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Autore Discussione: MONDO DONNA N° 1  (Letto 148648 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:51:07 pm »

La show girl: stalking e stupri, 300 email al giorno

«Un anno con le donne violentate e umiliate. Fino a non dormire più»

Michelle Hunziker: così le ho aiutate

 
 
MILANO — La Michelle che non ti aspetti parla di «vite tormentate », di «donne che hanno bisogno di uscire dal silenzio», di violenze, mobbing, soprusi, solidarietà. E «vabbé, se ne faranno una ragione quelli che pensano ame solo come donna-immagine ». La Hunziker versione no-gossip ricorda i primi tempi della Fondazione «Doppia Difesa», centro di aiuto alle donne voluto e messo in piedi assieme a Giulia Bongiorno, un anno fa. «Lavoravo tutto il giorno. La sera facevo Striscia e quando finivo mi appiccicavo al computer a leggere le storie delle nostre donne. Ogni volta che aprivo un file entravo in una vita segnata. Cose pazzesche. Poi di notte facevo molta fatica a dormire perché cercavo una via d’uscita per quelle donne. Ti viene l’angoscia, credimi. Non ti abitui mai, ci stai male. A un certo punto non ce l’ho più fatta. Non ho più letto nulla di quelle storie prima di dormire. Ho capito che a continuare così sarei andata in depressione ». Con il tempo Michelle ha imparato a dosare emotività e reazioni. Ha incontrato molte delle «sue» donne, si è così appassionata al tema da diventare un po’ avvocato, un po’ psicologa. «È stata dura», riflette oggi, «ma chemeraviglia poi, quando capisci che i tuoi sforzi non sono stati vani...».

Come quella volta che una ventenne decise di parlare di sé. Solo con Michelle, solo grazie a Michelle. «All’inizio era come se le parole non trovassero la via per uscire. Poi si è sbloccata e perme è stato un momento di felicità. Il suo è il racconto di un’infanzia e di un’adolescenza negata, distrutta. Dal giorno della prima comunione fino ai 18 anni è stata stuprata, umiliata, usata dai suoi zii, a turno. In alcuni periodi è successo ogni santo giorno. Quando l’ha detto a sua madre si è sentita rispondere che una denuncia avrebbe rovinato la famiglia. È stato il colpo più grave. È diventata autolesionista, ha cercato di uccidersi. Oggi vive sola, lontana dall’orrore del passato. Ecco, sentire di aver aiutato una persona così mi fa stare bene».

A Doppia Difesa arrivano dalle 200 alle 300 e-mail al giorno: scrivono donne violentate, discriminate, umiliate, perseguitate da mariti, spasimanti, fidanzati, private del diritto di vedere i figli, angosciate dal mobbing. Di tutto di più. Si fa un primo screening, si verifica l’attendibilità di storie e persone e poi si interviene, con civilisti, penalisti, psicologi, analisti, con le case-rifugio dove ospitare chi è in pericolo. «Se il caso è molto urgente prendiamo il primo volo e raggiungiamo chi ci chiede aiuto», dice Michelle. Le storie raccolte dalla Fondazione sono ormaimigliaia, «molte così assurde, drammatiche, paradossali che non ci si può credere » valuta Michelle. Per esempio la signora che ha presentato 82 denunce contro la persecuzione del marito: «Tutto documentato. Non si è mai risolto nulla. Soltanto ora, dopo il nostro intervento, c’è un procedimento in corso contro di lui». Sullo stalking la bionda di Striscia è preparata per esperienza personale: da anni ci sono ammiratori (in tutto 5) che la tormentano, uno l’ha minacciata di morte e lei dai microfoni di Striscia gli ha detto in diretta: «Vado dalla polizia». Però, poi, dice: «Per favore non dite che sono una vittima. Io reagisco sempre, denuncio sempre. E non mi lamento perché mi posso permettere una guardia del corpo per me e Aurora, mia figlia. Mi chiedo: e chi non può farlo? A volte riceviamo appelli disperati e a me sembra di vedere le scene. Una ragazza ci ha chiesto una mano perché il suo ex fidanzato entrava in casa quando lei non c’era, le tagliuzzava i vestiti e poi li ripiegava. Roba da film horror. Potete immaginare una vita con quest’ansia addosso? ».

Accorata, Michelle, mentre racconta delle sue donne. Dice che lo sa, tutti hanno pensato che in quest’avventura lei cimettesse solo l’immagine. «E invece no. Ci metto energia, tempo, emozioni. E ci metto anche la faccia. Come fanno alcune delle nostre donne che hanno deciso di raccontare in video la loro esperienza. Non so se alla fine ne uscirà un documentario o qualcos’altro. So che il loro coraggio aiuterà le altre a uscire dal silenzio. So che se tutto questo servirà a salvare anche una donna soltanto ne sarà valsa la pena».

Giusi Fasano
26 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:25:21 pm »

Quell’omicidio chiamato stupro

Slavenka Drakulic*


Ricordo con chiarezza la prima vittima di stupro che ho avuto la ventura di conoscere. Era l’autunno del 1992 e mi trovavo in una cittadina non lontana da Zagabria. La donna era una musulmana di Kozarac in Bosnia. Dopo alcuni mesi trascorsi in un campo di prigionia, era arrivata a Zagabria con un gruppo di rifugiati. Selma (non è il suo vero nome) aveva circa 35 anni, capelli castani corti e occhi di un azzurro intenso.

Mi raccontò la sua storia con un filo di voce quasi bisbigliando. Si trovava a casa con i suoi due figli e sua madre quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel cortile. Dissero che cercavano armi, ma a casa di Selma non c’erano armi. In realtà era ben altro quello che volevano.

Con una espressione feroce sul viso, un uomo la afferrò e la spinse nella stanza da letto. Poi gli altri lo raggiunsero. «Poi me lo hanno fatto».

Con queste semplici parole e con lo sguardo basso e fisso sulle mani che tormentava nervosamente, Selma mi ha parlato della sua tragedia. «Per molto tempo dopo quel fatto non sono riuscita a guardare in faccia i miei figli... Non facevo che lavarmi, ma continuavo a sentire addosso il loro odore. Immagini, me lo hanno fatto sul mio letto coniugale», mi ha detto.

Colsi una inflessione di disperazione nelle sue parole. Non piangeva o, quanto meno, non piangeva più. Ma si vergognava e la vergogna non l’abbandonava. Doveva conviverci così come doveva conviverci suo marito.

Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro un’arma di guerra. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno saluto questa decisione come un fatto storico, ma non è una riparazione giuridica. Decine di migliaia di vittime delle violenze sessuali in Bosnia non si sono viste ancora riconoscere lo status giuridico di vittime di guerra. Mentre lavoravo al mio libro «They Would Never Hurt a Fly» (NdT, Non farebbero mai del male ad una mosca) sui criminali di guerra dei balcani sotto processo a L’Aja dinanzi al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, mi sono imbattuta nel “caso Foca”. Nel 1992 Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, tre serbi della città bosniaca di Foca, misero in prigione alcune giovani musulmane, le torturarono, le ridussero in una condizione di schiavitù sessuale e le violentarono. Eppure quegli uomini non riuscivano a capire per quale ragione venivano processati.

Uno di loro si difese dicendo: «ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista aveva salvato loro la vita. Stupro? Ma che reato può mai essere in confronto all’omicidio?

Questo caso è importante perché il 22 febbraio 2001, Florence Mumbal, giudice del Tribunale Penale Internazionale proveniente dallo Zambia, li giudicò colpevoli. I tre serbi sono stati i primi uomini nella storia del diritto europeo ad essere condannati per crimini contro l’umanità - tortura, riduzione in schiavitù, offesa alla dignità umana e stupri di massa di donne musulmane bosniache.

Questa sentenza riconosceva che la violenza sessuale è un’arma estremamente efficace per le operazioni di pulizia etnica. Non solo copre di vergogna le donne violentate, ma umilia i loro uomini che non sono in grado di proteggerle. La violenza sessuale distrugge l’intera comunità in quanto sul vittime rimane il marchio - mai dimenticato, mai perdonato.

Nel corso del processo contro gli imputati del caso Foca ci fu una testimone, madre di una bambina di 12 anni fatta prigioniera da Radomir Kovac che la violentò e la vendette a un soldato montenegrino per 100 euro. La ragazza non è stata mai più ritrovata. La madre si era presentata in tribunale per guardare in faccia l’aguzzino di sua figlia e per testimoniare contro di lui. Ma quando si alzò in piedi dinanzi alla Corte non riuscì a dire nemmeno una parola. Dalle sue labbra uscì solamente un suono simile all’insopportabile ululato di un cane ferito a morte. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sullo stupro certo non farà tornare a casa la figlia di questa povera donna. Ma è, non di meno, un avvenimento storico perché, finalmente, la violenza sessuale viene classificata come un’arma e può essere punita. Un uomo non potrà più difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna, ma l’aveva “solamente” violentata. Oggi sappiamo, così come lo sapevamo prima che questa risoluzione fosse approvata, che lo stupro è una sorta di lento, differito omicidio.

Slavenka Drakulic collabora con la rivista «The Nation» ed è una scrittrice che vive in Croazia. Il suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti, si intitola «They Would Never Hurt a Fly: War Criminal on Trial in The Hague» (Penguin).

© 2008, The Nation
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 03, 2008, 06:36:26 pm »

LA LETTERA

La Guzzanti: per il Pd noi 4 gatti?

Ricordo che loro scalavano banche


Caro direttore,
sull'aereo al ritorno da un viaggio di un mese per un lavoro sulla satira nel mondo, ho preso l'Espresso per aggiornarmi un po'. Meno male che avevo la cintura di sicurezza perché rischiavo di cadere dalla sedia! La notizia è scioccante. L'articolo di apertura dice che Berlusconi ha mostrato il suo vero volto: non un grande statista ma un uomo che pensa solo a fare leggi per sé! Ha ingannato l'opposizione con straordinaria abilità! La sua performance è stata talmente geniale e inaspettata (sorrideva! Lui che non ha mai sorriso!), che ha ingannato perfino Veltroni ! Appena atterrata vengo a sapere della manifestazione dell' 8 luglio. I commenti che sento e che leggo in proposito sono sempre gli stessi. La gente non arriva alla quarta settimana questi sono i problemi, non le intercettazioni, non la giustizia, non la difesa della vecchia obsoleta Costituzione, non la difesa dei giornalisti che sono una casta e che se non scendono in piazza loro non si capisce perché dovremmo scendere in piazza noi, non la difesa dei magistrati che sono un'altra casta. Shenderovich, satirista russo, lavorava ad un programma con il 50% di share, è stata una delle prime vittime di Putin.

Sono anni che può esprimersi solo in una radio dissidente e la gente che ha votato Putin continua a fermarlo per chiedergli: come mai non ti si vede più in tv? Shenderovich osserva acutamente che la sua gente non associa la libertà al benessere. Guardano l'Occidente e vorrebbero quello stile di vita. Non capiscono che questo stile di vita è stato raggiunto grazie alla libertà. E votano Putin in massa. Tutti proviamo fastidio a risentire la parola girotondi, proviamo fastidio al nome di Di Pietro, al nome Veltroni, Fava e ormai anche Vendola. Sarebbe meglio che ci fossero dei politici che ci convincono di più ma non ci sono. Nell'attesa dell'arrivo del messia una manifestazione è stata convocata l'8 luglio e bisogna andarci. Il leader plebiscitario Veltroni dice che si tratta dei soliti quattro gatti. Su Veltroni non c'è altro da aggiungere al commento di Altan: - Si manifesta in autunno. - A che ora? La ragione per cui non si arriva alla quarta settimana è che tutti i settori della nostra società, compresi tutti quelli che dovrebbero svolgere attività di controllo, sono corrotti. La ragione per cui stiamo male e staremo peggio è che siamo governati da ladri. È grazie alle intercettazioni che sono state fermate le scalate alle banche da parte di Berlusconi, della Lega e del Pd, grazie alle intercettazioni e soprattutto grazie al fatto che siano state rese pubbliche a mezzo stampa Fazio è stato costretto a dimettersi e ora ci troviamo con Draghi che è onesto e capace. La violazione della privacy è già punita dalla legge, Anna Falchi ha avuto giustizia. Gli italiani continuano ad essere truffati dalle banche, dai partiti, dall'ultimo arrivato come Fiorani che con in tasca decine di milioni di euro rubati alle vecchiette che poi votano Berlusconi, ci saluta dai canali Mediaset, sempre educativi, ballando a torso nudo a casa di Lele Mora.

Sabina Guzzanti
03 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:44:31 am »

Dalla parte di Mara

Colpe non sue

Smettiamo di insultarla


Carfagna come Lewinsky? Carfagna troppo intercettata (si dice)? Carfagna deve dimettersi? Mah. Ieri tutti i mali del Paese parevano riconducibili a Mara Carfagna. Sospettata non di corruzione, non di associazione mafiosa, non di aver pagato testimoni ecc.; ma di aver fatto conversazioni arrischiate al telefono con l'attuale premier.

Il premier l'ha nominata ministro delle Pari opportunità. Nel ruolo non ha molti fans, dicono i sondaggi, neanche tra gli etero. Tra i gay va peggio, non patrocina iniziative, ha ritirato i fondi per una ricerca sull'omofobia, sforna opinioni discutibili. Probabilmente è un ministro sbagliato al posto sbagliato. Secondo i critici del governo Berlusconi, non l'unico. Ma è un'ex ragazza tv, le sue foto osé sono ovunque, la si può sfottere, la si può insultare. Lo ha fatto tra gli altri Massimo Donadi dell'Idv, che dipietreggia senza il talento del leader: «E se Bill Clinton avesse fatto ministro Monica Lewinsky?».

Risate, anzi no. «Il dirimente tra pubblico e privato nel caso di un capo di governo è molto labile», ha dipietrato Donadi. E' vero. Ma è labile anche il «dirimente» tra il fare una battaglia politica e l'offendere una donna, stavolta. Perché, se usciranno le intercettazioni, e anche se ne uscisse un Berlusca poco prestante (ma no), lui farà la figura del simpatico mascalzone. E se ha aiutato qualche ragazza ambiziosa, vabbé, si sa che capita. Non sarà mica lui a doversi dimettere, non in Italia. In caso dovrà andare via Carfagna. Anche se, in plausibile sintesi, Carfagna, come altri ministri ed esponenti Pdl, ha dato molta retta al premier e ha poi colto un'opportunità professionale. E Berlusconi è com'è. Un italiano vero; ha un debole per ragazze e bagatelle. Ma se insorgono difficoltà (una moglie, un processo) non si dispera se il pubblico ludibrio cade sulla ragazza. Anzi: la ragazza/e, in questa fase delicata tra norma bloccaprocessi e processo Mills, potrebbe servire a lui da diversione mediatica. Magari non voluta, certo seguitissima.

Fornisce attenuanti, poi: se, come ha titolato Libero, per Berlusconi , rispetto al resto è un guaio veniale. Così, come in un varietà di epoca Fininvest, si distrae lo spettatore da uno show malmesso puntando sulle grazie della soubrette. Ma la colpa non è della soubrette; né della ministra. Smettiamo di insultarla; pensiamo cosa fanno tanti uomini ambiziosi, per compiacere un potente, in genere restando vestiti (in genere, di peggio).

Maria Laura Rodotà


04 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 05, 2008, 05:04:58 pm »

5/7/2008
 
La leva del reddito in mano alle donne
 
 
 
 
CHIARA SARACENO
 
L’aumento del costo della vita e la crisi legata alla vicenda dei mutui colpiscono un po’ dappertutto i redditi delle famiglie, non solo in Italia. Ma i dati appena pubblicati dall’Ocse nell’Economic Outlook del 2008 segnalano che le famiglie italiane hanno meno risorse che altrove per far fronte all’erosione del loro reddito, per tre motivi principali.

In primo luogo sia il tasso di occupazione che soprattutto quello di attività femminile nella fascia di età 25-54 anni sono tra i più bassi nei paesi sviluppati: rispettivamente il 59,6% e il 64,1%. In Francia le cifre sono rispettivamente il 76,4% e l’82,6%, in Germania il 73,6% e l’80,3%, in Spagna 65,7% e 72,7%. Più che la disoccupazione femminile, è l’assenza dal mercato del lavoro ad essere problematica. Solo Turchia, Grecia, Messico e Corea presentano tassi di attività femminile per questa fascia di età così bassi. Significa che in molte famiglie non è presa neppure in considerazione, per vincoli culturali, ma anche organizzativi e di mancanza di servizi, la possibilità di aumentare il numero dei percettori di reddito.

È un fenomeno particolarmente forte tra le persone e le famiglie a bassa istruzione e nel Mezzogiorno, ovvero tra i gruppi sociali maggiormente vulnerabili alle scosse economiche. È, inoltre, un fenomeno che sembra tornato ad aumentare negli ultimi anni e che si nasconde sotto l’apparente dato positivo della diminuzione della disoccupazione, che perciò, specie nel caso delle donne, e specie nel Mezzogiorno, non dovrebbe essere preso come l’indicatore più significativo di tensioni sul mercato del lavoro. Non va, per altro, trascurato che le donne che lavorano pagano un prezzo, non solo in termini, spesso, di doppio carico di lavoro, pagato e non, ma anche perché il loro lavoro è pagato meno di quello degli uomini, tanto più quanto più le donne sono istruite. L’istruzione sembra infatti avere un effetto contraddittorio per le donne: è il passaporto per entrare e rimanere nel mercato del lavoro; ma amplia il grado di disuguaglianza retributiva. È un fenomeno presente anche negli altri paesi, ma che in Italia sembra particolarmente accentuato. In secondo luogo, i salari per ora lavorata sono più bassi della media OCSE (solo alcuni paesi dell’ex blocco comunista hanno redditi inferiori). Ciò spiega perché, nonostante in media chi lavora in Italia lo faccia per più ore che in altri paesi (di nuovo, solo i paesi dell’ex blocco comunista e il Messico hanno orari più lunghi), i salari medi italiani siano più bassi, anche in termini di potere d’acquisto. Ci sarà un problema di produttività, come si è detto in questi mesi, ma certo non di orari di lavoro più corti, come pure si è detto in questi mesi.

Infine, circa un quarto di giovani (una quota raggiunta solo da Grecia e Corea), di figli cioè, risulta stabilmente inattivo nei cinque anni che seguono la fine della scuola, rimanendo quindi a carico della famiglia. Si tratta in maggioranza di donne, ma non solo. A questi si aggiungono coloro che hanno un lavoro precario e/o part time, e quindi continuano ad essere parzialmente dipendenti economicamente. Questi tre dati segnalano che per sostenere il reddito delle famiglie non è la leva fiscale - per altro, secondo gli ultimi annunci di Tremonti, rimandata a tempi migliori - lo strumento principale. Occorre aumentare i salari reali e occorre aumentare il numero di occupati, con l’effetto per altro positivo di aumentare la base imponibile. Soprattutto occorre sostenere l’offerta di lavoro femminile, riducendo i tassi d’inattività. Per far questo occorre evitare di creare disincentivi (come avverrebbe se si introducesse il quoziente famigliare) e investire in servizi, oltre che in istruzione e infrastrutture locali. Prima che qualcuno lamenti che ciò costa, ricordo che ormai è stato da molti dimostrato che l’aumento di occupazione femminile non aumenta solo la base imponibile, ma anche la domanda di lavoro, creando un indotto da far invidia alla Fiat dei tempi d’oro.
 
da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 05, 2008, 05:06:30 pm »

5/7/2008 (7:22) - PERSONAGGIO - MARINA CATENA DA BRUXELLES AL FRONTE DEL LIBANO

"Anfibi e diplomazia sono una donna Ogm"
 
La prima italiana tenente racconta le sue missioni: «Ho dovuto marciare con 30 chili in spalla e dividere il bagno con dieci persone»

GIORDANO STABILE


La ragazza coi capelli lunghi al vento, in tailleur e con una cartellina in mano, lo sguardo rivolto a Bernard Kouchner e Kofi Annan che camminano davanti a lei all’aeroporto di Pristina, è la stessa con il basco e la tuta mimetica tra i soldati Onu in Libano. E stanno anche facendo lo stesso lavoro. In queste due foto di Marina Catena, tenente della Riserva selezionata dell’Esercito italiano e funzionario del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, è riassunta una delle sfide più difficili affrontate dalla comunità internazionale negli ultimi due decenni: le missioni di pace, la ricostruzione degli «Stati falliti» distrutti dalle guerre civili. Guerre asimmetriche che non si possono chiamare guerre, soldati che si devono inventare sul campo una professione che ancora non esiste, diplomatici costretti a confrontarsi con le durezze della realtà lontani dalle stanze ovattate delle riunioni. In più, una sfida affrontata da una donna, in un mondo di uomini.

«Sono un ogm - scherza il tenente Catena, nata a Ortona nel 1968 -, metà soldato, metà diplomatica. Ma credo che l’esperimento sia riuscito. Avevo in mente la carriera militare fin da ragazza, fin da quando per trovare ispirazione per un tema sull’eroismo ero andata al cimitero canadese di Ortona, 1600 ragazzi morti per liberarci dai nazisti. Ma allora era semplicemente proibita, per le donne». Una laurea in Scienze politiche alla Luiss di Roma, un primo lavoro come hostess per Air France («mi vedevo comunque in una dimensione senza frontiere»), poi uno stage alla Commissione europea a Bruxelles e l’incontro con Bernard Kouchner, attuale ministro degli Esteri francese, «l’inventore del concetto di ingerenza umanitaria». Alla fine però Marina Catena ce l’ha fatta, ha scommesso sul tempo e ha vinto: è stata tra le prime «ufficialesse» dell’Esercito italiano. Tra le prime a scontrarsi con i riti e le assurdità della vita militare: lucidare gli anfibi, rifare il «cubo» (il letto) con precisione geometrica, «pompare», fare a gara di piegamenti sulle braccia. Tutto raccontato, con divertimento, nel suo ultimo libro, «Una donna per soldato» (Bur), e ampiamente ripagato dalla sua prima missione da tenente, in Libano, come «country advisor», in pratica un consigliere politico nell’intricato puzzle politico nel Paese dei Cedri. Ricordate quel film con Demi Moore? A un certo punto il comandante si rivolge al soldato Jane e le dice: «Vuole che la tratti come i suoi colleghi uomini? Bene, ma non sono sicuro che le piacerà».

Vita dura. Jogging con gli implacabili e inossidabili paracadutisti della Folgore, briefing estenuanti, «in cui ho imparato a spiegare in mezz’ora come funziona il sistema politico libanese a trenta ufficiali coreani. Ho perso dieci chili, mi sono abituata a condividere il bagno con le altre commilitone, a marciare sotto il sole con trenta chili di equipaggiamento». Ma soprattutto ha imparato ad amare i libanesi. «È un amore ricambiato, si sentono simili a noi, idealizzano il nostro Paese. È un popolo coraggioso, che si rialza ogni volta». E le donne libanesi? «Si sono innamorate subito dei nostri soldati e li hanno eletti i più belli di Unifil. Sognano di sposarsene uno, non sanno che i contatti sono proibiti. Ma c’è una cosa forse più importante. Vedere noi donne soldato, donne ufficiali che danno ordini agli uomini. È una vera e propria scossa culturale». Sempre positiva? «Le missioni di peacekeeping mettono in contatto due mondi diversi: ma non è uno scontro di civiltà, credo che sia uno scambio fertile, una contaminazione». A Tibnin, in Libano, le soldatesse erano riunite in una squadra speciale, il Team Delta, che aveva proprio il compito di dialogare con la popolazione femminile. «Abbiamo scoperto che, al di là delle apparenze e dell’abbigliamento, anche le donne sciite, nel Sud, non sono così sottomesse. Credo nei cambiamenti. In Kosovo abbiamo ottenuto che un terzo delle parlamentari fossero donne».

Il ricavato di «Una donna per soldato» sarà devoluto proprio all’orfanotrofio femminile di Tibnin. «Credo che se fossi un giovane oggi e leggessi questo libro, correrei ad arruolarmi - conclude il tenente Catena -. Quando sei in missione, in questi posti, ti senti sfiorato dalla storia. E nel tuo piccolo, contribuisci anche a farla».

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« Risposta #51 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:28:10 pm »

Un Panorama agghiacciante

Dijana Pavlovic


«Ho rubato un orologio / e l’ho messo sotto le costole / per far sì che il mio petto non sia vuoto / per far sì che dentro non ci passi il vento. / Lo puoi sentire proprio bene come batte sotto la camicia / se pensi che sia il cuore ti sbagli. / Io il cuore ce l’ho in gola da quando sono nata».

È una poesia di un poeta serbo, Miroslav Antic. Avere il cuore in gola è lo stato d’animo di tutti i bambini Rom che vivono in Italia e che non rubano. Ma ci sono altri bambini che stanno male in questo Paese. Due esempi.

Palermo: mi racconta un’amica che lavora in una Fondazione antimafia che per una recita in una scuola di Palermo hanno proposto un tema sulla mafia, ma è stato rifiutato, allora hanno fatto un sondaggio tra i ragazzi su che cosa volevano rappresentare. Risultato: tutti i ragazzi, nessun escluso, volevano mettere in scena una rapina in banca e uccidere i poliziotti.

Napoli: le maestre delle scuole di Ponticelli hanno proposto ai bambini un tema su quello che è accaduto nei campi Rom. Risultato: nei temi e nei disegni si inneggia al rogo dei campi a cui molti di loro addirittura hanno partecipato.

Di chi sono figli questi bambini? Non solo dei loro genitori naturali, ma anche di Maroni e della “cultura” delle sue camice verdi che percorrono questo Paese in ronde minacciose. E sono anche figli di chi, sull’ultimo numero di Panorama, criminalizza un intero popolo con la foto di un bambino rom e il titolo: «Nati per rubare». Ricorda il passato e riviste come «La difesa della razza».

La politica di Maroni, condannata dalla comunità internazionale, dalla chiesa e dall’associazionismo, ha bisogno dell’appoggio della comunicazione. E allora ecco che scoppia il caso dei bambini “nati per rubare”, proprio nel momento giusto.

Tante volte negli ultimi anni mi sono sentita impotente quando ho incontrato situazioni di abuso nei confronti dei minori rom e le ho denunciate alla polizia e agli assistenti sociali. Ho combattuto per un anno perché un bambino venisse tolto ai genitori e messo in un ambiente protetto perchè subiva violenze in famiglia. Mi è stato sempre risposto che i bambini rom non vengono presi nelle comunità perché tanto scappano sempre, per loro non c’è niente da fare.

E poi ci sono esempi eclatanti che sono sfuggiti a Panorama: per esempio a Rho dei bambini rom hanno telefonato al Telefono Azzurro perché i loro genitori li volevano costringere a elemosinare. Qualcuno si è occupato di questo caso e ha cercato di capire le ragioni di questo gesto? Nessuno, perché pubblicizzare un esempio di consapevolezza frutto di una situazione positiva di un campo regolare, nel quale i bambini vanno a scuola, contrasta con il pregiudizio razzista e con la necessità di sostenere una politica che crea un’emergenza inesistente per nascondere i problemi ben più seri e profondi di un paese in crisi.

Io vengo da un Paese devastato da guerre civili, bombardamenti, dittature e libertà negate - di infamie ne ho viste tante! Ma speculare in questo modo sui bambini è qualcosa di più di un’infamia, è un crimine morale.

Nessun bambino è nato per essere ladro, mafioso o assassino. Bisognerebbe proteggerli tutti, dai loro genitori e da questa politica barbara che non si fa scrupoli di usarli per interessi di bottega e fare in modo che nessuno di loro abbia il cuore in gola: né quelli di Palermo, né quelli di Napoli, né quelli Rom, né nessun altro.

dijana.pavlovic@fastwebnet.it



Pubblicato il: 06.07.08
Modificato il: 06.07.08 alle ore 10.00   
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:18:31 pm »

Eluana, tra diritto e medicina

Carlo Alberto Defanti*


È stata resa pubblica mercoledì l’attesissima sentenza della Corte di Appello di Milano sul caso di Eluana Englaro. La sentenza è stata all’altezza della sfida che il caso pone da anni al diritto del nostro Paese. Infatti la Corte di Appello ha accolto le due raccomandazioni formulate dalla Corte di Cassazione nell’ottobre 2007 e ha concluso da un lato che, sulla scorta degli atti, è possibile affermare che lo stato vegetativo in cui versa Eluana è irreversibile (in parole povere, che ella è e resterà in futuro completamente priva di coscienza), e dall’altro che la volontà presumibile di Eluana è conforme alla ricostruzione che il padre e tutore Beppino ne ha fatto sin dalla sua prima istanza di sospensione delle cure. In particolare è stato dato grande rilievo alle testimonianze concordi rese alla Corte dalle amiche di Eluana.

Le due sentenze hanno un carattere profondamente innovativo perché affermano due principii fondamentali: il primo è che nessun trattamento medico è giustificato in assenza del consenso informato del paziente, consenso che può essere reso direttamente o - in caso di impossibilità - ricostruito a posteriori attraverso le testimonianze delle persone a lui vicine, dall’altro che il diritto all’autodeterminazione prevale sul diritto alla vita quando essi si trovino in conflitto tra loro. Questo per l’aspetto giuridico, ma che dire sotto il profilo medico? In parole semplici, Eluana ha subito, nel lontano gennaio 1992, un gravissimo trauma che ha comportato la distruzione di gran parte del suo cervello e in particolare delle aree corticali che sostengono la coscienza. In altri tempi il processo del morire, iniziato dal trauma, si sarebbe concluso in poche ore, ma non fu così perché, trasportata in ospedale in stato di coma, ella fu sottoposta alle misure di rianimazione nella speranza che un recupero almeno parziale fosse possibile. Ovviamente ella non poté acconsentire a queste manovre, che furono intraprese certamente in buona fede e nel suo supposto interesse. Va detto che fin da allora il padre fece presente che ella non le avrebbe volute nelle condizioni in cui si trovava, ma non trovò ascolto.

Che cosa accadde? Il processo del morire fu arrestato, ma purtroppo non si manifestò alcun recupero e da allora la giovane visse, sino ad oggi, completamente priva di coscienza, grazie all’alimentazione artificiale. Ora finalmente, grazie alla sentenza, la volontà di Eluana sarà rispettata e il processo del morire, congelato per così dire sedici anni fa, si concluderà. In quanto tempo?

L’esperienza internazionale dice che sono necessarie pressappoco due settimane, durante le quali Eluana non sarà abbandonata, ma anzi accudita con cure ancor più attente, volte a salvaguardare la sua dignità negli ultimi giorni di vita. La Corte si spinge fino a raccomandare che Eluana sia accolta in una struttura per malati terminali, cioè in un hospice, e anche a me questa raccomandazione sembra opportuna. Così avrà fine questa vicenda, che ha segnato in maniera indelebile il dibattito bioetica italiano.

Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano

Pubblicato il: 11.07.08
Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.21   
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 11, 2008, 10:43:35 pm »

La lettera / sabina guzzanti

«Critico chi voglio. E la gente applaude»


Caro Direttore, per tutti quelli scioccati dalla stampa di questi giorni, voglio rassicurare: non siete impazziti e non sono nemmeno impazziti i giornali. La questione è molto semplice, questo sistema fradicio e corrotto vede nell'eliminazione del dissenso l'unica possibilità di salvezza. Scrive Filippo Ceccarelli su Repubblica in relazione al mio intervento a piazza Navona: «Nulla del genere si era mai visto e ascoltato a memoria di osservatore». Questa cosa, Ceccarelli, si chiama libertà. Non hai mai visto una persona che chiama le cose col suo nome, anche quelle di cui tutti convengono sia assolutamente vietato parlare, come l'ingerenza inaccettabile del Vaticano nella vita politica del Paese e nelle vite private dei cittadini italiani. Caro Ceccarelli, hai fatto un'esperienza straordinaria. Col tempo apprezzerai la fortuna di esserti trovato lì l'8 luglio.

Quello che hanno visto i presenti e gli utenti di internet è una piazza ricolma di gente, che è stata in piedi per tre ore ad ascoltare e ad applaudire entusiasta. Gli interventi più criticati dai media sono quelli che hanno avuto indiscutibilmente più successo. Nel mio intervento, al contrario di quello che tanti bugiardoni hanno scritto, gli applausi più forti sono stati sulle critiche alla politica del Vaticano e le frasi più forti fra quelle sono state applaudite ancora di più. Questa manifestazione è stata il giorno dopo descritta come un fallimento, un errore, un autogol. Stampa e tv hanno tirato fuori il manganello e con i mezzi della diffamazione, della menzogna e dell'insulto stanno cercando di scoraggiare chi ha partecipato, a continuare. Alcune ovvie piccole verità: — A sinistra si lamentano del fallimento della manifestazione quando l'unico elemento di insuccesso è costituito dai loro stessi interventi. Se non avessero parlato in tanti di insuccesso a dispetto dei fatti, la manifestazione sarebbe stata percepita per quello che è stata: un successone. — Berlusconi e i suoi sono furiosi per quanto è accaduto e il sondaggio che direbbe che Berlusconi ci ha guadagnato lo ha visto solo Berlusconi.

Quello che dice potrebbe non essere vero. — L'intenzione di espellere Di Pietro era già evidente da parte del Pd e non è per me e Grillo che i due si sono separati. Pare che Veltroni gli preferisca Casini. Non è una battuta. — Le parlamentari che hanno difeso la Carfagna sostenendo che io in quanto donna non posso attaccare un'altra donna, insultando me sono cadute in contraddizione. — Pari opportunità e Carfagna sono due concetti incompatibili come Previti e giustizia. — È falso che non si possa criticare il presidente della Repubblica. Si può e ci sono buone ragioni per farlo ad esempio impugnando il parere dei cento costituzionalisti sul Lodo Alfano. — È falso che non si possa criticare e attaccare il Papa. Si può e ci sono buone ragioni per farlo. Ho letto un po' dappertutto che il Papa sarebbe una figura super partes. Super partes non è uno che si schiera con tutte le sue forze su ogni tema, dalla scuola ai candidati alle elezioni, alla moda e alla cucina, con interventi spesso molto al di sotto delle parti, cosa su cui anche la Littizzetto, esimia collega, ha efficacemente ironizzato. — La reazione furibonda di tutto il mondo politico alle parole di alcuni liberi pensatori, dimostra che gli interventi fatti sono stati importanti ed efficaci. La repressione dei media rivela la debolezza politica di una classe dirigente che in entrambi i poli è nata a tavolino. Gli unici elementi che hanno una oggettiva radice popolare e sono rappresentati in Parlamento allo stato attuale, sono Lega e Di Pietro.

E crescono. Berlusconi e Pd calano vertiginosamente. — C'è un partito finto, il Pd, nato senza idee, tranne quella di fondere due partiti per ingrandirsi con lo stesso criterio con cui si accorpano le banche per essere più forti. Questo partito votato controvoglia dalla maggioranza dei suoi elettori si è rivelato fin dai primi passi un soggetto politico artificiale, che somiglia più a un «corpo diplomatico» che altro. Molti dei vip che lo hanno sostenuto ora sono colti da attacchi isterici constatando che non sta in piedi. Dall'altra parte ci sono delle idee che vogliono essere rappresentate e discusse. Idee davvero alternative a quelle del centrodestra. La qual cosa, nel momento in cui si cerca di costruire un'alternativa, ha la sua porca importanza e fa sì che queste idee vengano considerate oggettivamente interessanti dall'opinione pubblica. Per quanto riguarda l'annosa questione: «Può un comico fare politica?», si tratta anche qui di una domanda che non esiste in natura. È ovvio e tutti sanno che chiunque parli a un pubblico fa politica. È ovvio che la politica in una democrazia la fanno tutti. Ma la vera domanda che si pone è: può un comico ottenere molto più consenso politico di un politico? Può il discorso di un comico essere molto più politico di quello di un politico? I fatti dicono di sì e tocca abbozzare. Potete anche continuare a menare le mani, ma sarebbe meglio fare uno sforzo di comprensione. D'altra parte parlo per me ma credo anche a nome degli altri, le nostre idee sono lì e si possono usare gratuitamente. Approfittatene.

Sabina Guzzanti
11 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #54 inserito:: Luglio 12, 2008, 09:09:13 am »

12/7/2008
 
Si impicca, fu stuprata sei anni fa
 
 
 
 
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Ogni stupratore è sempre un assassino. Se anche la sua vittima continua a respirare, per anni o per decenni, ne avrà comunque uccisa la vitalità più intima. Lei sarà morta, pur vivendo.

Dopo Federica, e in fin dei conti allo stesso modo sia pure molto più lentamente, hanno ucciso Valentina. Ieri, a Torino. Aveva ventinove anni, stava per laurearsi in psicologia. È stata una viva-morta per sei anni, da quando un gruppo di sciagurati l’ha violentata. Ieri ha deciso di diventare una morta-morta, e si è uccisa. È una storia orribilmente dolorosa, anche solo da raccontare. Dice, la storia di Federica, che non è vero che il tempo guarisce e lenisce, né che ogni ferita prima o poi si cicatrizza: guariscono appunto le ferite, non la morte, neppure quella morte travestita di segreto e di vergogna che è lo stupro. Federica è stata strangolata, Valentina si è tolta il respiro in solitudine con una corda, e il suo strangolamento è durato sei interminabili anni.

Occorre forzarsi a immaginare quello che è disumano anche solo immaginare. Una catena di sofferenza che corre e correrà attraverso gli anni, le persone, le generazioni, con il tempo che la moltiplica anziché, come è comodo e pietoso credere, attutirla.

C’era, dunque, una ragazza di Casale Monferrato, con un padre pittore, una mamma, una sorella minore, un futuro normale. Sei anni fa, a Milano, lo stupro ad opera di quello che è fin troppo clemente chiamare «branco». Costringiamoci, per una volta, a figurarci di quei momenti il suo terrore, il dolore: a sentirlo nel nostro, di corpo, per quanto (troppo poco) sia possibile provare a condividere l’esperienza di un’altra persona.

Intorno a Valentina scatta la rete degli affetti, c’è una depressione e viene curata, c’è il tentativo di ricominciare altrove e viene comprata una casa, a Torino. In quella casa, ieri mattina, l’hanno trovata i suoi genitori. Ogni genitore sa che l’unico pensiero davvero impensabile è quello della morte di un figlio: e più ancora quello del suicidio di un figlio. Ogni genitore si concede di immaginarla e di immaginarlo, per esorcizzarli: minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sempre, in un esercizio perenne di allarme e di sollievo. Ma soltanto la madre e il padre di Valentina possono sapere come hanno resistito, in questi sei anni, all’ansia per una figlia tanto infragilita dalla brutalità. Avranno anche sperato, certo: negli psicofarmaci perché smorzassero, nel silenzio per cancellare lo stigma, e nella scelta degli studi di psicologia come reperimento di strumenti per aiutare se stessa e in futuro anche altri sofferenti.

Quel futuro non ci sarà, non per Valentina. Né si può chiamare «futuro» quello che toccherà ai suoi genitori, a loro volta vivi-morti per gli anni o i decenni durante i quali sopravvivranno a se stessi e alla loro bambina. Non è sempre vero che il tempo cura: il tempo trasmette il dolore, di corpo in corpo, di vita in vita. Qualche giorno fa, in un’intervista televisiva, la sorella di Rosaria Lopez, stuprata e uccisa al Circeo più di trent’anni fa, raccontava di essere fuggita da Roma, e di non avere mai smesso di piangere. E la sua ferita è diventata la ferita di sua figlia, perché non ha mai trovato le parole per raccontarle l’orrore di famiglia, e le ha riversato addosso un’apprensione mortifera.

Quegli stupratori che in una notte milanese hanno ucciso una ragazza, con una tortura durata sei anni, sappiano che fra anni e decenni continueranno a far soffrire i suoi genitori, sua sorella, i figli e le figlie non ancora nati di sua sorella, chissà quanti parenti e amici: tutti loro vittime. La violenza contagia, ed è ancora più odiosa se la si fa passare per il maschio sfogo di pochi attimi. Ora che è troppo tardi, se c’è una preghiera che ci sentiamo di rivolgere a un’eventuale entità misericordiosa, è che le vittime collaterali di questo crimine scoprano, almeno loro, che il tempo può cicatrizzare, e la vita essere vissuta da vivi.

da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Luglio 14, 2008, 11:05:33 am »

14/7/2008
 
Eluana
 
 
 
 
 
GUIDO CERONETTI
 
Sedici anni di trionfo scientifico: il coma protratto, l’alimentazione forzata, la coscienza sommersa - ma fino a che punto, e se davvero totalmente, chi può saperlo? - e c’è voluto un tribunale misericordioso per liberare quella sventurata ragazza Eluana da una così spietata galera. Ma sarà inevitabile il colpo di grazia clinico per scamparla da una pena ulteriore, piccola martire: la macchina che ci abbandona, come un arto amputato non lascia mai del tutto la presa, e in quel funesto vuoto subentrerebbero sintomi di lunga agonia... Che cosa stanno facendo degli esseri umani?

Che cosa stiamo facendo agli esseri umani?

E a questo punto, immancabile, si mette in moto l’ammonizione vaticana.

Colpe gravi: eutanasia, omicidio, soppressione di una vita... E qui, come sempre, le vie della semplice umanità e quelle della sofistica disumanità paludata di religioso (e perfino di conformità ai decreti divini) conoscono soltanto la Divergenza. Fai bene, padre carnale (non celeste, non Padre Santo) a dar retta alla voce imperiosamente muta di tua figlia, graziata finalmente da giudici compassionevoli, e a rigettare quell’altra, che in nome di una non-vita tecnologica di quel poco di materia assopita che resta di lei, ammonisce, si agita, ricatta moralmente, gelandoci il sangue da luoghi inferi e anticristici.
(La stessa voce che aveva negato all’ancor più infelice Welby la gentilezza estrema di un richiesto funerale in chiesa - memorabile infamia).

L’eterno contrasto tra la superiore legge della pietà di Antigone e il decreto arrogante e cieco di Creonte.

Pace a te, povera bambina addormentata, un fiore alle tue tempie.
 
da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Luglio 15, 2008, 05:30:40 pm »

CRONACA

Si moltiplicano le occasioni turistiche per gruppi di ragazze

Tante scelgono di partire con le amiche. E non sono single

In vacanza con le amiche Il successo dei viaggi "solo donne"

Non solo la notte. Anche il giorno viene vissuto in chiave femminile

"Finalmente siamo libere, nessuno che ti dica cosa fare"

 

dal nostro inviato JENNER MELETTI


RIMINI - Ballano da sole, le ragazze, sulla sabbia del Turquoise. In due file, come se giocassero a ruba bandiera, cinque da una parte, cinque dall'altra. Poi in cerchio. Ballano e ridono, sono ragazze felici. Hanno discusso un po', perché Manu voleva fermarsi a cento metri da qui, in piazzale Fellini, dove c'è la rassegna del Cartoon club, cartoni animati da tutto il mondo. Una bella tentazione. "Dai, fermiamoci a guardare i Simpson". "Manu, siamo venute a Rimini per fare baracca. Bart ce lo vediamo anche a casa". Ridono e ballano, le ragazze in vacanza. È l'una della notte, il pezzo di lungomare che va dal Grand Hotel al porto è tutto un tum tum di note sparate dai dj degli street bar. Non c'è più bisogno di salire sui colli, per bere e ballare. Sulla spiaggia ci sono queste discoteche all'aperto dove non c'è biglietto d'ingresso. Se vuoi stordirti un po', con 8 euro prendi un Mojito. Se vuoi arrivare all'alba, tiri avanti con le lattine di Red Bull, 5 euro. "Premetto che non sono gay - grida un presentatore - ma amo questo dj".

Sono tante, in riviera, le ragazze e le donne in vacanza da sole. A essere 'diverse' sono le coppie. I lui e lei che passeggiano tenendosi per mano (lei con la rosa comprata dal pakistano) non arrivano più da Bergamo o da Modena ma da Mosca, Praga, Budapest. Ci sono donne sole, coppie di donne, gruppetti di tre o quattro e vere e proprie compagnie. Le ragazze che ballano al Turquoise arrivano da Treviso. "Tre giorni tutti per noi e proprio qui sta il bello. Non hai orari, non hai il ragazzo che ti dice adesso facciamo questo e adesso facciamo quello e adesso smettila di bere e adesso andiamo a letto che è tardi". Manu ha vent'anni, Giorgi (in compagnia i nomi non hanno più il finale) uno in più. "Il mio Save fa quello che gli pare. Va con gli amici a cena e in vacanza in Marocco, sta via quattro giorni per il raduno degli alpini, insomma è maschio e fa come tutti gli altri. Adesso lo facciamo anche noi. Io non so se mi sposo. Certo, non voglio fare la vita da moglie ancora prima di andare davanti a un prete".

Pina colada, Caipirinha, Coca cola, Margarita, bottiglietta di acqua naturale "Sono tre anni che ci facciamo almeno una vacanza assieme, finalmente libere da tutto. L´anno scorso siamo state a Barcellona". Nell´altro street bar, il Coconuts, ci sono i ballerini su un cubo e i divani come in un privè di discoteca. Un altro cubo è riservato ai clienti, e c'è chi a una certa età cerca di digerire il fritto misto dondolandosi alla ricerca del ritmo perduto. Anche qui, sul lungomare, bottiglia di birra o vodka in mano, ci sono i 'Gordo' alla ricerca di qualche preda. "Ma se stai in compagnia delle altre - dice Manu - non hai problemi. I rischi ci sono sempre e allora, anche quando sei qui in baracca, bisogna usare la testa".

È iniziato nel 2000, il boom delle donne sole in vacanza, e non si è mai interrotto. E allora c´è chi ha fiutato l´affare e si è attrezzato, offrendo guide per viaggi al femminile, spiagge riservate e anche hotel per la sosta delle nuove viandanti. "Le ragazze viaggiano e vivono assieme - dice Asterio Savelli, docente di sociologia del turismo nell´Alma Mater bolognese - perché così si sentono dentro a una bolla di protezione. Fra loro c´è un 'idem sentire' che crea sicurezza. Stanno bene anche perché viene meno quella tensione che si genera ogni volta che maschi e femmine si incontrano. Certo, non c´è chiusura verso l´altro sesso. Ma la donna si sente meglio se può affrontare questo confronto partendo da una base di sicurezza, quella bolla ambientale che può costruire solo assieme alle sue amiche. La vacanza è una micro società in viaggio. I maschi sono sempre partiti in gruppo per andare a vivere esperienze e avventure in terre lontane. La novità è che a viaggiare oggi sono anche le donne".

Viale Vespucci non è più la strada dei vitelloni, che si sedevano nei bar e caffè all´aperto, aspettavano il passaggio di qualche ragazza (tedesche e svedesi, le più ambite) e si accodavano come in processione. Adesso anche al Mucho Macho ragazze e giovanotti stanno divisi come fossero in classi separate. Proprio di fronte, il mitico dancing Embassy è chiuso e quasi diroccato. Qui cantava Silvio Berlusconi (ma c´erano anche Mina e Fred Buscaglione). Erano i tempi di "Signorina, permette questo ballo?". Adesso sono le ragazze che (alle 2 della notte) si alzano dalle poltroncine in vimini del Mucho Macho e vanno ad abbordare i ragazzi. "Dove si può mangiare una buona pizza?".

Ragazze che non sono padrone soltanto della notte. Già al mattino si stendono sui lettini della 'spiaggia rosa', bagno riservato alle donne sulla spiaggia di Riccione. Tanto di cartelli con 'Ingresso vietato agli uomini', lettini, sdraio, ombrelloni tutti colorati di rosa. A inventare questa spiaggia solo per donne (ma a Trieste il bagno Lanterna divide con un muro i maschi dalle femmine già dai tempi dell´imperatore Francesco Giuseppe) è comunque un uomo, Fausto Ravaglia, bagnino 'da sempre'. "Qui le donne hanno un pezzo di spiaggia tutto per loro e lo spazio per parlare, ascoltare musica, farsi belle con massaggi, saune e parrucchiere e soprattutto per restare sole". Su una lavagna, i messaggi di chi è stato qui. "Da Mantova con furore", hanno scritto Ede, Cry, Fede, Ila, Cinzia. "Arrivano compagnie di ragazze che stanno qui tre giorni, per l´addio al nubilato. Tre giorni di festa al riparo da occhi indiscreti e soprattutto senza uomini.
Tre giorni di festa al riparo da occhi indiscreti e soprattutto senza uomini. Dicono che stanno molto bene".

Il 'divertimentificio' della Riviera romagnola è ormai un ricordo. "Secondo me - dice Piero Leoni, docente di sociologia del turismo - è addirittura archeologia. Rimini scoprì lo sballo, la trasgressione, la droga quando, causa l´eutrofizzazione, si scordò di avere il mare. Oggi la riviera propone atmosfere più sicure che facilitano l´incontro. Non a caso è una meta scelta dalle donne che, secondo il primo report 2007 dello studio Ambrosetti, da sole o in compagnia di altre donne, rappresentano il nuovo trend del turismo contemporaneo. Con la 'notte rosa' la settimana scorsa abbiamo accolto in riviera centinaia di migliaia di donne. Fino all´alba ci sono stati spettacoli, balli, fuochi di artificio e non c´è stato nessun incidente. La nuova alba è stata accolta con un concerto del pianista Ludovico Einaudi. Dieci anni fa, all´alba, arrivavano in spiaggia ragazze e giovani stravolti dalla notte in discoteca".

"Le donne vanno in vacanza da sole - dice Andrea Macchiavelli, docente di economia del turismo nell´ateneo di Bergamo - perché grazie alla parità e all´emancipazione possono comportarsi come gli uomini. Anche per loro la vacanza deve essere una ricerca di diversità rispetto alla vita normale. C´è chi cerca sballo e trasgressione, c´è chi passa una settimana in monastero. L´importante è cambiare vita e cercare relazioni, precarie ma con il segno della novità".

Proprio ieri, a Santarcangelo di Romagna, è stata inaugurata la 'guest house' l´Albero, piccolo albergo "con un´attenzione particolare per le donne". Patrizia Garuti, la giovane proprietaria, tenta questa avventura dopo avere girato mezzo mondo. "Nessuno chiede a un uomo che si presenta solo in un albergo o in un ristorante dove sia sua moglie. A una donna sì - dice - Se viaggi da sola ti senti osservata, sei vista con curiosità, devi stare attenta. Quante bugie ho raccontato. Dovevo partire con il mio fidanzato ma si è ammalato. Mio marito ha perso l´aereo, arriverà domani. Ecco, io voglio che nella mia 'guest house', la casa dell´ospite, la donna che arriva sola o in compagnia non si senta sotto osservazione o inquisita. Voglio fare sentire a casa chi a casa non è. Si può venire a Santarcangelo per turismo, per lavoro, per fare un corso di teatro. Non farò nessuna domanda. Dirò solo che qui ci sono i letti, la cucina, il computer, una piccola biblioteca. Se pensano di stare bene, la porta è aperta e i prezzi sono modesti". Marcela Serrano ha scritto 'L´albergo delle donne tristi', ambientato in un´isola del Cile dove le donne in crisi cercano di ricomporre i frammenti della propria esistenza. "Io vorrei che il mio piccolo hotel, pian piano, diventasse 'L´albergo delle donne felici'".

(15 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 20, 2008, 09:38:09 am »

18/7/2008 - LETTERA
 
"Io, come Eluana, vi prego di tacere"
 
 
 
MARINA GARAVENTA
 
Caro Direttore,
sono Marina Garaventa, ho 48 anni e sono, più o meno, nella stessa situazione in cui era Piergiorgio Welby: come lui, ho il cervello che funziona benissimo, diversamente da lui, posso ancora usare le mani e la mimica facciale.

Come ho seguito il caso Welby, esprimendo la mia opinione, ho seguito il caso, ben più grave del mio, di Eluana Englaro e mi sono «rallegrata» della sentenza che ne sanciva la conclusione, sperando che nessuno si permettesse di intromettersi in un caso così delicato e personale. Non avevo la benché minima intenzione di dire o scrivere alcunché fino all’altra mattina alle 7 quando, ascoltando i primi notiziari, ho sentito tante «cazzate» che mi sono decisa a dire la mia. Io sono abituata a esprimere opinioni, dare giudizi e consigli solo su cose che conosco bene e che ho vissuto personalmente e mi piacerebbe tanto che tutti si regolassero così, evitando di aprire la bocca per dare aria a sentenze basate su mere teorie filosofiche e moral-religiose.

Con queste parole mi riferisco, in particolare, alle recenti «sortite» di alcuni personaggi noti che, in un delirio di onnipotenza, dicono la loro, scrivono lettere patetiche e organizzano raccolte pubbliche di bottiglie d'acqua: le bottiglie, a Eluana, non servono perché sia l'acqua sia la nauseabonda pappa che la tiene in vita e che anch'io ho provato per mesi, le arriva attraverso un sondino. Bando quindi ai simbolismi di pessimo gusto di Giuliano Ferrara, stimato giornalista, e al paternalismo di Celentano, mio cantante preferito. In quanto al mio esimio concittadino, il Cardinal Bagnasco, sarebbe cosa buona e giusta che, prima di esprimersi su quest'argomento, avesse la bontà di spiegarci perché a Welby è stata negata la messa e, invece, il «benefattore» della Magliana, Renatino De Pedis, è sepolto in una nota chiesa romana.

A questo punto, però, siccome neppure a me piace fare della teoria, propongo a questi signori di prendersi un anno sabbatico e offrirlo a Eluana: passare con lei giorni e notti, lavarla, curarle le piaghe, nutrirla, farla evacuare, urinare, girarla nel letto, accarezzarla, parlarle nell'attesa di una risposta che non verrà mai. Sono disponibile anche a mettermi a disposizione per quest'esperimento ma, devo avvisare tutti che, per loro sfortuna, io sono sicuramente meno docile di Eluana e se qualcuno, chiunque sia, venisse per insegnarmi a vivere, lo manderei, senza esitazione, «affanc...».

A sostegno di quanto detto finora, aggiungo che, nonostante io non possa più camminare, parlare, mangiare, scopare e quant'altro, amo questa schifezza di esistenza che mi è rimasta e mai ho avuto il desiderio di staccare la spina del respiratore che mi tiene in vita. Nonostante tutte le mie limitazioni, io ho una vita intensissima: scrivo su alcuni giornali locali, tengo un blog (www.laprincipessasulpisello.splinder.com), ho un'intensa vita di relazione e, in questo periodo, sto promovendo un mio libro che narra di questa mia splendida avventura. («La vera storia della principessa sul pisello», Editore De Ferrari , Genova).

Sicuramente qualcuno penserà che voglio farmi pubblicità e, in un certo senso, è vero: io voglio, per quanto posso, dar voce a tutti quelli che sono nella mia condizione e non sanno o non possono dire la loro.
Parliamoci chiaro: i malati come me, come Welby ed Eluana, sono già morti! Sono morti il giorno in cui il loro corpo ha «deciso» di smettere di funzionare e hanno ricevuto dalla tecnologia, che io ringrazio sentitamente, l'abbuono, il regalo di un prolungamento dell'esistenza. Ma come tutti i regali, anche questo vuol essere contraccambiato con merce altrettanto preziosa: una sofferenza fisica e morale che solo una grande forza di volontà può sopportare. Nel momento in cui il gioco non vale più la candela il paziente deve poter decidere quando e come staccare la spina. Lo Stato deve garantire la miglior vita possibile a questi malati, tramite assistenza, supporti tecnologici e contributi ma non può arrogarsi il diritto di decidere della loro vita sulla base di astratti principi etici, molto validi per chi sta col culo su un bel salotto, ma che diventano assai stucchevoli quando si sta nel piscio. Eluana non può più decidere ma chi le è stato vicino, nella gioia e nella sofferenza, chi l'ha conosciuta e amata non può dunque decidere per lei, mentre possono farlo persone che, fino a ieri, non sapevano neppure che esistesse?

Io sono pronta a chiedere umilmente perdono se questi signori mi diranno che, nella loro vita, si son trovati in situazioni come la mia o come quella di Eluana e delle nostre famiglie ma, francamente, non credo che la mia ammenda sarà necessaria. Per chiarire meglio la mia situazione rinvio al link di un video: http://video.google.it/videoplay?docid=-8906265010478046915
Concludo ringraziandola e sperando che voglia dare voce anche a me che parlo con cognizione di causa e non per fare della filosofia.

da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 22, 2008, 11:23:36 pm »

Linda Lanzillotta: «Non si può parlare di riforme con chi non riconosce l´unità nazionale»

Eduardo Di Blasi


«Il quadro politico è molto cambiato. Il numero fatto da Bossi rivela un´idea di Stato che non è quella che noi possiamo condividere». Prima di entrare nel merito del disegno di legge Calderoli sul federalismo fiscale, l´onorevole Linda Lanzillotta, ministro degli Affari regionali nel passato governo Prodi, centra un punto politico: «Il federalismo fiscale noi lo vediamo come un sistema che dia sia al Nord che al Sud l´opportunità di crescere e di costruire il proprio modello di sviluppo e di competitività. Ovviamente imponendo al Sud la sfida dell´efficienza. Se però, invece, si parte da un´idea di rottura dell´unità nazionale, di cui non si riconoscono i simboli, come quello dell´inno o della Capitale, è chiaro che il confronto sul merito della riforma non è nemmeno avviabile».

Le riforme devono partire da una base condivisa...

«Il federalismo fiscale è un pezzo di un quadro di riforme istituzionali più ampio nel quale c´è la riforma del bicameralismo perfetto e l´introduzione del Senato federale. Se non c´è un´intesa sui fondamentali che sono il quadro di riferimento dentro cui il federalismo fiscale deve inserirsi, è difficile discutere di soluzioni tecniche».

Volendo entrare nel merito della proposta Calderoli?
«Mi sembra che Calderoli abbia definitivamente abbandonato il "modello lombardo". Vale a dire un sistema che determina le risorse che rimangono sul territorio a prescindere da quello che Regioni e enti locali debbono fare. Io ritengo, al contrario, che il volume delle risorse deve corrispondere al costo delle funzioni che quel livello istituzionale deve esercitare e gestire. Perché se queste risorse sono sovradimensionate è chiaro che non ce ne saranno nè per le altre regioni nè per le funzioni proprie dello Stato».

Lo Stato deciderà sui servizi essenziali: sanità, assistenza e istruzione...
«Noi diciamo anche il trasporto pubblico come "diritto alla mobilità"».

Apprezzate anche altro del disegno Calderoli?
«Il superamento del concetto della "spesa storica". Questa è la grande sfida del Mezzogiorno. Entro un determinato termine che la legge poi stabilirà in 3, 5 o 7 anni, questo costo dovrà corrispondere ai cosiddetti "costi standard" calcolati sulle prestazioni dei sistemi più efficienti. Si dovrà valutare la media dei costi, ma anche la media dei consumi. Ricordo che negli anni della giunta Storace nel Lazio si faceva una tac ogni 5 abitanti, quanto la media nazionale era molto più alta. Invece si rimborseranno i consumi sanitari che rientrano negli standard medi. Questo porterà complessivamente il sistema ad essere più efficiente. E quindi renderà il federalismo anche sostenibile sul piano fiscale. Perché se non facciamo un´operazione di razionalizzazione della spesa, il federalismo inevitabilmente comporterà un aumento della spesa e quindi della pressione fiscale. Da questo punto di vista è assolutamente in contrasto con questa impostazione l´ennesimo rifiuto di non fare la liberalizzazione dei servizi pubblici locali che è una forma per ridurre i costi e aumentarne la qualità».

Questa è una sua battaglia da anni...
«Sì, ma non è una battaglia ideologica. È una battaglia che sta tutta dentro l´attuazione del Titolo V che richiede per non far esplodere i costi che ogni livello istituzionale gestisca le proprie funzioni in modo efficiente e utilizzando una delle leve che sono nel Titolo V: la sussidiarietà. E la sussidiarietà non è solo quella verticale dallo Stato al Comune e alle istituzioni più vicine al territorio. Ma far fare all´economia e ai soggetti sociali, tutto quello che possono fare e che non necessariamente deve essere esclusiva dello Stato».

I sindaci lamentano che nella bozza Calderoli il loro ruolo scompare...
«È un sistema "regionecentrico", cioè tutto focalizzato sul ruolo della Regione che poi fa la perequazione tra i Comuni. Questo non lo condividiamo».

Dal punto di vista tecnico la bozza le sembra ricevibile?
«Naturalmente non mi è chiara la struttura, vale a dire la tipologia delle imposte, cioè quali sono i tributi. E, soprattutto, quali sono le prestazioni di cui viene garantito il finanziamento integrale in tutto il territorio nazionale, perché questo è un punto decisivo. Rappresenta la parità di diritti per tutti i cittadini ovunque essi abitino a prescindere dalla ricchezza dei territori».

D´altro canto essendo questa l´aria che tira sarà difficile sedersi a un tavolo con la Lega...
«Il problema è avere una visione condivisa dello Stato. Se questi valori vengono stracciati dal leader della Lega e ministro per le Riforme e per il federalismo, perché ricordo che Calderoli opera per supplenza ma il ministro titolare è Bossi, è difficile sedersi a un tavolo. Vorrei sapere gli altri partiti della maggioranza e dal Presidente del Consiglio quale idea dello Stato hanno».

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.07   
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« Risposta #59 inserito:: Luglio 23, 2008, 10:46:28 pm »

L’orrore delle donne di Srebrenica

Nuccio Ciconte


Finalmente l’Onu si salva l’anima e canta vittoria, sperando di far calare un velo pietoso sulla storia di Srebrenica e della guerra nei Balcani. L’arresto di Radovan Karadzic, dice il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, è «un momento storico per le sue vittime, che hanno aspettato tredici anni che fosse portato davanti alla giustizia». Chissà cosa ne pensano di queste parole Sceila, Azra, Alida, Mukelefa. Tutte donne di Srebrenica. Di altre non so più i nomi ma ne ricordo i volti devastati dal dolore, gli occhi persi, sprofondati nell’orrore. Giovani mogli appena diventate vedove, madri che hanno visto sgozzare i propri figli. Ragazze violentate e derise, stuprate perché di etnia e credo religioso diverso da quello degli aguzzini. La più grande e infame strage nel cuore dell’Europa dopo la Seconda guerra Mondiale. Una macelleria a cielo aperto: quasi ottomila morti, decine di migliaia di profughi. Non un fulmine a ciel sereno. Un massacro annunciato che la comunità internazionale (l’Onu, l’Europa, gli Usa, la Russia) non ha voluto o saputo evitare. Era luglio anche allora. Metà luglio del 1995. Srebrenica, che l’Onu aveva dichiarato «zona protetta», è messa a ferro e fuoco dalle truppe del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic. Radovan Karadzic, dal suo quartier generale di Pale (sulle alture di Sarajevo), segue in presa diretta tutte le fasi dell’assalto. È una partita scontata, il risultato è uno solo: la disfatta dei musulmani-bosniaci.

La popolazione di Srebrenica è stremata da anni di assedio, isolata e scarsamente armata. I resistenti sono spazzati via in poche ore. I Caschi Blu dell’Onu, che avrebbero dovuto proteggere la popolazione civile, hanno un solo obiettivo: salvare la propria pelle; molti si dileguano, altri si rinchiudono nelle caserme. Una pagina nera per l’Onu, una vergogna per i Caschi Blu olandesi. Chi sfugge al massacro vaga per giorni nelle campagne, nei boschi. Si cammina per ore, sotto un sole impietoso, senza cibo né acqua. Migliaia di profughi si trascinano dietro anziani e bambini. Gli uomini sono pochi. È una moltitudine fatta di donne, di ragazzini. Per tutti la meta è Tuzla, nel Nord della Bosnia, città controllata dalle truppe del governo di Sarajevo. È lì che l’Onu installa una tendopoli.


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Srebrenica è chiusa alla stampa. Karadzic e Mladic non vogliono giornalisti tra i piedi, men che meno telecamere. Forse sperano, s’illudono, di poter in qualche modo nascondere o attutire l’impatto internazionale di quell’orrore. Da anni il mondo assiste impotente alla pulizia etnica nei Balcani. I due leader di Pale si muovono pressoché indisturbati grazie alla protezione del governo di Belgrado. Allora, perché non sperare di farla franca anche in questo caso? Il sodalizio con Slobodan Milosevic è molto forte. Anzi, c’è chi giura che i due macellai dei Balcani sarebbero solo dei burattini nelle mani dell’uomo che guida la Serbia. L’assalto di Srebrenica ha avuto la luce verde di Belgrado? Difficile dirlo. Il massacro nell’enclave musulmana, «zona protetta» dell’Onu, segna il punto più alto della strategia militare di Karadzic e Mladic, l’esibizione della massima potenza di fuoco e di efferatezza, ma anche l’inizio della loro sconfitta. Milosevic, da abile giocatore sul tavolo della diplomazia internazionale, capisce che è arrivato il momento di scaricare i due ingombranti alleati. L’occasione arriva pochi mesi dopo, il 21 novembre del ’95. Alla conferenza di Dayton l’uomo forte di Belgrado si traveste da agnello: scarica i «ribelli» serbi, si siede al tavolo dove si decide la spartizione dei Balcani, si offre all’occidente come uomo di dialogo, uomo di pace. «Time» gli dedica la copertina come uomo dell’anno: poi si sa come andò a finire con la guerra nel Kosovo. Questa però è un’altra storia.

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Rileggo gli appunti di allora, per rinfrescare la memoria. È il 17 luglio, fa caldo e l’umidità toglie il respiro. I primi profughi li incontro lungo la strada, a dieci chilometri da Tuzla. C’è Sceila, venticinque anni, zigomi alti, occhi neri come la pece. Tiene in braccio una bambina, la stringe forte al petto, dondola i lunghi capelli corvini, canta sottovoce una nenia per la «piccola che dorme». Intorno, altre donne le dicono qualcosa, ma lei scuote la testa e riprende a cantare. Qualcuna la strattona forte per un braccio, ma lei sempre sullo stesso tono continua a cantare. Sceila, ci spiegano, è da due giorni che tiene attaccata a sé la sua unica figlia: la bambina, già malata, è morta durante la fuga di Srebrenica, ma lei rifiuta la realtà, si rifugia in un mondo tutto suo dove la piccola dorme tra le sue braccia.

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La tendopoli di Tuzla accoglie i primi profughi, i funzionari delle Nazioni Unite e alcune organizzazioni non governative, lavorano allo stremo: una cucina da campo sforna i primi pasti caldi, centinaia di bottiglie di acqua passano di mano in mano. È una goccia nel deserto. Non c’è cibo né acqua sufficiente per sfamare gli oltre seimila disgraziati che affollano quest’aria scelta come campo, un’area assurdamente recintata in tutta fretta con il filo spinato. Un lager umanitario. Le tende sono bianche e blu. Come i colori dell’Onu. I colori della vergogna come senti dire da molti profughi. Come dargli torto? Da giorni si sapeva che le truppe di Madlic avrebbero sferrato l’attacco a Srebrenica: l’Onu non solo non ha fatto nulla per impedirlo, ma neanche si è data da fare in tempo per soccorrere quest’umanità in fuga. C’è rabbia, rancore, odio. Tutti vedono nei Caschi Blu i migliori alleati dei serbi, dei cetnici massacratori. Le testimonianze dei profughi sembrano le sceneggiature di film dell’orrore. Storie di violenza indicibile, ma qui non c’è finzione. Sono le donne a parlare, a raccontare al mondo quel che hanno visto, quello che hanno subito. Gli uomini sono pochissimi e anziani. Le agenzia di stampa internazionale dicono che almeno quattromila uomini sono in fuga da Srebrenica, vagano nei boschi per sfuggire alla truppe serbo-bosniache. «Non è vero - sentiamo ripetere più volte - abbiamo visto uccidere i nostri mariti, sgozzare i nostri figli. Morti, sono tutti morti». Solo molto tempo dopo il modo saprà che avevano ragione loro.

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Alì non ha ancora compiuto quattro anni. Da quattro giorni non parla, rifiuta il cibo, beve solo un po’ di acqua. La sua storia me la racconta Azra Salchic, una vicina di casa. È lei che lo ha portato in salvo fino a Tuzla. La sua mente è devastata, dice la donna indicando gli occhi del bambino: «Ha visto cose mostruose, che la mente umana, seppur di un bambino, non può dimenticare». Alì era con la madre e i due fratelli, di 15 e 17 anni, quando nella loro casa sono arrivati i miliziani di Karazdic. Chiedevano oro, volevano soldi. Arraffano quel poco che trovano poi afferrano il ragazzo più grande lo trascinano davanti casa e lo sgozzano davanti a tutti. «Ridevano facendo roteare in aria il coltello rosso di sangue, dicevano alla donna: bevi il sangue di tuo figlio, solo così puoi salvare gli altri due». Il racconto di Azra si interrompe più volte. Tutt’intorno è radunata una piccola folla che ascolta in silenzio. Si sente solo il singhiozzo senza lacrime di alcune anziane donne. Alì è rimasto solo: anche la madre e l’altro suo fratello sono stati uccisi davanti ai suoi occhi.

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La mia interprete è una giovane croata. Nazionalista tosta, detesta i musulmani più che i serbi. In macchina da Spalato a Tuzla, durante il lungo viaggio discutiamo e a volte litighiamo. L’odio etnico ha messo radici profonde. Mi spiega che i musulmani sono bugiardi per natura, mentono sempre, inventano stupri, a Sarajevo compiono stragi e poi accusano di volta in volta i serbi o i croati. Eppure nella tendopoli di Tuzla la sua sicurezza vacilla. Più volte non riesce a tradurre, s’interrompe, piange. S’immedesima nelle donne che ha davanti, prova lo stesso dolore, si scusa mentre il suo viso è solcato dalle lacrime.

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Srebrenica del luglio 1995 è sinonimo di gente ammazzata, di cadaveri accatastati nelle fosse comuni. Ma non solo. C’è un altro capitolo odioso legato indissolubilmente alla logica della pulizia etnica e che riguarda lo stupro di centinaia di donne. Giovanissime ma anche donne più avanti negli anni umiliate, violentate perché bosniache, perché musulmane. Quante? Impossibile dirlo. Non ci sono cifre ufficiali attendibili. A Tuzla da una tenda all’altra i racconti degli stupri volano di bocca in bocca. Racconti agghiaccianti. Ci dicono delle "corriere dello stupro". Quei pullman che portavano lontano da Srebrenica centinaia di profughe. Pullman militari. Gli uomini di Karazdic vi facevano salire le donne, le portavano via dalla città distrutta e le abbandonavano a qualche decina di chilometri di distanza in mezzo alla campagna. Ma il trasporto era salatissimo. No le sopravvissute non dovevano spendere soldi per pare il biglietto. Il costo della corsa era uno solo: il loro corpo; violentate più volte magari dagli stessi aguzzini che avevano da poco massacrato i loro mariti, i figli, i fratelli, i genitori. Un orrore nell’orrore.

Pubblicato il: 23.07.08
Modificato il: 23.07.08 alle ore 8.13   
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