime del terrorismo. Ho parlato alle Nazioni Unite della necessità di dare spazio alle speranze dei familiari delle vittime pensando all’esempio che voi avete dato. Il Parlamento europeo è diventato la piattaforma che ha permesso a tutti di conoscere le barbarie che abbiamo subito e che mantengono ancora nel dolore oltre tremila compatrioti. Le parole qui pronunciate, parole che hanno sostenuto la mia liberazione e la liberazione di alcuni miei compagni, sono alla base della necessità di intervenire nel rispetto della vita di tutti gli ostaggi e di tutti i guerriglieri. Assenza di violenza frutto del vostro impegno. Voglio rendere omaggio alle migliaia di «freedom fighters» mobilitati in ogni Paese per ottenere il nostro ritorno. Questi combattenti della libertà hanno organizzato, ogni giorno, per più di sei anni, manifestazioni per non far affogare nell’indifferenza il nostro dramma. Sono e siamo liberi, ma la loro lotta continua per chi non lo è. Ecco perché abbiamo bisogno del vostro sostegno, delle vostre porte aperte, della vostra disponibilità spirituale e del vostro tempo. Più di ogni altra cosa abbiamo bisogno della vostra parola. Perché la sola arma nella quale dobbiamo credere è la forza della parola.

Voi sapete che la parola ha un’importanza estrema. È con la parola che tutti noi possiamo combattere l’odio e la violenza. Sono sicura che chissà quante volte avete avvertito la frustrazione di non potere «fare» quando il «dire» sembra sciogliersi nell’aria. Penso che in alcuni momenti vi siate dispiaciuti, per esempio, di non far parte del potere esecutivo dei vostri paesi o dei vertici dell’Unione, dove vengono prese le decisioni, dove si firmano gli assegni, là dove si decidono le cose. In un mondo materialista nel quale ciò che non si vede non esiste, è la frustrazione che avvilisce tutti. Ma il Parlamento è il tempio della parola che libera. Qui comincia la presa di coscienza di una società. Qui si esprimono le urgenze dei nostri popoli. Se i poteri esecutivi cominciano ad “agire” è perché qualcuno di voi si è alzato e ha parlato. Immagino lo sappiate bene come io lo so: ogni volta che uno di voi parla in questo recinto, l’infamia si riduce.

Le parole hanno una presa forte sul mondo reale. Sartre l’aveva capito fin dall’infanzia. Fraçoise Dolto l’ha espresso meravigliosamente quando dice che l’essere umano è un essere di parole, e che la parola sogna, guarisce, fa nascere ma può anche fare ammalare ed uccidere.

Ho scoperto, per esempio, che quando ero prigioniera mia figlia si è nutrita del serbatoio di parole con le quali avevo impastato, senza darmi pensiero, la nostra vita. Non potevo immaginare il potere che queste parole potevano esercitare su di lei. Oggi ricorda ancora una lettera della quale mi ero dimenticata: l’avevo scritta per i suoi quindici anni. Mi ha detto di aver riletto la lettera ad ogni compleanno mentre ero lontana. Ed ogni anno quando era un po’ cambiata dall’anno prima, scopriva qualcosa di nuovo nelle stesse parole, le sentiva più vicine alla persona che stava diventando e a ciò che cominciava a vivere. Mio Dio, se l’avessi saputo! Con quale impegno d’amore e di certezze avrei accompagnato il suo cammino. Oggi penso a noi, a voi, a me. Se prendiamo coscienza della giusta dimensione dell’effetto delle nostre parole, forse oseremo di più, saremmo più rigorosi nelle nostre riflessioni per alleviare la sofferenza di chi ha bisogno del nostro impegno. (...)

Quand’ero prigioniera mi è capitato di ascoltare Raul Reyes, portavoce delle Farc: parlava a mio nome. L’ho sentito dire alla radio: «Ingrid dice questo», oppure «Ingrid pensa questo». Mi avviliva constatare che dopo avermi rapita, non solo la guerriglia mi aveva spogliata del mio destino, ma usurpava la mia voce. Con la coscienza della voce ritrovata mi rivolgo a voi per dire come il mondo ha bisogno delle parole dell’Europa. In società dove l’inquietudine diventa sempre più pressante e la paura del domani allarga il rischio del chiudersi in noi stessi, è il momento di aprirsi e allungare la mano con generosità per cambiare questo mondo.

La società dei consumi nella quale viviamo, non ci rende felici. Il tasso di suicidi, consumo di droga, violenze sociali sono sintomi di una sregolatezza globale; il riscaldamento del pianeta e il suo corteo di catastrofi naturali ci dicono che la terra si è ammalata per nostra irresponsabilità e nostro egoismo. Qual è il rapporto con la sofferenza delle vittime delle barbarie del mondo? Credo sia profondo. Mentre ero prigioniera ho avuto la possibilità di studiare il comportamento sociale dei miei rapitori. I guerriglieri che ci sorvegliavano avevano più o meno l’età dei miei ragazzi. I più giovani 11, 12, 13 anni; i più vecchi 20 o 25. La maggior parte di loro - direi il 95 per cento - prima di essere reclutati dalle Farc erano raccoglitori di foglie di coca. Dall’alba al tramonto sempre al lavoro per trasformare le foglie in paté di coca, base della cocaina. Giovani contadini di regioni marginali ma che, grazie alla televisione satellitare, sono a corrente di ciò che succede nel mondo. Come i nostri ragazzi, bombardati di informazioni; come i nostri ragazzi sognano I-pod, PlaYstation, Dvd. Universo a loro inaccessibile. Pur essendo pagati meglio dei contadini tradizionali possono appena permettersi l’essenziale. Si ritrovano frustrati, incapaci di provvedere alle necessità di una famiglia, inseguiti dalle forze dell’ordine, vittime della corruzione e della violenza occasionale di ufficiali deviati, sottomessi agli abusi dei malfattori che regnano nella regione. Finiscono per disperdere i pochi pesos della paga nell’alcool dei bar di fortuna nei posti dove si nascondono.

Quando la guerriglia li recluta i ragazzi sono convinti di aver risolto ogni problema. Vengono nutriti, vestiti e alloggiati a vita, e la sensazione di aver una carriera aperta sperando di scalare le gerarchie. Col fucile in mano hanno acquisito uno status di rispettabilità. In quel mondo di miseria, essere guerrigliero diventa una specie di riscatto sociale. Ma hanno perso ogni libertà. Non potranno, fino alla fine della vita, lasciare le Farc, né rivedere le famiglie. Diventano, senza rendersene conto, schiavi di una organizzazione che non dovranno mai lasciare, carne di cannone di una guerra assurda.

I quindicimila giovani, larga base delle truppe Farc, non sarebbero dove sono se la nostra società avesse loro aperto vere prospettive e non il sopravvivere come capita. Non sarebbero là se nella nostra società i valori non si fossero rovesciati e se la sete del possedere non fosse determinante per saziare la sete dell’essere.

Abbiamo il diritto di continuare a costruire una società dalla quale la maggioranza è esclusa? Possiamo insistere nell’occuparci solo della nostra felicità quando questa felicità è la maledizione degli altri? Così come il cibo che gettiamo non sazia la fame di chi ha fame. E se noi cercassimo modelli di nutrizione razionali per permettere ad altri di godere dei benefici della modernità?

Sono convinta che la difesa dei diritti dell’uomo passi per la trasformazione del costume e delle nostre abitudini. Dobbiamo essere coscienti della pressione che questo modo di vivere esercita su coloro che non ne hanno accesso…..Dobbiamo cominciare a riconoscere agli altri il diritto a desiderare ciò che noi desideriamo.

E poi c’è il nostro cuore. Siamo tutti capaci di essere migliori, ma sotto la pressione del gruppo siamo anche disposti al peggio. Non sono sicura che tutti possano premunirsi contro la possibilità di diventare crudeli. Quando osservavo i carcerieri, mi chiedevo sempre se potevo essere in grado di trasformarmi come loro. Era evidente che, per la maggior parte, vivevano in preda a una tensione creata dagli ordini e dalle esigenze del gruppo. Chi ci può proteggere da questo? Chi ci può garantire dalla violazione dei diritti dell’uomo all’interno di noi stessi e nel mondo? La migliore possibilità possiamo trovarla nella spiritualità e nei principi etici. Ma è con la nostra parola che dobbiamo batterci; è la parola la più straordinaria delle spade. Ecco perché non mi stanco di ripetere che il dialogo è indispensabile per spegnere le guerre nel mondo. Per questa guerra, sia in Colombia o nel Darfur, in Zimbabwe o in Congo o in Somalia, la soluzione resta la stessa: parlare, riconoscere i diritti degli altri ed essere ascoltati, non per avere ragione o torto, non perché sono buoni o cattivi, ma perché solo parlando possiamo salvare vite umane...

Adesso permettetemi di parlare d’amore. Sapete che dopo la mia liberazione non ho smesso di ricordare la sorte dei fratelli di prigionia trattati come bestie o pezzi di legno. Accompagnatemi là dove ancora si trovano: sotto la coperta di alberi immensi che nascondono il blu del cielo con una vegetazione chiusa come una morsa, sommersi da nuvole di insetti che impediscono il riposo, mostri che li perseguitano martoriando i corpi nel dolore.

Nell’ora in cui è possibile che ci ascoltino, orecchie incollate alla radio, le parole, le nostre parole, possono farli sentire ancora vivi. Per i loro carcerieri hanno lo status di un oggetto. Di una mercanzia, meno che bestie. Rappresentano solo una penosa fatica; diventano bersaglio dei loro impeti d’ira. Permettetemi di pronunciare davanti a voi i loro nomi. Fatemi il regalo di dedicare loro qualche minuto perché se sono in ascolto dell’appello letto in questa sala, possano rispondere presente con il cuore che accelera, in fondo alla tomba della giungla. Per qualche istante saremmo riusciti a liberarli dall’umiliazione delle catene:

AlanJara, Sigisfredo Lopez, Oscar Tulio Lizcano... (ndr: la Betancourt pronuncia 27 nomi).

Penso anche a una donna straordinaria: Aung Sang Su Khi: paga con la propria vita il diritto del suo popolo alla libertà. Ha cominciato uno sciopero della fame per farsi sentire. Lei ha più che mai bisogno della nostre parole per resistere al sacrificio. Porto nel mio cuore la croce di un altro compatriota: Guilad Shalit. La sua famiglia soffre come la mia aveva sofferto. Ha bussato ad ogni porta, smosso il cielo e la terra per ottenere la liberazione. Destini personali si mescolano ad interessi politici che li sovrastano ed è impossibile soffocarli.

Guilad Shalit, Aung San Su Khi, Luis Mendieta, Alam Jara...

I nomi che risuonano in questa sala portano le stimmate dell’infamia. Devono sapere che fino a quando non torneranno liberi, ognuno di noi si sentirà prigioniero. Vorrei che gli applausi di questa assemblea riescano a trasmettere attraverso lo spazio, il nostro amore e la nostra energia. Devono sapere che non cesseremo mai, mai, di agire fino a quando non saranno liberi.

Il testo è tratto dall’intervento tenuto ieri al Parlamento Europeo per il 60ª anniversario dei Diritti dell’uomo.


Pubblicato il: 09.10.08
Modificato il: 09.10.08 alle ore 8.36   
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 14, 2008, 03:10:17 pm »

Io, mia Madre ed Eluana

Anna Paola Concia *


Ho deciso di parlare delle vicende personali mie e di mia madre perché arrivano momenti nella vita in cui non riesci più a sopportare quello che viene detto intorno alla malattia, alla vita e alla morte. Soprattutto dal mondo politico. Che sentenzia e arringa su temi in cui dovrebbe usare cautela e rispetto. Quando si diventa persone pubbliche bisogna avere il coraggio di esporsi. E voglio avere questo coraggio, anche se mi costa: lo faccio perché so che mia madre ne sarebbe contenta. Avevo sedici anni quando mia madre si ammalò.

E ci fu un giorno in cui mio padre disse: «Ragazzi, vostra madre sta male e io mi devo occupare di lei. Voi dovete arrangiarvi».
Da allora la mia vita, come quella dei miei fratelli, ha avuto un percorso diverso, è cambiata. È cambiato soprattutto il mio modo di rapportarmi alla vita, e alla morte che ogni giorno faceva capolino nelle nostre esistenze.

Mia madre era gravemente malata di reni, e ha fatto la dialisi per 12 anni. Erano gli anni 80, quindi 28 anni fa: la scienza e la tecnologia avevano fatto passi avanti ma non come oggi. Più di tutto, ho in mente le tante emorragie di mia madre, i ricoveri urgenti, in cui sembrava che stesse morendo ogni volta, quell’angoscia quotidiana. Quella paura incombente della morte. Era necessario lasciare sempre un recapito, ovunque andassimo, perché allora non esistevano i cellulari. La morte di una donna così vitale e bella era qualcosa che poteva accadere ogni giorno. E noi, i suoi figli e suo marito, dovevamo saperlo, dovevamo farci i conti in ogni istante.

Io ero la più rabbiosa tra i miei fratelli. Non accettavo di vederla così sofferente, mi uccideva, mi uccideva la vita. Dodici anni con una madre agonizzante sono tanti, tantissimi. Ti cambiano la vita. Anche quando quelle macchine la martoriavano, la violentavano, lei cercava di confortarci, dicendo che andava tutto bene. Ma tante volte mi ha detto anche «non ce la faccio più», tante, troppe volte. E io quelle volte le porto con me, come un racconto della vita e della morte, come un insegnamento. Mi aiuta a vivere e ad accettare la morte. Perché ho capito che anche vedendo nei nostri cari quella sofferenza, non la conosceremo mai fino in fondo nella loro tragicità: perché le sole certezze che possiamo avere riguardano noi, e come viviamo “noi” la loro sofferenza.

Del loro calvario personale non sapremo mai tutto. E quindi non potremo mai sentenziare, ma solo ascoltare. Chi oggi sentenzia, sia laico o cattolico, non sa. Per questo dovrebbe tacere. Invito tutti quindi ad un gesto di silenzio, ad un gesto di rispetto e di pace che accompagni chi se ne vuole andare. Lei, mia madre, una notte ha detto basta, mio padre me lo ha raccontato. È morta tra le sue braccia, come era giusto che fosse. Non volevamo, ovviamente, che se ne andasse. Nessuno di noi vuole lasciare andare via quelli che amiamo.

Il nostro dolore ci pare maggiore del loro. Siamo egoisti. Per questo ci accaniamo.

Ma è un gesto di generosità e di rispetto verso la loro vita lasciarli andare, se così hanno deciso, o se irreversibilmente non hanno più il privilegio di poterlo decidere. E allora chiedo a tutti: lasciamo andare Eluana, per amore. Per generosità.

* Deputata Pd

Pubblicato il: 14.10.08
Modificato il: 14.10.08 alle ore 8.50   
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:52:54 pm »

Il segreto dell'istinto materno?

E' in un ormone che trasforma le donne in "chiocce"

 
ROMA (27 ottobre) - Quello che si chiama istinto materno potrebbe avere il suo segreto in un ormone. Sarebbe infatti questo messaggero chimico a trasmettere il segnale che rende le mamme sempre attente ai bisogni dei loro piccoli: accudirli, curarli e preoccuparsi di loro. La vasopressina agendo sul cervello induce la femmina a prendersi cura dei cuccioli. La scoperta dell'ormone di “mamma chioccia” è di Oliver Bosch, dell'Università di Regensburg in Germania.

Secondo quanto riferito sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, bloccando la vasopressina la mamma di topolini non si interessa più alle cure dei proprio piccoli col risultato che questi crescono emotivi e con difficoltà di interazione sociale. L'ormone dell'affetto materno è ampiamente documentato essere l'ossitocina, che media l'attaccamento mamma-figlio ed è importantissima anche per sviluppare fiducia nel prossimo.

Ma anche la vasopressina è importante nei rapporti sociali e affettivi, non a caso uno studio pubblicato sempre su Pnas dimostrava che i bimbi sfortunati che crescono senza mamma hanno un deficit di vasopressina. Gli esperti hanno bloccato l'azione della vasopressina nel cervello di topoline mamme e queste hanno smesso di accudire i propri piccoli riducendo anche il contatto fisico con loro. La conferma della loro scoperta viene poi da un secondo esperimento in cui i ricercatori hanno bloccato l'azione della vasopressina in mamme-topo geneticamente “settate” per avere livelli di ansia eccessivi nei confronti dei propri cuccioli: queste topoline producono troppa vasopressina e bloccando l'ormone i loro comportamenti eccessivamente premurosi e ansiosi nei confronti dei cuccioli si normalizzano.

da ilmessaggero.it

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« Risposta #94 inserito:: Novembre 04, 2008, 10:35:27 pm »

Luci rosse... in rosa: Sono sempre più le donne a firmare i libri dedicati al proibito

Principe azzurro? No, meglio «schiavo»

Dominazione e sesso di gruppo in cima ai gusti erotici delle donne.

I risultati di una ricerca sulla letteratura osé


MILANO - L’eros è femmina. Vale quasi sempre, ma ancora di più in letteratura, dove il genere è prerogativa del gentil sesso, che poi a quanto pare, tanto gentile non è. Il trend era già in atto da qualche anno come dimostra la prolificità della collana Pizzo Nero, edita da Borelli, il cui claim recita «romanzi erotici per donne scritti da donne». E proprio l’editore Borelli, per Pizzo Nero, ha realizzato un’inchiesta interessante sul profilo degli acquirenti di libri erotici: sono donne al 65%, per il 63% di loro l’eroina ideale è una donna in carriera, seguita a ruota dalla spregiudicata e dalla disinibita, e se pensate che l’eroe sia il principe azzurro, ravvedetevi: è lo schiavo sessualmente sottomesso, che con un indice di gradimento del 60% batte sul campo sia l’esecutore che il romantico (misero 35%).

DOMINAZIONE E SESSO DI GRUPPO - Per quanto riguarda l’ambientazione delle fantasie erotiche va alla grande l’albergo di lusso (30%), ma non se la cavano male neanche ambulatori medici (27%) e prigioni (25%). La fantasia erotica più gettonata? Dominazione, manco a dirlo, (35%) seguita a lunga distanza dal sesso di gruppo (16%). Ma c’è un nuovo interessante risvolto che riguarda tutta una categoria di scrittrici erotiche italiane ed è la componente world wide web. Le nuove scrittrici non si nutrono di sola carta: scrivono blog, si fanno promozione su myspace o facebook, utilizzano la tecnologia come raccolta e veicolo di comunicazione, hanno avatar e state sicuri che potete trovarle in rete per molta parte del loro tempo.

COMPAGNI DI LETTO - Chi sono? Tipe toste, le signore. Hanno circa trent’anni, sono ovviamente laureate e lavorano nell’ambito della comunicazione. Si chiamano Elena Torresani, Nadiolinda, Cristiana Formetta, Caterina Cutolo, Gisy Scerman, Eliselle. Ognuna racconta l’eros, talvolta il sesso, a modo suo. L’unico comune denominatore è l’utilizzo di un nuovo mezzo per comunicarlo. Nadiolinda, che per Mondadori ha pubblicato «Se non ti piace dillo, l’amore ai tempi dell’happy hour», traccia un’indagine sociologica applicata al maschio, quasi un’antropologia alla ricerca del perfetto compagno. Di letto e non di vita, come ci tiene a precisare l’autrice, che ironicamente racconta vizì e virtù di un anno di singlelaggio selvaggio. Nadiolinda è partita da un blog, segnalato poi agli addetti ai lavori, ha un suo sito internet e, ovviamente un Myspace. «Da quando ci vivo nel web, come Nadiolinda, ho imparato che ci puoi costruire relazioni importanti e anche prendere delle cantonate colossali. Appartengo all'ultima generazione che considera il reale più del virtuale. ma che si sta arrendendo all'evidenza del fatto che la virtualità è una parte irrinunciabile della vita di tutti i giorni. Sono una zia curiosa, poco attenta alle mode e molto critica su tutto quello che vedo: mi capita di dare consigli e di non capire quello che mi viene spiegato, anche quando sono stata io a fare le domande. E sì che mi sembrava anche di aver fatto una domanda chiara... è che il web ha un linguaggio tutto suo, che un po' è suppergiovane e un po' è supperingegnere e io coi troppo giovani e con i troppo ingegneri non c'ho mai preso molto. Ecco la verità: il web è un'orizzonte e la vita virtuale rende possibili molte cose che nella vita reale non hanno mezzi né spazi. Nadiolinda non esiste. Ma a volte ho l'impressione che sia più reale di me. Nadiolinda è il mio potenziale illimitato, la mia occasione di eternità, ma è anche una stronzetta virtuale e l'ho avvertita più volte: se non ti dai una regolata, se non la pianti di flirtare dallo schermo, se non ti copri un po' e non impari cos'è la decenza... mi bastano tre click per eliminarti per sempre dalla rete!».

SUL WEB SI OSA DI PIU' - Stesso percorso per Elena Torresani , che ha da poco pubblicato il suo primo libro «L’inferno di Eros - un poema erotico» (AndreaOppureEditore), un libro nato dall’incontro in rete con la fotografa Monica Papagna. «Tra i lettori del mio blog si annidava la fotografa Monica Papagna, che un giorno mi ha contattata per chiedermi se mi andava di scrivere un pezzo erotico per il vernissage della sua mostra “Fil Rouge” presso la Marena Rooms Gallery di Torino. Ammetto che non è stato facile: l’erotismo era un genere un po’ troppo sottile per il mio stile ruspante. Alla fine però la lettura di “Danze Balcaniche” davanti ai giornalisti intervenuti per il vernissage è stato un successo, e questo ha decretato la nascita del mio primo libro “L’inferno di Eros”. Unendo gli scatti della Papagna alle mie parole, dando libero sfogo anche a linguaggi erotici un po’ più spinti e a paesaggi più goderecci (decisamente più nelle mie corde) in due mesi di notti sulla tastiera ho sfornato questa creatura, che a gennaio 2008 è stata pronta per la valutazione delle case editrici. Ovviamente, in tutto questo la rete ha avuto un ruolo fondamentale: non sarei mai arrivata a sviluppare nessun ipotetico talento né a pensare di poter pubblicare un libro. Ho sempre saputo di essere priva di qualsivoglia spirito narrativo, e solo il supporto e l’affetto dei miei amici del web mi ha spinto ad osare il passo dal blog alla carta stampata».

L'EROTISMO 2.0 - Poi c’è Cristiana Danila Formetta, l’unica scrittrice attiva anche in America. In Italia ha pubblicato per la Coniglio Editore il romanzo erotico «La vita sessuale dei camaleonti» già incluso nella prestigiosa antologia International Erotica (Robinson, London), al fianco del premio nobel Elfriede Jelinek e di J.G. Ballard.Nel 2008 ha pubblicato Necro Baby, un booklet per la PesaNerviPress con racconti di pericolose "femme fatal" che prima seducono e poi distruggono chi le avvicina. «I blog promuovono un contatto diretto tra l'autore e il lettore, e permettono di entrare in confidenza con migliaia di persone, di stringere rapporti più stretti con il pubblico in maniera più immediata di come accadeva in precedenza, con i tour letterari, ad esempio. Credo che oggi il termine "scrittura erotica" sia limitato, sarebbe più giusto parlare di Erotismo 2.0. perché con internet il sesso è oramai una questione di byte, e strumenti come blog o social network sono diventati un ottimo strumento di promozione per le proprie opere. Io per esempio sono molto attiva su My Space». Val la pena di segnalare la collaborazione allo stilosissimo blog www.cooletto.com, un blog tematico che tratta di erotismo a tutto tondo: sesso frizzante, perverso, burlesque, ma anche fetish e sadomaso, con lezioni di bondage e altri tutorial illustrati del genere.

ROMANTICISMO E SESSUALITA' - Caterina Cutolo ha pubblicato nel 2005 il suo romanzo d’esordio «Pornoromantica», una versione narrativa dei migliori post del suo blog, dove con grande ironia ed uno stile leggero e scanzonato, l’autrice fonda una vera e propria corrente di pensiero che combina l'integralismo romantico con il sesso sublime: il Pornoromanticismo, appunto. «Ho aperto il blog Pornoromantica nel giugno 2003, più che altro spinta dall'idea di avere finalmente dei lettori, cosa che mi stimolò moltissimo e da subito a sforzarmi di scrivere meglio, di catturarne l'attenzione, di spingerli a lasciarmi un'impressione, un feedback tra i commenti. L'ho intitolato Pornoromantica senza pensare in verità a dei contenuti a tema, ma solo perché mi ero appena inventata questa parola e mi divertiva e mi rappresentava in quel momento. Dopo un paio di mesi ricordo che scrissi un post diverso dagli altri, in cui raccontavo la mia scoperta della masturbazione all'età di 21 anni, dei fallimentari (e comici) tentativi prima di riuscirci, di come la mia vita sessuale sia cambiata in meglio in seguito grazie al fatto che conoscevo meglio il mio corpo e il mio piacere. La reazione dei lettori e delle lettrici fu entusiasta e partecipata, questo mi ha spinta da quel momento in poi a continuare il blog a tema, tanto più che a quel punto il titolo del blog si è rivelato assolutamente perfetto».

PADRONA E SCHIAVO - Chiudiamo la carrellata con Eliselle: ha pubblicato racconti erotici come «Altri amori» e «Tua, con tutto il corpo» antologia di racconti erotici al femminile. Dai suoi testi erotici è stato ricavato uno spettacolo teatrale, «Strettamente riservato», rappresentato in luoghi off-off di Milano dalla compagnia teatrale Attoprimo, diretta da Rocco Di Gioia. Adesso però ha fatto il grande salto, è passata dall’erotismo ai chick -lit, con il divertente «Fidanzato in affitto» (Newton Editore), la storia di una ragazza qualunque che quando perde il lavoro per mantenersi adotta uno schiavo. «Dopo un'iniziale titubanza, Cristal decide di tentare il tutto per tutto e risponde a un annuncio che sembra fare al caso suo: "Cerco disperatamente una padrona per servirla come suo schiavo... Adorazione senza limiti né remore"» si legge nella quarta di copertina.. A ben vedere, un po’ di sesso è rimasto anche qui….

Arianna Chieli
03 novembre 2008(ultima modifica: 04 novembre 2008)

da corriere.it
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« Risposta #95 inserito:: Novembre 06, 2008, 12:09:23 pm »

ESTERI - ELEZIONI USA 2008

Giovane, 44 anni, avvocato, due bambine ("Dovrò seguirle molto è un grande cambiamento") non si limiterà a organizzare cene

Michelle, una mamma al comando

Ma tutti sanno che lascerà il segno

La prima First lady nera della Storia, viene da un quartiere povero di Chicago

Applicherà i suoi studi e le sue competenze alla riforma sanitaria

dall'inviato ANAIS GINORI

 

CHICAGO - Qualcuno l'ha paragonata a Jacqueline Kennedy. Ma, a parte la giovane età (44 anni), c'è da scommettere che lei sarà solo se stessa.

"Mom-in-chief", mamma al comando, ha promesso. La priorità adesso è infatti sistemare Sasha e Malia nell'East Wing, il lato della Casa Bianca dove vive la famiglia presidenziale e trovare una nuova scuola a Washington. "Per loro sarà un grande cambiamento. Dovrò seguirle passo passo nei prossimi mesi" ha detto Michelle Obama. Nessuno pensa che sarà una first lady che si limiterà a organizzare ricevimenti e smaltire la corrispondenza. Michelle applicherà la sua esperienza, i suoi studi alla riforma dell'istruzione e della sanità.

"C'è così tanto da fare" si schermisce lei senza voler aggiungere altro. Ci tiene, ha sottolineato, a dare più risorse e servizi alle donne che lavorano. "Famiglia e carriera sono ancora troppo spesso in conflitto". Qualche giorno fa, in Florida, ha raccontato di quando Barack le ha annunciato che voleva correre per le presidenziali. Lei ci ha pensato un attimo e ha fatto due richieste. Primo: smettere di fumare. Secondo: sapere che la famiglia dovrà comunque mantenere una piccola quota della sua attenzione. "Gli ho risposto: Baby, possiamo sostenerti fino all'80 per cento". Una first lady che chiama "baby" suo marito. Anche questa è una rivoluzione.

Michelle "The Boss", secondo la stessa definizione del leader democratico. Insieme sono una miscela esplosiva. Freddo (lui), caldo (lei). Idee e progetti Obama, azioni e iniziative concrete Michelle. La storia parla chiaro. Ad Harvard Obama punta a dirigere la prestigiosa Law Review, Michelle si mobilita invece per aumentare le quote delle minoranze etniche.

Furba, forse più di lui. Durante le primarie, è Michelle a suggerire allo staff del marito di smettere con gli attacchi diretti ad Hillary. Se vuoi vincere, devi comportarti da vincitore: è la sua ricetta. Sempre lei a dire che Sarah Palin "è un ottimo esempio di come le donne devono affrontare tanti fronti". Sottinteso: anche nel ticket democratico c'è una donna che ha lavoro e famiglia, ed quella donna è Michelle Obama.

E' cresciuta in un bilocale del South Side, il sobborgo nero di Chicago. Suo padre sgobbava dall'alba al tramonto negli uffici delle fogne per mandare a scuola i figli, Michelle e Craig. La sua storia è il vero american dream. Da figlia dei ghetti a plurilaureato (Harvard e Princeton) avvocato d'affari. Prima di mettersi in aspettativa per la campagna elettorale, guadagnava più del marito come dirigente dell'amministrazione ospedaliera. "Sono un errore della statistica - ha detto lei qualche giorno fa - la verità è che non dovrei essere qui".

Prima First lady nera della Storia, un'altra stranezza. Dovrà stare attenta al suo lato più radicale, dicono gli esperti. A non esprimere troppo "black-pride", l'orgoglio degli afro-americani, enfatizzato nella sua tanto criticata tesi di laurea. "Per la prima volta sono fiera di essere americana", è stata la sua gaffe più pericolosa. Si è trasformato nel bersaglio preferito dei media conservatori. Non le è stato risparmiato nulla. C'è chi l'ha soprannominata "baby-mama", come fosse la tata di Via col Vento. Negli ultimi tempi ha mostrato un volto più posato e un look al naturale, "cheap and chic": vestiti comprati con cinquanta dollari nei supermercati Wall Mart o a JCrew, ormai soltanto online. "Non ho più tempo di fare shopping" ha messo in chiaro mentre la Palin svaligiava i negozi di moda con la carta di credito del partito repubblicano (spesa finale 150.000 dollari).

Michelle è una tosta, insomma. Quando Marian, la mamma di Michelle, ha conosciuto Obama nel 1989 è rimasta scettica. La parte bianca di Obama inquietava la famiglia da sempre segretata nel South Side. E comunque Michelle era stata fino ad allora una ragazza molto esigente, che liquidava gli spasimanti dopo qualche uscita. "Anche questo fidanzato passerà" pensò Marian. No, non questo. Barack Obama è stato l'unico all'altezza dei sogni di Michelle.


(5 novembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #96 inserito:: Novembre 07, 2008, 12:22:28 am »

6/11/2008 - LA NUOVA FIRST LADY
 
E l'impetuosa Michelle travolse Stevie Wonder
 
Energia e orgoglio nero, è lei il lato fisico dell'etereo Barack
 
 
MARIA GIULIA MINETTI
 
Il migliore amico dei miei ultimi sedici anni, il pilastro della nostra famiglia, l’amore della mia vita», l’ha chiamata suo marito nel primo discorso da Presidente, la voce spezzata dall’emozione. «Senza di lei non sarei qui». E non parlava solo del sostegno durante il periodo elettorale. L’incontro con Michelle Robinson è stato fondamentale per la carriera politica del giovane Barack. Che è partita con l’esempio del padre di lei, attivista democratico con un vasto seguito nel South Side di Chicago.

Giocata «al ribasso» per quasi tutta la campagna presidenziale del marito - i cui consiglieri s’erano spaventati per le ripercussioni della famosa frase: «È la prima volta che sono orgogliosa del mio Paese» detta dopo la prima grande vittoria di Barack alle primarie - Michelle era rientrata in pista con grande sicurezza. «Nuova del mestiere, ma non più una novizia», titolava il New York Times in un articolo alla fine di ottobre. A leggerlo si capiva che la fine del noviziato coincideva con un controllo su se stessa conquistato con tanta fermezza da ridarle la fiducia dello staff democratico. «Una volta la consideravano una forza imprevedibile, capace di dirne una di troppo - notava il giornalista Patrick Healy - adesso la considerano disciplinata, efficace nel perorare la causa del marito». Efficace soprattutto nell’affrontare e vincere, apparizione dopo apparizione, discorso dopo discorso, la sua grande sfida con gli elettori: abituarli all’idea di una First Lady con la pelle nera.

Perché il colore della pelle di Michelle era un problema «in sé», non semplicemente parte del più generale problema di fare accettare all’America bianca una presidenza «colorata». La percezione che di Barack Obama, della «negritudine» di Barack Obama hanno gli americani, è diversa da quella che hanno di sua moglie. Barack non è il discendente di una famiglia che ha conosciuto la schiavitù, suo padre era un cittadino kenyota nato libero nella sua terra. Michelle, invece, porta nell’albero genealogico il segno delle catene. E di quel segno gli americani hanno paura, e hanno paura perché è il segno della loro vergogna, del loro peccato. E da chi ha quel segno s’aspettano, pur senza confessarlo, forse neppure avendone coscienza, una vendetta, una punizione. Toccava a Michelle esorcizzare la paura.

Ma a Michelle è toccato anche il compito opposto. Michelle ha «garantito» la negritudine di suo marito presso i fratelli neri, gli ha detto: «Io sono una di voi, e pure lui lo è, per mio tramite. Se è il mio eroe, vuol dire che è anche il vostro eroe. Potete fidarvi di lui». E se il linguaggio corporeo di Obama ha un che di etereo, di «non sostanziale», quasi fosse più elfo che uomo, il linguaggio del corpo magnifico e possente di Michelle è lo stesso delle grandi, poderose cantanti di blues, delle domestiche matrone dei sobborghi neri metropolitani.

Pochi in Italia l’hanno vista, presentata da Oprah Winfrey a un gigantesco raduno, avanzare sul palco tutta vestita di bianco, falcate da atleta, un abbraccio a Stevie Wonder tanto esuberante che l’ha fatto cadere dal palco («Quella volta che Michelle ha cercato di uccidere Stevie Wonder» è il titolo del video su YouTube), pochi l’hanno vista dialogare con Whoopy Goldberg con una rispondenza di movimenti, di espressioni davvero meravigliosa.

Se Barack incarna un sogno, se guardandolo si crede davvero che volere è potere (questo significa «yes, we can»), tanto più lo incarna Michelle, che nella sua ascesa sociale ha contato solo sulla sua intelligenza, la sua forza, la sua determinazione. Adesso la domanda è: cosa farà alla Casa Bianca? Saprà tenere in equilibrio, da donna di formidabile intelligenza qual è, l’immagine tranquillizzante che s’è costruita a misura dei bianchi e l’immagine «folk» (non nel senso umiliante di Sarah Palin, che usa la parola come sinonimo di mediocrità, ma nel senso esaltante dell’orgoglio identitario), saprà, Michelle, essere la sintesi che s’è proposta di essere?

Azzarderò un pronostico: la testa sarà equilibrata, ma il cuore no. Che il cuore batta dalla parte del folk s’è visto già la sera delle elezioni vittoriose, accolte con addosso un trionfale vestito rosso e nero che è un inno al gusto della sua gente. Una bandiera, una rivendicazione, una promessa. Go, Michelle, go.
 
da lastampa.it
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« Risposta #97 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:05:28 am »

Tutte donne tranne uno: lezioni erotiche sul bacio per non smettere di sperare...

 
di Laura Bogliolo


ROMA (6 novembre) - Scivolosa, tribale, assaporatrice, occasionale («sai, sono sposata da molto»), agile e morbida, smaniosa, materna («ormai bacio solo i miei figli») e adolescenziale («fan delle lunghe e interminabili pomiciate al liceo»). E tu che baciatrice sei? «Se non sai rispondere è già grave». La sessuologa Barbara Florenzano chiarisice: «Non esistono regole per il bacio perfetto». Neanche la preparazione tantraica di Stinghiana memoria o chili di mentine possono fare miracoli «se - spiega - non si riesce a stare in pace con se stessi». Intanto per tutte la regola è solo una: «Quando si bacia bisogna sequestrare il viso dell'uomo».

Avvolgenti pareti rosse, tappeti e cuscini per sdraiarsi, note diffuse su volti un po' imbarazzati e poi divertit, e libricini per prendere appunti di erotismo.

Tutte donne, tranne uno, confessioni intime sull'arte del bacio e voglia di condividere ieri alla serata inaugurale di Cahiers des femmes: Appunti di erotismo, incontri al femminile nella boutique ZouZou organizzati dalle Zouzettes Tiziana Russo, Alessandra Pucci, Chiara Moro, Elisa nardoni e Daniela Rizzo. Ieri il tema dell'incontro era il bacio. Porte aperte su Vicolo della Cancelleria verso le 22, qualche coppia si affaccia, incuriosita, ma la risposta è sempre la stessa: «Lei entra, tu no, è una serata per sole donne». Perché se nell'aria aleggiano profumi di dopobarba si spezza la spontaneità, la ricerca (infinita) della verità (quale?) sul bacio si perde tra pregiudizi, pudori, «ci sentiamo limitate e scattano, immancabili, le bugie». E invece in un'ambiente tutto rosa si riesce ad essere più sincere. Qualche esempio? Il bacio peggiore?. Quello «viscido», «troppo umido,» «violento» o con «la lingua che fluttua moscia, senza coraggio».

Lei il bacio lo vuole «eroico, ma dolce», «spudurato, ma gentile», «deciso, ma rispettoso». E intanto agli uomini non resta che lamentarsi: «Donne con troppi giudizi sul bacio - racconta la sessuologa - e troppo maestrine quando si spiega come fare». Una cosa è certa: statistiche, racconti, lettini di psicoanalisi, film, documentari (quelli sugli animali non smentiscono mai), leggende e piccole verità rimbalzano sempre lo stesso concetto: per lui il bacio potrebbe anche non esistere, per lei è un preliminare fondamentale. Sarà per questo che su Facebook spopolano gruppi sul bacio? Anche qui lei la vede diversamente da lui. Si va dal "chi ricorda il suo primo bacio?" al "101 modi per trovare il principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi)" al "dove sono finite le Belle addormentate da svegliare con un Bacio?".

Insomma, Adamo ed Eva condannati ad essere separati per sempre non dalla mela ma dal bacio? Paura, tanta paura. Ma poi, finalmente, la massima, quella che illumina quell'oscura delusione (fortunate se si usa il singolare) del post-baciatore-incapace. Eccola: «Né come in un frullatore, né come in un piatto di semolino». Sì, è sicuramente questa la frase da ricordare ed esclamare, con naturalezza e gentilezza, certo, come jolly salva rapporto, la prossima volta che l'uomo della tua vita ti viene sotratto dal crudele destino dell'insostenibile pesantezza (non solo d'alito) dell'incapacità di baciare.

E attenzione, perché «il bacio perfetto non significa sesso perfetto». Insomma, insegnato a lui come baciare, la strada resta in salita. Anche se tutte le ragazze dello ZouZou sentenziano: «Chi bacia male ha già perso». Sarà per questo che a Seattle c'è la Kissing School creata da Cherie Byrd che, trovato l'uomo della sua vita, scopre che non sa baciare. Che fa? Si arrende? La regola del "7 donne per ogni uomo" detta la risposta: certamente no! Ed ecco allora la scuola per coppie e anche single. Successo negli Usa per la scuola del bacio. Ma anche in Italia sono tante le coppie che vogliono consigli. Per loro, spiega la Florenzano, c'è anche l'esercizio del «un minuto al giorno di baci per una settimana» da cronometrare, senza barare, con una sveglia. «Così - spiega - si recupera l'intimità, problema molto presente in tantissime coppie».

Ma il bacio è nel Dna o è un fattore sociale?. A sostegno della prima tesi, spiega la Florenzano, il fatto che anche gli animali si baciano. Il bacio alla francese è preorgativa della scimmia bonobo, i porcospini si strofinano il naso, i piccioni intrecciano il becco, i delfini si mordicchiano. A sostegno della seconda, la regola del "paese che vai bacio che trovi". Ecco allora che i pigmei del Mozambico credono che il bacio sia un attentato all'igiene, che alcune popolazioni del Pacifico preferiscono respirare l'altro fino allo stordimento e che in alcuni villaggi dell'Indonesia gli innamorati si mordicchiano le ciglia.

Bene. La teoria è finita. Si inizia con la pratica. «Tutte senza scarpe, passeggiate lentamente e odoratevi. Se vi va baciatevi». C'è chi scappa, chi decide di provare. «E' un esercizio per entrare in contatto con se stesse, per sperimentare le difficoltà di contatto con l'altro». Perché odorare e assaporare l'altro è una cosa importante. Sembra infatti che all'orgine del bacio ci sia la volontà della donna di stabilire la bontà dei geni dell'uomo al fine della procreazione.

Tutte donne, tranne uno, a parlare dell'arte del bacio. E c'è chi suggerisce: «Tutta questa teoria dovremmo però iniziare a metterla in pratica!». Niente paura, era già tuto previsto: tutte donne, tranne uno. Ha aspettato silenziosamente per tutto il tempo ma ora il protagonista diventa lui: l'attore Luigi Cassandra che insegna i baci cinematografici e quelli sperimentali. «Qualche volontaria?». Ressa tra le presenti, ventenni e trentenni ma anche over 50. Tre vere e proprie rappresentazioni, un copione, ma poi è l'istinto a dominare. E così, ciak si gira la scena del bacio romantico di La vita è bella, quella della bella ma ai margini della società salvata dal principe azzurro di Pritty Woman e quella ardente e passionale di Eyes Wide Shut. Curiosità, applausi, tante risate. C'è anche chi si lascia travolgere davvero, chi dice di sentirsi «rinata», chi assicura: «Mai stata baciata così bene!». E poi si osa di più. E' l'ora del bacio sperimentale. Quello dato partendo dal collo, quello con la testa di lei poggiata sulle sue spalle per poi conquistare la bocca e quello improvvisato, che insegna a osare. E per chi vuole il bacio tra donne.

Mille e uno modi di baciare ieri sera allo ZouZou dove, negli incontri successivi, si parlerà di auto erotismo, fantasie e perversioni e sextrology. Ma solo una certezza: l'amore, come il bacio, è una malattia inesorabile, per di più, diceva Disraeli, contagiosa. Non resta che lasciarsi "infettare"...

da ilmessaggero.it
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« Risposta #98 inserito:: Novembre 08, 2008, 05:42:51 pm »

Dagli Usa Potty Parity, il movimento che promuove nuove leggi per raddoppiare il numero di quelli per signore.

"Basta file"

Le donne: bagni pubblici più grandi in nome della parità con gli uomini

Al Word Toilet Summit presentato anche l'orinatoio femminile


di BENEDETTA PERILLI

 LA SCENA non è nuova: da un lato c'è una fila urlante di donne impazienti, dall'altro invece un silenzioso andirivieni di uomini composti. Se, entrando in un bagno pubblico, vi siete domandati almeno una volta perché quelli degli uomini sono sempre liberi e quelli delle signore caoticamente occupati, sappiate che presto la situazione potrebbe cambiare.

Dedicato alle donne, e alle loro lunghe attese, arriva dagli Stati Uniti il movimento del Potty parity, ovvero dell'uguaglianza della tazza, là dove tazza non indica quella da tè ma la meglio nota toilette. Creato più di dieci anni fa dal professor John F. Banzhaf III, il movimento promuove l'istituzione di leggi che raddoppino il numero di bagni pubblici a disposizione delle donne.

Quello delle file nei bagni femminili infatti non è solo uno stereotipo e studi scientifici hanno addirittura determinato in numeri quanto la disparità di attesa tra uomini e donne sia marcata. Pare infatti che analizzata una situazione tipo, un concerto o una partita di calcio, l'attesa media sostenuta da una donna per potere accedere alla toilette è pari a circa 20 minuti, contro una fila di solo pochi minuti per gli uomini.

Il motivo, anch'esso teorizzato nell'ambito di uno studio scientifico, è chiaro: in media le donne impiegano circa 80 secondi all'interno del bagno, mentre agli uomini ne bastano solo 45. Tra le ragioni di questa disparità temporale gli studiosi hanno individuato, oltre alle differenze anatomiche, anche alcuni fattori comportamentali come il maggior numero di indumenti indossati dalle donne, la presenza di figli al seguito, la tendenza a specchiarsi e a sistemare trucco e capelli. Si spiegherebbe dunque così il formarsi di quelle lunghe e fastidiose code davanti alla porte contraddistinte dalla signora in gonna.

E se fino ad oggi avete invidiato i servizi igienici maschili, magari visitandoli in casi di estrema disperazione, o avete imputato il formarsi delle code ad una sorta di legge di Murphy a sfavore delle donne, ora non resta altro che sostenere il Potty parity. Se ne parla proprio oggi, 6 novembre, a Macao nell'ambito dell'ottavo World Toilet Summit, l'organizzazione globale non profit che da anni si batte per migliorare i servizi e le condizioni sanitarie dei paesi del mondo. Accanto a tematiche più serie, come la presentazione di soluzioni per due miliardi e mezzo di persone che ancora oggi vivono senza servizi igienici, la Potty parity law verrà presentata e discussa proprio dal suo padre fondatore, il professor Banzhaf.

L'urinequity, come la chiamano simpaticamente i sostenitori del professore americano, verrà analizzata sotto vari punti di vista. Primo fra tutti la struttura dei bagni. A favore degli uomini infatti non solo la natura, che permette loro di impiegare la metà del tempo di una donna, ma anche la presenza, oltre alle toilette, di orinatoi dalle dimensioni ristrette. Assegnata quindi una stessa metratura ai servizi di uomini e donne, spesso all'interno di quelli maschili sono presenti più postazioni.

Ecco dunque che la prima generazione del movimento Potty parity si batte per ottenere un numero di postazioni uguale alla somma degli orinatoi e delle toilette presenti nei bagni degli uomini. Degli ultimi mesi è invece la seconda generazione della Potty parity, chiamata anche porcelain proportionality, ovvero proporzione della porcellana, che alza la posta in gioco rispetto alla prima generazione e rivendica, al fine di accorciare la distanza di 2 a 1 nei tempi di attesa, un numero di servizi igienici destinati alle donne uguale al doppio della somma di orinatoi e toilette presenti nei bagni maschili.

Tra le altre ipotesi, sempre nell'ambito del Word Toilet Summit, verrà presentato anche l'orinatoio femminile. Il servizio, noto con il nome di urinette, aiuterebbe a ridurre, secondo alcuni sostenitori della potty parity, i tempi di attesa nei bagni femminili aumentando le postazioni.

I primi risultati della campagna promossa da Banzhaf risalgono al 2006 quando il New York City Council approvò all'unanimità il Woman's Restroom Equity Bill alzando il rapporto tra bagni pubblici femminili e maschili da 1:1 a 2:1. Esempio seguito poi da numerosi distretti americani.

In Italia il dibattito sulla "parità di tazza", anche se in tinte diverse, è fermo al 2006 quando, in seguito all'incontro nei bagni femminili di Montecitorio della portavoce di Forza Italia Elisabetta Gardini e dell'allora deputato transgender di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria, si scatenò la questione dei bagni per transessuali. La soluzione proposta fu quella del servizio unisex: bagni più grandi e senza distinzioni sessuali. Chissà cosa ne penserebbero quelli del Potty parity.


(8 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 23, 2008, 11:22:42 am »

A Roma il corteo organizzato dalla Rete nazionale di femministe e lesbiche

Donne in piazza contro la violenza "Difendiamo i nostri diritti"

Contestati il progetto Gelmini e il ddl Carfagna sulla prostituzione


 ROMA - In piazza "contro la violenza degli uomini". Migliaia di donne, oltre 50 mila secondo le organizzatrici, hanno partecipato oggi a Roma alla manifestazione indetta dalla Rete nazionale di femministe e lesbiche. Stando ai dati della Casa internazionale delle donne di Roma e di Bologna, ogni tre giorni in Italia una donna muore per le violenze subite da un uomo. In particolare, nel 2007 sono state uccise 126 donne: 44 dai mariti, 11 dai fidanzati o dai conviventi, nove dagli ex mariti e dagli ex fidanzati, dieci dai figli e 14 da sconosciuti. I dati si aggiungono a quelli di un'indagine Istat dello scorso anno, secondo la quale quasi sette milioni di donne sono state vittime di violenza. La maggior parte (oltre sei milioni) ha subito aggressioni dal partner.

La manifestazione, che precede la Giornata mondiale per l'eliminazione delle violenza sulle donne, il 25 novembre, è stata anche l'occasione per protestare contro il ddl sulla prostituzione a firma del ministro Carfagna ("criminalizza le prostitute e impone regole di condotta per tutte; invece siamo tutte indecorosamente libere") e contro il progetto di scuola del ministro Gelmini ("autoritario e razzista").

Il corteo è partito intorno alle 15 da piazza della Repubblica e si è diretto verso piazza Navona, attraversando le vie del centro. "Indecorose e libere contro la violenza maschile", era scritto sullo striscione alla testa. E sugli altri: "Cenerentola, Biancaneve e Barbablù c'erano una volta... e adesso non li vogliamo più", "Nella casa del 'Mulino' si nasconde l'assassino", "Ma non lo puoi usare solo per pisciare?".

Arrivate a piazza Navona, alcune manifestanti hanno parlato ai microfoni prima di improvvisare un concerto. Durante il corteo, a cui si sono aggiunti man mano gruppi di manifestanti, ha anche sfilato un furgone con una piovra gigante con dei tentacoli che riportavano scritte sulla rivendicazione dei diritti delle donne. Tra gli striscioni, anche la scritta "La violenza sulle donne ha molte facce" e, sotto, i volti di Berlusconi, del Papa e di alcuni ministri del governo.

"Siamo soddisfatte nel vedere donne che da tutta Italia sono arrivate in piazza a Roma attraverso il passaparola. Il nostro è un movimento che si inserisce nella protesta trasversale di questo paese e appoggia le contestazioni alla riforma Gelmini, che danneggia soprattutto le donne" ha commentato Monica, dell'assemblea romana di femministe e lesbiche.

Il corteo era diviso in spezzoni: femministe, lesbiche e centri antiviolenza. Gli uomini, la cui presenza fu fortemente contestata da alcune manifestanti nel corso della mobilitazione nazionale che si svolse il 27 novembre dello scorso anno, hanno sfilato in coda.

(22 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #100 inserito:: Novembre 23, 2008, 11:38:52 am »

23/11/2008
 
La nuova paura di noi mamme
 
ELENA LOEWENTHAL

 
Chi, come noi, vive e conosce Rivoli da almeno trent’anni, lo chiama «il Seminario». E’ la remota memoria di quando i ragazzi di montagna venivano a studiare da religiosi in questo edificio affacciato verso il monte Musinè, all’imbocco della Val di Susa. Dove va a scuola tuo figlio? Al Seminario, è la risposta che vien fuori così senza pensarci su, anche se tuo figlio fa un liceo scientifico dal nome dell’illustre naturalista che, avendo scoperto la selezione naturale, con i preti ha ben poco a che fare.

Il Seminario è una specie di castello in miniatura, ma mica tanto: sta proprio dietro la sede del museo d’arte contemporanea e quasi ci fa a gara, per imponenza. Domina la collina e lo sguardo, persino in lontananza. E così, quando poco prima delle otto ogni mattina tuo figlio monta in sella alla sua moto e parte con un rombo quasi acido, aggressivo, ti scatta dentro la pancia una specie di preallarme. Passa un quarto d’ora durante il quale speri di non sentire nessuna sirena d'ambulanza tagliare l’aria, e poi tiri un sospiro di sollievo: adesso sarà arrivato sano e salvo a scuola.

La mattina se ne va serena, perché lo pensi al sicuro dentro quelle mura spesse. Ieri mattina il vento non era più così cattivo come il giorno avanti. L’aria era meno carica, seppure ancora elettrica e fredda. Il vento, qui a Rivoli, sulla soglia della Val di Susa, quando tira forte sembra volersi mangiare tutto. Ma ieri mattina era già un po’ stanco, e la giornata si prometteva tersa, quasi benevola.

Fin verso le undici e mezzo, quando è cominciato un caos sonoro. Sirene in successione, traffico, e poi persino quelle pale di elicottero che paiono fatte apposta per scavarti l’ansia fino in fondo allo stomaco. Chissà che cosa sarebbe successo, a noi mamme di Rivoli che mandiamo i figli a studiare al Seminario, se, poco prima di tutti questi rumori carichi di brutti presagi, avessimo sentito il boato che ha fatto tremare i loro banchi e poi quella sirena d’allarme che sino a ieri avevano conosciuto solo durante la pacchia delle esercitazioni di sicurezza (due ore buone di lezione saltate ogni volta!).

Noi, se da casa avessimo sentito quel boato e quella sirena dentro la scuola dei nostri figli, saremmo morte di paura. Eppure loro, i nostri figli, dicono che lo spavento più grande se lo sono preso fuori in cortile, incominciando a capire quel che era successo, lassù al primo piano del Seminario. E avevano ragione loro, ad aver avuto paura dopo. Una paura retroattiva che parla da dentro le viscere e si schianta contro la scena di quel controsoffitto sfondato, caduto giù come brandelli di carta da un foglio strappato. Perché quando una mamma manda suo figlio a scuola pensa che magari potrebbe succedergli qualcosa per strada, a piedi mentre attraversa sulle strisce con lo zaino che lo sbilancia sulle spalle, in moto se piove perché l’asfalto scivola. A scuola, pensava una mamma sino a ieri mattina, non può mica succedergli nulla di male - a parte un brutto voto, una nota sul diario, una bisticciata fra compagni.

Invece non è più così da ieri mattina, per una mamma che manda suo figlio a scuola. Perché fra quelle quattro mura, seduti al banco, può capitare anche di morire per colpa di un controsoffitto che casca, come fosse fatto di carta straccia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #101 inserito:: Novembre 25, 2008, 05:26:08 pm »

Rubriche

I misteri del seno

di Paola Emilia Cicerone


Colloquio con Peter Hartmann, direttore dell'Human Lactation Research Group e autore di numerose pubblicazioni sulla salute delle madri e l'allattamento  Peter Hartmann è uno di quelli che sul seno femminile ha parecchio da dire. Dirige lo Human Lactation Research Group presso la University of Western Australia ed è convinto che ne sappiamo ancora poco. Gli abbiamo chiesto perché.

Professore, cosa c'è ancora da scoprire?
"Se ne occupano oncologi o chirurghi plastici, ma non ne conosciamo ancora bene la funzionalità. Né la composizione standard del latte: se un neonato non cresce, si dà la colpa al latte materno, quando i problemi possono essere altri. Solo di recente abbiamo usato gli ultrasuoni su donne in allattamento, scoprendo un'anatomia diversa da quella descritta nei libri di testo. Abbiamo visto che i dotti in cui dovrebbe raccogliersi il latte prodotto, non esistono. E che i dotti attraverso i quali scorre il latte sono meno numerosi di quanto ipotizzato, non 15 - 20 ma al massimo 9, superficiali e facili da occludere".

Oggi gli interventi di chirurgia estetica al seno sono molto diffusi. Con quali rischi?
"Il 50 per cento delle donne che si sottopongono a interventi di riduzione ha difficoltà ad allattare. Ma anche chi inserisce protesi rischia di danneggiare l'area intorno al capezzolo, o di creare occlusioni che possono rendere più difficile l'allattamento".

Qualche consiglio per chi vuole allattare?
"Non esiste una posizione ideale per allattare: se il bambino mangia e la madre non sente male è ok. I bambini sanno spontaneamente come alimentarsi, bisognerebbe lasciare fare alla natura invece di separare mamme e neonati al momento della nascita come spesso avviene".

(25 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 28, 2008, 06:01:12 pm »

MEMORIA DEL BUIO

LETTERE E DIARI DELLE DONNE ARGENTINE IMPRIGIONATE DURANTE LA DITTATURA.

UNA TESTIMONIANZA DI RESISTENZA COLLETTIVA.
 

Mercoledì 3 dicembre 2008 – ore 18.00

Presentazione del libro con la partecipazione di Gianni Minà, direttore della collana Continente desaparecido;
Italo Moretti, giornalista, corrispondente della Rai in Argentina nel periodo della dittatura;
Adela Gutierrez, Gladys Baratce, Estela Robledo, ex prigioniere politiche nel carcere di Villa Devoto
 
Casa Internazionale della Donne
Sala Carla Lonzi (Primo piano)
Via della Lungara, 19 - Roma


---



Sono state, sono, compagne.

Compagne: coloro che condividono il pane.
Questo è il significato della parola, secondo la sua radice latina.
Questo libro condivide, allo stesso modo, la memoria.

E’ l’opera collettiva di molte prigioniere
dell’ultima dittatura militare argentina.

Ed è testimonianza dei segreti soli
che quella notte nascondeva.


Eduardo Galeano

da segreteria@giannimina.it a latinoamerica
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« Risposta #103 inserito:: Gennaio 08, 2009, 03:46:33 pm »

Un'operatrice culturale italiana che ha lavorato a lungo nell'area ha raccolto le paure e le speranze di chi pensa che la guerra non sia inevitabile

Voci di pace tra Israele e Cisgiordania "Ricordate che siamo esseri umani"

Persone che hanno figli in guerra scrivono ad amici che si trovano sotto il tiro dell'esercito israeliano



di MILENA GADIOLI *



Dialogo. Parola che in questi giorni suona quasi come una bestemmia. La dico.

Pace: parola che a pensarla dicono mi dovrei vergognare. La dico.

La dico perché da sotto le macerie e le urla di Gaza, da dentro una casa di Tel Aviv, Haifa, Jenin, Betlemme, da persone con cui ho vissuto e condiviso la vita e la morte mi viene urlato di dirla. Sono urla con un filo di voce ma voglio che quel filo resti vivo, nonostante tutto il dolore vivo. A Bologna ho letto un cartello: "Con Gaza fino alla morte". Penso che di morti ce ne siano già stati abbastanza.

****

"La nipote di una mia amica è stata sotto shock per due giorni poi ha avuto un infarto. 15 anni, morta di paura a Gaza City, 15 anni! Morta di paura! Cosa provo non te lo riesco a spiegare. Tutto quello che ho potuto fare è cercare di pensare e agire. Potevo picchiare, ho deciso di usare le mie forze per aiutare. Tramite l'UNICEF ho inviato a Gaza materiale riguardo come trattare con bambini e ragazzi in tempo di guerra, spero sia utile. Hasta!" (N. A. A - Betlemme, Cisgiordania)

"Sono araba e sono israeliana. La situazione è pesante. Ricordate che siamo esseri umani. Quelle persone di Gaza, Sderot, Hebron, Gerusalemme, sono tutti miei fratelli. Il loro dolore è il mio. Siamo fratelli". (M. Q. - Ramla, Israele)

"Il Freedom Theater è nel campo profughi di Jenin. E' stato costruito da Arna, un'ebrea proveniente da una famiglia sionista. Un'ebrea che ha dato la mano agli arabi. Che ha vissuto per la Pace. E' morta ma il suo motto è rimasto: 'E' attraverso la conoscenza reciproca che arriva la libertà e solo attraverso la libertà arriva la pace'. Ogni ragazzo qui porta sul corpo i segni di pallottole, bruciature e torture anche io, Ahmad, ma vi dico che se prima volevo solo la morte, grazie al teatro e alla cultura ora ho qualcosa per cui voglio vivere, qualcosa per cui sognare. Voglio vivere e costruire, parlare, condividere, capire. Odio il terrore, ne ho subito troppo e non lo voglio dare ad altri. Voglio Vivere". (A. S. - Campo Profughi di Jenin, Cisgiordania.)

"Sono depresso e frustrato. Da anni lavoro per la pace e sono stanco. Deluso Deluso per i fatti di Gaza ma credo ancora che l'unica via sia il dialogo. Un accordo. Qui abbiamo bisogno di un cessate il fuoco che sia vero , da entrambe le parti e che venga una qualche forza internazionale che faccia rispettare i patti a entrambe le parti, e che si parlino. Questa è la mia speranza per vivere in una vera Pace, ho camminato su troppi morti, e voglio pace e giustizia in due stati indipendenti, Che si parlano." (M. A. T - Jenin città, Cisgiordania)

Dialogo tra L.N. e R.B., due donne. Una sta a Haifa in Israele, l'altra a Hebron, in Cisgiordania.
"Sono ebrea e sono israeliana e mi sento arrabbiata e spaventata e anche colpevole. (L. N. - Haifa, Israele)

"Non ho bisogno del tuo senso di colpa. Ho bisogno di sapere che non molli. Ho bisogno di sapere che resisti anche per me o divento matta. Il tuo esercito ha sparato anche oggi qui" (R.B. - Hebron, Cisgiordania)

"È difficile. Lo scorso week end sono andata a Tel Aviv alla manifestazione per il cessate il fuoco a Gaza. Mio figlio è all'esercito, voi nella West Bank mi si sta spaccando il cuore. Quella ragazzina di Gaza... ho paura che anche a me si spacchi il cuore (L. N.)

"Ti voglio bene e se ti ho aggredita con parole piene di rabbia è perché sono esausta e ho paura. Resisti, sapere che di la ci sono persone come te mi aiuta a non mollare." (R. B.)

"Si, sfortunatamente mio figlio è nel mezzo del combattimento, il suo comandante ieri è stato ucciso. Non ti riesco a dire cosa sto passando, e nell'altra mano ho la mia scuola comunitaria per ragazzi ebrei e arabi da mandare avanti. C'è molto da fare qui adesso. Ma mi il lavoro che facciamo qui mi dà forza e la scuola sta andando bene e fronteggiamo ogni giorno le nostre emozioni riguardo il conflitto, noi insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. È difficile, fa male ma è l'unico modo. Ci dobbiamo ascoltare per risolvere insieme." (O. E. - Misgav, Israele.)

****

Non ho messo i nomi perché per l'opinione pubblica parlare di dialogo è un reato, perché a parlare di pace ci si deve vergognare. E loro si sforzano ma hanno paura. Se pensate come me che le loro parole oggi più che mai abbiano un senso, fateglielo sentire, rispondete qualcosa. Fategli sentire che non sono pazzi e soli. Potete farlo anche attraverso la mia mail (gadiolimilena@gmail.com). E allora vi diranno i loro nomi e vedrete volti e mani e vite che sono orgogliosa di poter chiamare umane. Di qua a di là del muro.


* Milena Gadioli, 29 anni, artista ed educatrice dalla provincia di Mantova, negli ultimi due anni ha vissuto tra Israele e la West Bank lavorando in progetti di cooperazione e dialogo interculturale. Usa l'Arte come terapia e mezzo di educazione sentimentale in una terra dove l'anestesia delle emozioni individuali sembra essere bandiera nazionale. Ha qui raccolto spezzoni del dialogo che si stanno scambiando in questi giorni le persone dei due territori in conflitto attraverso la sua casella mail; persone con cui ha vissuto e lavorato.

(7 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #104 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:33:06 pm »

Rachida Dati e Carolyn Kennedy

Lo stiletto tacco otto e il ruggito dell'acqua cheta


Se siete donne e avete fatto un cesareo, immaginate che sforzo può essere, cinque giorni dopo l’intervento, non tanto l’andare al lavoro quanto l’andare al lavoro indossando scarpe a stiletto tacco otto; è nello stiletto la chiave di tutto, dell’ambizioso eroismo post-partum di Rachida Dati.

Se vivete sul pianeta terra e quindi conoscete la storia di JFK, potete capire perché un’orfana di presidente assassinato e mitizzato può aspettare fino a cinquant’anni prima di darsi alla politica, dopo aver fatto vita tranquilla e cresciuto tre ragazzi;ma l’aver fatto la mamma a tempo pieno finché voleva è uno deimotivi di astio verso Caroline Kennedy. Rachida D. e Caroline K. sono ai due estremi dello spettro delle maternità possibili. Molto estremi: una è figlia di immigrati marocchini diventata ministro della Giustizia e poi mamma a 43 anni senza dire il nome del padre; l’altra è una rarissima Kennedy che non abbia mai avuto problemi di alcol e droga, non abbia mai commesso stupri, abbia sempre lo stesso marito e abbia tirato su la prole normalmente. Ma tutte e due, ognuna dal suo angolo, stanno sorprendendo.

Rachida ha sparigliato da combattente senza scrupoli e senza paura.
Ha mollato la neonata e ha messo su una photo opportunity che i media di mezzo mondo non hanno potuto ignorare; rendendo più difficile a Nicolas Sarkozy un rimpasto in cui lei verrebbe fatta fuori causa impegni da mamma. I media di mezzo mondo l’hanno anche attaccata. Molte donne sono intervenute; sostenendo che con la sua bravata ha ridicolizzato le leggi sul congedo di maternità, ha fatto sentire fesse quelle che dopo il parto sono giustamente a pezzi, ha fatto sembrare possibile quello che raramente è fattibile (Dati ha un ricco staff chemaltratta; altra storia sarebbe tornare in ufficio subito dopo il parto facendosi, per dire, autobus più metro).

Caroline, acqua cheta e poi pezzo pregiato della campagna di Obama, rischia di venire nominata dal governatore di New York nonostante interviste disastrose; viene difesa perché è perbene, perorerebbe buone cause e al Senato c’è già di molto peggio. Molte madri lavoratrici non la amano perché solo una iper-privilegiata può diventare senatore così, dopo aver lavorato quando le andava e allevato i figli senza sensi di colpa, a un’età in cui tante vengono messe da parte. D’altra parte, se nessuna si può identificare in pieno (senatrici ereditiere e ministre madri singole ce n’è poche), molte possono tifare, criticare, discuterne fino a notte fonda (specie se c’è da dare la poppata). E magari concludere che non esiste un Pensiero Unico sulla maternità e mai esisterà (certi diritti dovrebbero essere garantiti, però; e i dibattiti politico-pop non c’entrano niente).

Maria Laura Rodotà
10 gennaio 2009

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